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lunedì 7 gennaio 2019

«Non dimenticheremo mai i crimini degli "Emirati" contro la Siria»


  Parole fiere, potenti, sofferte quelle che Khaled al-Abboud, segretario del Parlamento siriano, dedica ai governanti degli Emirati Arabi in occasione della riapertura della loro Ambasciata a Damasco.
  Parole di grande dignità, che bene illustrano la tragedia di un popolo ingiustamente aggredito, affamato, martoriato, oltraggiato, ma che neppure tanti anni di guerra atroce sono riusciti a spezzare.
  Parole severe e implacabili che fanno apparire evidente la pochezza morale di re, reucci e principi mediorientali indegni. Vili e servili.
  Parole che traducono la consapevolezza di come il duro cammino percorso dal popolo siriano e la sua lotta strenua contro la barbarie, per salvaguardare l'identità e l'indipendenza, possano essere esemplari e destabilizzanti per quei regni oscurantisti.
 Parole infine che denunciano l'ipocrita vuotaggine dei ridicoli cerimoniali diplomatici.
 La Siria, pur con difficoltà immani, con imperfezioni e manchevolezze resta un faro luminoso nello squallore di tanti Paesi arabi ''fratelli''.

  Maria Antonietta Carta


''L'Ambasciata degli Emirati Arabi Uniti ha riaperto a Damasco dopo sette anni di sospensione delle relazioni diplomatiche con la Siria, apparentemente per "riattivare il ruolo arabo nella regione ed evitare il pericolo di interferenze regionali negli affari siriani ", secondo il ministero degli Esteri degli EAU.
Alcuni osservatori locali ritengono che non si sarebbe potuto raggiungere questo risultato senza il via libera dell'Arabia Saudita e degli Stati Uniti e che altri Paesi arabi seguiranno, rassegnati alla vittoria della Siria contro tutti gli agenti della coalizione del terrorismo internazionale. Altri evocano una corsa contro il tempo tra i due campi rivali, Turchia-Qatar e Arabia Saudita-Emirati, nel nord della Siria: entrambi notoriamente alleati degli Stati Uniti. Altri ancora si congratulano con la Siria per questa vittoria diplomatica e per la riunione di due Paesi fratelli, suscitando l'ira della larga maggioranza dei loro omologhi siriani che non capiscono come gli Emirati Arabi Uniti, coinvolti direttamente e indirettamente nella guerra terroristica che ha insanguinato la Siria, siano tornati sulla scena siriana con falsi pretesti e senza il minimo pentimento e la minima pubblica ammenda dei loro errori.
Senza soffermarsi sulle considerazioni degli uni e degli altri, Khaled al-Abboud, segretario del parlamento siriano, non meno preoccupato del tradimento dei cosiddetti Paesi fratelli, si esprime diversamente nella sua pagina ufficiale.'' 
Mouna Alno-Nakhal


Alla porta della "Ambasciata degli Emirati" a Damasco 

Prima di immergermi nel tran-tran delle pubbliche relazioni e nel protocollo di visite, dichiarazioni e sorrisi gelidi, prima di essere invitato a partecipare alla cerimonia organizzata dall'Ambasciata degli Emirati a Damasco, prima che le mie parole prendano in prestito lo zibaldone di un vocabolario insulso, prima di tutto ciò voglio garantire che non dimenticheremo.
Finché vivremo, non dimenticheremo ciò che gli "Emirati" hanno fatto contro la Siria e il suo popolo.
Non dimenticheremo il ruolo degli "Emirati" nella volontà di sopprimere la Siria. Non dimenticheremo che sono stati tra i principali attori dell'aggressione inaudita, che l'hanno finanziata e promossa. Né dimenticheremo come hanno sfigurato il nostro Paese, come hanno partecipato all'uccisione, all'esodo, alla pauperizzazione dei Siriani e come hanno contribuito all'immane devastazione che ci è stata inflitta.
Voi non avete riaperto la vostra Ambasciata a Damasco per favorire l'unità territoriale della Siria, ma per la difesa del vostro trono, scosso dalla sua resistenza, dalla resistenza della sua gente quando avete provato a cancellarla dalla faccia della Terra.
Voi non siete riusciti a prendervi gioco della realtà, perché siete molto più piccoli di quanto pensiate e più insignificanti di quanto pensa il mondo.
I Siriani non dimenticano di aver contribuito alla costruzione e alla protezione degli "Emirati" e di essere tra coloro che hanno sanguinato per farvi crescere. Voi non avete ricambiato rettamente ma, agendo in conformità con la vostra indole, avete operato per la sconfitta e la rovina della loro nazione.
I prossimi giorni ci imporranno qualche messinscena, senza pertanto evitare le conseguenze della nostra resilienza nei vostri confronti, per portarci a scambiare sorrisi e saluti e parole a cui non crediamo, come non crediamo in voi.
Parleremo a lungo di fraternità e di arabismo, consapevoli dei pugnali nascosti nelle vostre abbaye.
Parleremo del vostro sostegno alla Siria nella sua disgrazia, consapevoli che essa ha potuto compiersi mediante la vostra attitudine, il vostro contributo e il vostro odio sempre acceso.
A voi, insignificanti e servili, non diamo il benvenuto. 
Il sangue dei nostri martiri non tollera la vostra presenza, ma gli interessi della gente di Siria e della gente degli "Emirati" ci impongono di compiere la nostra vittoria su di voi, sulla vostra cupidigia e sul vostro odio attraverso la vostra Ambasciata, per i nostri popoli negli "Emirati" e a Damasco. 
Sì, un'Ambasciata per il popolo degli "Emirati" e non per i "regimi politici arabi" che sono stati una spada alzata contro Damasco quando l'universo si aggregava per bagnare di sangue e distruggere la Siria.
Khaled al-Abboud
Segretario del Parlamento siriano
27/12/2018

La fonte originale di questo articolo è il Parlamento siriano
Copyright © Khaled al-Abboud, Parlamento siriano, 2018

giovedì 3 gennaio 2019

La forza della civiltà. La rinascita di Damasco.

