Un
paese dissanguato: più di 400.000 morti, 13 milioni di sfollati e
rifugiati, 2,1 milioni di bambini rimasti fuori dalla scuola e una
scuola su tre distrutta. La vita "ordinaria" in Siria?
Ecco a cosa assomiglia.
di Diane
Antakli , Presidente dell'ONG 'Baroudeurs de l'Espoir'
20 giugno 2019
trad. Gb.P. per OraproSiria
8
anni di guerra, 8 anni di un quotidiano senza prospettiva del futuro,
8 anni di tristezza, disperazione. 8 anni di un'infanzia, di
un'adolescenza, di una giovinezza che essi non hanno vissuto; un
trauma che pesa sulla vita quotidiana di tutti. La cifra di 400
miliardi di dollari è stata ipotizzata per sperare di ricostruire un
giorno la Siria. Ma quanto, per ricostruire le vite?
Ecco
la mia cronaca di una settimana "ordinaria" vissuta di
recente ad Aleppo con le squadre sul campo, con la nostra ONG
'Baroudeurs de l'Espoir' (Avventurieri della speranza).
Lunedì
mattina manca un bambino all'appello. Aya, 5 anni, non è venuta a
scuola. Il giorno prima, un ordigno è caduto sul suo edificio,
uccidendo e ferendo gravemente i membri di una famiglia
nell'appartamento sopra il suo. La paura si diffonde, i suoi genitori
chiamano le insegnanti per dire loro che Aya non riesce a uscire
dalla sua casa, paralizzata dalla paura. Una macchina viene
immediatamente inviata a prenderla e cercare di farle vivere una
normale giornata di scuola.
Martedì
sera. Una cena è organizzata nel parco giochi. La musica è in pieno
svolgimento. Al termine di una canzone, rimbomba tutt'altra musica,
quella di bombe, mortai e colpi di fuoco missilistico, e l'aviazione
che risponde. Poi la musica riprende, i telefoni squillano. Le
famiglie sono preoccupate, il viaggio non è sicuro. Riusciranno a
tornare tutti a casa?
Mercoledì.
Lo scuolabus ha deciso di cambiare il tragitto, per motivi di
sicurezza.
Giovedi.
Si esita a cancellare una competizione sportiva che riunisce
centinaia di adolescenti: un missile è caduto la settimana prima
sulla casa di uno dei responsabili dell'evento, molto vicino al luogo
della manifestazione. È lui però che vuole mantenere la
competizione. Egli si rifiuta di cedere alla paura.
Venerdì
sera. Sono nel piccolo giardino del cortile della scuola,
un'esplosione mi fa sobbalzare. Qualche minuto dopo, il suono delle
ambulanze molto vicino. Ma ci si abitua, davvero?
Sabato.
Una bomba di mortaio cade a poche decine di metri dalla competizione
sportiva per gli adolescenti. Quel giorno, il proiettile cade in una
sabbiera, limitando gli impatti.
Domenica.
Non scordiamolo. Le armi non si prendono un giorno libero.
Ad
Aleppo come in tutte le città della Siria, come in tutte le città
del mondo, i giovani desiderano vivere, uscire, amare, ascoltare la
musica e godersi il silenzio, respirare, sognare. I loro sogni sono
immensi, la loro sete di vita infinita. Non dimenticateli. Non
dimenticateli perché loro stanno in piedi, non arresi.
Tra
i quartieri distrutti di Homs la casa dei Gesuiti, nella parte
vecchia della città, appare come un’oasi di pace. In fondo, dicono
da queste parti, lo è sempre stata. Qui, durante i combattimenti tra
l’esercito siriano regolare e le milizie dell’Esercito libero
siriano e dei jihadisti di al Nusra, in un assedio durato anni, hanno
trovato rifugio e ospitalità centinaia di persone di ogni fede e
etnia, che avevano perso tutto a causa della guerra. È qui, nel
quartiere di Bustan al-Diwan, che incontravano ogni volta padre
Frans van der Lugt, gesuita olandese che ha pagato con la vita il
suo impegno per i più poveri e vulnerabili.
Un uomo di
riconciliazione, un pastore con l’odore delle pecore – come
ricorda spesso Papa Francesco – che non ha mai voluto abbandonare
il suo gregge, fino alla fine. Forti le sue denunce contro la
mancanza di cibo, medicinali e aiuti per la popolazione assediata. Il
7 aprile di cinque anni fa il gesuita fu freddato nel suo convento da
un uomo con una maschera, dopo essersi rifiutato di seguirlo. Oggi
riposa nello stesso piccolo cortile dove incontrava i suoi poveri che
non lo hanno dimenticato. In tanti ogni giorno vengono a pregare
sulla sua tomba.
Recuperare
speranza.
Padre
Michel Daoud, “siro-libanese”, è uno dei quattro gesuiti che
oggi abitano la casa portando avanti la missione pastorale che fu di
padre Frans. “L’assedio
è finito, non si spara più ma le macerie sparse ovunque – spiega
– raccontano di una città che fatica a risollevarsi nonostante la
voglia di rinascere. Cerchiamo
di restituire un po’ di fiducia alle persone e forse questo può
non piacere a qualcuno.
