Vescovo di Aleppo: poco attendibili le voci sullo jihadista decapitato da un soldato assiro. E i cristiani non giustificano mai la vendetta con argomenti religiosi
Agenzia Fides 30/5/2015
Il Vescovo Georges Abou Khazen OFM, Vicario apostolico di Aleppo per i cattolici di rito latino, considera “poco attendibili e comunque non verificabili” la voce diffusa da Londra dal Syrian Observatory for Human Rights e rilanciata dai media inglesi secondo cui un miliziano jihadista affiliato allo Stato Islamico (Is) sarebbe stato decapitato “per vendetta” da un soldato cristiano assiro, dopo essere stato preso come prigioniero nella provincia siriana nord orientale di Jazira. Secondo l'organizzazione operante a Londra, il soldato cristiano avrebbe catturato il combattente jihadista a Tal Shamiram, uno dei villaggi della valle del Khabur recentemente abbandonati dalle milizie dello Stato Islamico dopo un' occupazione durata più di 3 mesi e tornati sotto il controllo delle formazioni militari curde e assire. Una volta scoperta l'appartenenza del prigioniero alle milizie jihadiste, il soldato assiro lo avrebbe decapitato “per vendetta davanti agli abusi compiuti da quel gruppo nella regione”.
La vicenda è presentata in termini generici, senza precisarne i dettagli o senza citare i nomi dei protagonisti e degli eventuali testimoni.
“La manipolazione dell'informazione” fa notare a tale proposito il Vescovo Abou Khazen “è anche essa uno dei mezzi usati per moltiplicare le violenze e gli orrori di questo conflitto. E alcune centrali sono specializzate in manipolare le cose per fomentare o giustificare rappresaglie. In questo caso” prosegue il Vescovo francescano “sappiamo che più di 230 cristiani assiri sequestrati nei villaggi del Khabur sono ancora ostaggi dei jihadisti. Solo uno sconsiderato potrebbe aver compiuto un gesto del genere, quando gli altri sono in pericolo, e tutto può essere preso a pretesto per giustificare ritorsioni. E soprattutto” aggiunge il Vicario apostolico di Aleppo “noi cristiani non giustifichiamo alcuna vendetta o violenza con argomenti religiosi. L'unica vendetta che conosciamo è il perdono, per essere anche segno di luce per tutti, e mostrare che ci sono alte vie da percorrere. Le vendette approfondiscono solo le ferite, e allungano la spirale dell'odio” .
Il Vescovo Abou Khazen conferma che “questo sentimento si ritrova in tutti i cristiani, soprattutto nei più semplici, che vivono le sofferenze come agnelli in mezzo ai lupi: sono loro i primi a ripetere che il circolo perverso della violenza e della vendetta va interrotto da qualcuno, e questa è l'unica strada per non soccombere e aprire strade di riconciliazione”.
Abou Khazen conferma all'Agenzia Fides che nella parrocchia latina della città di Aleppo, tra tante difficoltà e sofferenze, i padri e i loro collaboratori hanno comunque aperto il “campo estivo” per i bambini e i ragazzi: “E' un segno di speranza, in questa città martire. E' un'occasione per dare un po' di sollievo a tanti poveri bambini, permettere loro di uscire dalle case dove vivono costantemente reclusi, e dove spesso manca anche la luce e l'acqua”.
Come
Associazioni che seguono da vicino la crisi siriana abbiamo da tempo
documentato questo stato di cose. Oggi in prossimità del 'punto di
non ritorno' poniamo alcune domande evitate accuratamente dai governi
e dalla grande stampa (che sembra essere diventata anzichè una
garanzia democratica per i cittadini il contro-coro del potere).
Rivolgiamo un appello a tutte le persone oneste del nostro paese, di
ogni colore politico e credo religioso. Aiutateci,
fate sentire la vostra voce in ogni ambito, affinchè i nostri
governi occidentali si trovino a dover giustificare questo loro
immorale comportamento. Aiutateci
perchè si interrompa una politica dissolutrice che soddisfa solo le
alleanze dei paesi arabi produttori di petrolio ( fondate solo sul
tornaconto economico) e che mira a costruire un mondo le cui rovine
sono oggi anticipate davanti ai nostri occhi e che, vediamo
chiaramente, non è fatto di giustizia e di progresso.Non
possiamo tacere. Nessuno può tacere davanti a tutta questa
devastazione, agli stermini di massa e al grido
disperato che si leva da quelle regioni in cui l'occidente , anzichè operare per la pace
e la riconciliazione, arma ed addestra e rifornisce chi perpetua la
devastazione ed infligge nuovi lutti e sofferenze alla popolazione
civile.
DUNQUE
L’OCCIDENTE VUOLE CHE L’ISIS PRENDA SIRIA, IRAQ, YEMEN…?
L’evidente
incapacità della sedicente “coalizione internazionale anti-Isis”
di fronte all’avanzata dei terroristi in Siria e in Iraq è forse
frutto di una strategia? Il ministro Alfano ha detto in
Parlamento: “Facciamo parte della grande comunità occidentale che
combatte al meglio il terrorismo”. Doveva dire: “la comunità
occidentale che aiuta al meglio il terrorismo”...
Come
mai l’Italia non vede quel che sta succedendo a Palmira e in tante
altre parti della Siria dove
l’avanzata dei terroristi lascia una scia di assassini settari?
Come mai non vede che se le forze jihadiste prenderanno il paese, la
mattanza in corso si estenderà dappertutto assumendo dimensioni
inimmaginabili di vendetta settaria e catastrofe umanitaria? Presto
non ci sarà un luogo dove fuggire. L'unica forza residua che può
contrastare questa funesta prospettiva è il governo e l’esercito
siriano, in grave difficoltà per la mancanza di rifornimenti e la
scarsità di uomini. Quindi volenti o nolenti esortiamo i governi
coinvolti a far prevalere la ragione. Bisogna mettere da
parte ogni considerazione di natura politica e salvaguardare la vita
umana: il pericolo che incombe non è solo un pericolo per i siriani
è un pericolo per tutti, è il pericolo che diciamo a parole di
fronteggiare anche nei nostri paesi. Bisogna togliere dall'agenda la
'non soluzione' di rovesciare il governo, sorpassata abbondantemente
dagli eventi ma che inopinatamente è ancora l'obiettivo numero uno
della coalizione occidentale e delle monarchie del Golfo. L’azione
delle autorità siriane va appoggiata, non boicottata.
