E questo bel risultato a chi lo
dobbiamo? La risposta è tanto semplice quanto negata: gli USA e i
loro proxi in Medio Oriente con un pretesto sempre diverso hanno
sfruttato, quando non direttamente creato, addestrato e finanziato,
sia l'ISIS che le altre milizie Jihadiste in Iraq e in Siria (e
altrove) in funzione destabilizzatrice, per arrivare a cambi di
regime e alla predazione delle risorse di questi Paesi. Quel 'caos
creativo' tanto caro ai neoconservatori di cui era punta di diamante
il senatore Mc Cain, “eroe del Vietnam” recentemente scomparso.
C'è però un altro genere di seme che
è stato abbondantemente sparso in queste terre: si tratta del sangue
dei Martiri Cristiani che da sempre rigenera la vita e il futuro
delle comunità e delle nazioni. Secondo molte testimonianze ci sono
anche tante conversioni dall'Islam al Cristianesimo che per ovvie
ragioni non vengono palesate e pubblicizzate; un differente Fuoco di
tipo spirituale cova e c'è solo da sperare che divampi con nuovi
frutti di tolleranza e di pacifica convivenza e collaborazione.
E' avvenuto nei secoli e può
riaccadere oggi e nei giorni a venire.
Questa è la nostra speranza e la
nostra preghiera.
Gb.P. , OraproSiria
A Venezia il futuro dello Stato
islamico
Presentato fuori concorso il 30 agosto
alla 75.ma Mostra del Cinema di Venezia, un documentario su Mosul
(Iraq) dopo il passaggio dell'Isis. I semi dell'odio germoglieranno
ancora.
Isis, Tomorrow. The Lost Souls of Mosul
«L’Isis è pronto a rinascere. Con i bambini». Non hanno il minimo dubbio Francesca Mannocchi e Alessandro Romenzi, rispettivamente giornalista e fotografo collaboratori del settimanale L’Espresso, nonché autori e registi del documentario Isis, Tomorrow - The Lost Souls of Mosul, presentato fuori concorso alla settantacinquesima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. «Oggi lo Stato islamico cova sotto la cenere. Indottrinando i mujahiddin del futuro».
Che cosa è rimasto del Califfato dopo la liberazione di Mosul, il bastione dell’Isis in Iraq? Ma, soprattutto, quale futuro avranno gli orfani e le vedove dei miliziani che si sono immolati per la causa? Padri e sposi che alcuni figli e mogli hanno ammirato e non smetteranno mai di ricordare come degli eroi.
«Amavo
mio marito. Molto», racconta
una vedova,
mostrando le foto del coniuge con un fucile in mano, una sorta di
cartoline «dalla terra del Jihad».
«Lo vedevo così convinto che poi mi sono convinta anch’io. Lui
combatteva in nome dell’Islam. Come è scritto nel Corano:
“Combattete i miscredenti dovunque li troviate”. Noi siamo
cresciuti credendo in questo».
«Vedove
reiette, stigmatizzate, dolenti ma non pentite, che stanno diventato
reclutatrici involontarie dei loro stessi figli, nati
per diventare martiri,
nati per essere il futuro del Califfato», aggiungono i due autori e
registi del documentario. «I semi dell’Isis sono già a Mosul.
Sono i bambini, l’arma più potente del Califfo. Il mattone più
solido del progetto».
Ancora: come
si sta comportando l’Iraq nei
confronti di questi orfani e di queste vedove? E come tratta i
bambini e le vedove civili che hanno perso i propri genitori e i loro
mariti, decapitati, fucilati o lapidati nelle piazze?
«Ovunque
vada mi gridano “Sei dell’Isis, sei dell’Isis”», racconta un
ragazzo. «Mi dicono che sono un
figlio dell’Isis.
Mi insultano. Se fossimo morti sarebbe andata meglio. Perlomeno non
ci direbbero che siamo dell’Isis». «Gli occhi di tutti sono
puntati su di noi», racconta un’altra donna. «Ci trattano come
dei prigionieri di guerra. Un uomo mi ha minacciata: “Daremo fuoco
alle vostre tende”. Gli ho risposto: “Invece di bruciare le
tende, perché non ci metti tutti in fila, donne e bambini, ci uccidi
e ti vendichi?”».
Sul
versante opposto, un bambino iracheno racconta: «Mio zio e mio
cugino sono stati uccisi dall’Isis. C’erano
dei bambini con loro. Moltissimi bambini. Hanno imparato a
combattere e
a chiamare le persone “apostata” o “infedele”. Ho visto
bambini della mia età, più grandi e più piccoli impugnare le
armi». «Una volta, mia madre non era vestita nella maniera
corretta, hanno cominciato a frustarla sulla schiena, davanti a
tutti. Ero lì assieme a lei. Se avessi potuto, li avrei uccisi. Se
fossi stato armato, avrei sparato. Spero che Dio faccia giustizia.
Spero che vengano uccisi loro e le foro famiglie».
«La
vendetta regola le azioni e le valutazioni. E in questo, ahimè,
niente di nuovo quando si parla di guerra e dopoguerra», soggiungono
la Mannocchi e Romenzi. «Perché li considerano perduti, perché
rischiano di diventare peggiori dei padri, perché il
degrado del dopoguerra non può che abbruttirli,
perché i sopravvissuti saranno marchiati per sempre e quel marchio
che all’inizio sarà un’onta negli anni diventerà un segno di
riconoscimento, un fattore unificante, una ideale medaglia alla
continuità del progetto del Califfato».
Per
raccontare quello che sta succedendo a Mosul «abbiamo
cercato la fiducia dei colpevoli»,
spiegano i due autori e registi, già alle prese con un’inchiesta
su questo argomento pubblicata sull’Espresso a metà agosto, «e ci
siamo posti, senza pregiudizi, in loro ascolto».
Il
documentario «nasce dall’esigenza
di riportare un grado di complessità alla natura di fenomeni
ampi che
condizionano la vita quotidiana di milioni di persone»,
proseguono. «Nasce poi dall’urgenza di raccontare qualcosa
che è già sotto i nostri occhi, ma resta scientemente ignorato».