Storie siriane 2018 (5)
raccolte da Marinella Correggia 
L'Ordine.La Provincia , 16 dicembre 2018
«La nostra storia millenaria ci aiuterà». Fra mosaici da primato, beni archeologici da restaurare, energia fotovoltaica per la ricostruzione, e l’agricoltura che chiede pace
Trovare posto nel Guinness per aver realizzato il mosaico murale più grande al mondo con materiali di recupero merita vivi complimenti eco-artistici. Ma ecco il vero primato mondiale: gli artefici siriani di questa opera di 720 metri quadrati nel quartiere di al Mezzeh a Damasco hanno fatto tutto in piena guerra. Nelle strade damascene, dopo il 2013, fra tante esplosioni belliche sono nati sette lunghi mosaici, un caleidoscopio di colori, fantasia e speranza. Pezzi di piastrelle, tazzine rotte, bottiglie, tubi, ruote di bicicletta, pezzi metallici elettronici, chiavi e chiodi: scovati qui e là e portati in dono di cittadini. Arte partecipata.
«Nelle difficili condizioni in cui versava la città, abbiamo voluto offrire un sorriso e mostrare l'amore dei siriani per la vita, la creatività e l'arte. L'opera è iniziata nell'ottobre 2013 e a gennaio 2014 avevamo finito» spiega l'artista Moaffak Makhoul, coordinatore del lavoro. Maglietta e pantaloni neri, fa da guida nella biblioteca del museo di Damasco per l’educazione a sua volta ricca di pitture murali e arredata all’insegna del recupero. Anche bellico, in un certo senso: «In questi scaffali hanno trovato accoglienza libri profughi dalle scuole che sono state evacuate prima dell'arrivo di gruppi armati che le occuparono, a Muhadamya, Ghouta, Daraya».
Fuori dal silenzio bibliotecario, il traffico rumoroso e intenso provoca la una domanda: Come fanno i siriani a mantenersi l’automobile, dopo sette anni di guerra che hanno provocato inflazione e impoverimento? La giovane agronoma Dima Hassan – un po’ il nostro Viriglio, in Siria… - non ha l’auto e vive modestamente con il suo salario che con la svalutazione della lira siriana equivale a 30 euro, ma tenta questa risposta: «O hanno parenti all’estero, o fanno tre lavori, una situazione ormai comune qui, o stanno dando fondo ai risparmi di prima della guerra». Chi si esaspera per gli ingorghi pensa al progetto di metropolitana: «E’ vecchio di venti anni; è così difficile scavare? Si potrebbe affidare l’opera a Jaysh al Islam e agli altri mercenari che in pochi anni, trincerati nell’area di Ghouta orientale hanno scavato chilometri di tunnel per assicurarsi gli approvvigionamenti in armi e materiali!»
Davanti alla scuola d'arte Abdel Hader, vicina alla biblioteca, le due sorelle artiste Rajab e Safa Wabi siedono davanti a un alto muro decorato in rilievo. «Abbiamo iniziato, con diversi allievi, l'arte di strada nel 2011, contemporaneamente alla crisi poi sfociata nella guerra. E non abbiamo smesso nemmeno sulla testa del quartiere piovevano colpi di mortaio che provenivano provenienti dalle aree fuori Damasco in mano ai gruppi armati» spiega la sorella più giovane, mentre l'altra prosegue, allungando il braccio verso un vicino edificio: «Ecco, là cadde un missile. Lavorando per strada, non avevamo proprio nessun riparo! Ma il nostro lavoro attirava magneticamente tante persone, adulti e bambini, e questo ci era d’aiuto».
Si avvicinano zampettando due tortorelle, o forse sono, in piccolo e in marrone screziato di bordeaux, la versione damascena dei nostri piccioni. Le artiste indicano le colombe di sabbia e cemento posate sulla cima del muro: «Le abbiamo messe come simbolo di pace».
Una pace che non c'è ancora in Siria, dove tanti fronti si sono chiusi ma altri si sono riaperti. Di certo nelle aree maggiormente colpite dal conflitto, invece dei mosaici ci sono macerie. Per la ricostruzione post-bellica, un'opera titanica, si stima un costo di 470 miliardi di dollari. La macchina si è già messa in moto con la riabilitazione di edifici di pubblica utilità e di spazi privati, preceduta dalla rimozione delle macerie. La fondazione dell'Aga Khan sta già sostenendo il ripristino del patrimonio storico architettonico, a cominciare dall'enorme suq di Aleppo e di altri monumenti della Città vecchia.
Una buona notizia è che l'immensa quantità di macerie sarà in parte destinata al riciclo («sono già al lavoro, oltre alla macchina governativa siriana, i cinesi», assicura Mohamed Merie, traduttore siriano che viveva in Spagna e che decise di tornare nel suo paese nel 2014, nel pieno della crisi). 
L'immagine può contenere: 5 personeUn riutilizzo che fa il paio con un piccolo ma significativo progetto ad Aleppo. Il gruppo di volontari cristiani Maristi blu, fra i tanti progetti di riabilitazione ne ha uno chiamato Heart Made, che pratica l’up cycling senza chiamarlo così, come spiega uno dei responsabili del progetto, Leyla Antaki: «Ricorriamo a stock di magazzino rimasti invenduti nel tempo e li trasformiamo dando loro una seconda vita. I modelli li prendiamo su internet, adattandoli poi ai gusti locali. Poi con i ritagli, le maniche, i jeans facciamo borse grandi e piccole, sacchetti che decoriamo. In sintesi si tratta di evitare le spreco tessile, imparare la perfezione nel lavoro e realizzare cose belle».
Sulla ricostruzione, la domanda è: chi pagherà per rimettere in piedi il paese? Chi ci guadagnerà? E’ drastico Juan, giovane artista di Damasco il cui padre è originario della zona di Afrin, colpita dai bombardamenti dei turchi: «Spero proprio che non diventi un business per i soliti che prima portano rovina e poi ci guadagnano... Io dico che i paesi occidentali, la Turchia, i monarchi del Golfo dovrebbero risarcire il popolo siriano! Hanno fomentato per dolo o per stupidità una guerra per procura, hanno sostenuto mercenari jihadisti… ». I danni peraltro sono molto superiori alla cifra stimata per ricostruire. Perché la perdita di vite umane e di parte del patrimonio storico architettonico e archeologico sono senza prezzo.
La guerra ha sconvolto il metodico e spesso oscuro lavoro di archeologi, restauratori e funzionari. Siti occupati, magazzini di reperti saccheggiati, musei danneggiati, personale che rischiava la vita. In una delle grandi stanze laboratorio del museo archeologico nazionale di Damasco, ingombro di casse di reperti, Rima Hawan, direttrice del dipartimento restauro, indica pezzi di statua provenienti da Palmira (Tadmor), sito patrimonio dell'umanità che per dieci mesi a cavallo fra il 2015 e il 2016 fu assediata dal sedicente Stato islamico (Isis, che nel mondo arabo musulmano non integralista è chiamato Daesh, in senso spregiativo): «La situazione era di assoluta emergenza». Si temeva la distruzione totale del sito, di fronte alle immagini orgogliosamente diffuse da Daesh, con le decapitazioni di statue e non solo: l’archeologo Khaled al Asaad, dopo una vita a Palmira a occuparsi del sito, pagò con la vita - sgozzato il 18 agosto 2015 a 83 anni - il rifiuto di rivelare i nascondigli dei reperti. 
 Il direttore del museo di Palmira Khalil al Hariri riuscì a fuggire all’ultimo momento, ma perse un fratello e un cugino oltre a vari amici. Si trova al museo di Damasco per seguire i progetti di restauro di alcune statue portate via in tempo e in modo fortunoso: «Ci colsero di sorpresa con la loro avanzata. Tutto sembrava essere più forte di noi, in quei giorni. Oltre al terrore, avevamo ben presente il saccheggio del patrimonio storico iracheno nel 2003...Ma siamo riusciti con fatica e pericoli a evacuare numerosi reperti, una specie di mission impossible» prima dell’arrivo dei moderni unni.
