L’attentato è stato rivendicato su Facebook da un gruppo islamico ribelle, Liwa al-Islam (La brigata dell’Islam). Un portavoce ha confermato la rivendicazione anche per telefono. Ma contemporaneamente anche il Libero esercito siriano si è assunto la responsabilità dell’azione, attraverso un portavoce. Secondo una fonte della sicurezza siriana, l’attentatore era una guardia del corpo del gruppo dirigente vicino ad Assad.
In Siria sta vincendo il più spregiudicato
da "Vietato Parlare"
E’ digustoso sentire ancora dire che in Siria c’è la guerra civile! Non c’è un popolo che è insorto, ci sono uomini sanguinari che altrove sono chiamati terroristi ma in quella terra no, sono combattenti della libertà. Altrove rapiscono persone come la Urru e giustamente oggi esultiamo che sia stata liberata. Tuttavia il rapimento ed il terrore è stato per mesi il metodo dell’esercito libero siriano che oggi ha rivendicato l’attentato, e nessuno ha parlato, no, si è sanzionato un intero popolo, si è affamato un intero popolo, centinaia di persone innocenti sono state uccise e terrorizzate, ciononostante la comunità internazionale appoggia e legittima chi ha fatto tutto questo, chi ha sprofondato un paese nell’anarchia e nel contrario della democrazia. I metodi e le azioni sono le stesse di chi ha fatto crollare le torri gemelle l’11 settembre. Come si può dire che dopo tutto questo le mani saranno pulite per realizzare la democrazia? Come si può dire che il cuore pieno di odio potrà essere guidato da pensieri nobili per il bene comune?
http://www.vietatoparlare.it/2012/07/18/in-siria-sta-vincendo-il-piu-spregiudicato/
da Avvenire 19 luglio
La minoranza alawita e i cristiani a rischio. La svolta violenta a Damasco Scenari inquietanti per il dopo Assad di Riccardo Redaelli
Le volute di fumo nero
che si sono alzate ieri dal centro di Damasco raccontano meglio di tante parole
la trasformazione dello scenario siriano e l’inizio di una nuova fase della
guerra civile nel Paese. Colpito al cuore il regime con l’uccisione di ministri
e parenti dello stesso presidente Assad, portata la rivolta nelle strade della
capitale, indebolita la rete di sostegno del sistema di potere alawita con la
fuga di altri generali, da ieri Assad è più fragile. Aumenta concretamente il
rischio di una implosione totale del suo sistema di potere. La natura del
sanguinoso attentato dimostra come i sedici mesi di rivolte abbiano fiaccato il
regime, assottigliando le forze di cui può effettivamente disporre, creato
varchi negli asfissianti sistemi di controllo e repressione, generato dubbi e
distinguo fra le fazioni al potere. I margini di manovra per il presidente si
riducono, tanto più se si considera la natura particolare del suo regime, che
non è tanto legato al partito ba’th, quanto alla piccola minoranza alawita, che
in questi decenni ha occupato tutti i gangli e gli interstizi del potere. In
molti, all’interno del regime, stanno probabilmente rimpiangendo di non aver mai
aperto dei canali con l’opposizione, quando ciò ancora era possibile. Ma
l’aumento delle violenze, il degenerare degli scontri in vera guerra civile, il
tipo di attacchi che ricorda sempre più le violenze jihadiste che per anni hanno
insanguinato l’Iraq, testimoniano anche la trasformazione del fronte di
opposizione ad Assad, la sua militarizzazione e radicalizzazione. In uno
scenario di questo tipo, appare pericolosamente illusorio pensare che la caduta
dell’attuale crudele regime possa portare a una transizione tutto sommato
indolore, in cui i partiti liberali siano in grado di traghettare il Paese verso
un modello democratico. A giocare un ruolo sempre maggiore sembrano i movimenti
sunniti radicali sostenuti – e armati – dai Paesi arabi del Golfo, attivissimi
in tutto il Medio Oriente post primavera araba nel dare appoggio ai salafiti,
cioè ai peggiori rappresentanti dell’islam. Molte delle forze che combattono
Assad dimostrano una violenza e una ferocia che spinge i gruppi lealisti a
resistere a ogni costo, dato che l’alternativa sembra quella di rassegnarsi a
subire una ritorsione brutale. E non si tratta solo degli alawiti. La Siria è
una nazione plurale e composita, in cui le diverse confessioni cristiane hanno
giocato un ruolo importante a ogni livello: basti pensare a Michel Aflaq, il
fondatore del nazionalismo pan-arabo. Ebbene, le incertezze e i timori per il
futuro stanno spingendo molti cristiani a cercare di lasciare il Paese. Ancora
una volta, come già in Iraq e come forse in Egitto, essi rischiano di vestire
gli scomodi panni dei vasi di coccio stritolati fra opposti estremismi. Il
rinvio della votazione all’Onu sul caso siriano, richiesta dallo stesso inviato
Kofi Annan, è stata una conseguenza ovvia, dato che la Russia, tanto più dopo
questo attentato, avrebbe osteggiato ogni risoluzione. Ma posporre semplicemente
la discussione non cambierebbe granché. E tempo invece di guardare a quanto
avviene in Siria con prospettiva meno dicotomica (buoni da una parte, cattivi
dall’altra) di quanto fatto finora, in particolar modo a Washington. Non si
tratta certo di difendere un governo criminale o immaginare un futuro politico
per un dittatore come Assad, ma tentare di rileggere la realtà siriana alla luce
dei mille disastri che abbiamo dovuto affrontare in Medio Oriente, dalla
tragedia irachena, al fallimento afghano, al pasticcio libico, all’anarchia
perdurante da vent’anni in Somalia. Abbattere con la violenza un dittatore,
sostenere una parte contro l’altra in una guerra civile, tanto più in società
plurali o frammentate, espone al rischio concreto di una violenza settaria che
trascina quel paese – e la sua regione – nel caos. Una Siria in cui gli alawiti,
i cristiani e le altre forze minoritarie siano ridotti al silenzio sarebbe una
Siria più debole, certo non più giusta o meno insanguinata.