Il
nostro servizio è rivolto a tutti cristiani e musulmani,
indistintamente”. Durante
gli anni della guerra i gesuiti hanno assicurato acqua, cibo, energia
elettrica, medicine, ma soprattutto una presenza umana costante.
“Molta
gente del quartiere e di altri limitrofi – ricorda
padre Michel –
veniva nella nostra casa a recuperare un po’ di fiducia e di
speranza. I più giovani ritrovavano il piacere del gioco restando
nel piccolo cortile. C’era chi ricaricava il cellulare per provare
a chiamare i propri cari fuggiti all’assedio e chi invece riposava
approfittando della quiete del convento. Neanche dopo il martirio di
padre Frans la gente ha smesso di venire. Non ha paura e ha scelto la
nostra casa come loro dimora, nella quale sentirsi al sicuro, questo
per noi è motivo di grande speranza”.
“Continuare
a sperare per ricostruire l’uomo dalle macerie”.
È
riposta in queste parole l’eredità di padre Frans che ora potrebbe
avere un ulteriore riconoscimento. “Abbiamo iniziato, con la
Curia generalizia, a raccogliere tutto il materiale necessario a
istruire un giorno il processo per riconoscere il martirio – rivela
padre Michel – nella speranza di arrivare alla causa di
beatificazione”.
Oggi
come allora.
La presenza dei gesuiti in questo quartiere nel cuore della città
vecchia di Homs, dove ebbero inizio le prime manifestazioni di
protesta contro il presidente Assad, si è rafforzata attraverso un
impegno pastorale che passa per la cultura, la catechesi, l’arte,
la carità, l’ascolto e la preghiera. Può accadere allora che in
un cortile circondato da macerie e da palazzi crivellati dai
proiettili possano ritrovarsi 800 persone a vedere un film, ascoltare
un concerto di musica classica oppure, a piccoli gruppi, condividere
versi e leggere poesie.
“Nonostante
la guerra, voluta dalle grandi potenze per i loro interessi, nei
cuori delle persone c’è un desiderio di bene e di pace. La
ricostruzione della Siria passa anche da qui. A che serve – è
la domanda di padre Michel
– costruire case se poi non abbiamo ricostruito l’uomo che le
deve abitare e far rivivere? Questa è la sfida che ci attende”.
Una sfida resa ancor più difficile dalla fuga all’estero di tante
famiglie, molte delle quali giovani. Pochissime quelle che sono
tornate. “Siamo
ben consapevoli – ammette
il gesuita –
che il destino della Siria non è tanto nelle nostre mani quanto in
quello delle potenze che combattono sul nostro territorio. Ma
restiamo per aiutare la gente a ricostruirsi una vita, a non perdere
la speranza minacciata dalle sanzioni di Usa e Ue che ci costringono
a una vita sempre più dura. Più dura delle macerie che ci
circondano”.
Le
spalle degli anziani.
Homs
resta così stretta nella morsa della guerra. Nessuno, nemmeno
sottovoce, osa parlare di dopoguerra. Qui si è più preoccupati di
vivere il presente soprattutto quando si è anziani soli, privi dei
parenti emigrati all’estero e senza una casa. Gli anziani sono tra
i più poveri di questa città un tempo sacra al Dio Sole.
“È
un quadro desolante”
racconta suor Valentina, una vita passata in Siria al servizio dei
più poveri secondo il carisma delle suore del Sacro Cuore. La
religiosa gestisce con una sua consorella una casa di ricovero per
persone anziane, nella zona vecchia di Homs, voluta dallalocale
chiesa evangelico-presbiteriana, guidata dal rev. Yousef Jabbour.
“Quello
degli anziani soli è un problema gravissimo e non solo a Homs –
spiega
la religiosa –
la guerra, e adesso anche la povertà, hanno spinto molte famiglie a
partire lasciando qui i loro anziani. Sono pochi, infatti, quelli che
hanno voluto seguire la famiglia. Chi è rimasto è malato, non ha di
che vivere dignitosamente, con la casa ridotta a un cumulo di
macerie”.
Nella
struttura sono ospitati 52 anziani di età compresa tra i 60 e i 90
anni ma altri 37 sono in lista di attesa per entrare. “Non
tutti possono pagare ma la Provvidenza non ci fa mancare nulla”
dice
la religiosa mentre si affaccia ad un balcone. Di sotto alcuni
bambini giocano. Li indica e con un sorriso dice: “sono
il futuro della Siria. Molti sono nati durante la guerra non hanno
conosciuto altro che macerie e violenza. La Siria deve poter
ripartire da loro”.
Ma
intanto bisogna occuparsi dei “nonni” della casa che durante la
battaglia di Homs è stata attaccata e saccheggiata più volte dai
jihadisti. “Sono
stati anni duri, non avevamo acqua e cibo, al buio per intere
giornate, ma siamo rimaste accanto alla popolazione” ricorda
suor Valentina.