Perché
invece l’Occidente lavora per indebolire l’esercito siriano,
avversario dell’Isis, addestrando
i gruppi armati islamisti – lo fanno gli Usa in Turchia e Giordania
con la coalizione di salafiti, al Nusra, Fratelli musulmani detta
Esercito della Conquista che controlla Idlib
(http://www.analisidifesa.it/2015/05/i-nostri-amici-dello-stato-islamico/)?
Perché l’Italia
e i paesi occidentali non interrompono le collusioni dirette e
indirette che favoriscono l’avanzata delle forze jihadiste in Siria
e Iraq, dove
diversi membri della sedicente coalizione
anti-Isis (Arabia saudita, Turchia, Qatar, Stati uniti) continuano ad
appoggiare l’avanzata di gruppi terroristi rifornendoli di armi e
denaro, facendoli passare attraverso le frontiere,
addestrandoli (http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=2687)?
Perché il
sedicente “Gruppo di lavoro per il contrasto al finanziamento
dello Stato islamico” presieduto
da Arabia Saudita, Italia e Stati Uniti
(http://www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/comunicati/2015/03/costituzione-del-gruppo-di-lavoro.html)
non fa nulla, o peggio? Doveva contrastare lo sfruttamento delle
risorse della regione (petrolio, beni archeologici, depositi bancari
trafugati), interrompere il flusso di fondi dall’estero (donazioni
o riscatti). Ha forse fatto il contrario? L’Isis ottiene quel che
vuole ed “esporta” petrolio. A chi?
Perché
l’Italia non si è opposta ai bombardamenti dell’Arabia
saudita sullo Yemen che
hanno causato moltissimi morti civili e danni enormi, favorendo
l’espandersi di al Qaeda? Perché l’Italia continua a essere
complice della distruzione di interi paesi?
La testimonianza di un medico dei Maristi di Aleppo e l’appello al Santo Padre : ‘solo Lei ci può salvare’
Intervista realizzata dal 'Coordinamento per la Pace in Siria' a Nabil Antaki, medico e direttore di uno degli ultimi due ospedali funzionanti ad Aleppo. Nabil Antaki appartiene alla congregazione dei Maristi blu, che conta tra i suoi membri sia laici che religiosi. Quando la guerra ha investito Aleppo nel maggio 2012 lui ha deciso di rimanere con la moglie. «La Siria è il nostro Paese, le nostre radici sono qui. È qui che possiamo fare il nostro dovere e rendere il nostro servizio».
Dottor
Nabil, sulla base di quanto a lei consta, cosa pensate dei reports di
Amnesty International e di Medici senza frontiere, che parlano di una
Aleppo distrutta (compresi diversi ospedali) dai barili bomba
dell'esercito siriano?
Aleppo
è divisa in due parti, la parte est con 300.000 abitanti è nelle
mani dei gruppi armati e la parte ovest con 2 milioni di abitanti è
sotto il controllo dello Stato siriano; lì viviamo e operiamo noi.
Noi non sappiamo quello che accade nell'altra parte della città,
dunque io non posso né confermare né smentire, ma so due cose. La
prima è che noi siamo
bombardati quotidianamente dai ribelli e molti ospedali dalla nostra
zona della città sono stati distrutti, bruciati o danneggiati dalla
loro azione. La seconda è che siamo in una situazione di guerra ed è
possibile che le bombe sganciate dall’esercito siriano abbiano
toccato un ospedale, ma sicuramente non in modo intenzionale. Gli
statunitensi e gli occidentali con le loro armi tanto sofisticate
hanno spesso mancato i loro bersagli e causato dei ' danni
collaterali '…Ciò che rimprovero a Medici senza frontiere è che
danno conto delle sofferenze solo dell'altro lato della città, la
parte ribelle, e mai delle sofferenze della nostra parte. I loro
rapporti sono parziali.
Cosa
pensate della proposta di Sant'Egidio e dell'ex ministro Riccardi di
fare di Aleppo una “città aperta” e anche di introdurre una no-
fly-zone?
L'iniziativa
di Sant'Egidio era buona quando fu lanciata, nel luglio 2014. Allora
l'acqua era stata tagliata in Aleppo (dai gruppi armati) per ben 70
giorni consecutivi. Bisognava “salvare Aleppo” in primis. Ora
questa iniziativa è superata. Noi non abbiamo più bisogno che
Aleppo sia dichiarata città aperta e che siano aperti dei corridoi
umanitari. Benché la situazione sia cattiva, Aleppo non è più
sottoposta a un blocco come un anno e mezzo fa. Le persone e i
prodotti entrano ed escono attraverso una strada che l’esercito ha
aperto 17 mesi fa. I viveri entrano, nessuno muore di fame anche se
l'80% della popolazione deve ricevere un aiuto alimentare. Sì, la
città è accerchiata ma c'è sempre questa strada che ci collega
all'esterno. La città è danneggiata ma le persone continuano a
vivere adattandosi alla penuria di acqua, di elettricità --- Dunque,
attualmente i vantaggi della proposta di Sant'Egidio sono meno
importanti che il pericolo rappresentato da una no-fly-zone e da una
forza di interposizione, che avvantaggerebbero i gruppi armati e
metterebbero la città e i suoi abitanti in pericolo, alla mercè di
Daesh e al Nusra.
Perché
anche i gruppi cristiani sul luogo esitano a parlare delle cause
della loro sofferenza?
