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sabato 22 giugno 2024

Siria, Turchia, Iraq e Iran uniti contro uno Stato curdo in Siria



Intervista di Steven Sahiounie al dr. Nidal Kabalan, giornalista, analista politico ed ex ambasciatore siriano in Turchia.

Traduzione dall’inglese di Maria Antonietta Carta

Secondo il primo ministro iracheno, Shia Sudani, Siria e Turchia si avviano verso una possibile normalizzazione delle relazioni interrotte dopo l’attacco USA-NATO alla Siria nel 2011, per il cambio di regime. Prima del 2011, tra il presidente turco Recip Tayyip Erdogan e il presidente siriano Bashar al-Assad i rapporti erano buoni ed Erdogan chiamava ‘’fratello’’ la sua controparte a Damasco. I due Paesi condividevano un confine lungo e sicuro con vantaggi commerciali e turistici per entrambi. Con il sostegno di Erdogan agli Stati Uniti, che ha permesso il transito di terroristi internazionali attraverso la Turchia per combattere in Siria, la relazione si è interrotta. La Siria ha resistito con successo all’attacco orchestrato dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, ma non si è ripresa pienamente a causa delle sanzioni imposte dagli statunitensi. Ora, sembra possibile in tempi brevi la normalizzazione delle relazioni con il suo vicino del nord, poiché entrambi i Paesi condividono lo stesso interesse per un confine sicuro e per l’eliminazione di gruppi terroristici e gruppi separatisti paramilitari.

Steven Sahiounie Recentemente, il primo ministro iracheno ha dichiarato che spera di annunciare un accordo tra Turchia e Siria che normalizzi le loro relazioni. Secondo lei, quali sono le basi necessarie affinché tutto ciò si concretizzi?

Nidal Kabalan Le condizioni della Siria per normalizzare le relazioni con la Turchia, presentate dal presidente Assad al primo ministro iracheno Shia Sudani, sono identiche a quelle trasmesse ai precedenti mediatori, come i Russi e gli Iraniani. In cima alla lista vi è la richiesta del fermo impegno da parte turca a ritirare le sue forze di occupazione dalla Siria, la cessazione del suo sostegno a vari gruppi terroristici che operano a Idlib e in altre parti del Paese, l'aiuto di Ankara nel riportare Idlib sotto il controllo dello Stato siriano nonché il controllo sull'autostrada strategica M4 che collega le città costiere con Aleppo e altre città del nord, il sostegno di Ankara nella revoca delle sanzioni illegali e unilaterali che hanno paralizzato l'economia siriana ormai da oltre un decennio e la riapertura dei valichi di frontiera legali tra la Siria e la Turchia, in particolare Bab al-Hawa. Sono queste le principali condizioni che Damasco pone da tempo come base per normalizzare le relazioni con la Turchia. Hayat Tahrir al-Sham, comandato da Mohammed al-Julani, occupa Idlib.

Steven Sahiounie Secondo lei, come verrà affrontato questo gruppo terroristico e chi li sgombrerà da Idlib?

Nidal Kabalan Hayat Tahrir al-Sham e altri gruppi presenti in altre parti del Paese, come precondizione per la sua stabilità e sicurezza dovranno essere smantellati per mezzo della politica o con la forza. Gli sforzi congiunti di Siria, Turchia, Iraq, Iran e probabilmente della Russia nella lotta contro tutti i gruppi terroristici che hanno devastato la Siria durante quasi 14 anni sono necessari per la sua stabilità e sicurezza. Le SDF, milizia curda allineata agli Stati Uniti, avevano programmato di tenere le elezioni l’11 giugno, ma le hanno rinviate a causa delle minacce provenienti dalla Turchia.

Steven Sahiounie Pensa che le SDF ripristineranno il rapporto con Damasco?

Nidal Kabalan Per quanto riguarda le SDF, Siria e Turchia potrebbero cooperare per rimuovere tutti gli aspetti militari delle milizie curde, che hanno saccheggiato le ricchezze della Siria, in particolare gas e petrolio nella parte settentrionale e in quella nord orientale con l’aiuto degli Statunitensi, che sfruttano il gas e il petrolio siriani, contrabbandando il petrolio in Iraq e da lì in altre parti della regione e del mondo. Qualsiasi entità separatista che le organizzazioni, le milizie e i partiti curdi hanno cercato di formare nel nord del Paese dovrà essere smantellata. Un argomento che gode del consenso di Turchia, Siria, Iran e Iraq è l’eliminazione di ogni entità curda separatista in questa parte della regione, quindi una soluzione attraverso i negoziati. Il nord di Aleppo è sotto l’occupazione delle forze turche allineate ai terroristi.

Steven Sahiounie Se la Turchia ripristinasse le relazioni con la Siria, come affronterebbe i terroristi che hanno cercato di rovesciare il governo siriano?

Nidal Kabalan Per l’aspetto politico della crisi che potrebbe esplodere, qualsiasi entità curda separatista in questa parte della Siria, o nella regione, è un tabù e non deve essere consentita da tutti gli interessati. Altre parti della Siria occupate dalle forze turche, o dalle milizie filo-Ankara a nord di Aleppo, dovranno passare attraverso la politica di mediazione o la forza militare. Il pieno controllo dello Stato siriano di quei territori è una condizione non negoziabile per la normalizzazione dei legami tra Damasco. e Ankara.

https://mideastdiscourse.com/2024/06/13/syria-turkey-iraq-and-iran-unite-to-refuse-a-kurdish-state-in-syria-interview-with-dr-nidal-kabalan/

giovedì 20 giugno 2024

Israele e le incognite di una guerra contro Hezbollah

Tel Aviv rischia di credere che sia una guerra "inevitabile", invece è evitabilissima. Ma la follia messianica punta al fiume Litani

da  PICCOLE NOTE, 20 giugno 2024

Mentre Israele continua la sua macelleria di Gaza e la sanguinosa oppressione in Cisgiordania, i tamburi di guerra risuonano più forte sul fronte Nord. L’IDF ha già predisposto un piano di attacco contro Hezbollah per eliminare la minaccia terroristica.

Così nelle dichiarazioni, in realtà da anni Tel Aviv ha messo in agenda il controllo del Sud del Libano fino al fiume Litani. Iniziativa che, oltre a offrirgli un confine più difendibile contro gli avversari, garantirebbe un’altra riserva di acqua dolce al Paese (non ci dilunghiamo sulle guerre per l’acqua, il cosiddetto oro blu, in Medioriente, rimandando ad altre fonti; mentre sui futures sull’acqua si può vedere qui).

