È braccio di ferro fra l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) e il governo libanese. Secondo un comunicato stampa del ministro libanese per gli Sfollati, il druso Issam Charafeddine, il responsabile dell’ufficio libanese dell’Unhcr Ayaki Ito ha fatto sapere che la sua organizzazione respinge il piano per il rimpatrio di un milione e mezzo di profughi siriani che si trovano sul suolo del Libano e che il governo libanese dimissionario di Nagib Mikati dice di poter riaccompagnare in Siria in forza di un accordo di massima con quello di Damasco. Ne ha dato notizia martedì 12 luglio Al-Souria Net, agenzia di stampa con sede in Turchia, vicina agli ambienti dell’opposizione armata siriana.
«Un piano necessario»
Il piano per il rimpatrio di 15 mila profughi siriani al mese dal Libano era stato reso noto mercoledì 6 luglio da Charafeddine in una dichiarazione alla Associated Press. «Siamo molto seri circa l’implementazione di questo piano e speriamo di renderlo esecutivo nel giro di alcuni mesi », aveva dichiarato il ministro. «Questo è un piano umano, onorevole, patriottico ed economico che è necessario al Libano».
Il Libano è lo stato col più alto numero di rifugiati siriani in rapporto alla consistenza della popolazione locale. Nel paese risiedono abitualmente 4 milioni e 600 mila di cittadini di passaporto libanese, più un numero di rifugiati palestinese molto contestato, che dovrebbe nella realtà ammontare a 260-280 mila. Questo significa che in Libano ogni tre cittadini libanesi si incontra un siriano.
Fra il 2012 e il 2020 la comunità internazionale ha speso in Libano l’equivalente di 9 miliardi di dollari per i profughi siriani, sia attraverso enti Onu che attraverso Ong. L’insofferenza locale nei confronti dei siriani è cresciuta man mano che la situazione economico-finanziaria del Libano peggiorava, fino alla bancarotta del marzo 2020, quando il paese per la prima volta non riuscì a ripagare una rata del suo debito estero.
Oggi le cose vanno peggio di due anni fa, con un’inflazione superiore al 220 per cento su base annua, un tasso di disoccupazione del 30 per cento e un’abissale svalutazione della lira libanese, che ha perso il 90 per cento del suo valore fra il 2019 ed oggi: in quell’anno un dollaro si scambiava contro 1.500 lire libanesi, oggi ce ne vogliono 20.500.
I libanesi restano tuttavia più agiati dei loro ospiti siriani: i tassi di povertà relativa e assoluta fra i primi sono saliti rispettivamente al 55 e al 23 per cento negli ultimi anni, ma restano distanti dal 90 per cento di estrema povertà fra i secondi, anch’essi precipitati dopo il 2019.
Spendere meno per i sussidi
Per ottenere nuovi prestiti dal sistema internazionale il Libano deve riformare la propria politica fiscale e finanziaria, e uno dei capitoli su cui si chiede alle autorità di intervenire è quello dei sussidi: secondo il ministro delle Finanze, Ghazi Wazni, lo Stato spende ben 6 miliardi di dollari all’anno per sovvenzionare generi alimentari, benzina e altri consumi energetici. Evidentemente nelle stanze del potere si pensa che sfoltire la popolazione del paese allontanando gli sfollati siriani permetta di spendere meno nei sussidi, che andranno comunque tagliati.
Un altro motivo inconfessato che starebbe dietro al programma di rimpatrio sarebbe quello di salvaguardare l’equilibrio fra le comunità religiose del Libano, sbilanciato dall’afflusso di siriani quasi tutti musulmani sunniti. Sta di fatto che sul progetto di riaccompagnare i profughi nella Siria da cui provengono sono d’accordo tanto il capo di Stato uscente Michel Aoun, cristiano maronita che fa parte della coalizione del 14 marzo, quanto il primo ministro uscente Mikati, sunnita. Un sunnita, però, ben visto dagli Hezbollah sciiti e dal loro alleato cristiano Aoun
Profughi o sfollati?
Il piano era in elaborazione dal marzo scorso, affidato a un comitato formato dal capo del governo Mikati, il ministro per gli Sfollati Charafeddine, sei altri ministri e i responsabili della Pubblica Sicurezza in Libano. I primi attriti con la comunità internazionale si erano avuti nel maggio scorso a Bruxelles in occasione della sesta conferenza internazionale sugli aiuti ai profughi siriani. Lì i paesi occidentali e gli enti Onu avevano manifestato la loro contrarietà al rimpatrio dei siriani, e auspicato che il Libano decidesse di integrarli.
Si trattava di un suggerimento del tutto inaccettabile per un paese come il Libano, che non ha mai firmato la Convenzione Onu sui rifugiati del 1951 proprio per non essere costretto a naturalizzare cittadini stranieri, che per etnia e religione avrebbero potuto squilibrare l’assetto nazionale organizzato attorno alle 18 comunità religiose presenti nel paese. Il Libano considera i profughi sul suo territorio come “sfollati” che a termine dovranno tornare al loro paese d’origine.
Subito dopo la conferenza di Bruxelles il capo del governo Nagib Mikati aveva dichiarato alla presenza di numerosi diplomatici che il Libano avrebbe potuto essere costretto a prendere misure «che non piaceranno» alla comunità internazionale. Il 20 giugno Mikati tornava alla carica in occasione della presentazione del “Piano di risposta alla crisi del Libano 2022-2023″, minacciando che il Libano si sarebbe adoperato per rimuovere i rifugiati siriani dal suo territorio «con mezzi legali» se la comunità internazionale «non avesse collaborato per rimpatriarli in Siria».
«Noi andremo avanti»
Nelle ultime settimane a gestire mediaticamente la questione è stato il ministro Charafeddine, druso del Partito democratico libanese alleato della coalizione 14 marzo e avversario della famiglia Jumblatt che dirige l’altro partito druso, il Partito socialista progressista. È stato lui a spiegare che il piano avrebbe previsto 15 mila rimpatri al mese.
Nella sua intervista del 6 luglio ha inoltre criticato l’Unhcr e i paesi donatori per la loro indisponibilità a concentrare i loro aiuti sul territorio siriano, indisponibilità che contribuirebbe a trattenere in Libano i profughi siriani, precisando: «Qualunque sia la posizione dell’Unhcr, noi andremo avanti col piano». E annunciando per la settimana seguente (cioè quella attualmente in corso) un incontro col ministro siriano delle amministrazioni locali e dell’ambiente Hussein Makhlouf. L’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati si è limitata a dichiarare di non aver avviato negoziati con Beirut e Damasco sul rimpatrio dei rifugiati.
La Siria nella Lega Araba
Sullo sfondo del braccio di ferro fra Onu, Ong e paesi occidentali da una parte, governo e presidente libanesi uscenti dall’altra c’è anche la questione dei rapporti col governo siriano. Le attuali autorità libanesi sono favorevoli alla riammissione del governo di Damasco nella Lega Araba, così come i governi di Algeria, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Giordania. Ma senza l’unanimità l’obiettivo non è raggiungibile.
Secondo il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour in occasione di una recente visita del ministro degli Esteri siriano Faisal Moqdad ad Algeri le autorità algerine avrebbero espresso il loro desiderio di invitare alla prima riunione della Lega Araba post-Covid, che si terrà ad Algeri nell’ottobre prossimo, rappresentanti del governo siriano.