Avete
ragione quando dite che parliamo soltanto della sofferenza degli
aleppini e non delle cause.Lo
facciamo per molte ragioni. Uno: per essere ascoltati dall'opinione
pubblica occidentale che è stata a tal punto disinformata che le
dichiarazioni in ambito politico che dicono la verità non sono
neppure lette, ascoltate, prese in considerazione. Dunque, a partire
dalle sofferenze degli aleppini e dei siriani, riusciamo almeno a far
passare il messaggio che i ribelli armati sono responsabili della
sofferenza dei siriani o, perlomeno, corresponsabili. Quanti amici
intimi occidentali ho perso, all'inizio degli avvenimenti, perché io
dicevo loro la verità sulle interferenze esterne! Essi mi
rispondevano: voi arabi, vedete complotti ovunque! Adesso utilizzo
un'altra tattica: non parlo più di complotto o di piano
prestabilito, ma dico che ciò che era accaduto e che accade
attualmente in Siria non era affatto spontaneo… E ora il mio
discorso è accettato. L'importante è far passare il messaggio. In
secondo luogo, le persone hanno paura per le loro vite e dunque
parlano soltanto delle sofferenze e non delle cause e dei
responsabili delle nostre disgrazie. Hanno paura di essere uccisi. È
più facile parlare quando si vive all'esterno della Siria.
Cosa
pensate dei media che parlano di Aleppo e della Siria? Perché essi
credono a fonti non affidabili? Perché per esempio descrivono come
angeli i cosiddetti “elmetti bianchi” di al Nostra?
I
giornalisti che ci intervistano orientano sempre l'intervista verso
il piano umanitario e rifiutano che si parli di altre cose. E
tuttavia, noi tentiamo di dire la verità. In tutti i miei scritti io
dico che noi siamo bombardati dai gruppi armati ribelli che ci
lanciano mortai, razzi e bombole di gas riempite di esplosivi e
chiodi. Dal 2011, i siriani hanno compreso che ciò che accadeva non
era una rivoluzione per portare in Siria una maggiore democrazia, un
maggior rispetto dei diritti umani e minor corruzione. I siriani
sapevano, fin dall'inizio, che la “primavera araba” era il nome
nuovo del “caos costruttivo” di Condoleeza Rice e del “nuovo
Medio-Oriente” dell'amministrazione Bush e che questa “primavera”
in Siria sarebbe sfociata o nel caos e nella distruzione del paese o
in uno Stato islamico. Disgraziatamente, le due alternative forse
riusciranno entrambe.
Per
tornare ai media occidentali, essi non hanno che una sola fonte di
informazione, l'Osservatorio siriano dei diritti dell'uomo basato a
Londra, che nasconde, sotto un nome molto credibile, un centro di
diffusione della disinformazione.
Il
giorno di preghiera per la Siria organizzato dal Papa Francesco nel
settembre 2013 è stato molto importante, ha contribuito a evitare
gli imminenti bombardamenti statunitensi in seguito alla
disinformazione sulle armi chimiche a Ghouta. Cosa pensate che egli
potrebbe fare ora? Cosa dirgli?
DireiaPapa
Francesco: fin dal primo giorno del vostro pontificato, i siriani L’hanno
amata e hanno adottata. Le Sue svariate dichiarazioni, omelie,
tweets, sono tanto apprezzati e diffusi tra di noi. Noi sentiamo che,
in Lei, il Vangelo è al centro di tutto, sfidando la burocrazia e il
politicamente corretto di una falsa diplomazia.
Lei
ha domandato più di una volta ai cristiani di Siria (e del Medio
Oriente) di non lasciare la terra dei loro antenati, di restare
attaccati alle loro radici per dare un senso alla loro appartenenza e
alla loro presenza in Siria. È esattamente ciò che il mio gruppo e
io stesso ci sforziamo di fare da decenni (in allegato un video realizzato ormai vent'anni fa *)
Diverse
organizzazioni cattoliche internazionali (e molte Ong tra cui la
nostra) fanno del loro meglio per dare sollievo alle sofferenze dei
siriani e in particolare dei cristiani sul piano umanitario.
Santo
Padre, La imploriamo di fare ancora di più. Le
dichiarazioni, il sollievo alle sofferenze, l'incitazione a restare
nel paese non hanno impedito alla metà dei cristiani di Aleppo di
andarsene definitivamente. I cristiani di Siria hanno una duplice
paura: temono fisicamente i fanatici islamisti di Daesh, e hanno
anche paura di perdere il loro futuro e quello dei loro figli a forza
di pazientare e di aspettare la fine del conflitto. Se si vuole che
l'altra metà dei cristiani rimanga, bisogna fermare la guerra.
Noi
La imploriamo di usare la Sua autorità morale, il Suo prestigio
incontestabile per fare pressione sui diversi governi affinché
cessino di armare e di finanziare i gruppi armati, perché lottino
effettivamente contro Daesh e perché facciano fermare il passaggio
dei terroristi attraverso le nostre frontiere del Nord.
Perché
una soluzione politica negoziata possa riuscire, bisognerebbe che
l'opposizione accetti l'attuale governo della Siria, perché non si
può negoziare con qualcuno di cui si esige, come precondizione,
l'eliminazione.
Santo
Padre, solo Lei può fare qualche cosa per fermare la
distruzione del nostro bel paese, per far cessare la morte di
centinaia di migliaia di esseri umani e per permettere ai cristiani
di Siria di restare, o di ritornare, nel loro paese.
Intervista a don Alejandro Leon, salesiano di Damasco
Don Alejandro si occupa di un centro giovanile a Damasco e come tutti i religiosi di Siria è in mezzo ai suoi fedeli anche in queste ore difficili in cui i miliziani di Isis sembrano avvicinarsi minacciosamente alla capitale.
ilsussidiario.net.
Don Leon, lei conosceva di persona il sacerdote rapito, padre Murad?
Non di persona, ma il suo nome era noto. Il suo prodigarsi per i suoi fedeli e non solo era ben noto in Siria.
Ha idea di chi ci sia dietro a questo rapimento?
No, non ho idea, ma in Siria non vengono rapiti solo i preti, i cristiani siriani rischiano la vita ogni giorno, siamo tutti in pericolo allo stesso modo. E' una situazione di pericolo, la nostra, che vive tutto il popolo.
Dopo la caduta di Palmira la situazione è ancora più difficile. La gente fugge di casa?
Sì, tanta gente fugge. Tutto il nord, tutta la zona di Aleppo è nelle mani dell'Isis e tutti sappiamo cosa fa questa gente quando conquista una città, uccide e fa violenze terribili. Quando si avvicinano a un villaggio è logico che la gente fugga, ha paura di essere uccisa.