La guerra “inevitabile” contro Hezbollah

Inutile dire che la guerra sarebbe scongiurata da un accordo Hamas-Israele su Gaza, perché ad oggi Tel Aviv non ha alcuna intenzione di adire a un’intesa. Peraltro, come recita il titolo di un articolo di Alon Pinkas su Haaretz: “Israele rischia di credere che una guerra contro Hezbollah sia inevitabile”, mentre inevitabile non è affatto. Infatti, scrive Pinkas, se guerra sarà, sarà una decisione di Israele, non un meccanismo automatico.

Anche l’escalation degli ultimi giorni, nei quali Hezbollah ha lanciato più missili del solito in territorio israeliano, suscitando le reazioni infiammate dei politici israeliani, non è parte di una decisione di alzare il livello del conflitto.

Si è trattato della risposta all’uccisione di uno dei suoi più alti comandanti, come dimostra il fatto che sia durata solo due giorni e sia stata seguita da una pausa dei lanci altrettanto lunga.

Ma Tel Aviv sembra irremovibile nella sua decisione suicida, una pulsione masochista fotografata dall’articolo molto dettagliato di Uri Misgav dal titolo “Israele non è pronta per la terza guerra del Libano” (Haaretz). Analisi, peraltro, meno pessimista di quella fornita dall’ex vice consigliere per la Sicurezza nazionale  Eran Etzion, secondo il quale Israele perderebbe la guerra in “nelle prime 24 ore”.

La missione Upupa e le dichiarazioni di Nasrallah 

Da parte sua, Hezbollah, come ha detto più volte il suo leader Hassan Nasrallah, non vuole la guerra, ma nel caso, si è dichiarata pronta a sostenerla. E lo ha dimostrato con la missione Upupa, portata, non a caso, nel giorno in cui Tel Aviv annunciava di aver predisposto il piano di attacco contro il Libano.

Un’azione dimostrativa quella dell’Upupa, ma che ha impressionato i suoi nemici: un drone ha eluso tutte le difese aeree israeliane, sorvolando indisturbato il Paese e tornando alla base con le immagini degli obiettivi che sarebbero presi di mira in caso di attacco contro il Libano.

Alcuni analisti arabi hanno fatto notare che il drone ha riportato immagini di tre tipi di obiettivi: basi “militari (il complesso militare-industriale e la base militare di Haifa), civili (l’area di Krayot) e strategici (il porto di Haifa)”. In tal modo Hezbollah, secondo gli analisti, ha inteso inviare il segnale che colpirà obiettivi israeliani secondo l’equazione: “militari per militari, civili per civili e strategici per strategici”.

Ma ciò se sarà un attacco limitato, dimostrativo, portato per rassicurare i cittadini sulla capacità di deterrenza del Paese nei confronti di Hezbollah, e sedare il malcontento dei tanti che in questi mesi hanno dovuto abbandonare le loro abitazioni al confine libanese a causa dei razzi, circa 150mila persone, la cui irritazione contro il governo, che li ha abbandonati al loro destino, cresce di giorno in giorno.

Invece, se Tel Aviv porterà un attacco massivo, ha dichiarato ieri Nasrallah, ci sarà una guerra “senza regole né limiti […]  nessuna area… sarà risparmiata dai nostri razzi”. Certo, c’è la variabile americana, con l’inviato Usa  Amos Hochstein che, pur riportando la contrarietà di Washington a un allargamento del fronte, ha comunque minacciato il Libano che il suo Paese è pronto a supportare l’attacco israeliano.

Ciò non toglie che Israele ne uscirebbe devastato come il Paese confinante. Alzerebbe solo l’asticella del rischio, aprendo le porte a un allargamento del conflitto ai partner subordinati agli Usa e all’Iran.

Tutto ciò solo perché non si vuole chiudere la macelleria di Gaza, che avrebbe come conseguenza immediata la fine delle operazioni militari di Hezbollah iniziate proprio per questo.

Il fiume Litani, nuovo obbiettivo messianico

Una follia, supportata, come spesso accade in Israele, da pulsioni messianiche, con gruppi molto attivi di ultra-ortodossi che rivendicano come confine della Grande Israele il fiume Litani, come racconta Anshel Pfeffer nell’articolo “’Libano, parte della terra promessa’: la destra messianica israeliana prende di mira un nuovo territorio per gli insediamenti” (Haaretz).

L’unica speranza per porre un freno a tale follia, rispetto alla quale l’amministrazione Biden non sa o non vuole agire, è che esplodano le contraddizioni interne in Israele.

Di ieri il segnale dell’esercito, o almeno di parte importante dei suoi generali, che fotografa il conflitto che si sta consumando tra loro e Netanyahu, con il portavoce dell’esercito, il contrammiraglio Daniel Hagari che ha dichiarato apertamente  l’impossibilità di eliminare Hamas.

Dichiarazioni seguite dalle smentite del governo e dello stesso IDF, con l’esercito che ha precisato che Hagari si riferiva all’impossibilità di eliminare l’ideologia di Hamas, laddove invece resterebbe a portata di mano l’eliminazione della sua forza militare.

Precisazione d’obbligo, come è d’obbligo far notare che quanto ha affermato Hagari è inequivocabile, dal momento che è da tempo il focus del contenzioso tra governo e opposizioni, interne ed esterne, il punto nodale del contendere, e le sue parole sono ormai diventate una sorta di slogan, più volte reiterato, delle opposizioni. Impossibile un errore sul punto. Suona quasi come una dichiarazione di guerra. Ma a Netanyahu.

Peraltro, Netanyahu sta vivendo un momento critico anche su un altro fronte, stavolta più strettamente politico, con alcuni esponenti del suo partito, il Likud, che non vogliono approvare la legge sullo status degli Haredi, che prolunga i loro privilegi tra i quali l’esenzione della leva, e i partiti ultraortodossi che minacciano di abbandonare il governo se la norma non viene approvata.

Partiti, questi ultimi, che avevano a suo tempo abbracciato la proposta di Benny Gantz, propria di altri oppositori di Netanyahu, sulla necessità di un accordo con Hamas per liberare gli ostaggi.

