Afp Le Point
traduzione
dal francese di Marinella Correggia
Sul
suo terreno a Ghouta Est, vicino a Damasco, Radwan Hazaa si appresta
a seminare centinaia di semi di melograno nella speranza di
compensare la perdita di oltre 3.000 alberi, vittime dei colpi
d’artiglieria e della mancanza di acqua, negli anni di guerra.
Nel
villaggio di Dier al-Asafir, Hazaa si avvale al tempo stesso del
ritorno di una situazione di calma e di un inverno molto piovoso che
ha gonfiato con generosità fiumi e falde freatiche.
Prima
dello scoppio del conflitto siriano nel 2011, Ghouta Est era il
frutteto della capitale Damasco. Ma quest’area agricola, famosa
per i suoi campi, i suoi frutteti e le sue aziende agricole ha subito
le ricadute di anni di combattimenti e di assedio.
I
piedi nell’acqua, Radwan sta lavorando alla costruzione di un nuovo
canale di irrigazione vicino al pozzo che ha fatto scavare alcune
settimane fa e da dove l’acqua ora sgorga.
“Quando
ho visto la mia terra bruciata, mi sono inginocchiato piangendo, e ho
capito che avrei dovuto rifare tutto da zero”, ricorda questo
agricoltore fuggito da Ghouta nel 2012 per farvi ritorno l’anno
scorso.
La
regione, ex roccaforte della ribellione contro il presidente Bashar
al-Assad, è stata riconquistata dai governativi nell’aprile 2018, con
l’aiuto di Mosca, al termine di una vasta offensiva. In seguito ad
accordi di resa negoziati dai russi, decine di migliaia di
combattenti e civili sono stati evacuati verso altre aree.
Dopo
la fine dei combattimenti, “ho preso in prestito una piccola somma
di denaro e mi sono rimesso a piantare, oltre ad allevare due vacche
e alcune galline”, prosegue l’uomo, kefia rossa e bianca sulla
spalla.
Come
numerosi altri agricoltori della regione, egli ha perso gran parte
del suo patrimonio di melograni, albicocchi e noci. Oggi punta
sull’abbondanza di acqua per ridare vita alle sue terre. “Non ho
mai visto piogge così abbondanti”, si rallegra. In passato,
“dovevamo scavare fino a 150 metri per estrarre acqua. Quest’anno
già a 40 metri ne abbiamo trovata in abbondanza”.
Perdite
irrimediabili
Le
piogge, proseguite fino in maggio, hanno alimentato il fiume Barada,
che bagna Ghouta Est. Una benedizione anche per gli allevatori, fra i
quali Bassam al-Laz, che ha colto l’occasione per rivitalizzare il
suo allevamento. “E’ il primo anno che le vacche si nutrono
direttamente dell’erba dei prati al posto del fieno che compravo”,
dice l’allevatore cinquantenne.
Ghouta
Est era nota “per l’abbondanza della produzione agricola e
animale”, racconta, spingendo due vacche verso un grande recipiente
metallico pieno di acqua. Uova, ortaggi, frutta, lebneh (una
preparazione tradizionale a base di yogurt), bastavano per nutrire
tutta la capitale, dice l’uomo con fierezza. Il suo volto, segnato
dagli anni di guerra, si rasserena mentre guarda l’acqua tirata su
dal pozzo, i germogli verdi che spuntano e gli alberelli disseminati
sul suo terreno. Confessa di provare una “gioia sconfinata” ma
non può che piangere le “perdite irrimediabili” dovute al
conflitto. “Abbiamo perso ulivi vecchi di oltre 500 anni”.
Il
“polmone di Damasco”
E,
malgrado le promesse di questa primavera, sembra ancora lunga la
strada per tornare agli anni dell’abbondanza.
Il
sindaco Ahmad al-Hassan, nella sede del comune di Deir al-Asafir,
ascolta le necessità degli agricoltori. Promette loro che “le
terre torneranno a essere quelle di prima”, e prende nota delle
necessità in materia di input e attrezzature.
“Le
persone erano depresse e tristi malgrado la fine del conflitto, ma le
piogge abbondanti hanno indotto tanti a riprendere i loro affari”,
commenta il sindaco, che descrive Ghouta come “il polmone di
Damasco”.
La
regione, che occupa una superficie di 10.400 ettari, per metà terre
coltivate, ha perso l’80% degli alberi durante la guerra, secondo
il direttore del dipartimento agricolo, Mohamad Medieddine.
Bruciati,
inariditi, gli alberi sono anche serviti come combustibile per le
case degli abitanti assediati e infreddoliti negli anni del blocco.
“In certe località, per esempio Mliha, non c’è più nemmeno un
albero in piedi”, si rammarica Medieddine.
Sotto
un cielo di piombo, sulla strada che collega Deir al-Asafir alla
periferia di Jaramana, il responsabile dice di rimpiangere l’epoca
in cui l’abbondante fogliame degli alberi attenuava i raggi
cocenti. Per chilometri, “gli alberi ombreggiavano questa strada
(…). Ormai sembra un deserto”.
Secondo
il funzionario, la regione avrà bisogno di “dieci anni” per
tornare verde. E di “almeno cinque anni perché gli alberi tornino
a dare frutti”.