Adesso si sono avvicinati ulteriormente a Damasco. Come vivete questa situazione?
Con tanta paura. Ci sono sempre più missili che arrivano sulla città, armi sempre più potenti, i miliziani dispongono, è evidente, di armi nuove e sempre più distruttive.
Il rapimento di padre Jacques che si era rifiutato di lasciare la sua comunità, riporta in primo piano la testimonianza di voi religiosi in Siria.
Non è nulla, è il minimo che possiamo fare. Quella che voi chiamate testimonianza da parte di noi religiosi in Siria, è solo il minimo che possiamo fare, è un obbligo con la nostra coscienza di religiosi, con l'impegno che abbiamo preso. Come cristiani prima che come religiosi, noi rimarremo qui, con la nostra gente.
Vi sentite abbandonati dall'occidente?
Sappiamo che c'è tanta gente che ci accompagna, con la preghiera e l'aiuto economico, tante persone preoccupate per noi, ma da voi in occidente c'è anche tanta disinformazione, tanta manipolazione delle notizie.
In che senso?
Chi ha il potere in occidente manipola l'informazione e non dice la realtà di quello che succede qui.
Cosa vorreste che si dicesse?
Semplicemente la verità: che i governi occidentali continuano ad appoggiare e aiutare la gente sbagliata.
Intende che l'occidente avrebbe dovuto appoggiare Assad?
Esattamente, con lui la situazione non era certo questa, la libertà religiosa era rispettata. I governanti occidentali dovrebbero togliere le sanzioni contro di lui, ad esempio.
Come vivono i cristiani di Damasco questa situazione?
Non è uguale per tutti, non tutti sanno vivere queste prove che sono molto forti. Il centro giovanile di cui mi occupo ospita circa 650 ragazzi e non c'è uno di loro che non abbia perso almeno un parente o un vicino di casa. Tutti sono toccati dalla guerra e c'è chi vive crisi di fede. Ma in generale questa situazione ci ha spinti a essere più autentici, a cogliere maggiormente l'essenziale, che vuol dire Cristo. Tanta gente soffre duramente, ma la comunità cristiana adesso ha una fede più forte, il sentimento che prevale è la testimonianza di fede del popolo che è molto forte.
Cosa vorrebbe dire ai cristiani d'occidente?
Io ringrazio di cuore tutti, perché so che tanta gente con la preghiera e gli aiuti che ci possono inviare sono con noi. Ma bisognerà che questa testimonianza, anche se so che è molto difficile, questo sentimento popolare arrivi a chi ha il potere.
I vostri governanti appoggiano la parte sbagliata, continuano a vendere armi o a comprare il petrolio di contrabbando perché più economico. Qualcuno in occidente lo compra e questi sono soldi che servono per uccidere i cristiani di qui. Se il vostro popolo facesse la voce più forte per noi sarebbe una grande cosa.
a orchestrare l’espulsione dei cristiani dal Medio Oriente sono i Paesi della regione da sempre allineati con l’Occidente
VATICAN INSIDER, Intervista di gianni valente
«Forse rimarremo in pochi. Ma rimarremo. Anche se ci imporranno di pagare la Jizya, la tassa di sottomissione». È vescovo nella città martire di Aleppo, il gesuita Antoine Audo. E vescovo della Chiesa caldea, la comunità cattolica orientale più decimata dall'emorragia di fedeli innescata dalle convulsioni mediorientali degli ultimi decenni.
Lei ha detto che nei conflitti in Medio Oriente c'è chi usa anche le sofferenze dei cristiani per nascondere le dinamiche reali delle guerre.
L'allarme ricorrente sui cristiani perseguitati può essere letto da almeno due punti di vista.
In certi ambienti c'è una propaganda intensa che punta a aumentare la paura indistinta dell'Occidente nei confronti dell'islam, per suscitare la spinta emotiva popolare e così giustificare un maggior controllo sugli ambienti musulmani, soprattutto in Europa.
Dall'altro, ci sono Paesi della regione che con il loro islam wahhabita e l'ansia di rivalse storiche verso la cristianità non riescono a sopportare nemmeno l'idea di una presenza dei cristiani in Medio Oriente. Queste due logiche, per paradosso, si sostengono l'una con l'altra, e convergono fatalmente nello spingere i cristiani fuori da tutta la regione. In Siria non era così. E anche adesso è falso presentare il conflitto siriano come una guerra tra cristiani e musulmani. Ma è questo il messaggio che vogliono far passare, perché fa comodo a tutti.
Il tema della persecuzione dei cristiani viene strumentalizzato nelle strategie geopolitiche?
I Paesi che ho citato sono gli unici che si muovono nella prospettiva di “ripulire” il Medio Oriente dai cristiani autoctoni. Il wahhabismo poi collega il cristianesimo alla modernità, all'eguaglianza dei diritti e al principio di cittadinanza. Tutte cose che loro rifiutano.
Eppure proprio quei Paesi sono gli alleati storici dell'Occidente nella regione. E i circoli occidentali che fanno propaganda e mobilitazione permanente sul tema della persecuzione dei cristiani si accordano splendidamente con la loro strategia. E intanto usano il tema della persecuzione dei cristiani per spingere le loro opinioni pubbliche a giustificare i loro nuovi interventi armati nella regione e aumentare la paura verso gli islamici.
Dicono che le guerre servono per difendere i cristiani. Così cercano di motivare la loro presenza nella regione. Una cosa che non era successa ai tempi delle guerre nel Golfo, quando Papa Wojtyla non aveva dato nessuna sponda a chi voleva presentare gli interventi a guida Usa come nuove Crociate.
Però anche capi delle Chiese cristiane d'Oriente hanno applicato alle sofferenze attuali dei cristiani la definizione di “genocidio”.
Certe affermazioni vanno messe nel contesto del Centenario del Genocidio degli armeni e del Genocidio assiro. In molti siamo ancora segnati da quelle vicende. Anche il mio bisnonno è morto in Turchia in quei massacri, e il resto della famiglia si salvò trovando rifugio a Aleppo. Ci viene spontaneo parlare di Genocidio, anche esagerando. Ma un modo per dire che abbiamo paura. Temiamo che possa riaccadere quello che abbiamo già visto accadere.