“Poi quando i combattimenti sono finiti abbiamo cominciato a
ricostruire. I nostri ospiti vengono assistiti, curati e stimolati
con attività anche manuali. Ci sono dei giovani che vengono a fare
animazione due volte a settimana. Sono diventati i loro nipoti.
Qualcuno chiede dei parenti lontani, i più fortunati ricevono
qualche visita dai familiari che abitano nei villaggi vicini”.
“Tutti
sanno che non rivedranno mai la loro città ricostruita, nemmeno la
loro casa. Ma sanno anche che non sono soli. Staremo con loro fino
all’ultimo per restituire dignità alla loro vita”.
A
Homs la solidarietà e la speranza camminano anche sulle spalle dei
più anziani.
In
questo paese del Levante, la guerra sconvolge i cuori. Le bombe
piovono, le vite si spengono. Crea orfani sradicati, vedove in
lutto, nonni in lutto. L'idra è sempre imbattuta.
Oggi
nuove piaghe economiche stanno cadendo sui siriani. In un mese,
il prezzo di un litro di benzina è aumentato del 50%. Il tasso
di cambio oscilla a scapito della valuta nazionale; un tasso che
naturalmente influisce sui costi di importazione.
[N.D.T. oggi il
dollaro si cambia a 610 lire siriane, due mesi fa a 520].
Ma
l'impatto ferisce principalmente nel campo agricolo, garanzia di pace
sociale. "E'
l'intero paese si fa morire di fame", dice
Alexandre Goodarzy, capo della missione in Siria.
Per
tutti i prodotti compresi i cereali, l'inflazione è al galoppo.
In
causa, gli incendi dolosi * delle terre nel nord-est della
Siria. Muri di fiamme e campi di grano che se ne vanno in fumo
lasciano solo una terra annerita dietro di loro.
350.000
ettari ** di terreni agricoli a est dell'Eufrate, in passato la
principale zona di produzione di cereali ***, sono già andati in
fumo, specialmente nella Jazira, la regione dei tre ori, gialla per
il grano, bianca per cotone e nero per l'olio. Già, la penuria
di fertilizzante aggiunta a quella di carburante e di elettricità,
essenziali per far funzionare le pompe dell'acqua, aveva ridotto i
rendimenti.
Le
ultime mandrie di bovini che pascolano su queste terre diventate
inadatte alla pastura, sono avvelenate. "Uccidere
la terra è uccidere il bestiame. Ma per andare più in fretta,
uccidono direttamente il bestiame abbattendo gli animali. Dopo
anni di siccità e guerra civile, il raccolto di quest'anno sarebbe
stato eccezionale grazie alle precipitazioni record. Il granaio
ora è quasi deserto. "
Isaac Aysho anziano cristiano assiro di Hasakah ha visto il raccolto di grano nella terra del vicino arabo musulmano bruciare, così è corso in mezzo al fuoco nonostante la vecchiaia e il fuoco forte gli ha bruciato il volto e le mani.. Grazie per aver dato una lezione su come i fratelli erano in Siria e come abbiamo vissuto e come vivremo. Questa è la Siria e tale rimarrà. (Tweet di Fares Shehabi)
La
situazione già drammatica potrebbe peggiorare.
L'oro delle
spighe di grano è adiacente ai pozzi d'oro nero. Le fiamme si
stanno avvicinando pericolosamente.
"Gli
ultimi cristiani della Jazira, che sono rimasti in Siria nonostante
tutti questi anni di pressioni, non tarderanno a partire se la
situazione non cambierà. "
L' oro
giallo è la chiave per garantire il fabbisogno alimentare di milioni
di siriani.
La Siria corre incontro a una grave carenza di cibo?
Nei
prossimi giorni, Alexandre Goodarzy andrà nella Jazira per fare
donazioni di pacchi alimentari. Un'azione di emergenza che "in
questi momenti ha pieno significato."
Un villaggio gemellato con le sue rocce rossastre, quelle del massiccio al Qalamoun, mimetizzato come se ne avesse rubato i colori. Ti si apre davanti man mano che la strada sale fino a toccare i 1500 metri di altezza. Buche e crateri disseminati ovunque ti obbligano a una sorta di gimkana con la polvere che si alza ad ogni manovra di guida. Damasco è lontana solo 60 km, il confine con il Libano anche meno. È Maaloula roccaforte cristiana della Siria dove si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù Cristo. Uno dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco, abitato da poche migliaia di cristiani che vegliano sulle sue chiese e monasteri come quello greco ortodosso di santa Tecla, discepola di san Paolo, e quello melkita del VI secolo Mar Sarkis, dei santi Sergio e Bacco. I due santuari rupestri sono uniti da una gola scavata nel corso di millenni da pioggia e vento. È qui, secondo la leggenda, che Santa Tecla avrebbe trovato rifugio dai suoi persecutori. Prima della guerra Maaloula era una meta di tanti pellegrini che da ogni parte del mondo ogni anno venivano a pregare tra queste montagne, in una delle culle del cristianesimo siriano.