Alcune addette sono impegnate, su grandi registri e al computer, nella verifica minuziosa dei reperti. Najma è fra i restauratori che hanno lavorato a Palmira dopo la fuga di Daesh: «Ci sono opere totalmente distrutte, altre che stiamo cercando di recuperare, qui lavoriamo soprattutto sui volti.» Kawtar e Hiba spennellano una statua monca. Chi vi ha aiutati in questi anni di isolamento, e avete sempre a disposizione i materiali necessari? Rima sorride cautamente: «Gli archeologi sono una comunità mondiale. Gli esperti con i quali lavoravamo per studiare l'immenso patrimonio siriano, ci sono stati concretamente vicini Sempre».
L'immagine può contenere: una o più persone e spazio al chiuso
@ foto Malatius Jaghnoon
Fra le aree di crisi c’è stato per anni il Museo nazionale di Aleppo, quello che sembra custodito dalle enormi statue ittite di scuro basalto, gli occhi spiritati. Nel luglio 2016, quando fu colpito da numerosi missili e colpi di mortaio lanciati dai gruppi armati che controllavano parte della città, la maggior parte della collezione era già al sicuro. Nell'emergenza di questi anni con il paese suddiviso in aree di influenza fra gruppi armati, precisa Hariri, «il Direttorato per le antichità ha perso contatto con due realtà: Idlib, tuttora controllata da gruppi qaedisti; e Raqqa».
Raqqa: un toponimo che per anni ha evocato il terrore da quando, nel 2014, la città diventò la «capitale del califfato» del sedicente Stato islamico. Il museo cittadino era ricco di reperti di varie epoche, fino alla preistoria. Il Direttorato aveva immagazzinato la maggioranza delle collezioni in una serie di edifici vicino alla fortificazione del periodo Abbaside a Heraqla, a 7,5 chilometri al museo. Ma già nel marzo 2013 il califfato saccheggiò i magazzini e molti pezzi, mosaici, terrecotte, gessi, risultato di decenni di missioni di scavi, uscirono dal paese attraverso la complice Turchia, destinazione il mercato internazionale dei reperti. Del resto, pezzi provenienti da Palmira sono stati trovati in vendita a Londra, uno dei più importanti mercati di antichità… Gli addetti erano riusciti a evacuare o nascondere una parte dei materiali trasportabili, e in seguito a recuperare tre casse piene, ritrovate a Tabqa. Durante l'offensiva antiDaesh da parte degli Usa e delle Syrian Democratic Forces, l'Isis arrivò a piazzare cariche esplosive in prossimità del museo. Dalle foto scattate una volta sfrattato l’emiro, l'edificio non è distrutto ma crivellato di colpi; l'interno è pieno di detriti e molti reperti sono scomparsi.
Un destino comune a circa 300 siti di rilevanza storica. La guerra è davvero un elefante infuriato in un negozio di cristalli.
Torniamo al museo archeologico di Damasco. Nel cortile, fra reperti e alberi, un gruppetto di operai con giubbetto arancione e casco installa una lampada fotovoltaica. Interessante connubio fra passato e moderno. Normale oltre che auspicabile, per Mahmoud Alawadi, titolare della ditta Htm Power solution: «Il fotovoltaico e il patrimonio archeologico sono entrambi elementi chiave del nostro futuro. I millenni di storia ci aiuteranno a ricostruire. Penso che alla civiltà della forza che hanno messo in scena certi Stati sulla nostra pelle si debba opporre la forza della civiltà.» Del resto, la sua vicedirettrice della ditta è Slava Abdo, studi di archeologia ed entusiasmo futuribile: «La Siria è la signora del Sole, il nome stesso di quest’area del Mediterraneo, Sham, ha assonanza con il termine arabo che indica il sole, shams. Il sole c’è sempre, l’energia solare è il nostro futuro e deve avere la massima attenzione». E il solare termico e fotovoltaico in giro si vedono. Qui e là, sui tetti di Aleppo e perfino a Kafarbatna nella Ghouta orientale sui palazzi rimasti in piedi, e nelle strade urbane ed extraurbane per far funzionare semafori, lampioni, antenne; fino alle torce distribuite nei centri per gli sfollati. Con la guerra, l’approvvigionamento in energia elettrica e di conseguenza la stessa fornitura di acqua sono diventati un problema. Le energie rinnovabili rappresentano una soluzione, solo parzialmente sperimentata, eppure «Se si calcolano le spese per un generatore diesel che supplisce alla mancanza di energia elettrica da centrali termiche, e le confrontiamo con quelle di pannelli che poi lavorano per 24 anni…»
I costi d’impianto possono disincentivare, ma la ricostruzione può essere una buona occasione, prosegue Slava: « Il fotovoltaico serve dovunque, nelle case, nelle strade, nelle fattorie, nelle industrie…Non solo se ne possono dotare gli edifici ricostruiti, ma può essere una grande risorsa nella stessa opera di rifacimento.» E la produzione made in Syria dei pannelli, che era stata avviata prima della guerra? «Attualmente il rapporto costi-benefici ci fa preferire l’import dalla Cina, ma fra due anni contiamo di avere una fabbrica nostra, qui» conclude Slava mentre appoggia il piede su una pedana che si illumina. Alawadi mostra con orgoglio il funzionamento delle pompe d’acqua fotovoltaiche, utilissime in agricoltura.
Anche quest’ultima, nella terra della Mezzaluna fertile, ha alle spalle una storia di molti millenni. Ne sa qualcosa il genetista italiano Salvatore Ceccarelli, che con l’organizzazione internazionale Icarda - Istituto internazionale per la ricerca agricola nelle zone aride - ha lavorato a lungo nel paese con gli agricoltori, migliorando in modo partecipativo i cereali tradizionali (quelli coltivati da secoli e secoli), tanto da ottenere miscugli di varietà in grado di rispondere alle crisi ambientali e idriche. Miscugli ora coltivati in vari paesi compresa l’Italia. E in Siria?
Nel paese mediorientale, dopo la siccità che ha colpito duramente dal 2008, sette anni di guerra hanno nuociuto gravemente alla produzione alimentare, per via degli spostamenti di popolazione e degli scontri che hanno coinvolto anche aree rurali e scombinato le filiere e i trasporti.
Per questo è un piccolo miracolo vedere il bel colore delle albicocche spuntare da una cassetta sulla bici di un contadino a Mleha, Est Ghouta, regione alle porte di Damasco che è stata nell’occhio del ciclone bellico. I frutti costano 300 lire siriane al chilogrammo: un tempo alla portata di tutti, ora per pochi visto l'abbassamento dei salari. Squisiti, un insieme di sapori delicati. L’albicocco, originario della Cina, sembra aver trovato la patria elettiva in Siria e Turchia. Kobol el arb, gli abitanti della capitale andavano in gita alla Ghouta al tempo della fioritura. E attendevano con ansia la breve stagione dell'albicocca, espressione che è anche un modo di dire per indicare qualcosa di fugace. Al tempo dei mamelucchi, a sentire il viaggiatore egiziano El Badri gli studiosi si mettevano in...ferie lasciando cattedre e libri per andare a rimpinzarsi del frutto. Che in Siria ha ispirato una vera arte della conservazione e della trasformazione. «Del resto da noi in Argentina le albicocche si chiamano Damasco e adesso capisco perché» dice l'attrice Susana Oviedo, in visita in Siria.
Quale posto avrà il settore primario nella ricostruzione del paese? E funzionerà davvero l’annunciato piano per le donne rurali? 
Ecco una potenziale destinataria. Una produttrice di Katana, cappello giallo, foulard blu vivace, abito bordò arriva ogni giorno con il pulmino da Katana nella capitale per vendere i suoi cibi. Il suo posto è sotto uno dei mosaici. Cultura e coltura.