Servono a qualcosa le mobilitazioni, o le richieste di interventi internazionali?
Per quattro anni ho ripetuto instancabilmente che l'unica via d'uscita era la soluzione politica del conflitto, che potesse aprire la via alla riconciliazione. Ma ora mi sembra sempre più chiaro che c’è una agenda per distruggere il Paese, spezzettarlo su base settaria senza mettere in conto la permanenza dei cristiani, che devono solo andare via. Questo è il messaggio che ci arriva adesso.
Domenica 24 maggio, una bomba ha colpito l'Arcivescovado siro-ortodosso di Aleppo, danneggiando la preziosa biblioteca del Vescovo Mar Gregorios Yohanna Ibrahim, rapito il 22 aprile 2013 (foto Jamil Diarbakerli)
Stavolta, come ne uscirete?
Come Chiesa faremo di tutto per rimanere. Anche se dovessimo vivere sotto il potere dei jihadisti e pagare la Jizya, la tassa di sottomissione. Quelli che vogliono partire, partiranno. Ma un piccolo gruppo resterà. I vecchi, i poveri, i sacerdoti, i religiosi. Continueremo in ogni modo a confessare la nostra fede nel nostro Paese, nella condizione data. Anche se si consolidasse il regime del Califfato. Rimarremo lì, e vedremo cosa succede. Possiamo provare a trovare una soluzione, un modo per andare avanti, come abbiamo già fatto nella storia. Non è la prima volta. Questo è il mistero della Chiesa, che nel mondo rimane inerme. E la sua forza non consiste mai negli interventi e nei sostegni esterni.
Ci sono organizzazioni che aiutano i cristiani a andar via. E il Patriarca caldeo è da tempo in conflitto con alcuni preti che sono emigrati in America senza il consenso dei superiori, dicendo che erano minacciati di morte certa.
Io rispetto le famiglie che hanno i bambini e vanno via. Non dirò mai una parola, un giudizio non benevolo su chi va via perché vuole proteggere i suoi figli dalle sofferenze. Ma per i sacerdoti è diverso. Chi ha delle responsabilità nella Chiesa e va via, lo fa perché sceglie la soluzione più comoda. Se poi si giustifica presentandosi come vittima della persecuzione, questo è anche oltraggioso nei confronti dei veri perseguitati.
“La
situazione in Siria sta peggiorando. Noi cristiani ci sentiamo soli.
Le parole non mi aiutano ad interpretare tutto ciò che sentiamo
veramente. Ora sto comprendendo cosa vuole dire vivere da vero
cristiano, vero fedele di Gesù risorto. Ora sento lo stesso
sentimento dei primi cristiani, che erano cosi pieni di fede
nonostante le forti persecuzioni. Vedo la fede in Cristo risorto più
forte di prima tra la gente, anche se qualcuno quella fede l’ha
persa completamente”.
Così inizia una missiva che ci è pervenuta
dalla Siria,
da Samaan
Daoud,
cristiano cattolico (di rito greco-melkita),
ex guida turistica che la guida ora non fa più.
Una
lettera che è testimonianza cristiana, ma nella quale c’è
anche tutto lo scoramento di una situazione insostenibile: la guerra
ha falcidiato vite, tante vite, e depauperato un popolo prima
prospero. E oggi infuria più che mai, con l’Isis a 200 chilometri
da Damasco. Oggi che i confini sono chiusi in una morsa di ferro
perché le varie bande di tagliagole li hanno occupati tutti: da
quello con la Giordania a quello con la Turchia, da quello con
Israele a quello con il Libano (senza che tali Paesi li disturbino
minimamente, per scelta o impotenza).
“Siamo
chiusi in una gabbia”, conclude sconfortato Samaan, che lamenta
anche mancanze nei pastori della Chiesa, i quali non comprendono che
l’unico desiderio della gente è scappare altrove e che il loro
richiamo a restare in Patria, seppur motivato dall’importanza della
presenza cristiana in Terrasanta, suona duro. E spesso non riescono a
custodire il gregge loro affidato dal Signore come la gente si
aspetterebbe (o forse sono semplicemente e totalmente inermi,
esattamente come le loro pecore).
“Stiamo
per diventare legna da ardere per alimentare il fuoco di questa
guerra assurda”, conclude Samaan nella sua missiva, ricordando che
il figlio più grande presto compirà 17 anni e dovrà arruolarsi
anche lui e andare a combattere; per difendere la sua gente, i suoi,
dai tagliagole che l’Occidente e le Monarchie del Golfo gli hanno
scatenato contro.
A combattere una guerra senza senso, perché il
senso lo ha solo per quanti l’hanno scatenata e la alimentano in
ogni modo.
Avevamo
iniziato la Quaresima chiedendo ai nostri lettori preghiere e un
sostegno economico (felicemente arrivato) per la popolazione siriana.
Concludiamo questo periodo pasquale con queste righe che grondano
conforto cristiano e insieme, angoscia.
Sembra paradossale questa
unione di opposti, ma certi paradossi appartengono alla grazia di
Dio. Così che la vita cristiana scorre tra le tribolazioni
del mondo e le consolazioni di Dio,
come scrive sant’Agostino e
come è evidente, splendente direi, nella lettera del nostro amico
Samaan.
Da
questa parte di mondo, inani spettatori di quanto si consuma di là
del Mare Nostrum, non possiamo che partecipare di questo conforto e
di questa angoscia con la preghiera e quei poveri gesti di carità
che il Signore suggerisce e andrà a suggerire.
Inermi di fronte allo
scatenarsi delle forze
demoniache.
E non usiamo tale termine per qualche bizzarro bigottismo, ma perché
l’agire dei tagliagole siriani – e iracheni – grondano,
volutamente, di simbolismi satanici, come richiesto delle logge
sataniche, non certo islamiche, che ne governano l’agire (quelli
che sono di Satana, come da Apocalisse
di Giovanni).
Inermi
che però, come accade per Samaan e per i suoi, nostri fratelli nella
fede, possono affidare le proprie pene e le proprie speranze – che
abitano il cuore nonostante tutto – al Signore. E in questo mese di
maggio, benedetto dalla recita del santo rosario,
affidarsi in particolare all’intercessione della Madonna,
la nostra Madre celeste, onnipotente per grazia come recita la
supplica alla Madonna di Pompei.