Ferite ancora aperte. Oggi Maaloula è un villaggio che porta ancora addosso, chiari, i segni della guerra, ferite profonde inferte contro la comunità locale, sfregiata come le sue chiese, le sue icone, i suoi quadri, le sue statue. Qui si è combattuto per circa nove mesi, da settembre del 2013 a maggio del 2014. A ricordare quei lunghi giorni è padre Toufic Eid, parroco melkita della chiesa di san Giorgio. E lo fa dall’alto della grande roccia che sovrasta il villaggio, a ridosso del monastero dei santi Sergio e Bacco, dove non manca di pregare il Padre Nostro in aramaico:
“Maaloula era lo specchio della convivenza siriana – ricorda il sacerdote indicando il villaggio e le sue macerie -. Lo hanno voluto mandare in frantumi per dare un segnale forte. Militarmente e strategicamente Maaloula non aveva particolare importanza. Ma hanno attaccato un simbolo della cristianità, il luogo dove gli abitanti parlano ancora l’aramaico, la lingua di Gesù”.
La notizia della caduta di Maaloula in mano ai jihadisti fece il giro del mondo. Il villaggio fu conquistato e preso come base militare dai miliziani dell’allora Jabhat al Nusra (oggi Hay’at Tahrir al-Sham, ndr.), vicini ad Al Qaeda. Con loro, all’inizio, anche membri dell’opposizione armata del Free Syrian Army, che si erano accreditati come difensori dei cristiani locali. “Controllavano il villaggio dall’alto – spiega il sacerdote –. I terroristi, infatti, avevano occupato l’hotel al-Safir, divenuto il loro quartier generale arrivando a distruggere anche una statua della Vergine Maria, Signora della Pace, messa dai cristiani locali a protezione del villaggio”. L’hotel non esiste più, delle stanze nessuna traccia, solo una giostra piegata dalle bombe, piena di ruggine. Fu l’inizio della devastazione. “Da quel momento in poi – aggiunge il parroco – furono solo distruzioni di case e di chiese, profanazioni, incendi, saccheggi, esecuzioni sommarie. Le suore di santa Tecla furono prese in ostaggio per circa 4 mesi. Lo stesso destino toccò a 6 giovani cristiani, cinque dei quali ritrovati poi morti. Del sesto, invece, non abbiamo più notizie. Non sono stati gli unici martiri di Maaloula”.
Ma i ricordi del sacerdote non si fermano qui. Emerge anche un particolare“l’accanimento dei terroristi verso le immagini sacre: Le icone sono state tutte sfregiate, avevano paura di guardarle. Hanno sfregiato i volti dei santi, del Cristo, mandato in frantumi le statue. Hanno fatto a pezzi gli altari, le iconostasi, il fonte battesimale”. “Ma la cosa che mi ha colpito di più è stato il rogo dei registri dei battesimi. È come se avessero voluto azzerare la nostra fede, ma non ci sono riusciti, perché siamo ancora qui”, afferma con orgoglio padre Toufic. Poco distanti i resti di una statua di san Giorgio posta nel cortile della chiesa omonima dove da poco è stata rimessa una statua di santa Rita da Cascia, “restaurata da uno dei nostri giovani purtroppo morto in guerra”. Arrivano dei bambini che sfidando una pioggia inattesa si mettono a giocare nel piazzale. Il parroco li guarda e sorride:“sono un segno di vita da preservare. Il futuro di Maaloula passa per loro”.È anche per questi piccoli che si danna l’anima per riparare i danni della guerra. Cinque anni dopo esserestata ripresa dall’esercito regolare siriano, Maaloula oggi si presenta quasi disabitata: “la popolazione è fuggita e ancora non ha fatto ritorno. Le case hanno bisogno di essere rimesse in piedi velocemente. La comunità cristiana – dice il parroco – è composta adesso da circa 800 persone, poche rispetto alle oltre 3mila di qualche anno fa. Abbiamo restaurato la chiesa e, grazie anche alla Chiesa cattolica italiana, rimesso in piedi 190 abitazioni. All’appello ne mancano ancora 130, per una spesa totale di un milione di dollari. Stiamo ricominciando da zero grazie all’aiuto di tanti benefattori sparsi nel mondo. La priorità è dare un tetto a chi non ce l’ha più e trovare il modo di continuare a vivere. Quest’anno ho celebrato solo un matrimonio, nessuno nel 2018. I battesimi si contano sulla dita di una mano. La vita qui è una grande sfida, sperare è una sfida. La ricostruzione delle abitazioni sta favorendo la ripresa del lavoro”. Ne è un esempio “un piccolo ristorante che ha riaperto i battenti da poco”.Un buon viatico per qualche pellegrino “che timidamente si sta riaffacciando da queste zone ora pacificate. Lo scorso marzo – rivela padre Toufic – sono arrivati qui sei occidentali. Sono stati accolti da alcune famiglie che per pochi dollari hanno offerto loro un letto e del cibo. Era accaduto anche in passato ma poi la guerra ha impedito di proseguire nell’accoglienza. Ma speriamo di riprendere”.
