L'antica
città di Palmyra fu sede di una piccola comunità cristiana che ora
vive in esilio. L'arcivescovo siro-cattolico di Homs, accompagnato da
alcuni sacerdoti, è tornato alle rovine della parrocchia distrutta.
di
Vincent Gelot, di ritorno dalla Siria
Un
segno della croce, qualche preghiera sussurrata in punta di labbra e
un rosario appeso allo specchietto retrovisore. "Non dimenticate
di prendere da bere" ricorda l'arcivescovo siro cattolico
Philippe Barakat di Homs ai sacerdoti che lo accompagnano.
L'automobile si avvia a passo d'uomo. Gli sguardi dei passeggeri sono
ansiosi. "La strada per il deserto sarà lunga e questa è la
prima volta che siamo tornati a Palmyra da quando l'esercito siriano
l'ha riconquistata." confida il prelato barbuto, accendendo
freneticamente la prima sigaretta del viaggio. "Non sappiamo su
cosa andremo a cascare", mormora. Conquistata
dall'organizzazione Stato Islamico (ISIS o Daech in arabo) nel maggio
2015, la città emblematica era stata ripresa nel marzo 2016 da parte
dell'esercito siriano, sostenuto dai suoi alleati russi e iraniani,
prima di cadere nuovamente nove mesi più tardi in mano a Daech.
Riconquistata ai jihadisti nel marzo di quest'anno, alla città è
ancora vietato l'accesso, i permessi di accesso sono complicati da
ottenere, e la distanza di 160 km. in linea d'aria da Homs permane
pericolosa.
Una
cappella discreta ma colorata
Celebre
per il suo antico sito archeologico, Palmyra (o Tadmor come gli
Orientali la chiamano) lo è molto meno per la sua piccola comunità
cristiana e per la sua modesta chiesa. "La parrocchia è
dedicata a Santa Teresa del Bambin Gesù e risale al periodo del
mandato francese. I Francesi l'avevano donata alla diocesi siriaco
cattolica di Homs alla fine del mandato ", spiega il vescovo
Barakat.
Situata
nel cuore della città moderna, lungo la Via Regale decantata dalle
guide turistiche, dove alberghi-ristoranti rivaleggiavano con i
negozi di souvenir, la chiesa, la cui comunità parrocchiale era
composta da cinque famiglie siriache e centinaia di fedeli di tutti i
riti, "era una parrocchia molto colorata", ricorda padre
Georges Khoury, il sacerdote di Palmyra. "Durante la Messa della
Domenica, c'erano albergatori armeni, mercanti greci, soldati,
lavoratori ... e persino turisti stranieri di passaggio!” Il
cellulare dell'abuna (Padre) vibra. Uno dei suoi parrocchiani gli ha
chiesto di fotografare la condizione della sua casa. Dopo la
riconquista di Palmyra nel marzo scorso, la zona è ancora sotto
controllo militare e nessun civile ha potuto tornare sul posto.
Il
deserto, ocra e grigio, si stende a perdita d'occhio. L'auto prosegue
la sua corsa lungo l'antico percorso, una volta utilizzato da
carovane e cammelli, adesso trasformato in un asfalto deformato dal
calore soffocante di agosto e malridotto dal passaggio continuo dei
camion militari. La monotonia del viaggio è a volte interrotta dai
posti di blocco dell'esercito siriano, dal passaggio di carri armati
russi, auto blindate con mitragliatori e pickup recanti la bandiera
gialla e nera della divisione "Fatimidi" una milizia sciita
composta da combattenti afghani. D'un tratto, la strada si trova a
correre a lato di un aeroporto militare per diversi chilometri. "Si
tratta della base aerea T4, che ha svolto un ruolo chiave nella
seconda riconquista di Palmyra" commenta il vescovo. "I
terroristi hanno tentato più volte di prenderla senza mai
riuscirvi." Inseguiti dopo una feroce battaglia, le milizie di
Daech sono state respinte indietro di un centinaio di chilometri a
est verso Deir-ez-Zor, dove i combattimenti continuano.
"Ho
pianto molto"
Le
ore passano, l'orizzonte si apre e le lingue si sciolgono. Incollando
le sigarette, Padre Georges ricorda quel 21 maggio 2015 quando gli
uomini di Daech entrarono in Palmyra: "L'esercito governativo è
venuto ad avvisarci che i jihadisti stavano avvicinandosi. Ho
noleggiato autobus e automobili malridotte per evacuare le nostre
famiglie verso Homs. Sette ore più tardi, Daech prese possesso di
Palmyra.". Poi, saranno gli anni dell' esilio, ancora di guerra
e di privazioni, dove anche la sua comunità ha trovato rifugio nella
frazione di Meskané alla periferia rurale di Homs: "Le famiglie
sono rimaste parecchi mesi ad abitare nei locali della parrocchia. Ma
la situazione si trascinava e non c'era lavoro, per cui le famiglie
hanno finito per trasferirsi altrove o emigrare". La
popolazione cristiana della Siria, che contava due milioni di anime
prima dell'inizio della insurrezione nel 2011, adesso sarà
all'incirca un terzo di allora.