sabato 29 dicembre 2018

Regalo di Natale: una lettera ai Maristi Blu da una famiglia sfollata


Ai Maristi di Aleppo.

In occasione delle Feste, vorrei augurare a voi e alle vostre famiglie un Natale felice e benedetto e un nuovo anno pieno di salute e di gioia.
Vorrei esprimervi la mia gratitudine e ringraziarvi per tutto quello che ci avete donato durante questi ultimi anni. Siete stati, e lo sarete per sempre, l'esempio dell' amicizia sincera e dell'amore per gli altri.
Voi ci avete mostrato, a noi e a tutti quanti, che siete veri fratelli e che non fate distinzioni circa la religione o la confessione.
Siamo orgogliosi della vostra amicizia e grati di vivere con voi sotto lo stesso cielo; sentimenti che abbiamo ereditato dai nostri padri e dai nostri antenati e che consegneremo ai nostri figli perché voi meritate il nostro rispetto e il nostro amore.

Sia benedetta la vostra affiliazione, voi 'i Maristi', a Maria; perché la Vergine Maria ha messo al mondo il Signore dell'Amore e della Pace, il nostro Signore Issa (NDT: Gesù si chiama Issa tra i musulmani) pace su di lui.
Come siamo orgogliosi di aver fatto parte di questa fraternità marista negli ultimi anni, noi vogliamo restare, se Dio vorrà, i vostri fratelli maristi musulmani. È così che abbiamo vissuto e continueremo a vivere fino alla nostra morte.

Miei cari fratelli Maristi, ogni tragedia ha due facce. Il lato oscuro della tragedia siriana era la guerra, le sofferenze e la tristezza. Ma la faccia luminosa, eravate voi, tutti voi senza eccezioni.
Il vostro comportamento, la vostra compassione e il vostro sorriso ci hanno restituito la speranza e hanno portato la gioia ai nostri figli. Grazie a voi, due dei miei figli sono ora all'università e gli altri tre seguono il percorso dei loro fratelli più grandi.
Con il vostro amore e la vostra umanità, siete stati al nostro fianco durante il più grande calvario che abbiamo vissuto: la grave malattia che ha portato via la mia sposa che, fino alla fine, vi è stata riconoscente, particolarmente al Dottor Nabil Antaki, così umano e così saggio.

Se, come al solito, con la vostra modestia, dite che tutto l'aiuto fornito e distribuito non viene da voi, vi risponderei comunque che l'amore siete voi, il sorriso siete voi, le buone maniere siete voi, il rispetto per gli altri siete voi. Avete distribuito l'aiuto, in parte fornito da altri, nel migliore dei modi. Ci avete insegnato una lezione meravigliosa: che il dono si fa con il sorriso e con il rispetto dell'altro.

Se voi, i Maristi, avete dovuto fermare il programma di distribuzione dei panieri alimentari, vi assicuro che resterete comunque nei nostri cuori fino alla fine dei nostri giorni e che racconteremo ai nostri figli e nipoti del vostro comportamento e della vostra solidarietà con noi affinché il vostro ricordo rimanga eternamente una fiamma che irradia.

Auguro a voi tutti un buon Natale e un felice anno nuovo. Trasmettete i miei auguri e i miei ringraziamenti anche a tutti i vostri collaboratori e donatori in Siria o all'estero.
Spero che questa lettera tocchi i vostri cuori perché essa esce dal mio. 

Vostro fratello Salah S.
Aleppo, il 21 dicembre 2018

mercoledì 26 dicembre 2018

Ritorno a Latakia


di Maria Antonietta Carta

Latakia non è stata devastata né dalle bombe né dai barbari che dal 2011 infestano la Siria. Le sono piovuti addosso soltanto pochi missili provenienti dalle belle montagne vicine, violate dai terroristi, e dal mare quando a scagliarli sono stati, in una notte di pochi mesi fa, aerei israeliani.

Latakia, prima della guerra, era una città mediterranea un po' indolente, anche se stravolta in alcuni decenni per il repentino aumento della popolazione e una indecente speculazione edilizia. Gli embarghi assassini che da oltre trent'anni periodicamente colpiscono la Siria per non essersi assoggettata ai diktat della politica imperiale e la paralisi del suo porto in seguito alla guerra Iran-Iraq, quando cessarono i traffici commerciali verso i paesi del Golfo, l'hanno impoverita negli anni ottanta del secolo scorso. Tuttavia era dolce anche d'inverno, tollerante, chiara, solare, abbracciata quasi interamente dalle acque del Mare Bianco, come gli Arabi chiamano il Mar Mediterraneo. E negli ultimi anni stava iniziando a conoscere uno sviluppo almeno in parte più armonioso.