Una speranza condivisa con l’archimandrita Matta Reza, priore della comunità delle suore ortodosse di Santa Tecla. I mesi passati nelle mani dei jihadisti che le avevano prese in ostaggio non hanno tolto il sorriso alle religiose che continuano la loro missione nel monastero “ripulito dal sangue dei combattenti, rimesso in piedi e reso di nuovo agibile”. “Si sono lasciate il passato alle spalle per avere pace nel cuore e per aiutare la gente a superare il momento. Guardano avanti nonostante tutto” afferma il priore che non esita a citare il passo evangelico di Luca, “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio”. Non c’è tempo a Maaloula per guardare indietro.“Nonostante tutta la distruzione la luce del Sepolcro ci ha illuminato. Le porte degli inferi non si sono aperte. Per questo incoraggiamo le famiglie, le pietre vive di questa terra, a restare saldi nella fede” ribadisce l’archimandrita Reza. Un attimo di pausa prima di riprendere il discorso per dire quello che non ti aspetti: "anche tra i jihadisti vi era gente buona, il bene è dappertutto": “I nostri cristiani in fuga da Maaloula sono stati salvati dai musulmani dei villaggi confinanti. Ricostruire è possibile, lo stiamo già facendo. Siamo figli della vita e chi crede nella vita può farlo. Ogni parola buona, ogni gesto di pace contiene un germe di Dio”. È quasi sera quando, uscendo da Maaloula in direzione Homs, sale il desiderio di lanciare un ultimo sguardo alla cima più alta, a quella roccia dove è tornata la statua di Maria, Signora della pace. A riportarla lassù sono stati cristiani e musulmani, insieme.
Scopri
perché, ascoltando questa importante testimonianza dalla città di
Mesyaf che è stata recentemente attaccata da Israele e dai
terroristi sostenuti da Israele, nel nord di Hama e Idleb. Ali Habib,
un insegnante in pensione, eloquentemente descrive il crescente
antagonismo di Europa e Stati Uniti dopo otto anni di una guerra
punitiva imposta al popolo siriano dai governi occidentali e dai loro
alleati regionali.
Queste
sono le voci del popolo siriano che non sono mai state ascoltate in
Occidente. I media di stato occidentali le hanno deliberatamente
messe a tacere. Se fossero state ascoltate, questa guerra non sarebbe
mai potuta accadere, per non rimarcare che è durata otto anni
terribili ed ha lasciato la Siria danneggiata e sanguinante..
Trascrizione
completa:
"In
primo luogo, mi chiamo Ali Habib. Vengo da un villaggio vicino a
Mesyaf, ma trascorro la maggior parte del mio tempo a Mesyaf. Ho
assistito a numerose aggressioni terroristiche su Mesyaf, durante una
di queste ero a soli 50 metri di distanza quando hanno preso di mira
l'ospedale pochi giorni fa. Quindi, questo ospedale che sta curando
i residenti di questa regione, nonostante tutta la pressione e
l'embargo imposti alla Siria, e che sta trattando pazienti e feriti,
è stato colpito da tre missili. L'ho visto con i miei occhi. Qual è
lo scopo di bombardare un posto del genere? Qual è lo scopo del
bombardamento di un ospedale? Perché quella gente (l'Occidente) non
scrive dei terroristi che prendono di mira l'ospedale? Perché non
scrivono sull'assedio economico che ha colpito tutti noi
psicologicamente, socialmente e moralmente? Il nostro stato
psicologico non è più normale, il nostro stato psicologico non è
più normale!
Perché
tutto il mondo parla di Caschi Bianchi e armi chimiche e "useranno
il CW ..." e "il governo siriano ha usato il CW ..."... Di quali armi chimiche stanno parlando? Ci prendono di mira
quotidianamente usando veleni psicologici, sociali ed economici. Ci
hanno appesantito in tutti i sensi e sono loro che lo hanno causato e
ora sostengono che ora vogliono proteggerci e proteggere il popolo
siriano. No, non è giusto. Vogliono distruggere il popolo siriano,
non vogliono distruggere il Governo siriano, vogliono distruggere il
Paese, distruggere la Siria come Paese.
Ieri,
hanno bombardato (lì) e ho visto le persone ferite con i miei occhi,
cosa hanno fatto di sbagliato questi civili innocenti? Perché
al-Jazeera e al-Arabia e France 24 e i media americani non
riferiscono di questi civili che sono stati uccisi? Perché non
riferiscono sull'ospedale che è stato bombardato? Hanno preso di
mira l'ospedale per circa sei mesi, ma non erano riusciti a colpirlo
direttamente. Certo, i proiettili erano atterrati lì intorno, ma
alla fine hanno colpito l'ospedale e alla fine hanno ferito persone e
medici che stanno salvando la gente. Ma tutto ciò, sfortunatamente,
gli occidentali non lo vedono ...
