di Gianandrea Gaiani
STRAGE DI HOULA: CASUS BELLI PER LA GUERRA ALLA SIRIA?
Tre stragi di civili a Homs, Hama e a Houla dove sono stati
massacrate 108 persone, per metà bambini. Una strage subito attribuita dai media
internazionali (in testa le immancabili al-Jazira e al-Arabya, organi di
propaganda e disinformazione di Qatar e Arabia Saudita) ) e dal Consiglio di
Sicurezza dell’Onu alle forze governative siriane. Tutto è possibile in una
guerra civile sempre più cruenta nella quale però le nefandezze abbondano tra i
governativi come tra i ribelli. Inutile sottolineare che Bashar Assad dovrebbe
essere impazzito per ordinare ai suoi di massacrare centinaia di innocenti a due
passi dagli osservatori dell’Onu e sotto i riflettori dei media internazionali.
I rapporti degli osservatori col basco blu guidati dal generale norvegese Robert
Mood riferirono subito di persone colpite dalle schegge di granata, altre uccise
con colpi a bruciapelo o a coltellate. Più tardi però, dopo il montare delle
accuse a Damasco, hanno corretto il tiro riferendo di almeno una parte delle
vittime colpite dai cannoni dei carri armati governativi. Damasco nega ogni
responsabilità per una strage compiuta in una zona abitata da sunniti ma
circondata da villaggi alauiti che sostengono il governo. Ce n’è abbastanza per
sospettare della strage l’esercito e le milizie filo-Assad ma anche le molte
anime della rivolta e i combattenti di al-Qaeda sempre più attivi in Siria
provenienti dal vicino Iraq e che hanno già compiuto attentati e massacri. La
dinamica della strage di Houla assomiglia infatti alle “spedizioni punitive”
compiute dalle milizie di “al-Qaeda in Mesopotamia” contro villaggi sunniti
iracheni che sostenevano collaboravano con le truppe statunitensi e con il
governo di Baghdad. Quando al-Qaeda effettuò i primi attentati in Siria, contro
sedi dei servizi segreti ad Aleppo e Damasco i ribelli ne attribuirono la
responsabilità al regime di Assad, versione che ebbe ampia eco sui media
(al-Jazira in testa, ancora una volta) finché lo stesso Dipartimento di Stato di
Washington ammise che i terroristi di al-Qaeda erano entrati in forze in Siria
per combattere il regime divenendo di fatto “alleati” ingombranti e imbarazzanti
non solo dei ribelli ma anche dell’Occidente. La strage di Houla rischia di
diventare quindi il “casus belli” per l’intervento militare internazionale da
tempo chiesto da Turchia, Lega Araba e soprattutto dal Qatar e dai sauditi,
sostenuti dagli anglo-americani e dai francesi. Anche se la Nato ha finora
negato i preparativi di azioni belliche contro Damasco negli ultimi mesi sono
emerse molte indiscrezioni che indicano il contrario incluse voci di pre-allerta
di alcuni reparti alleati pronti a venire rischierati in Giordania, Libano o
nelle basi britanniche a Cipro. Allo stesso modo negli ambienti diplomatici da
tempo si sussurra che il Piano Annan è destinato a non riuscire a risolvere la
crisi siriana ma può creare il contesto per un’azione internazionale che il
Consiglio di Sicurezza dell’Onu sembra pronto a varare. Indiscrezioni che
trovano conferme anche in quanto rivelato dal Washington Post che ha sentito
ribelli siriani e di funzionari statunitensi secondo i quali nelle ultime
settimane gli insorti hanno ricevuto molte armi moderne fornite da Qatar e
Arabia Saudita nell’ambito di un piano coordinato dagli Stati Uniti. Traffici
gestiti da alcune basi alla frontiera con la Turchia (Idlib) e col Libano
(Zabadani) senza dimenticare che in Giordania /dove l’Italia sta inviando un
ospedale da campo) si è tenuta recentemente l’esercitazione internazionale Eager
Lion che ha visto la presenza di 12 mila militari americani e alleati (anche
qualche decina di specialisti italiani del 185° reggimento acquisizione
obiettivi) che hanno simulato operazioni simili a quelle richieste da un
intervento militare in Siria. Anche i Fratelli Musulmani siriani, come ha
confermato il membro del comitato esecutivo della Fratellanza Mulham al-Drobi,
si riforniscono di armi grazie ai fondi messi a disposizione da ricchi siriani o
dai Paesi del Golfo. Sul regime di Assad sembrano sempre meno disposti a
investire anche gli “sponsor” russi e cinesi se è vero, come racconta Haaretz
che le forniture di armi e munizioni (anche nordcoreane) che arrivano via mare a
Tartus e Latakia non godono più dei crediti agevolati di un tempo ma vengono
pagate in anticipo da un fondo costituito dai petrodollari di Teheran, ormai
l’unico vero alleato di Damasco. Ufficialmente Barack Obama ha chiesto la
collaborazione di Mosca per gestire una “soluzione yemenita” con l’esilio di
Assad e l’avvio di una transizione politica ma nei fatti Washington sembra
puntare più a una “soluzione libica” e la strage di Houla potrebbe creare il
contesto mediatico e sociale favorevole ad approvare un intervento bellico
internazionale. Il Consiglio nazionale siriano (Cns), organo dei ribelli,
chiede armi per difendere la popolazione e iniziative militari potrebbero venire
presto varate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il presidente francese
Francois Hollande pare deciso a emulare in Siria le gesta di Sarkozy in Libia e
dopo aver sentito il premier britannico David Cameron ha dichiarato che “la
follia omicida del regime rappresenta una minaccia per la sicurezza dell'area”.