da Il Sussidiario: Wazne (Al Jazeera): Al Qaeda pronta a impadronirsi delle armi chimiche di Assad intervista di Pietro Vernizzi
I ribelli sono arrivati a Damasco. Quanto è vicina la capitolazione di Assad?
L’escalation in Siria ha raggiunto un punto molto critico. Quella che sta avendo luogo è una vera guerra, ed è evidente che ci aspettano giorni estremamente duri. Prima che cambi realmente qualcosa, in Siria scorrerà ancora del sangue copioso. Il presidente Assad, nonostante le pesanti perdite riportate ieri, continua ad avere un esercito numeroso in grado di combattere per lui. Può fare affidamento su un numero di soldati tra le 100mila e le 200mila unità, il cui nocciolo duro è composto da alawiti che combatteranno fino all’ultimo.
Che cosa si aspetta dal voto alle Nazioni Unite di questa settimana?
L’Onu, l’Occidente e i Paesi del Golfo non sono stati in grado di gestire la situazione come avrebbero dovuto. Ciò di cui c’era bisogno era una piattaforma politica in grado di far sì che il governo e l’opposizione di riunissero attorno a un tavolo per discutere una soluzione che fosse accettabile per tutti. Purtroppo ormai è troppo tardi per un compromesso, e l’escalation di violenza è destinata a raggiungere il suo apice. Alla fine avremo un vincitore, ma nel frattempo quante altre migliaia di morti dovremo contare?
Quali saranno le conseguenze per i Paesi confinanti?
Quanto sta avvenendo in Siria è estremamente pericoloso per tutto il Medio Oriente e può portare a una guerra regionale. Sono diverse le nazioni che possono essere colpite, incluse Libano, Iraq, Israele e ovviamente l’Iran, per non parlare dei Paesi del Golfo. In una parola, l’intera regione sarebbe coinvolta se le cose dovessero sfuggire di mano, specialmente per il fatto che sappiamo che in Siria ci sono delle armi chimiche e batteriologiche.
E’ soltanto di propaganda, come nel caso dell’arsenale segreto di Saddam Hussein?
Sul fatto che Assad disponga di armi chimiche e biologiche non ci sono dubbi. Ritengo che il presidente non abbia intenzione di usarle, ma nessuno può dire in quali mani potranno finire nei prossimi giorni. Finché sono sotto il controllo dell’esercito siriano non rappresentano una minaccia, ma se dovessero impadronirsene alcune componenti dell’opposizione ci troveremmo di fronte a gravi rischi. Sappiamo che in Siria Al Qaeda non solo è presente, ma è coinvolta massicciamente nella lotta contro Assad.
Ieri è stato ucciso il ministro Rajha. Ritiene un caso che si sia trattato di una vittima cristiana?
Nelle ultime ore i ribelli hanno ucciso numerose persone, musulmane e cristiane. L’assassinio del ministro della Difesa, Dawood Rajha, non mirava quindi a colpire nello specifico una personalità cristiana, ma tutti coloro che sono sinceramente leali al presidente. L’operazione militare è stata condotta senza badare alle appartenenze religiose. La situazione delle minoranze, e in particolare dei cristiani, diventerà problematica in seguito, soprattutto nell’ipotesi di un collasso del regime.
In che senso?
In questa fase l’uccisione di Rajha rientra nel tentativo di scalzare Assad. Ma se il presidente dovesse perdere il potere, i cristiani si troverebbero in una posizione molto difficile. Il loro futuro sarebbe simile alla situazione della Chiesa in Iraq, e anche restare in Siria diventerebbe molto pericoloso per i non musulmani. Ciò che si verificherebbe sarebbe quindi un enorme esodo verso il Libano e probabilmente verso i Paesi occidentali. Le minoranze sarebbero marginalizzate e discriminate dall’attuale opposizione, se quest’ultima dovesse arrivare a controllare il Paese. Un’ipotesi però ancora lontana dal realizzarsi.
DICHIARAZIONE DELLA PRESIDENZA CCEE
SULLA SITUAZIONE IN SIRIA
Speriamo che le autorità del Paese, la popolazione e tutti i credenti, di qualunque religione essi siano, guardino a Dio e trovino il cammino che faccia cessare tutte le ostilità, deporre le armi e intraprendere la via del dialogo, della riconciliazione e della pace. Questo conflitto non può che portare con sé inevitabilmente lutti, distruzioni e gravi conseguenze per il nobile popolo siriano. La guerra è una via senza uscita. La felicità non può che essere raggiunta insieme, mai nella prevaricazione degli uni contro gli altri.