Messa così, sembra una vera e propria trappola per il premier, con l’opposizione interna del suo partito che spinge per porre criticità tra Netanyahu e i partiti Haredi e questi ultimi che la cavalcano per incrementare tale frattura e far cadere il governo (su un tema che gli evita di essere accusati di tradimento della patria, come accadrebbe se lo facessero cadere per dissidi sulla gestione del conflitto).  ... Momento critico per Netanyahu.

sabato 15 giugno 2024

Una speranza in Siria

Installazione dei pannelli solari e delle cisterne per la raccolta dell’acqua piovana.

da Pro Terra Sancta

“Speranza e disperazione”: è la dicotomia che racchiude tutto il senso di impotenza che si prova di fronte a una realtà che si mostra per com’è, senza offrire appigli al desiderio di trovare una sintesi semplificatrice degli elementi perturbanti.


Chi torna a casa sente tanto la disperazione quanto la speranza, la Siria è tanto distrutta quanto viva: le due realtà convivono senza risolversi, in un binomio difficile da accettare ma necessario da riconoscere.

Abbiamo parlato con Ana De Estrada e Gabriella Solaro, le nostre collaboratrici appena tornate da un intenso viaggio in Siria, per farci raccontare cos’hanno visto e quali storie portano a casa con sé: partendo da Beirut hanno raggiunto Latakia, Aleppo e Hama, per approdare infine a Damasco. Lo scopo della missione era quello di verificare e conoscere di persona i progetti che Pro Terra Sancta finanzia e le persone che li rendono vivi e possibili: controllare l’andamento delle attività, parlare con lo staff locale e con i beneficiari dei progetti, conoscere le loro storie per poterle raccontare una volta tornate a casa. Hanno avuto l’occasione di incontrare moltissime famiglie, effettive o potenziali beneficiarie delle attività proposte dall’Associazione, e di toccare con mano la realtà locale e gli effetti del nostro operato.

Siria di buio e macerie

“Ho visto macerie, tante macerie! Interi paesi rasi al suolo, abbandonati perché viverci è impossibile, villaggi che un tempo, si può capire, erano pieni di vita. Non c’è più nessuno, chi ha potuto è andato via, all’estero, alla ricerca di un futuro migliore; altri si sono spostati internamente, verso città meno colpite.”

Le nostre collaboratrici ci raccontano una Siria invasa dalla distruzione e dal vuoto: case abbandonate, villaggi deserti, gente che fugge lasciando la propria casa e il proprio paese. In particolare è la solitudine di Aleppo a colpire: è una città che impressiona per la bellezza che si intuisce dietro le macerie, la distruzione completa permette di scorgere in filigrana l’opulenza che un tempo splendeva tra le strade della città. Oggi ben poco risplende: quando cala la sera scende un buio fitto, perché ad Aleppo – e in diversi altri luoghi del Paese – manca la luce elettrica per buona parte delle ore del giorno.

Ci sono decine di case vuote nelle città siriane, lasciate da chi è fuggito per non tornare. Oltre allo stato di abbandono in cui si trovano, ciò che impressiona è il contrasto con l’altissimo numero di persone che, sfollate dai villaggi occupati, non hanno nulla e non possono pagare un affitto: decine di case deserte e decine di persone che non possono permettersi di abitarle, un paradosso difficile da accettare.

Speranza e disperazione

“Sono stati dieci giorni molti intensi, ricchi di incontri, di sentimenti controversi: a volte cadevo nella disperazione vedendo l’enormità della distruzione, le difficoltà della vita quotidiana, la fatica dei capifamiglia, la rabbia dei giovani, il buio e l’abbandono delle città. Ma sono tornata a casa portandomi dietro anche tanta speranza, perché ho visto negli occhi di molti siriani una grande voglia di vivere, di rinascere, di credere in se stessi e nel loro paese.”

Sia Gabriella che Ana, raccontando del viaggio, hanno pronunciato la parola “speranza” più volte e con convinzione, appena dopo aver parlato di una terra ridotta in polvere. Sembra un paradosso, ma ci spiegano che di fatto non lo è: restando una decina di giorni e parlando con tante persone il loro sguardo si è arricchito di panorami nuovi, spaziando oltre le macerie su cui subito si era posato. Soprattutto il confronto con i giovani allarga il campo visivo, inquadrando una popolazione speranzosa e determinata.

Prima dell’intervista Ana ci ha inviato un testo in cui ha trasposto le sue prime impressioni di ritorno dal viaggio, dal quale sono tratte le frasi che aprono i paragrafi di questo articolo. L’ha intitolato Speranza e disperazione, dicotomia che racchiude tutto il senso di impotenza che si prova di fronte a una realtà che si mostra per com’è, senza offrire appigli al desiderio di trovare una sintesi semplificatrice degli elementi perturbanti. Chi torna a casa sente tanto la disperazione quanto la speranza, la Siria è tanto distrutta quanto viva: le due realtà convivono senza risolversi, in un binomio difficile da accettare ma necessario da riconoscere.

L’aiuto offerto dai progetti attivi in Siria è una goccia nel mare, ma ogni goccia fa la differenza: i nostri progetti restituiscono un po’ di normalità alle persone locali, tenendo per mano chi coraggiosamente sceglie di rimanere e di provare a immaginare un presente e un futuro diversi. Tra questi ci sono sicuramente i giovani che partecipano al progetto WIP, attivo in Siria a Damasco e ad Aleppo: il fatto stesso che partecipino ed investano in un progetto volto a finanziare nuove imprese locali mostra quanto credano fermamente in se stessi e nel loro paese. Chiedono solo di essere guardati e di essere visti da parte di un Occidente che li ignora, non li vede.

L’impatto dei progetti di Pro Terra Sancta

“I siriani non possono e non vogliono cadere nella disperazione, sono fieri della loro storia e del loro patrimonio culturale e sono pronti a mettersi in gioco per far ripartire il loro paese.”  

Il primo progetto di cui Ana e Gabriella ci parlano con entusiasmo è la mensa di Aleppo: ci raccontano cucine brulicanti di persone e di profumi. La mensa offre milletrecento pasti al giorno, e oltre a questo prepara pacchi alimentari che vengono distribuiti a domicilio a un centinaio di famiglie: sono i beneficiari che non possono recarsi di persona alla mensa, a causa di disabilità o problemi di deambulazione – e spesso si tratta delle più povere, costrette ad abitare ai piani alti perché meno costosi, a causa dell’assenza di ascensori. Grazie al doppio sistema di piatti caldi e di pacchi alimentari la mensa raggiunge davvero tutti: è un sistema virtuoso e ben organizzato, dove lavora un personale efficiente e dedicato alla causa.