Siamo
abituati... Io sono uno di quelli che erano soliti credere che i Francesi, gli Inglesi e i Tedeschi avessero un po' di moralità.
Sappiamo già che gli Americani non hanno morale, ma vedere che i Francesi, i Tedeschi e gli Europei in generale sono subordinati
all'immoralità americana - questa è una novità per noi e per noi è
frustrante. Onestamente, si sta diffondendo un antagonismo interno
(siriano) nei loro confronti e noi non eravamo così. Li amavamo.
Quando vedevo uno straniero come te qui, sarei corso da te per vedere
di cosa potresti aver avuto bisogno. Parlo bene il francese, userei
la mia conoscenza del francese per aiutarti. È così che eravamo
soliti mostrare il nostro amore agli stranieri quando venivano nel
nostro Paese. Ora non vogliamo vedere nessuno di loro perché tutti
loro sono bugiardi e tutti loro sono ingannatori, tutti ci stanno
assediando e tutti stanno stringendo il cappio su di noi e tutti ci
stanno strangolando a morte, i cittadini, noi - i civili... o io come
civile, sono un civile, sono un insegnante in pensione. Che crimine
ho commesso per essere colpito da un missile? O perchè la mia
macchina deve essere distrutta da un ordigno o essere rubata dai
miliziani? Gli Europei non vedono questo, gli Europei hanno in mente solo
che vogliono rovesciare il regime di Bashar al-Assad. Noi, il popolo,
siamo soddisfatti di Bashar al-Assad. Cosa c'entra questo con voi?
cos'è per voi? Siamo soddisfatti di lui. Presto Bashar al-Assad farà
nuove elezioni e noi forse lo eleggeremo o no. Decidiamo noi, non
voi.
Io
capisco così questa questione, della manipolazione delle persone e
dei pensieri delle persone, che indebolisce le persone in questo
modo. È assolutamente anormale! È inaccettabile! Spero che la
nostra voce raggiungerà gli Europei. Li amavamo molto. Eravamo
abituati a trattare con loro. Sono stato in Europa spesso. Sono stato
in Europa 11 volte. Ho visitato tutti i paesi europei e sono stato
contento di loro, ma ora, sinceramente, non provo buoni sentimenti
nei loro confronti a causa delle loro posizioni sbagliate nei nostri
confronti. Quindi spero che la nostra voce raggiungerà alla fine gli
Europei e che sappiano la verità su ciò che sta accadendo in Siria.
Le
persone sono come le vedi ... il livello di sicurezza in Siria era
migliore di qualsiasi altro posto al mondo. Sono stati spesi miliardi
per creare questo e sfortunatamente, gli Europei e gli Americani
hanno partecipato alla distruzione di questo paese.
Perché?
Quali reati abbiamo commesso? Quali crimini hanno commesso queste
persone, che vivevano in completa sicurezza? Avrei potuto dormire in
strada e nessuno si sarebbe avvicinato a me. Ho dormito per le strade
di Parigi e nessuno mi ha rapinato, si poteva dormire nelle strade
qui e nessuno lo avrebbe derubato. Eravamo così al sicuro qui, ma
voi, Europei, siete venuti da noi e avete fatto quel che ci avete
fatto! Spero che la nostra voce vi raggiunga. Spero che la nostra
voce raggiunga la gente... Credo che il popolo europeo sia diverso
dai suoi governanti, ma per loro essere subalterni agli Americani in
questo modo, è scioccante. È increscioso. Una disgrazia. Gli
Europei sono noti per la loro moralità mentre gli Americani sono
noti per essere dei gangster. Sì, sto parlando di un'esperienza
culturale personale. Quindi, è così che amavamo gli Europei, ma
purtroppo, ora non li amiamo affatto.
Un deposito dei White Helmets a Yarmuk, un sobborgo di Damasco, nella zona allora controllata dall'ISIS. Con un uomo davanti che sventola la bandiera ISIS. E il segno dell'indice alzato.
I Caschi Bianchi poi sono molto più pericolosi dei militanti che massacrano la gente. Quello che è successo riguardo ai militanti, non te l'ho detto, esiste la pratica della decapitazione nel nome dell'Islam, in nome della religione, mentre la religione non ha nulla a che fare con tutto ciò ma i Caschi Bianchi sono più pericolosi. I militanti hanno usato coltelli e pistole esplicitamente, mentre i White Helmets stanno lavorando politicamente. Voglio dire che stanno montando messinscene per far venire più missili a bersagliarci. Siamo stufi dei razzi e siamo stanchi di uccisioni.