Latakia non è stata ridotta in macerie dai bombardamenti, eppure essa racconta tutto l'orrore, la ferocia, l'insensatezza, la desolazione, l'impietosità della guerra.

Arrivando in un tardo mattino dello scorso ottobre, mi è apparsa affranta, schiacciata, annichilita. Chiusa in se stessa come i balconi che tende, ormai sudice e sbrindellate, hanno preso ad occultare da sette anni facendola sembrare un luogo di abbandono apocalittico.
In vaste aree della città, soprattutto il centro commerciale, più frequentato e popoloso, e le affollate periferie popolari, i marciapiedi sono divelti, le vie si riempiono di pozzanghere fangose anche dopo una pioggerellina, per l'incuria nella manutenzione della rete di canalizzazione delle acque piovane dovuta, come tanti altri disagi, a una severa economia di guerra. I muri degli edifici sono erosi ed ingrigiti per il terribile inquinamento causato da una moltitudine di generatori di corrente invecchiati, che rumoreggiano ovunque nei frequenti black-out, e dal traffico convulso, per il repentino all'aumento della popolazione con i rifugiati interni dalle zone di guerra.

La povertà e l'indigenza si leggono nei volti smunti e nelle membra gracili di tanti bimbi e adolescenti malnutriti a causa dei prezzi esorbitanti dei prodotti alimentari, dovuti ad una inflazione ormai incontrollata (immaginate che voi per comprare un chilo di carne doveste spendere un sesto di uno stipendio di 1200 euro), nella mendicità dilagante di vecchi e bambini, nella penuria o pessima qualità di farmaci salvavita. Le sanzioni criminali inflitte dall'Occidente, nonostante tutti gli sforzi del governo e della collettività, provocano danni irrimediabili per le cure delle malattie infantili, del cancro etc, e contribuiscono ad far lievitare costantemente i prezzi e ad aumentare la corruzione e i traffici illegali ai danni soprattutto dei cittadini poveri, cioè della stragrande maggioranza. La sofferenza e lo scoramento traspare dallo sguardo degli adulti o nella prostrazione che si indovina osservando i soldati che da anni affrontano l'insensata efferatezza sanguinaria di un conflitto non cercato.

La guerra ha artigliato tutti indiscriminatamente. Non esiste famiglia che non abbia avuto lutti, perdite di vite giovani, lacerazioni. Ciò che colpisce maggiormente è il senso di solitudine, di abbandono che le persone provano perché sentono che il mondo resta indifferente alla loro tragedia e l'urgenza di raccontare, di essere ascoltate, confortate, comprese, accompagnate.

Eppure, nonostante tutto, a Latakia la bellezza e la dolcezza non sono morte.
Le ho incontrate nella gioia insperata e accogliente delle persone ritrovate dopo una lunga assenza, nell'abbandono confidente con cui mi hanno raccontato le loro pene, nell'abbraccio caloroso di nuovi incontri, nell'arte che continua a vivere indomita, nella forza generosa di chi si prodiga per i più deboli e nella compostezza di chi ha perso tutto ma non la dignità.

Il ghigno gelido della guerra non è riuscito a paralizzare Latakia. Come non c'è riuscito ad Aleppo, a Damasco, Homs, Hama e in tanti altri luoghi della Siria.
Latakia, come il resto della Siria, resiste. Nonostante i potentissimi e implacabili nemici.


In un parco che si affaccia sul mare, Al Batarni Park, ogni sabato prende vita un mercato, Suq al Dayaa, di prodotti agricoli biologici coltivati soprattutto da donne in piccoli orti dei villaggi circostanti, e creazioni artigianali di locali ma anche di rifugiati interni che provengono da Raqqa, Deir al Zor, Abu Kamal. Il mercato esisteva già prima della guerra. A dargli inizio è stata tra altri Zeina, che amante della natura incontaminata, gentile, fervida, un po' bizzarra e sempre sorridente, fa pensare a un folletto dei boschi. Con l'esplodere del conflitto, Al Batarni e il suq sono diventati anche un luogo di riunione e di solidarietà tra abitanti autoctoni e chi è giunto in città fuggendo la distruzione della guerra. E Zeina, di professione farmacista, ha dato in affitto la sua farmacia per occuparsi a tempo pieno dei derelitti.

Ho conosciuto Samir, di padre siriano e madre cubana, prima della guerra. Aveva 18 anni ed era arrivato poco tempo prima a Latakia da Raqqa, dove aveva frequentato il liceo e suo padre faceva il medico. Avevano la casa a Tell Abiad, sua madre si prodigava per i malati e gli indigenti del luogo ed era molto amata. Sono stati i concittadini sunniti ad avvisare la sua famiglia, quando corse il rischio di essere perseguitata dai terroristi, essendo il padre alawita e la madre cristiana, e aiutarla a fuggire. La fuga da Tell Abiad ad Aleppo durò tre giorni. E infine Samir riuscì a riabbracciarli a Latakia. Mi ero molto affezionata a questo ragazzo gentile. Adesso di anni ne ha 26 ed ha trascorso il tempo della guerra soccorrendo poveri e ammalati. É garbato, pieno di calore umano e divertente come 10 anni fa, ma quando abbassa le difese traspare una grande sofferenza. '' La guerra in un modo o nell'altro è stata sempre presente nella mia esistenza come in quella di questa terra – mi dice in un momento di abbandono – Palestina, Iraq e adesso Siria''. Gli ho suggerito di scrivere le sue esperienze. ''Se dovessi raccontare tutte le cose orribili che ho visto e che vedo, potrei scrivere un libro al giorno'', mi ha detto.
Samir e Zeina dispensano cure e affetto a bambini e adolescenti disagiati, sperduti, che la guerra ha ferito. Portano anche gioia e coraggio dentro l'ospedale oncologico, facendo i clown e dispensando colori e amore.
In Al Batrani, i bambini si incontrano, giocano, disegnano, fanno musica. E vi si allestiscono dei tavoli con i doni dei locali, abbigliamento ed altro, a cui ognuno attinge secondo necessità. Il tutto avviene con grande rispetto e delicatezza: niente fotografie dei bisognosi mentre ricevono gli aiuti e discrezione sui donatori, come è costume da queste parti.
Zeina e Samir, sempre sorridenti e rispettosi, coadiuvati da volontari si occupano di tutto.
L'ambiente, tra bancarelle colorate del suq, spezie odorose e alberi frondosi risulta accogliente. Riposante. Alcuni rifugiati di Abu Kamal mi raccontano delle persecuzioni che gli sono state inflitte dai terroristi e dei loro attuali disagi, ma con grande misura e pudore. Senza sfoggio di autocommiserazione. Avevano una casa, un lavoro, una vita normale, e sono dovuti fuggire con soltanto gli abiti addosso. Saputo che sono italiana, una donna mi dice sorridendo: ''abitiamo in un luogo molto umile, ma se vieni a trovarci ti farò la pizza''. E quando racconto di essere stata diverse volte ad Abu Kamal prima della guerra, un uomo mi invita: ''Quando finisce la guerra sarai ospite a casa nostra.''