Sono rimaste molto colpite anche dall’attività del Franciscan Care Center, che definiscono un “centro di eccellenza”. È un posto che fa davvero la differenza, perché è l’unico vero spazio di ricreazione e supporto educativo e psicologico che offre Aleppo; qui i bambini e i ragazzi trovano un ambiente sereno nel quale riescono a seguire gli stimoli offerti loro dando il meglio di sé. Gabriella e Ana sottolineano la grande passione e cura che gli insegnanti del FCC mettono nel loro lavoro: sono in grado cogliere i punti più difficili e dolorosi della vita quotidiana dei bambini, e di agire nel modo giusto per aiutarli a sorridere di nuovo.

Rasha Kashmini, professore di musicoterapia, le ha invitate a partecipare ad una lezione che si teneva all’esterno, tra gli alberi e il cielo azzurro. La lezione invitava i bambini ad ascoltare la musica della natura, chiudendo gli occhi, e a sentire ciò che i suoni del mondo suscitano in loro; dopo poco i bambini si sono rilassati e hanno iniziato a parlare, seguendo un’urgenza comunicativa emozionante da vedere e da ascoltare.

Il supporto psicologico è il fulcro anche dell’attività dei centri di Un nome un futuro, che offrono diversi spazi ad attività di doposcuola, sostegno psicologico, aiuto alle madri sole. Gli spazi dei centri sono molto belli e ben curati, leggermente ristretti a causa del numero delle persone che vi si rivolgono; questo ci dà l’idea di quanto profondo e diffuso sia, in Siria, il desiderio di aprirsi all’aiuto, la voglia di ricominciare. Ana e Gabriella ci parlano degli occhi dei ragazzi: nei loro occhi si vedono tutto il fuoco e il desiderio di crescere, di diventare qualcuno: un medico, forse, o un professore, un cuoco… Il futuro è quasi tangibile in questi sguardi, che non si arrendono all’idea che non esista una possibilità per loro: hanno la speranza, ed è meraviglioso poterli aiutare ad averla e a renderla realizzabile.

Hanno visto da vicino anche il progetto che prevede l’installazione di pannelli solari nelle case, allo scopo di permettere alle famiglie l’accesso a elettricità, riscaldamento e acqua calda. Per quanto non sembri, a primo impatto, una delle iniziative più “vive” e più “umane”, è quella che ha toccato entrambe più profondamente. “Andando lì mi sono accorta di come un elemento apparentemente tecnico possa davvero cambiare una vita”, ci spiega Ana: per quanto un pannello solare non possa sicuramente risolvere la situazione di indigenza in cui vive la maggior parte dei siriani, può svoltarne la quotidianità.

Per una famiglia che vive nel buio la possibilità di accendere una lampadina e di fare, ogni tanto, una lavatrice, è davvero un faro nella notte, e diventa la possibilità di acquisire una nuova indipendenza: entrambe le donne ricordano con commozione una famiglia che, grazie alla luce elettrica, ha riconquistato i propri spazi, quando i figli hanno finalmente potuto accendere una lampada per fare i compiti nella propria stanza senza doversi ammassare insieme ai fratelli, ai genitori, ai nonni, intorno a una lampada ad olio che illumina tutto di una luce sottile.

Gabriella e Ana tornano dal viaggio piene di voglia di continuare a lavorare ai progetti: “Poter vedere dal vivo tutte queste cose ci ha appagato e ci ha rese più coscienti degli effetti del lavoro che facciamo ogni giorno; è stato bello anche constatare l’organizzazione delle attività di Pro Terra Sancta, perché è tangibile come alla base di ogni scelta ci sia la volontà di funzionare al meglio, di agire per il bene dei nostri beneficiari.”


COME SOSTENERE I PROGETTI DI PRO TERRA SANCTA IN SIRIA: 

https://www.proterrasancta.org/it/campaign/siria-la-speranza-di-pace-a-partire-da-un-pasto-caldo/

martedì 4 giugno 2024

Bruxelles VIII: tangenti europee per trattenere gli sfollati siriani fuori dal loro Paese

 

Fonte: Mondialisation.ca

Il sito web della Commissione europea ha informato il mondo assetato di empatia e compassione che “  l'ottava conferenza di Bruxelles rinnova gli aiuti internazionali alla Siria e ai paesi della regione raccogliendo più di 7,5 miliardi di euro  ”. Ha aggiunto che questo impegno “  dimostra ancora una volta il desiderio dell’UE e della comunità internazionale di mitigare le conseguenze della crisi siriana e di sostenere le popolazioni sia in Siria che nei paesi vicini  ” [1] . 

Tuttavia, questi aiuti sono chiaramente e necessariamente destinati solo agli sfollati siriani che rimarranno nei paesi vicini e, probabilmente, agli sfollati rimpatriati nelle regioni siriane occupate dagli Stati Uniti d'America o dalla Turchia tramite i rispettivi mandatari, separatisti e/o terroristi . Un'opzione definita realistica dal capo della diplomazia europea che ha dichiarato: " Siamo d'accordo con le Nazioni Unite sul fatto che attualmente non sussistono le condizioni per un ritorno sicuro, volontario e dignitoso in Siria... Insistiamo sul fatto che questo sia il caso. al regime di Bashar al-Assad di stabilire queste condizioni  ” . E questo, ovviamente, accettando l’applicazione della risoluzione 2254 (2015), che approva la creazione di un organo governativo provvisorio gradito dall’Occidente, cosa che né il signor Borrell né i suoi alleati sono riusciti a stabilire nonostante una guerra spietata che dura da ben tredici lunghi anni. 

E, ancora una volta, Bruxelles aveva riunito un sacco di gente per discuterne e decidere, ma in assenza dei rappresentanti dei principali interessati: il governo siriano e le sue legittime istituzioni . 