Il ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi non esclude nessuna opzione
contro il regime di Assad e il leader dei liberaldemocratici europei Guy
Verhofstadt ha chiesto esplicitamente un intervento militare internazionale.
Sono bastati poco più di un centinaio di morti, per metà bambini, per ventilare
senza timidezze un intervento finora ufficialmente escluso dall’Alleanza
Atlantica.
Eppure le truppe di Assad sono impegnate in veri e propri combattimenti contro ribelli appartenenti a gruppi diversi e spesso rivali ma che possono contare su armi sempre più moderne e che non si tratti di una guerra tra militari e civili indifesi lo si evince anche dal bilancio delle vittime redatto dall’Osservatorio dei diritti umani, emanazione dei rivoltosi, che ammette che su 13 mila morti oltre 3 mila erano militari di Assad e che molti dei più di 9 mila civili uccisi erano ribelli. Del resto non sarebbe la prima volta che eccidi e massacri, veri o “costruiti” ad arte, aprono la strada all’internazionalizzazione di un conflitto interno. Nel 1995 alla strage di Srebrenica seguì l’intervento dell’Alleanza Atlantica in Bosnia, nel 1999 le fosse comuni di Racak diedero il via all’intervento della Nato in Kosovo nonostante un team medico bielorusso avesse accertato che si trattava di cadaveri raccolti da più parti ai quali era stato sparato alla nuca post mortem. L’anno scorso l’intervento alleato in Libia è stato favorito dalle notizie, rivelatesi poi infondate, di fosse comuni, massacri di bambini e stupri di massa compiuti dai soldati di Gheddafi. Il parallelo con la Libia non è azzardato non solo considerando la mole di disinformazione diffusa mediaticamente in questi mesi dai ribelli siriani ma anche analizzando le ultime dichiarazioni politiche nelle quali la nota di linguaggio sembra essere “proteggere i civili”. La stessa motivazione che animò l’intervento della Nato in Libia battezzato Operazione “Unified Protector”. In quel caso vennero protetti a suon di bombe e missili anche i molti civili che sostenevano il regime di Gheddafi e anche in Siria pare che buona parte dei civili stia con Assad o quanto meno non abbia intenzione di lasciare il proprio Paese in mano a milizie armate, bande irregolari e jihadisti.
Difficile dargli torto guardando all’attuale situazione libica e alle leadership occidentali impegnate ai consegnare Damasco agli islamisti.
“Come già in Egitto, in Siria i Fratelli musulmani sono riusciti ad appropriarsi della rivolta, fino a costituirne ora la spina dorsale”: questa la valutazione espressa dall’esperto israeliano, Jacques Neriah, in una analisi pubblicata dal Jerusalem Center for Public Affairs (Jcpa). “Negli ultimi mesi - nota Neriah (in passato consigliere del premier Yitzhak Rabin) - sono scesi in campo i Salafiti e altre piccole organizzazioni islamiche ''in una sollevazione orchestrata ed alimentata da al-Qaeda”. Il principale gruppo di opposizione, guidato dal leader in esilio, Burhan Ghalioun, sembra entrato in “un processo di disintegrazione”. Ghalioun - secondo Neriah - non è riuscito ad imporre la propria autorità sull'Esercito della libera Siria (Fsa). Il carattere radicalmente islamico della insurrezione è nel frattempo divenuto più marcato, grazie anche - secondo Neriah - all'intervento di combattenti islamici accorsi da Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia, Tunisia e anche da Paesi europei.