I Caschi Bianchi sono più pericolosi di quelli che hanno massacrato la gente, questo è un fatto innegabile. Loro (gli Elmetti Bianchi) stanno spingendo gli Americani e gli Europei a bombardarci con il falso pretesto che stiamo usando armi chimiche contro la nostra stessa gente. Noi, il popolo… Quindi, i Caschi Bianchi sono molto più pericolosi di quelli (i terroristi) che macellano la gente nelle strade. I White Helmets sono un'organizzazione terroristica, più terrorista e più sanguinaria di quelli che massacrano le persone nelle strade - e questa è probabilmente l'opinione pubblica qui. Sappiamo chi sono i Caschi Bianchi. I Caschi Bianchi sono più pericolosi di qualsiasi terrorista.
Viaggio
negli ospedali cattolici di Damasco e Aleppo
di
Daniele Rocchi
Sir,
13
giugno 2019
Un
crocifisso insanguinato, privo di arti, coronato da proiettili e
bossoli sparati durante la guerra. Che non è ancora finita.
Impossibile
non guardarlo mentre si passa nel lungo corridoio che dalla cappella
porta ai padiglioni dell’antico (1905) ospedale cattolico di Saint
Louis di Aleppo
(60 posti letto), città martire siriana, gestito dalle suore di San
Giuseppe dell’Apparizione. Un’immagine che meglio di ogni parola
descrive quanto avviene in questo nosocomio e in altri due, quello
italiano e l’altro francese – sempre dedicato a Saint Louis –
di Damasco, gestiti rispettivamente dalle suore salesiane e dalle
Figlie di san Paolo. Veri e propri “ospedali da campo”, per dirla
con Papa Francesco, che fanno parte del progetto “Ospedali
aperti”,
avviato in Siria nel 2017, per iniziativa del nunzio apostolico,
card. Mario Zenari, con l’apporto sul campo di Avsi. Lo scopo è
uno solo: offrire cure gratuite ai più poveri e ai più vulnerabili.
Bombardati, danneggiati, vessati dalle sanzioni di Usa e Ue, ma
sempre aperti e pronti a curare.
Dal
novembre 2017 ad oggi i tre nosocomi hanno erogato 22.779 servizi
medici gratuiti con moderne attrezzature sanitarie. E adesso, per la
fine del 2020 si punta a quota 50 mila. “Poche
gocce nell’oceano”,
verrebbe da dire, guardando la drammatica situazione sanitaria della
Siria, dove a causa della guerra più della metà degli ospedali
pubblici e dei centri di prima assistenza sono chiusi o parzialmente
agibili e dove quasi due terzi del personale sanitario ha lasciato il
Paese. Ma poi camminando nelle corsie di questi ospedali ci si
accorge che non è così.
Tre
gocce. Una
di queste gocce è Ibrahim.
Oggi balla, salta, solleva le gambe, muove la caviglia. E sorride. Il
tempo di risistemarsi i capelli impomatati e poi torna a sedersi a
terra sui cuscini. Quel giorno, di due anni fa, nella zona di Ghouta,
alle porte di Damasco, quando un razzo gli fece crollare la casa
addosso provocandogli fratture scomposte alla gamba, sembra oramai
solo un brutto ricordo. “Sono
stato lunghi mesi fermo, non potevo camminare e lavorare
– ti racconta mentre si carezza la gamba operata piena di cicatrici
– non
avevo soldi nemmeno per comprare una caramella a mio figlio.Se
oggi posso tornare a sognare un futuro per me e per la mia famiglia è
anche grazie a chi mi ha permesso di curarmi e ai medici
dell’ospedale francese di Damasco”.
Un’altra
goccia è Evangelina
Strambouli,
anziana signora di origini greche, cristiana ortodossa. All’ospedale
cattolico di Aleppo le hanno salvato la vita due volte. Non ha più
nessuno, il marito è morto, ed è vegliata ogni giorno dal suo
vicino di casa musulmano dal nome che è tutto un programma, Fadi,
ovvero “Angelo”. E poi c’è Ahmed che
dal suo letto non cessa mai di ringraziare i medici che lo hanno
curato invocando su di loro la benedizione di Allah, seguito a ruota
dal figlio, Imaad. Vengono da Hama, nella Siria centrale. Senza le
cure nell’ospedale cattolico di Aleppo, dice “sarei
già morto. Non ho parole per ringraziarvi”.
Il
primario dell’ospedale aleppino, George Theodory, risponde a tutti
con un sorriso. Ma poi non nasconde le difficoltà che ci sono nel
portare avanti questa missione. “Dei
141 ospedali e centri clinici attivi ad Aleppo prima della guerra ne
sono rimasti funzionanti solo 44. I pazienti sono tanti e l’embargo
Usa e Ue li costringe a lunghe attese per avere esami diagnostici. I
nostri macchinari hanno bisogno di manutenzione e di pezzi di
ricambio che non arrivano. Ma grazie al progetto del nunzio Zenari
ora possiamo disporre di nuove apparecchiature, molte delle quali
donate dalla Conferenza episcopale italiana. Cerchiamo di curare al
meglio con ciò che abbiamo”.
Il
sogno dei siriani. Ibrahim,
Evangelina e Ahmed sono solo alcune delle migliaia di siriani che
hanno ricevuto cure gratuite nell’ambito del progetto “Ospedali
aperti”. I loro sogni sono quelli di tutti i siriani: “vedere
la fine della guerra, tornare a condurre una vita serena con un
lavoro e una casa”.