Bisogna quindi ammettere che nulla è cambiato da quando l’ex rappresentante della Siria presso le Nazioni Unite, Bashar al-Jaafari, ha dichiarato che le conferenze di Bruxelles sono pura propaganda  e che l’Unione europea è parte del problema piuttosto che parte della soluzione, aggiungendo che “  è ironico vedere il paese imporre misure economiche coercitive unilaterali criminali contro il popolo siriano e allo stesso tempo rivendicare la propria determinazione e impegno ad aiutare questo stesso popolo siriano  ”.

Ma diamo la parola alla giornalista libanese, Sonia Rizk, che ha intitolato il suo articolo: Il Libano ha lanciato l'allarme a Bruxelles... e l'Unione Europea ha 'risolto' la questione degli sfollati praticamente con tangenti " .

Mouna Alno-Nakhal


Mentre gli occhi dei libanesi erano rivolti all'ottava edizione della Conferenza di Bruxelles, tenutasi il 27 maggio, è accaduto ciò che ci si aspettava. 

L’Unione Europea ha stanziato più di due miliardi di euro per sostenere gli sfollati siriani nei paesi della regione e, allo stesso tempo, si è opposta a qualsiasi possibile ritorno nel loro paese, ritenendo che le condizioni per un ritorno sicuro e volontario non siano soddisfatte. In ogni caso, questo è quanto espresso chiaramente dal capo della diplomazia europea, Josep Borrell, che ha anche dichiarato:

“  Il nostro impegno non può limitarsi a promesse finanziarie, e dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi per trovare una soluzione politica al conflitto, che sostenga le aspirazioni del popolo siriano per un futuro pacifico e democratico  ”. 

Questa è una posizione che è stata espressa con forza nel luglio 2023, quando il   Parlamento europeo ha votato a stragrande maggioranza una risoluzione a sostegno del mantenimento degli sfollati siriani in Libano. Nel frattempo, l'Unione Europea ha mostrato una certa comprensione della situazione e delle sue ripercussioni accumulatesi sul Libano dal 2011. Tuttavia, gli ultimi giorni hanno dimostrato che quest'ultima Conferenza di Bruxelles è in linea con il detto che dice: " La neve si è sciolta e il prato si svela ”, visto che l'ultima frase pronunciata significava che il Libano doveva conformarsi alla decisione dell'Unione Europea, come se sul Paese fosse tornata la tutela occidentale; ma, questa volta, attraverso la porta europea .

 In altre parole, l’Unione Europea , che agisce nel proprio interesse e cerca di sfuggire alle conseguenze delle sue azioni, ha deciso che il Libano deve incassare  i soldi e mantenere gli sfollati siriani sul suo territorio, punto. Così facendo, come al solito, mette il Libano di fronte alla tempesta, nonostante il suo chiaro piano d’azione inteso a risolvere la questione degli sfollati siriani nella regione.  

Un piano che prevede il coordinamento tra i diversi ministeri e le agenzie competenti del Paese, oltre alla formazione di un comitato guidato dal vice primo ministro libanese e alcuni dei suoi ministri, per discutere il dossier con Damasco, oltre al coordinamento con Giordania, Egitto e Iraq miravano ad adottare un piano unificato in collegamento con il governo siriano, come indicato dal primo ministro ad interim Najib Mikati martedì 28 maggio. 

Questa contraddizione tra la posizione libanese e quella europea non promette nulla di buono. Pertanto, di fronte a questa situazione, c'è preoccupazione e il quadro resta cupo, perché una direttiva del genere non è nata oggi. In realtà, tali messaggi internazionali continuano dal 2016, e continuano gli ulteriori piani per trattenere gli sfollati siriani in Libano, mentre il governo ad interim libanese resta occupato dai conflitti tra i suoi ministri su chi dovesse guidare la delegazione ministeriale in Siria. 

In altre parole, la gestione della questione non è seria e la corruzione continua a svolgere il suo ruolo politico in Libano, dato che le valute forti stuzzicano sempre l’appetito di alcuni funzionari e che la comunità europea lo sa bene. Per questo motivo afferma di essere preoccupato per il futuro degli sfollati a scapito del Libano, mentre l'unica cosa importante ai suoi occhi è che gli sfollati non raggiungano i territori UE, né via terra né via mare. Di conseguenza, gli interessi particolari giocano perfettamente il loro ruolo, mentre i “grandi” giocano con le sorti del Libano che paga sempre i conti politici degli altri. 

Tuttavia, a Bruxelles, il Libano ha lanciato l'allarme attraverso il suo ministro degli Esteri, Abdallah Bou Habib, che ha indicato che il Libano è arrivato a un punto di non ritorno e che continuare a finanziare gli sfollati "  dove si trovano  " costituisce un pericolo per i paesi vicini alla Siria. . Ha chiesto una revisione delle politiche dei paesi donatori e ha sottolineato che l'esplosione libanese, se dovesse verificarsi, avrebbe ripercussioni anche sull'Europa. 

Per questo motivo afferma che questa volta la posizione del Libano sarà ferma e insisterà davanti ai funzionari europei sulla necessità di tener conto delle misure concrete adottate, da più di un anno, dal suo Consiglio dei ministri e dai suoi servizi di sicurezza; misure giustificate dal titolo: “ Il Libano è un paese di transito e non un paese di asilo ”. Un titolo che implica la concessione di aiuti finanziari a chi ritorna in Siria e non a chi si trova in Libano, il rifiuto assoluto di legare il ritorno degli sfollati a una soluzione politica della crisi siriana e la revoca delle sanzioni imposte ai Siria con l’abrogazione della “Legge Cesare”. 

Tuttavia, ci sono molti libanesi che non sperano in alcun cambiamento nella posizione europea e nel suo scenario già pronto per la regione. Questo è il motivo per cui la maggior parte dei partiti politici contrari al mantenimento degli sfollati siriani in Libano ritengono che sia necessario l’aiuto dei paesi arabi attraverso gli sforzi di Giordania, Egitto e Iraq, per aiutare il Libano a risolvere questa crisi. Altrimenti il ​​Libano non potrà più uscirne, secondo osservatori ben informati sulla faccenda in questione. 

I quali osservatori ben informati affermano che l'Occidente si è abituato alle posizioni assunte da alcuni pilastri del potere libanese; cioè: accettare denaro in cambio della risoluzione di questioni in sospeso, anche se a spese del Paese e della sua gente. 