“La graduale trasformazione dell'opposizione siriana in un movimento diretto da musulmani estremisti, ispirato, alleato e coordinato con al-Qaeda non serve gli interessi dell'opposizione stessa in quanto - secondo Neriah - la maggioranza dei siriani non si identificano con quei radicali”.
http://cca.analisidifesa.it/it/magazine_8034243544/numero129/article_456471347486735456425416671454_7505023515_0.jsp
Eppure le truppe di Assad sono impegnate in veri e propri combattimenti contro ribelli appartenenti a gruppi diversi e spesso rivali ma che possono contare su armi sempre più moderne e che non si tratti di una guerra tra militari e civili indifesi lo si evince anche dal bilancio delle vittime redatto dall’Osservatorio dei diritti umani, emanazione dei rivoltosi, che ammette che su 13 mila morti oltre 3 mila erano militari di Assad e che molti dei più di 9 mila civili uccisi erano ribelli. Del resto non sarebbe la prima volta che eccidi e massacri, veri o “costruiti” ad arte, aprono la strada all’internazionalizzazione di un conflitto interno. Nel 1995 alla strage di Srebrenica seguì l’intervento dell’Alleanza Atlantica in Bosnia, nel 1999 le fosse comuni di Racak diedero il via all’intervento della Nato in Kosovo nonostante un team medico bielorusso avesse accertato che si trattava di cadaveri raccolti da più parti ai quali era stato sparato alla nuca post mortem. L’anno scorso l’intervento alleato in Libia è stato favorito dalle notizie, rivelatesi poi infondate, di fosse comuni, massacri di bambini e stupri di massa compiuti dai soldati di Gheddafi. Il parallelo con la Libia non è azzardato non solo considerando la mole di disinformazione diffusa mediaticamente in questi mesi dai ribelli siriani ma anche analizzando le ultime dichiarazioni politiche nelle quali la nota di linguaggio sembra essere “proteggere i civili”. La stessa motivazione che animò l’intervento della Nato in Libia battezzato Operazione “Unified Protector”. In quel caso vennero protetti a suon di bombe e missili anche i molti civili che sostenevano il regime di Gheddafi e anche in Siria pare che buona parte dei civili stia con Assad o quanto meno non abbia intenzione di lasciare il proprio Paese in mano a milizie armate, bande irregolari e jihadisti.
Difficile dargli torto guardando all’attuale situazione libica e alle leadership occidentali impegnate ai consegnare Damasco agli islamisti.
“Come già in Egitto, in Siria i Fratelli musulmani sono riusciti ad appropriarsi della rivolta, fino a costituirne ora la spina dorsale”: questa la valutazione espressa dall’esperto israeliano, Jacques Neriah, in una analisi pubblicata dal Jerusalem Center for Public Affairs (Jcpa). “Negli ultimi mesi - nota Neriah (in passato consigliere del premier Yitzhak Rabin) - sono scesi in campo i Salafiti e altre piccole organizzazioni islamiche ''in una sollevazione orchestrata ed alimentata da al-Qaeda”. Il principale gruppo di opposizione, guidato dal leader in esilio, Burhan Ghalioun, sembra entrato in “un processo di disintegrazione”. Ghalioun - secondo Neriah - non è riuscito ad imporre la propria autorità sull'Esercito della libera Siria (Fsa). Il carattere radicalmente islamico della insurrezione è nel frattempo divenuto più marcato, grazie anche - secondo Neriah - all'intervento di combattenti islamici accorsi da Afghanistan, Pakistan, Iraq, Libia, Tunisia e anche da Paesi europei.
“La graduale trasformazione dell'opposizione siriana in un movimento diretto da musulmani estremisti, ispirato, alleato e coordinato con al-Qaeda non serve gli interessi dell'opposizione stessa in quanto - secondo Neriah - la maggioranza dei siriani non si identificano con quei radicali”.
http://cca.analisidifesa.it/it/magazine_8034243544/numero129/article_456471347486735456425416671454_7505023515_0.jsp