Rapito padre Jacques Murad, della stessa comunità di padre Paolo Dall'Oglio
Agenzia Fides 22/5/2015
Homs
Il sacerdote Jacques Murad, Priore del Monastero di Mar Elian, è stato rapito da alcuni sequestratori che lo hanno prelevato dal Monastero sotto la minaccia delle armi. Secondo alcune fonti locali, contattate dall’Agenzia Fides, il sequestro sarebbe avvenuto lunedì 18 maggio, mentre altre fonti sostengono che il sacerdote è stato rapito nella giornata di giovedì 21 maggio. La notizia è stata confermata oggi dall’arcidiocesi siro cattolica di Homs, che ha chiesto a tutti i fedeli di invocare il Signore nella preghiera affinchè padre Jacques sia liberato e possa tornare alla sua vita di preghiera, al servizio dei fratelli e di tutti i siriani. Secondo alcune fonti locali, insieme a padre Jacques sarebbe stato prelevato dai rapitori anche il diacono Boutros Hanna. Ma tale indiscrezione non è stata al momento confermata dall’arcidiocesi siro-cattolica di Homs. Secondo le prime ricostruzioni, il rapimento è stato realizzato da uomini armati giunti in moto al Monastero di Mar Elian. I sequestratori hanno costretto padre Jacques a mettersi alla guida della propria auto e, sotto la minaccia delle armi, gli hanno imposto di dirigersi verso una destinazione sconosciuta. Fonti locali consultate da Fides ipotizzano che dietro il rapimento ci siano gruppi salafiti presenti nella zona, che si sono sentiti rafforzati dai recenti successi dei jihadisti di al-Nusra e dello Stato Islamico in territorio siriano. Padre Jacques Murad è Priore del Monastero di Mar Elian e parroco della comunità di Qaryatayn, 60 chilometri a sud est di Homs. L'insediamento monastico, collocato alla periferia di Quaryatayn, rappresenta una filiazione del Monastero di Deir Mar Musa al Habashi, rifondato dal gesuita italiano p. Paolo Dall'Oglio, rapito anche lui il 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa, capoluogo siriano da anni sotto il controllo dei jihadisti dello Stato Islamico. Negli anni del conflitto, la città di Qaryatayn era stata più volte conquistata da miliziani anti-Assad e bombardata dall'esercito siriano. Proprio padre Jacques, insieme a un avvocato sunnita, avevano assunto la funzione di mediatori per garantire che il centro urbano di 35mila abitanti fosse risparmiato per lunghi periodi dagli scontri armati. Nel Monastero sono stati ospitati centinaia di rifugiati, compresi più di cento bambini sotto i dieci anni. Padre Jacques e i suoi amici hanno provveduto a trovare il necessario per la loro sopravvivenza anche ricorrendo all'aiuto di donatori musulmani. Bastano questi pochi cenni a far intuire quale oasi di carità rappresenti il Monastero di Mar Elian per tutto il popolo siriano, massacrato da una guerra assurda, alimentata dall'esterno.
Vive inquiétude après l’enlèvement d’un prêtre syrien près de HOMS
..... « Alors que je lui proposais de quitter un moment Qaryatyan avec le rapprochement du DAECH il m’a répondu « comme prêtre et pasteur je ne quitterai jamais le lieu tant qu’il y a des gens, sauf si on ne chasse » nous confie-t-il .....
In queste ore l'Isis compie massacri spaventosi nelle stesse aree, ma a quegli orrori ci stiamo abituando .... Piangiamo per le pietre, ma non muoviamo un dito per gli umani. E forse per questo rischiamo di venir sconfitti.
Il Giornale, Ven, 22/05/2015
di Gian Micalessin
Ormai c'indigniamo per una statua ridotta in briciole, ma rimaniamo impassibili di fronte ad una, dieci, cento teste umane mozzate. Un giorno storici e antropologi lo chiameranno, forse, il paradosso di Palmira.
Ma per il momento non è una sindrome antica o esotica. È solo una tragedia orribile e crudele. Pronta a compiersi. Sotto i nostri occhi. Sempre più avvezzi all'orrore. Sempre più indifferenti. Succede ora. Adesso. Mentre leggete questo pezzo centinaia di uomini in divisa e in abiti civili sono costretti ad inginocchiarsi davanti ai boia dello Stato Islamico. Quando avrete finito di leggere il loro urlo sarà solo un gorgoglio di sangue e fiato spento.
Succede a Palmira. Succede a poco più di duecento chilometri a est di Damasco. Lì sono entrati mercoledì notte i tagliagole del Califfato. Lì il Califfato ha creato la sua nuova roccaforte pronta a congiungersi in linea retta con Ramadi in Iraq e con Raqqa più a nord. Una roccaforte da cui avanzare verso Homs per stringere in una morsa implacabile Damasco e quel che resta della Siria di Bashar Assad. Mentre i militari governativi fuggivano, mentre i responsabili di musei e siti archeologici caricavano sui camion le ultime statue loro già rapivano e massacravano.
Samaan, l'amico cristiano compagno di tanti viaggi nella disgraziata Siria in guerra, me lo racconta al telefono. «Sono andati casa per casa. Quelli dell'Isis si sono fatti guidare dai jihadisti di Palmira. Si sono fatti indicare tutti quelli che collaboravano con il governo, con l'esercito o con le milizie. Un mio amico, uno che conoscevo da tanti anni, l'hanno decapitato subito assieme a una decina di altri civili e a tanti soldati. Gli altri attendono la sentenza della Corte islamica. Ma lo sappiamo tutti, per loro non ci sarà pietà. Tra poche ore anche le loro teste rotoleranno nella sabbia».
Palmira Samaan la conosce bene. Ci ha lavorato per anni come guida turistica. Ci ha portato migliaia di turisti italiani. A Palmira ha ancora tanti, troppi amici. «Non so neanche per chi preoccuparmi. A uno hanno già tagliato la testa, lo so per certo. Un altro è prigioniero e probabilmente verrà mandato a morte. Ma gli altri dove sono? Che fine hanno fatto? Non riesco a sentirli, i telefoni hanno smesso di funzionare. Non so più nulla di loro».