Nizar Ali Badr, è uno scultore fiero delle sue origini ''ugaritiche''. L'amore per il proprio Paese è sconfinato e non potrebbe mai abbandonarlo, dice. Oltre a scolpire, narra storie con sassolini e ciottoli raccolti alle pendici del Jebel Aqra. Il monte Saphon dei testi di Ugarit. Dove Baal, dio della tempesta, aveva edificato un sontuoso palazzo, e l'imperatore Aureliano era salito per sacrificare agli dei quando il monte si chiamava Casius.
L'immagine può contenere: una o più persone e follaCon le pietre raccolte tra la spiaggia mediterranea e il monte che per millenni fu considerato sacro, Nizar racconta il dolore, la fatica del vivere, la sopraffazione, l'abbandono, la violenza della guerra, le odissee dentro fragili barche, ma anche l'amore, la gioia, la danza e la fascinazione per la natura e i suoi doni. Con il semplice uso di quei sassolini, inventa racconti pervasi di compassione, di intensa tenerezza, e di comunione con un mondo naturale ''antico'' di cui sembra percepire ogni respiro. Come nelle epopee ugaritiche. Come in Omero che canta l'Aurora dalle rosee dita.
Fino a qualche tempo fa le sue creazioni erano quasi sempre effimere come i sogni che svaniscono all'alba. Talvolta, duravano il tempo necessario per una fotografia, perché la colla adatta a legare le pietre non si trova in Siria (leggi embargo) o è troppo costosa (leggi mercato nero). 

Sono andata a trovarlo. Abita in una periferia tanto desolata che arrivandoci si è presi dallo sconforto. Ma dopo una ripida e difficile serie di rampe di scale sbrecciate in un alto caseggiato, si raggiunge la terrazza ed ecco un mondo straordinario abitato da sculture e da ciottoli riuniti a formare racconti intensamente, poeticamente evocativi. Sorridendo, mi ha confidato di aver scoperto una colla di cui però non svelerà mai il segreto. ''Non ti chiederò la sua composizione, ma certo mi piacerebbe sapere come ci sei arrivato'' lo provoco ridendo. ''Mi ha insegnato il Monte'' risponde serio. Il monte Saphon, che svetta solenne all'orizzonte nel sole al tramonto, sembra dominare la terrazza affollata delle sue pietre e ciottoli. Ed io, che per lunghi anni ho cercato storie straordinarie nelle montagne di Latakia e conosco bene i legami profondi di chi le abita con quell'universo, non mi meraviglio.

L'immagine può contenere: 1 persona, persona seduta, spazio all'aperto e natura
Nizar ha i polsi ricoperti da molteplici braccialetti di ciottoli ''Pesano un chilo'' mi dice, accostando le due braccia, e mostrandomi le mani che non possono toccarsi aggiunge:
''Così non posso prendere soldi dai corruttori''.
Le inique e ingiuste sanzioni europee colpiscono anche gli artisti che hanno scelto di restare in Siria, ed essi vivono spesso in povertà o quasi, data la disastrosa situazione economica interna. A Nizar Ali Badr, noto ed apprezzato all'estero, è stato negato il visto per recarsi in Portogallo, dove si svolgeva una mostra personale e un film dedicato alla sua opera.

Con i ciottoli crea anche immagini terribili di torture e prevaricazioni, di ecatombi per i bombardamenti, di gente in fuga dalla guerra e di profughi sperduti in mezzo al mare. 
Nei disegni dei bimbi che si radunano nel Parco Batarni figurano carri armati, aerei e altre macchine che uccidono, tende di chi ha perso la casa, insiemi di linee che sembrano indicare storie di vita cancellate o che si ha timore di rievocare. 

Ho visitato anche la mostra di un affermato scultore e pittore, Fouad Dahadouh. Sono le sue ultime opere. Pitture nel tempo della guerra. Quadri popolati di figure femminili che vegliano morti o feriti, donne afflitte ma solidali e forti, che fanno pensare al risveglio. Alla vita che si rinnova e rigenera. E rovine che però non sono mai completamente scure, abbuiate, desolate. E mi viene in mente che nei disegni dei bambini, nella sublime semplicità di Nizar Ali Badr, nei quadri di Fouad Dahadouh. negli incontri con Zeina che sembra un folletto e con Samir che balla quando la sua ambascia è troppo acuta, come negli uomini e donne con cui mi sono commossa e ho sofferto ascoltando le loro vicende travagliate ma anche riso sorseggiando caffè, ho visto l'essenza del popolo siriano: la loro empatia con la vita in tutte le sue forme, la forza interiore, lo stoicismo nelle avversità. É come se capissero che la furia oscura della guerra non riesce a estinguere la chiarità. Ecco perché la Siria non può morire.

Potrei chiudere qui, con questo pensiero positivo, in queste giornate di feste natalizie e di attesa del nuovo anno che arriva, ma non posso. A Latakia ho visto anche bambini che non vanno al Suq al Dayaa, che non disegnano sotto i rami frondosi del Parco Al Batrani. Bambini che non vanno a scuola perché la scuola è lontana e inaccessibile, tanti bambini che ho visto faticare al mercato e nella pescheria vicino a casa, bambini che vendono fiori, accendini, gomme americane nelle strade, bambini che chiedono l'elemosina e saranno maltrattati da chi li sfrutta se non rimediano dei soldi. Bambini che sarebbero abusati sessualmente, come qualcuno mi confida titubante, e bambini che hanno assistito a troppa violenza, soprattutto quelli provenienti dalle città della Jazira, e sono diventati violenti. Bambini senza la fortuna di genitori che pur nella povertà e nella sofferenza sanno essere amorevoli. Bambini che non vanno neppure bene nei post su Facebook come immagine di una Siria che vuol rinascere dalle ceneri.

Tutti questi bambini che hanno imparato presto le asprezze dell'esistenza e potrebbero diventare forti se solo venissero accolti e difesi, sono invece troppo spesso ignorati e lasciati soli o in balia di chi li crocifigge. L'ultima sera prima della mia partenza, con Samir abbiamo immaginato dei luoghi in cui essi possano sempre recarsi sentendosi amati, compresi e protetti, per superare i terribili traumi della guerra e tornare ad essere davvero bambini. 
Questa è una grande sfida che bisogna affrontare a Latakia e in tutta la Siria, senza perdere tempo. Senza attendere la fine della guerra.

sabato 22 dicembre 2018

Buon Natale!