Sonia Rizk*

Fonte: Addiyar (Libano)

*Sonia Rizk è una giornalista libanese, attualmente redattrice di articoli e analisi politiche per il quotidiano libanese Addiyar e il sito Lebtalks.

venerdì 31 maggio 2024

Jeffrey Sachs e TuckerCarlson discutono le vere ragioni per cui i neocon hanno orchestrato la guerra di cambio di regime in Siria

 

RILETTURA DELLA INTERVISTA A  J.SACHS PUBBLICATA SULLA PAGINA X DI TUCKER IL 28 MAGGIO '24, COMMENTATA  DAL GIORNALISTA, GESTORE DEL SITO SYRIANAANALYSIS ,  KEVORK ALMASSIAN

traduzione di Marinella Correggia

Sachs: "Abbiamo iniziato ad armare i jihadisti in Siria e gli Stati Uniti hanno detto che Assad deve andare." 

Tucker: "Perché gli Stati Uniti volevano rovesciare Bashar al-Assad?" 

Jeffrey Sachs nell'intervista ha fatto riferimento a diversi punti, come la presenza della marina russa sul Mediterraneo in Siria, o la volontà di piazzare un fantoccio degli Usa a Damasco, ma anche la pura ignoranza da parte dei decisori statunitensi. 

Ma, a mio parere, c'è di più. Gli Stati Uniti volevano togliere di mezzo Assad per alcune altre ragioni: anche se rimuovere la Marina russa dal Mediterraneo (e il mar Nero) era una priorità geopolitica, c’era in gioco anche il fattore iraniano. L'alleanza strategica tra Siria e Iran ha creato una rete tra attori statali e non statali in Iraq, Yemen, Siria e Libano e ha posto serie sfide all'egemonia statunitense e israeliana sulla regione. Sotto Bashar al-Assad, la Siria è diventata una base strategica nel cosiddetto asse della resistenza contro il dominio americano e israeliano nella regione. 

Ad esempio, nel 2006, il siriano Assad  fornì a Hezbollah mezzi militari che furono utilizzati per respingere l'invasione israeliana del Libano e costringere Tel Aviv a ritirarsi. Dopodiché, Hezbollah ha consegnato armi siriane a Gaza come i razzi anticarro Kornet. Pertanto, i neocon e i sionisti pensavano che la rimozione di Assad dal potere avrebbe minimizzato l'afflusso di armi ai gruppi che combattevano contro le forze di occupazione israeliane.

In secondo luogo, la Siria è un importante pezzo di geografia nella Belt and Road Initiative della Cina. Questo spiega il motivo per cui le forze degli Stati Uniti sono di stanza sulla costa orientale dell'Eufrate; non solo per controllare il petrolio, ma anche e soprattutto per bloccare i confini tra Iraq e Siria, e alla fine bloccare l'accesso della via della Seta al Mediterraneo. 

In terzo luogo, i teorici sionisti più incalliti mirano al "Grande Israele". Dove finisce il confine orientale di questo Grande Israele? Sulla riva occidentale dell'Eufrate. Secondo questi sionisti, i curdi sarebbero i loro vicini sulla costa orientale dell'Eufrate, e questo è esattamente ciò che gli Stati Uniti hanno fatto in quella regione. Washington ha creato una grande milizia dominata dai curdi Ypg e li ha incoraggiati a separarsi dalla Siria e formare una propria entità.   

Alla fine, non importa quali fossero le ragioni, gli Stati Uniti hanno commesso un crimine contro l'umanità in Siria. Un crimine che non sarà dimenticato. Centinaia di migliaia di siriani sono morti e altri milioni sono diventati rifugiati. Gli Stati Uniti hanno sostenuto i jihadisti e hanno creato l'Isis, il Fronte al-Nusra, l'esercito islamico, Ahrar al-Sham, l'esercito islamico del Turkistan e molti altri gruppi terroristici, distruggendo un paese bello e pacifico con una ricca storia e civiltà.

 In questo caos, i cristiani di Siria sono stati cacciati da molte città e villaggi da questi eserciti di terroristi appoggiati dagli Stati Uniti.

mercoledì 29 maggio 2024

Il Consiglio Ue rinnova di un altro anno le sanzioni contro la Siria

" L'Unione Europea, che è completamente subordinata agli interessi delle multinazionali e della N.A.T.O. (ovvero degli U.S.A.), ha esteso le sanzioni alla Siria fino al 1 giugno 2025.  
Sono sanzioni durissime che vietano alla Siria di importare medicinali, macchinari sanitari, macchine per l'edilizia, cibo e moltissimi altri prodotti e vietano al contempo alla Siria di esportare i suoi prodotti. 
Le sanzioni non solo sono del tutto ingiustificate, perché la Siria è il paese che è stato aggredito dai gruppi terroristi dell'ISIS  armati, finanziati e appoggiati dalla N.A.T.O., da Israele, dall'Arabia Saudita e da altri paesi.  Non è il paese aggressore, ma la vittima dell'aggressione.  
La guerra, che dura dal 2011, ha fatto danni per 1000 miliardi di dollari oltre ad almeno 500.000 morti e innumerevoli feriti. ..."
     Prof. Matteo D'Amico 

In occasione dell’ottava edizione della Conferenza di Bruxelles sul “Sostegno al futuro della Siria e della regione”, l’UE si è impegnata a stanziare 2,12 miliardi di euro per il 2024 e il 2025. Questa assistenza sosterrà sia i siriani all’interno della Siria che quelli nei Paesi limitrofi, nonché le comunità che li ospitano in Turchia, Libano, Giordania e Iraq.La riunione ministeriale, che ha riunito i delegati degli Stati membri dell’UE, dei Paesi confinanti con la Siria, di altri Paesi partner e donatori e di organizzazioni internazionali, tra cui l’ONU, ha ribadito la necessità di un processo politico in Siria, in linea con la risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (UNSCR), e la necessità di mobilitare un sostegno finanziario vitale per rispondere ai bisogni più urgenti della popolazione siriana e delle comunità che la ospitano.


da Asianews

Il card. Zenari, che da anni segue le vicende siriane dalla nunziatura a Damasco denunciando prima gli orrori del conflitto poi la “bomba della povertà” che miete più vittime delle armi, chiede di non guardare alla nazione “come un pezzente”. Al contrario, bisogna aiutarla a “stare in piedi e camminare con le proprie gambe” che è anche “più dignitoso”. E per farlo serve parlare di ricostruzione, di ripresa dell’economia, dell’industria, far ripartire o creare nuove fabbriche: “Ricordo quanto detto da papa Paolo VI nel 1967, che il nuovo nome della pace è lo sviluppo. Lo stesso qui in Siria, dove non vi può essere pace senza sviluppo; dove vi è miseria non si possono creare le condizioni per la pace. 