È la tragedia di Palmira. Quella vera. Quella di centinaia di migliaia di esseri umani inermi di fronte alla barbarie e alla crudeltà che avanza. Uomini e donne destinati alla morte o alla schiavitù. Certo l'antica «porta del deserto», la millenaria tappa della via della seta è anche un patrimonio dell'Unesco. È anche una distesa di reperti d'inestimabile valore. Non a caso per lei si è mobilitata la direttrice generale dell'Unesco, Irina Bokova, assieme a decine di intellettuali e artisti occidentali.
Eppure la tragedia vera, quella per cui nessuno qui in Occidente sembra più voler piangere, è quella dei suoi civili, dei militari colpevoli soltanto di averla difesa. Il loro destino è segnato. Nelle prossime ore le loro teste verranno passate a fil di coltello dai tagliagole con le bandiere nere mentre un lugubre e roco «Allah Akbar» consacrerà l'ennesima barbarie. È già successo a Mosul con yazidi e cristiani. Sta succedendo, sempre in queste ore, a Ramadi dove le vittime sono migliaia di civili e militari sciiti. Continuerà a succedere nelle prossime settimane e nei prossimi mesi ovunque arriverà la legge del Califfato.
Eppure questo nuovo mattatoio ci appare ormai un dettaglio, un appendice rispetto al destino di opere d'arte e siti archeologici destinati, come già successo a Ninive, Hatra e Nimrud a subire la furia distruttrice e iconoclasta dei fanatici di Allah. Solo questo ormai c'impressiona. Piangiamo per le pietre, ma non muoviamo un dito per gli umani. E forse per questo rischiamo di venir sconfitti.
ilsussidiario.net mercoledì 20 maggio 2015 INT. Samir Khalil Samir
“Dopo
Ramadi, libereremo Baghdad e Karbala”. E’ l’annuncio di Abu
Bakr Al Baghdadi in un video diffuso dai media dello stato islamico.
In un video si mostrano le cartine dei nuovi territori irakeni ora
controllati dall’Isis e si lodano i mujaheddin per le loro vittorie
nella regione dell’Anbar, la cui capitale è Ramadi. Al Baghdadi
aggiunge significativamente che la capitale irakena sarà conquistata
contro “crociati e sciiti”. Per padre Samir Khalil Samir, gesuita
egiziano e uno dei massimi studiosi del mondo islamico, “il
progetto di conquista portato avanti dall’Isis è mondiale e per
contrastarlo occorre un’iniziativa mondiale che coinvolga anche
l’Iran”.
Che
cosa ne pensa dell’ultimo annuncio del “califfo” Al
Baghdadi? E’ un proclama dal chiaro valore simbolico per
rivendicare che l’Isis conquisterà il centro del mondo islamico.
Baghdad ne è stata la capitale per cinque secoli, durante il grande
periodo abbaside che va dal 750 al 1258. Non a caso il numero uno
dell’Isis ha preso il nome di Al-Baghdadi, cui ha aggiunto Abu
Bakr, cioè il primo califfo dopo Maometto. Karbala è inoltre la
città santa degli sciiti che adesso governano l’Iraq.
Secondo
lei quelle di Al Baghdadi sono solo farneticazioni? Nei sogni di
Al-Baghdadi l’intero islam sarà nelle sue mani, e il mio auspicio
è che il mondo si svegli per fermare la realizzazione di questo
progetto. L’idea dell’Isis è infatti conquistare Siria e Iraq
per poi passare ad altri Paesi fino ad arrivare all’Europa, che
agli occhi del califfato rappresenta il cristianesimo. Non a caso
l’intera galassia fondamentalista chiama l’Occidente “i
crociati”. Dopo avere sottomessi gli sciiti, l’Isis intende
passare ai cristiani. Tocca a noi fare in modo che rimanga solo un
sogno e che non si tramuti in realtà.
Che
cosa si può fare in concreto? Occorre una collaborazione globale
per impedire che le grandi monarchie petrolifere sunnite, come Arabia
Saudita e Qatar, continuino a fornire soldi e armi senza cui l’Isis
non potrebbe continuare la sua guerra. Le armi maneggiate dei
miliziani del Califfato sono state tutte fabbricate in Occidente. C’è
un coinvolgimento globale, e si dovrebbe prenderne atto per dire
“D’ora in poi non si fornisca una sola arma al Medio Oriente”.
Occorre fare pressioni sui Paesi Arabi alleati degli Stati Uniti
quali Arabia Saudita, Qatar e Dubai. Il progetto che l’Isis intende
realizzare è mondiale, e la risposta deve essere dunque mondiale.
La
prima mobilitazione intanto è stata quella delle milizie sciite
legate all’Iran…. In questa risposta il coinvolgimento di
Teheran è indispensabile. Contrariamente all’immagine diffusa in
Occidente, l’Iran è un Paese piuttosto pacifico. Io lo ho visitato
a lungo, sono stato anche invitato a Qom insieme agli imam. Gli
sciiti non hanno una visione radicale dell’islam, sono molto più
aperti e hanno una concezione della religione molto più mistica e
filosofica rispetto ai sunniti.
Com’è
la politica estera del presidente egiziano Al Sisi nei confronti
dell’Isis? La posizione del presidente Al Sisi è chiaramente
contro i movimenti fondamentalisti e contro gli stessi estremisti
come Isis, anzi è assolutamente agli antipodi. Lo ha dimostrato con
l’attacco aereo contro le basi Isis in Libia dopo la decapitazione
dei 21 copti. Il presidente Al Sisi e la maggioranza degli egiziani
sono contrari al fondamentalismo islamico e buona parte del popolo
non è con i Fratelli musulmani. Questi ultimi godono di un sostegno
per il fatto di aiutare le classi più povere, dando loro da mangiare
durante il Ramadan e offrendo loro assistenza medica.