Sadad, affresco siriaco 
«Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio.  
Parlate al cuore di Gerusalemme, e proclamatele che il suo tempo di guerra è finito, che la sua iniquità è espiata, perché ha ricevuto dalla mano dell'Eterno doppio castigo per tutti i suoi peccati». (Isaia 40, 1-2)

A tutti gli amici auguriamo di cuore Buon Natale
Ora pro Siria




Rassegna Stampa
alcuni religiosi siriani raccontano  come si vive il Natale di quest'anno 

- Il canto di Natale dei cristiani di Knayeh chiusi nella gabbia jihadista di Hayat Tahrir al-Sham :

Le speranze del popolo siriano alla luce del ritiro delle truppe dal nord est, annunciato dal presidente Usa Trump e contestato da più parti. Parla il vescovo caldeo mons. Antoine Audo :

Inizia il ritiro delle truppe USA.Il Vescovo Abou Khazen: meglio così

-  Mons. Jeanbart: “la guerra non è finita ma non mancano segni di una pace prossima” :

- Da Damasco, Padre Amer, siro-cattolico, descrive un clima per le strade della capitale che ricorda il periodo “precedente la guerra”.

 “Mother Fortress”, un viaggio nel cuore della Siria in guerra con uno sguardo particolare al coraggio dei monaci e delle monache del monastero di San Giacomo a Qara :

martedì 18 dicembre 2018

In Siria l'intera nazione si è mobilitata e ha vinto

    foto YAYOI SEGI © 2018 Andre Vltchek

Pubblichiamo il bel testo/dichiarazione d'amore alla Siria, di Vltchek, per lo sguardo di appassionata speranza con cui egli percorre questa terra:  
nell'auspicio fiducioso che venga finalmente il bel giorno della PACE! 
  OpS



Andre Vltchek  
New Eastern Outlook, 2018

Sì, ci sono macerie, in realtà distruzione totale, in alcuni quartieri di Homs, Aleppo, alla periferia di Damasco e altrove.

Sì, ci sono terroristi e "forze straniere" a Idlib e in diverse zone più piccole in alcune parti del paese.

Sì, centinaia di migliaia di persone hanno perso la vita e milioni sono in esilio o sfollate.

Ma il paese della Siria è rimasto in piedi. Non si è sgretolato come la Libia o l'Iraq. Non si è mai arreso. Non ha mai considerato la resa come un'opzione. Ha attraversato l'agonia totale, attraverso il fuoco e il dolore inimmaginabile, ma alla fine ha vinto. Ha quasi vinto. E la vittoria, molto probabilmente, sarà definitiva nel 2019.

Nonostante le sue dimensioni relativamente piccole, non ha vinto come una "piccola nazione", combattendo la guerriglia. Sta vincendo come uno stato grande e forte: ha combattuto con orgoglio, frontalmente, apertamente, contro ogni previsione. Ha affrontato gli invasori con tremendo coraggio e forza, in nome della giustizia e della libertà.

La Siria sta vincendo, perché l'unica alternativa sarebbe la schiavitù e la sottomissione, e questo non è nella mentalità della gente qui. Il popolo siriano ha vinto perché doveva vincere, o affrontare l'inevitabile fine del suo paese e veder crollare il sogno di una patria pan-araba.

La Siria sta vincendo e, si spera, nulla qui in Medio Oriente, sarà mai più lo stesso. I lunghi decenni di umiliazione degli arabi sono finiti. Ora tutti "nel vicinato" stanno guardando. Ora tutti sanno: l'Occidente e i suoi alleati possono essere combattuti e fermati; non sono invincibili. Tremendamente brutali e spietati, sì, ma non invincibili. Anche gli apparati religiosi più violenti e fondamentalisti possono essere distrutti. L'ho detto prima, e lo ripeto anche qui: Aleppo è stata lo Stalingrado del Medio Oriente; Aleppo ma anche Homs, e altre grandi città siriane coraggiose. Qui il fascismo è stato affrontato, combattuto con tutte le forze e con grande sacrificio e infine rimosso.