“Nel marzo scorso la Siria - ricorda il porporato - è entrata nel suo 14mo anniversario di guerra, ignorata dai media e dalla stessa comunità internazionale” con il 90% della popolazione “sotto la soglia della povertà: tutti concordano nell’affermare che la situazione è diventata più dura rispetto agli anni della guerra. Manca l’elettricità in gran parte della Siria, molta gente ha in media due ore al giorno di corrente elettrica; la sanità e la scuola sono un disastro; servono infrastrutture necessarie; l’economia è al collasso e la gente trova una soluzione alternative. Chi può - prosegue il card. Zenari - cerca di scappare, unica via di uscita da questo tunnel, soprattutto per i giovani molti qualificati” alla ricerca del “modo per varcare i confini e andare all’estero“.

Un altro fattore di emergenza è quello legato ai rifugiati: “La guerra si dice abbia causato circa mezzo milione di morti, tra i quali 29mila bambini e minorenni - afferma il nunzio apostolico - e circa 12 milioni, poco più della metà della popolazione pre-conflitto, costretti a fuggire dalla proprie case, dai quartieri e dai villaggi. Secondo statistiche Onu vi sono sette milioni di sfollati interni e circa cinque milioni nei Paesi vicini”. Questo esodo ha determinato una nuova emergenza, in particolare nel Libano che è “un Paese piccolo, con una popolazione limitata e un numero sproporzionato di rifugiati” osserva il diplomatico vaticano. “Anche questo un tema grave e urgente - prosegue - ma non si sa come risolverlo. L’agenzia Onu per i rifugiati dice che non ci sono ancora le condizioni per un ritorno volontario, dignitoso e in sicurezza, intanto la gente comincia a perdere la speranza: si assiste, dopo le molte vittime, alla morte stessa della speranza, la gente non ha più fiducia nel futuro” tanto che, dalle ultime stime, si calcola che “circa 500 persone al giorno tentino di lasciare la Siria con ogni mezzo, in genere giovani e qualificate”.

I cristiani siriani

Come e più della gran parte dei siriani, perché rappresentano una piccola minoranza, anche i cristiani soffrono le conseguenze del conflitto e della povertà ormai diffusa nel Paese e che ha colpito diversi strati della popolazione. Una comunità che ha pagato in termini di vite umane, esodo, sparizioni forzate - fra le oltre 100mila persone scomparse nel nulla vi sono il gesuita italiano p. Paolo Dall’Oglio e i due vescovi, siro-ortodosso e greco-ortodosso, di Aleppo solo per fare alcuni nomi - e di fuga volontaria oltre-frontiera. Questa è “un’altra grossa ferita che sanguina nel cuore della Siria”. Ecco perché, per i cristiani, è un “soffio di speranza” l’annuncio di papa Francesco che saranno proclamati santi i martiri di Damasco, francescani e tre maroniti: la loro testimonianza, afferma il porporato, è “attuale” nel modo in cui essi ricordano e rappresentano “quanti hanno sofferto in vari modi in questo conflitto e per la fede”.

La Siria è “molto importante anche dal punto di vista del cristianesimo”, perché oltre ad aver dato il nome dei cristiani ad Antiochia, oggi territorio turco, è la terra cui è legato san Paolo e delle apparizioni di Cristo risorto. E ancora, nei primi sette secoli ha dato sei papi alla Chiesa e quattro imperatori, a conferma della sua importanza “sia dal punto di vista cristiano che sotto il profilo culturale e politico” sottolinea il card. Zenari. Vi è infine l’aspetto legato al turismo “che era in aumento” prima del conflitto, grazie anche a “reperti archeologici che risalgono a 4 o 5mila anni fa” e che permetteva di sostenere anche la comunità cristiana, mentre oggi “è una tragedia vederli partire”. Del resto, ricorda, “nei conflitti i gruppi minoritari sono sempre l’anello debole della catena” e questo è un danno ulteriore laddove essi rappresentano “una finestra aperta sul mondo”. “Basti pensare - conclude - al loro contributo nel campo culturale, dell’educazione con le scuole, nella sanità con gli ospedali, e anche nel campo politico. Anche questa è una ferita molto profonda per le Chiese, che hanno visto partire più della metà dei loro fedeli, e per la stessa società siriana”.

lunedì 20 maggio 2024

Il card. Pizzaballa entra a Gaza e incontra la comunità cristiana

 Ad AsiaNews la testimonianza di padre Romanelli rientrato dopo 7 mesi nella Striscia

“Non vogliamo il potere, ma chiediamo di essere forti” e se anche vi è un sentimento di “stanchezza, di profonda stanchezza” per questi mesi di guerra, in realtà “voi siete forti” perché durante le discussioni che ho avuto con voi, non ho mai sentito una sola parola di ira. Questo è il segno più evidente della vostra forza”. Con queste parole il patriarca di Gerusalemme dei latini, il card. Pierbattista Pizzaballa, si è rivolto alla comunità cristiana di Gaza durante la messa della Pentecoste. Il porporato ha concluso la tre giorni di visita inaspettata, ma attesa a lungo da lui stesso e dai fedeli della Sacra Famiglia, nella Striscia martoriata dal conflitto lanciato da Israele contro Hamas, in risposta all’attacco del 7 ottobre scorso. E che ha causato profonde devastazioni e decine di vittime anche in seno ai cattolici. 

“Sono venuto a testimoniare prima di tutto il mio amore personale e anche l’amore di tutta la Chiesa, unito al nostro impegno forte a sostenervi, e aiutarvi, in ogni modo possibile. Voi siete isolati, ma non siete soli. Possa lo Spirito Santo scendere su di noi tutti. Possa scendere in particolare sui nostri due giovani che faranno la Cresima. Possa scendere su tutti noi e darci la forza di vivere in queste circostanze speciali non solo per rimanere e resistere, ma per essere il futuro dei nostri figli qui a Gaza”.