La
minaccia del Califfato è anche strumentalizzata da Al Sisi per usare
la mano pesante in politica interna? Può darsi che da parte di Al
Sisi ci sia anche la volontà di giustificare la sua posizione agli
occhi dell’Occidente. Fratelli musulmani e Isis sono però
espressione della stessa tendenza, con la differenza che lo stato
islamico è passato al terrorismo. Nello stesso movimento dei
Fratelli musulmani c’è anche un gruppuscolo passato ad azioni
terroristiche, e ciò è avvenuto anche nel 2013 dopo la deposizione
di Morsi, quando persone armate uscite dalle moschee uccisero
militari e civili. Alla base di Isis c’è infatti un’ideologia
che è la stessa dei Fratelli musulmani.
In
molti si sono chiesti se la condanna a morte di Morsi non sia stata
una sentenza politica… Non sono felice di questa condanna a
morte, anche se i Fratelli musulmani rappresentano un grande pericolo
per l’Egitto, e durante i dodici mesi della presidenza di Morsi lo
hanno dimostrato. A un anno dalla sua elezione, 30 milioni di
egiziani sono scesi per strada contro di lui e il popolo ha preso il
potere per cacciare il presidente. Appena eletto con il 51,7% dei
consensi, in un voto durante il quale sono avvenute delle
manipolazioni, Morsi ha iniziato a islamizzare il Paese.
In
che modo? Ha nominato nove governatori per altrettante province,
scegliendoli tutti tra i Fratelli musulmani. Uno di questi
governatori al momento della nomina era in prigione per avere
compiuto un attentato contro un autobus di turisti francesi, nel
corso del quale erano morte più di 30 persone. Si è quindi
islamizzata la tv, in un mese sono stati riscritti tutti i programmi
scolastici per inserire il Corano in ogni materia e si è cambiata la
Costituzione. Probabilmente alla fine la condanna a morte di Morsi,
che personalmente non condivido, sarà cambiata in una sentenza
all’ergastolo. Ma in questo verdetto del tribunale vedo soprattutto
la decisione di esprimere un giudizio sul suo operato giudicandolo
della massima gravità.
Come
valuta invece la canonizzazione delle due suore palestinesi? Queste
suore erano due donne semplici, dedite alla preghiera e al lavoro.
Anche questa canonizzazione ha un forte valore simbolico, perché
esprime il fatto che il mondo arabo non coincide con l’Islam. La
cultura araba precede l’Islam, tanto è vero che la maggior parte
della Penisola Arabica prima di Maometto era cristiana. Oggi noi
arabi abbiamo anche due sante e non soltanto dei terroristi. Quanto
avvenuto in Vaticano è dunque un forte appello alla pace e alla
riconciliazione, e dovunque in Medio Oriente ci sono dei cristiani
questo è un aiuto e un fattore di progresso per l’intera società
araba. (Pietro
Vernizzi)
L’islamismo radicale si sta diffondendo in molte regioni. Gli attori sono molti, ma oggi il principale si chiama «Stato islamico» (Is). Guidato dal califfo (autoproclamato) al-Baghdadi, l’Is si basa su alcuni concetti chiave: l’Islam è la soluzione e l’Is ne è l’unico vero custode; i paesi occidentali, guidati da miscredenti, sono responsabili dei problemi in Medio Oriente; i governanti locali sono agenti cooptati dall’Occidente. In queste pagine cercheremo di capire perché e come nasce l’Is. Tra alleanze cangianti e propaganda mediatica, le sorprese non mancano.
Azioni di guerra, conquiste territoriali, decapitazioni, esecuzioni, rapimenti, violenze di ogni genere. L’islamismo radicale e conquistatore, si potrebbe dire «colonizzatore», si sta diffondendo nel Maghreb, nell’Africa subsahariana e in ampie regioni mediorientali, dalla Siria all’Iraq.
Il network di al-Qa‛ida (per comodità, d’ora in poi: al-Qaida) e le sue nuove filiazioni, comprese le antagoniste (come vedremo), stanno diventando un potentato, grazie alla conquista dei pozzi petroliferi in varie aree e alle armi ricevute dai paesi occidentali (Stati Uniti, Europa) e sunniti (Turchia, Qatar, Arabia Saudita).
In particolare, il 2014 è stato segnato dalle gesta del gruppo che, lo scorso giugno, ha annunciato la nascita dello «Stato islamico di Iraq e Siria»1 (Is, da Islamic State, come si legge anche in Dabiq, la rivista in lingua inglese e grafica moderna edita dall’organizzazione), e ha invitato al-Qaida e altri gruppi a stipulare un’alleanza per una «nuova era di jihad internazionale».
Quello attuale è un caso complesso di fondamentalismo, nel quale si mescolano religione (nella sua visione più oscurantista, arretrata e reazionaria), un uso sfrontato dei mezzi di comunicazione di massa (video, internet, social network, riviste come il già citato Dabiq), un ampio arsenale bellico, ingenti capitali provenienti anche dall’accaparramento delle fonti petrolifere, rabbia e aggressività verso l’Occidente invasore e «infedele» (kafir), odio settario contro le minoranza religiose e etniche, e contro gli apostati (kuffar e murtadin) musulmani (tutti coloro, cioè, che non condividono la linea politico-religiosa dell’Is), lotte interne, vendette e orgoglio sunnita dopo anni di dominazione sciita e alawita in Iraq e Siria, e altro ancora. Si tratta di un fenomeno aggressivo, spettacolare fino alla teatralità più macabra che riscuote successo sia nel mondo arabo-islamico sia in Occidente, in particolare tra le giovani generazioni di immigrati musulmani.
Così, tra i jihadisti, troviamo: benestanti e laureati (molti arrivano dall’Europa e dagli Usa); giovani emarginati delle periferie urbane occidentali e arabe alla ricerca della propria identità e dai progetti di integrazione falliti; poveri e disperati delle città e villaggi del mondo arabo-islamico invaso dalle truppe americane; oppressi da regimi dispotici locali o stranieri; notabili e membri di tribù sunnite che vogliono vendicarsi dei loro vicini o di leader di altre fazioni islamiche; ovviamente mercenari e larghe schiere di criminali e psicopatici. È un «melting pot» trasversale a luoghi, censo e età, e catalizzatore di sentimenti e aspirazioni contrastanti e differenti. Indubbiamente, ciò che li contraddistingue è la rabbia e la ferocia con la quale si abbattono su città e villaggi e su chi osa rifiutarli, e contro le minoranze etniche e religiose.