A raccogliere questi sogni sono un team di assistenti sociali, tra
loro Dhalia, Boshra, Shaza, Rama, Tala e Rima, guidate dal
coordinatore del progetto, George N. e dalla capo progetto Flavia C.
Sono loro per prime ad accogliere le persone che vengono a chiedere
assistenza medica e ad ascoltare i drammi della guerra, della
povertà. Ma anche i loro sogni, il primo su tutti: “guarire
e vedere il nostro Paese risorgere”.
E
sono sempre loro ad accompagnarle nel percorso di cura che non è
solo fisica ma anche morale e spirituale. La cosa più bella?
“Vedere la persona guarita e pronta a ripartire con nuova forza e
speranza”.
Come il piccolo Amer,
11 anni di Deir Ezzor, rimasto ustionato dopo un bombardamento,
impossibilitato a camminare e oggi sulla via della guarigione grazie
anche ai sacrifici della madre che per restare con lui a Damasco si
alza all’alba per vendere pagnotte di pane in strada. Non mancano i
ringraziamenti che a volte assumono le sembianze di piccoli dolci o
di profumi. “Il
loro grazie – dichiara
George
– è anche per tutti quei donatori, piccoli e grandi, che da ogni
parte del mondo contribuiscono al progetto. Senza di loro non
potremmo fare molto”.
Tra
disperazione speranza. Lo
sanno bene suor
Carol Tahhan,
salesiana, e suor
Fekria Mahfouz,
vincenziana, che dirigono rispettivamente l’ospedale
italiano
(55 posti letto) e quello
francese
della capitale siriana. Quest’ultimo con i suoi 101 posti letto è
il più grande dei tre nosocomi del progetto che ha da pochi giorni
avviato la sua seconda fase che pone tra i suoi obiettivi anche un
software gestionale per mettere in rete i tre ospedali e la
formazione tecnica con corsi di aggiornamento e training per il
personale sanitario. “Con
il progetto del card. Zenari abbiamo aumentato le prestazioni
mediche”
afferma suor Fekria mentre
scruta il display con le immagini delle 36 telecamere a circuito
chiuso messe a protezione del nosocomio colpito da 40 colpi di
mortaio (ben 4 volte nel gennaio 2018) durante gli ultimi anni. Nel
suo pc mostra anche le foto dei feriti e dei morti portati in
ospedale dopo un attacco, le fasi concitate nel pronto soccorso, le
cure, le operazioni di urgenza, “la disperazione per una vita persa
e la gioia per una salvata”.
“Oggi
– racconta
– la situazione è molto cambiata. Non si combatte più se non
nella zona di Idlib, ma c’è un’altra guerra che stiamo
fronteggiando e si chiama povertà. Nel Paese il salario minimo
mensile si aggira sui 50 dollari, circa 18 mila lire siriane
(government salary). Una miseria”.
Anche
la religiosa punta l’indice contro le sanzioni Usa e Ue che
di fatto, afferma, “hanno conseguenze pesanti sulla popolazione.
Elettricità, gas e benzina sono razionati. Problemi anche a livello
sanitario dove il divieto di transazioni con banche internazionali
impedisce a molte aziende farmaceutiche estere di commerciare con la
Siria provocando mancanza di medicinali e difficoltà nel reperire
forniture e macchinari sanitari. Nonostante tutto andiamo avanti, il
nostro carisma è quello di accogliere i poveri. La popolazione si
fida di noi, ha rispetto della nostra missione. Cerchiamo di
stare al loro fianco curando e dando conforto e ascolto”.
“Curare
la persona significa anche curare la sua famiglia – conferma
suor Carol, direttrice dell’Ospedale italiano.
“La
sofferenza accomuna tutti senza distinzione. Può diventare la malta
per cementare la ricostruzione del nostro Paese”.
“Le
prime medicine che somministriamo sono la fraternità e
l’accoglienza. Tutti vengono trattati con la dignità che meritano,
sono malati bisognosi di cure”
ribadisce il primario del nosocomio italiano, Joseph Fares,
specialista in chirurgia generale e laparoscopica, mentre compie il
suo giro tra le camere e i laboratori molti dotati di nuovi
macchinari donati dalla Cei grazie ai fondi dell’8×1000. “La
guerra lascia segni e ferite difficilmente rimarginabili. La
medicina più efficace è l’umanità. Trattare
le persone con umanità rispettando la loro dignità. Il bene è
contagioso, si trasmette e ricostruisce corpo e anima. Nei nostri
ospedali cattolici combattiamo la povertà e la guerra a colpi di
bisturi, medicine e tanto amore”. Se vinceremo questa guerra?
“Stiamo già vincendo. Ogni volta che un malato viene curato nel
corpo e nello spirito per noi è una vittoria”.
Come
ricorda il Crocifisso insanguinato di Aleppo…