Il card. Pizzaballa ha osservato con i propri occhi le distruzioni, le abitazioni ridotte a un cumulo di macerie e le famiglie che piangono i morti innocenti. “Ho davvero apprezzato la vostra accoglienza e il vostro atteggiamento” e, pur avendo riscontrato molta “stanchezza per questa situazione” e che “nemmeno una casa è rimasta intatta”, egli esorta a non guardare solo al passato ma volgerlo al “futuro: il futuro è quello delle case, delle scuole, specialmente delle scuole per i bambini”. Istruzione e lavoro, partendo da uno dei beni primari e alimento base del quotidiano: il pane. Nelle giornate trascorse nella Striscia, il card. Pizzaballa ha visitato e benedetto il forno “Delle famiglie” a Gaza, gravemente danneggiato dai bombardamenti e riaperto di recente grazie anche al sostegno e al contributo del Patriarcato latino. Esso è nato nel 1984 grazie all’iniziativa di Bishara Shehadeh e offre lavoro a cristiani e musulmani. 

La visita del porporato è stata anche occasione per permettere il ritorno del parroco della Sacra Famiglia, p. Gabriel Romanelli, sacerdote del Verbo Incarnato che si trovava a Betlemme nei giorni in cui è iniziata la guerra e non ha più potuto rientrare. Ad AsiaNews il sacerdote affida una breve testimonianza sulla situazione della comunità e le speranza per il futuro. “Le persone - sottolinea - sono serene, anche se è forte la sensazione di sfinimento, di depressione, ma è altrettanto vero che molti hanno voglia di riprendere la vita, di ricostruire, altri ancora stanno pensando di ricominciare una vita fuori, pur se con grande dolore”.

“Ora sono qui con voi, vi voglio bene e vi accompagno, seguo con attenzione le notizie che provengono dalla vostra comunità. E siate certi che stiamo lavorando per una pace giusta, completa e vera”. Sono le parole che il patriarca di Gerusalemme dei latini, il card. Pierbattista Pizzaballa, ha rivolto ai fedeli della parrocchia di Gaza nella prima visita che il porporato  ha compiuto nella Striscia. Una due giorni di visita inaspettata, ma accolta con gioia dalle centinaia di cristiani ospiti della parrocchia. Dai dati forniti dal patriarcato, al momento vi sono almeno 500 persone rifugiate nel complesso della parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza, in larghissima maggioranza cattolici. Altri 200 sono ospiti della chiesa ortodossa di san Porfirio. Prima del conflitto divampato a ottobre, i cattolici nella Striscia erano 135, di cui oggi ne sono rimasti circa 90 dopo che una piccola parte è riuscita a lasciare l’area teatro di guerra nelle scorse settimane. Il card. Pizzaballa è entrato nella Striscia da un varco segreto e vi è massimo riserbo sull’organizzazione e i canali che hanno permesso di ottenere il via libera da governo ed esercito israeliano, che da mesi combatte una sanguinosa guerra a Gaza contro Hamas. “Bisogna considerare che pochissime persone - prosegue il portavoce del patriarca - siano esse religiose, politiche o ambasciatori hanno avuto la possibilità di entrare a Gaza” e il porporato “è il primo” di questo spessore e autorità a farlo. “Ed è andato - aggiunge - per portare un messaggio alla gente, per dare loro un segnale grandissimo di incoraggiamento”. Possiamo affermare con certezza che questa visita è frutto del lavoro del patriarcato e conferma una volta di più il ruolo di ponte, di pace della Chiesa che cerca prima di tutto di mantenere la sua presenza”. Come ha sottolineato il porporato nell’omelia della messa stanno passando “tanti momenti difficili, situazioni tragiche” ma sono rimasti “fermi nella libera scelta di restare in questa terra e noi siamo con voi”. da AsiaNews 17/05]

Di seguito, la testimonianza di p. Romanelli ad AsiaNews:

Abbiamo trovato la comunità cristiana di Gaza in condizioni abbastanza buone, per quanto possano esserlo dopo più di sette mesi di guerra e con un conflitto tuttora in corso. 

Noi abbiamo nel compound della parrocchia della Sacra Famiglia più di 500 persone, contando pure i bambini di Madre Teresa. 

Le persone sono serene, anche se è forte la sensazione di sfinimento, di depressione, ma è altrettanto vero che molti hanno voglia di riprendere la vita, di ricostruire, altri ancora stanno pensando di ricominciare una vita fuori, pur se con grande dolore. Tutti loro hanno amato, e amano, la loro terra. Nella comunità cristiana, infatti, ci sono tanti che da sempre vivono e hanno vissuto qui nella striscia e ad essa sono legati. Poi ci sono cristiani che erano rifugiati da altri luoghi, da Gerusalemme, da Jaffa o Tel Aviv, da Migdalia e Ashkelon, coloro i quali hanno perso la casa e sono dovuti partire per le guerre del passato. 

Tuttavia, tantissimi cristiani sono originari di Gaza e a questa terra sentono di appartenere. Per questo per alcuni di loro è grande il dolore al pensiero di andarsene, mentre altri vogliono rimanere. 

La città è molto colpita e porta i segni del conflitto, quasi non si vede nemmeno un edificio che non sia stato centrato, che sia stato risparmiato dalle bombe. 

Noi come parrocchia continuiamo con le attività, innanzitutto con la vita spirituale grazie a p. Yusuf [Assad, il vice-parroco] che per tutti questi mesi è restato con i fedeli e ancora adesso sarà qui con me. Io rimarrò in parrocchia, è venuto con me anche p. Carlos Ferrero il nostro provinciale [della congregazione del Vero Incarnato]. E non dimentichiamo poi le suore: con Pilares Ocorro è venuta anche una nuova sorella, sr. Maria “Maravillas” de Jesus, una argentina che rimarrà qui a testimonianza di una realtà viva e che prosegue nelle attività. Abbiamo già ricominciato l’oratorio, alcune lezioni per incominciare a fare delle attività con i bambini anche se non si tratta di una vera e propria scuola. Stiamo cercando comunque di fare tante altre iniziative con l’aiuto di molti ragazzi e, soprattutto, delle famiglie più giovani. 

La visita del patriarca [card. Pierbattista Pizzaballa] è stata splendida, si è conclusa con la Pentecoste e l’amministrazione del sacramento della Cresima a due ragazzi della parrocchia. Tutto questo è un segno di speranza, anche le persone sono state molto contente di rivederci e di sapere che sono tornato e che rimango qui, con l’aiuto di Dio. 

* Parroco della Sacra Famiglia a Gaza