A
tutt'oggi, Padre Georges ha in cura la Parrocchia di Meskané mentre
fa il "commesso viaggiatore" per visitare i suoi fedeli di
Palmyra sparsi in tutta la regione: "Io porto loro cesti di
cibo, medicine, vestiti, garantendo nel contempo la cura pastorale.
Ho anche celebrato diversi battesimi e alcuni matrimoni!" Nel
corso di questi anni bui, ha assistito da lontano, impotente e
inorridito, alla messa in scena delle esecuzioni nel teatro antico,
dove secondo l'OSDDH circa 280 persone sono state massacrate, e alla
distruzione di monumenti storici. "Palmyra era la perla
dell'Oriente e l'orgoglio di tutti i Siriani. Il giorno in cui han
fatto saltare i templi di Baalshamin e di Bêl ho pianto molto ",
ammette Padre Georges, che - sulla quarantina - ha vissuto a Palmyra
per dieci anni ed era diventato un familiare dell'antico sito al
quale L'UNESCO ha attribuito un "valore universale eccezionale".
Improvvisamente,
la cittadella araba di Fakhr-Ed-Din, una fortezza del XII° secolo,
appare in cima al suo picco roccioso. Le bocche si zittiscono.
Entriamo in Palmyra.
Il
perdono degli antenati
La
città moderna di Palmyra potrebbe assomigliare a un castello di
carte collassato o a un villaggio fantasma del far-west dopo l'OK
Corral. Barricate tra edifici rovinati, minareti abbattuti in mezzo a
veicoli bruciati, ovunque tracce di saccheggi e combattimenti
stradali, ma non un'anima viva ad eccezione dei soldati di pattuglia.
Adiacente ad una piazzetta con la fontana a secco, dove gli abitanti
amavano alla sera prendere il fresco dell'oasi, fumando un narghilé,
un "caffè turistico" in agonia è in attesa del cliente.
"La città è in condizioni molto peggiori della prima volta",
dice abuna Georges che era ritornato a vederne lo stato dopo la prima
riconquista di Tadmor nella primavera del 2016. "Non promette
niente di buono", sbotta.
Il
prete invita il conducente a fermarsi. Il veicolo parcheggia davanti
a quella che, prima del suo visibile stato miserabile, doveva essere
una cappella. All'interno, l'altare è devastato, le lastre del
pavimento sono state strappate e le pareti sono carbonizzate. Padre
Georges è prostrato: "Dopo la prima partenza degli islamisti,
la chiesa era stata saccheggiata ma non bruciata. Ho anche pensato di
rimetterla in uso almeno simbolicamente. Ma adesso è distrutta!"
lamenta. Adiacente al santuario, la casa di accoglienza ha subito lo
stesso destino. Sostenuto dall'Oeuvre d'Orient, questo Centro con una
dozzina di camere aveva come obbiettivo la creazione di posti di
lavoro e stimolare la comunità cristiana locale accogliendo i
visitatori e i pellegrini. "Abbiamo iniziato i lavori del centro
nel 2010. Il sito stava per essere completato. Che spreco!" si
rammarica Monsignor Barakat e conclude: "Che i nostri antenati
e i nostri figli perdonino ciò che abbiamo fatto della Siria!".
Prima
di lasciare i luoghi, facciamo un salto all'antico sito. Il veicolo
passa davanti al museo archeologico, completamente saccheggiato e
devastato. Dalla pista di ciottoli, l'ippodromo e i primi colonnati
sfilano... "L'ottanta per cento del sito dovrebbe essere ancora
in piedi" ha giudicato a lume di naso padre Georges, prima di
aggiungere "Il sito rimane impressionante. Prima lo era due
volte di più”. Veniamo bloccati dall'esercito nei pressi delle
torri funerarie, anch'esse vittime della follia distruttiva dei
jihadisti. Subito la strada è interrotta: “non potete andare
oltre" ci avverte un uomo in armi, indicandoci di svoltare. Su
un colonnato crollato per i tre quarti, di fronte alle immensità
desolate e brucianti, lo stendardo dei "Fatimidi"
vincitori, sormontato da una bandiera russa slavata, galleggia nel
vento.
Vincent
Gelot, capo dei progetti per il Medio Oriente dell'Œuvre d’Orient
traduzione: Gb.P.
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