Mi siedo nell'ufficio di un generale siriano, Akhtan Ahmad. Parliamo russo. Gli chiedo della situazione della sicurezza a Damasco, anche se la so già. Per diverse sere e notti, ho camminato attraverso le strette strade tortuose della città vecchia; una delle culle della razza umana. Anche le donne, anche le ragazze, vi camminavano. La città è al sicuro. "È sicura," sorride il generale Akhtan Ahmad, con orgoglio. "Sai che è al sicuro, vero?". Annuisco. È un alto comandante dell'intelligence siriana. Avrei dovuto chiedere di più, molto di più. Dettagli, dettagli. Ma non voglio conoscere i dettagli; non adesso. Voglio sentire ancora e ancora che Damasco è al sicuro, da lui, dai miei amici, dai passanti.
"La situazione ora è molto buona. Esci di notte…". Gli dico che l'ho fatto. Che lo sto facendo da quando sono arrivato. “Nessuno ha più paura", continua. "Anche nei luoghi in cui i gruppi terroristici erano soliti operare, la vita sta tornando alla normalità ... Il governo siriano sta ricominciando a fornire acqua, elettricità. Le persone stanno tornando nelle aree liberate. La Ghouta orientale è stata liberata solo 5 mesi fa, e ora puoi vedere i negozi riaprire anche lì, uno dopo l'altro ".
Ho firmato diverse autorizzazioni. Ho fatto la foto al generale. Sono stato fotografato con lui. Non ha nulla da nascondere. Non ha paura. Gli dico che alla fine di gennaio 2019, o al più tardi a febbraio, vorrei andare a Idlib, o almeno nei sobborghi di quella città. Va bene; devo solo farglielo sapere qualche giorno prima. Per Palmyra, bene. Ad Aleppo, nessun problema. Ci stringiamo la mano. Si fidano di me. Mi fido di loro. Questa è l'unica via da seguire: questa è ancora una guerra. Una guerra terribile e brutale. Nonostante il fatto che Damasco sia ora libera e sicura.
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Dopo aver lasciato l'ufficio del generale, andiamo a Jobar, alla periferia di Damasco; quindi a Ein-Tarma.
Lì, è una follia totale.
Jobar era una zona prevalentemente industriale, Ein-Tarma un quartiere residenziale. Entrambi i posti sono stati ridotti quasi interamente in macerie. A Jobar mi è permesso di filmare all'interno dei tunnel che erano usati dai terroristi; dalle Brigate Rahman e dagli altri gruppi con legami diretti con il Fronte di Al-Nusrah. La scena è inquietante. Precedentemente queste fabbriche offrivano decine di migliaia di posti di lavoro alla popolazione della capitale. Ora, nulla si muove qui. Silenzio tombale, solo polvere e rottami.
Il tenente Ali mi accompagna, mentre scavalco i detriti. Gli chiedo cosa è successo qui. Lui risponde, attraverso il mio interprete: "Questo posto è stato liberato solo nell'aprile 2018. Era uno degli ultimi posti che è stato ripreso ai terroristi. Per 6 anni, una parte era controllata dai "ribelli", mentre un'altra dall'esercito. I nemici hanno scavato dei tunnel ed è stato molto difficile sconfiggerli. Hanno usato tutte le strutture su cui potevano mettere le mani, comprese le scuole. Da qui, la maggior parte dei civili è riuscita a fuggire. "
Gli chiedo della distruzione, anche se conoscevo la risposta dato che i miei amici siriani vivevano in quest'area e mi raccontavano le loro storie dettagliate. Il tenente Ali conferma: "L'Occidente stava alimentando il mondo con la propaganda, dicendo che questa era distruzione causata dall'esercito. In realtà, l'esercito siriano combatteva contro i ribelli solo quando questi stavano attaccando Damasco. Alla fine, i ribelli si sono ritirati da qui, dopo gli scambi con il governo sponsorizzati dalla Russia .".
Pochi chilometri più a est, a Ein-Tarma, le cose sono molto diverse. Prima della guerra, questo era un quartiere residenziale. La gente viveva qui, principalmente in palazzi a più piani. Qui, i terroristi hanno colpito duramente i civili. Per mesi o anche anni, le famiglie hanno dovuto vivere tra terribile paura e privazioni.
Ci siamo fermati all'umile bottega che vende verdura. Qui, mi sono avvicinato a una signora anziana, e dopo che lei ha acconsentito, ho iniziato le riprese. Lei parlava, e poi ha urlato, dritto nella telecamera, agitando le mani: "Abbiamo vissuto qui come bestie. I terroristi ci hanno trattato come animali. Eravamo spaventati, affamati, umiliati. Donne: i terroristi si prenderebbero 4-5 mogli, costringendo ragazze e donne mature a cosiddetti matrimoni. Non avevamo nulla; non ci è rimasto niente!". "E adesso?" ho chiesto. "Adesso? Guarda! Viviamo di nuovo. Abbiamo un futuro. Grazie; grazie, Bashar! ". Lei chiama il suo presidente con il suo nome. Preme i palmi contro il suo cuore, e dopo averli baciati, agita di nuovo le mani. Non c'è niente da chiedere, davvero. Ho solo filmato. Lei dice tutto, in due minuti. Mentre partiamo, mi rendo conto che probabilmente non è vecchia; non è affatto vecchia. Ma quello che è successo qui l'ha spezzata a metà. Ora lei vive; lei vive e spera di nuovo.
Chiedo al mio autista di muoversi lentamente, e comincio a filmare la strada, rotta e polverosa, ma piena di traffico: gente che cammina, biciclette e macchine che passano, schivando le buche. Nelle strade laterali, la gente lavora sodo, ricostruisce, ripulisce le macerie, taglia le travi cadute. L'elettricità viene ripristinata. Lastre di vetro inserite nei telai di legno graffiati. Vita. Vittoria; tutto ciò è agrodolce, perché così tante persone sono morte; perché così tanto è stato distrutto. Ma la vita è, nonostante tutto, di nuovo vita... E speranza, tanta speranza.
Mi siedo con i miei amici, Yamen e Fida, in un classico, vecchio caffè di Damasco, chiamato L'Avana. È una vera istituzione; un luogo in cui i membri del partito Baath si incontravano, durante i vecchi e turbolenti giorni. Le fotografie del presidente Bashar al-Assad sono esposte in modo prominente.
Yamen, un educatore, ricorda come ha dovuto spostarsi da un appartamento all'altro, in diverse occasioni negli ultimi anni: "La mia famiglia viveva proprio accanto a Jobar. Tutto lì intorno stava restando distrutto. Abbiamo dovuto trasferirci. Poi, nel posto nuovo dove stavamo, stavo camminando con mio figlio piccolo quando un colpo di mortaio è caduto vicino a noi. Ho visto un edificio in fiamme. Mio figlio stava piangendo inorridito. Una donna accanto a noi urlava, cercando di buttarsi tra le fiamme: "Mio figlio è dentro, ho bisogno di mio figlio, datemi mio figlio!". In passato, non potevamo prevedere da dove e quando sarebbe arrivato il pericolo. Ho perso diversi parenti; membri della famiglia. E' successo a tutti. "
Fida, la collega di Yamen, si prende cura della sua anziana madre, ogni giorno, quando torna dal lavoro. La vita è ancora dura, ma i miei amici sono veri patrioti e questo li aiuta ad affrontare le sfide quotidiane.
Davanti a una tazza di caffè arabo forte, Fida spiega: "Ci vedi ridere e scherzare, ma nascosto dentro, quasi tutti noi soffriamo di un profondo trauma psicologico. Quello che è accaduto qui è stato duro; tutti abbiamo visto delle cose terribili e abbiamo perso i nostri cari. Tutto questo rimarrà in noi, per molti anni a venire. La Siria non ha abbastanza psicologi e psichiatri professionisti per far fronte a questi problemi. Così tante vite sono state rovinate. Sono ancora impaurita. Ogni giorno. Molte persone sono state terribilmente scosse ". "Mi dispiace per i figli di mio fratello. Sono nati durante questa crisi; anche il mio piccolo nipote ... Una volta siamo finiti sotto il fuoco di un mortaio. Lui era così spaventato! I bambini sono davvero molto colpiti! Personalmente, non ho paura di essere uccisa. Ho paura di perdere il braccio o la gamba, o di non essere in grado di portare mia madre in ospedale, se dovesse sentirsi male. Almeno la mia città natale, Safita, è sempre stata al sicuro, anche durante i peggiori giorni del conflitto ".
 "Non la mia Salamiyah", si lamenta Yamen: "A Salamiyah era semplicemente terribile. Molti villaggi hanno dovuto essere evacuati ... Molte persone sono morte lì. Ad est della città c'erano le posizioni di Al-Nusrah, mentre l'ovest era tenuto dall'ISIS ".
Sì, centinaia di migliaia di siriani sono state uccisi. Milioni di persone costrette a lasciare il paese, per sfuggire sia ai terroristi che al conflitto, nonché alla povertà, conseguenza dei combattimenti. Milioni di persone sono sfollate internamente; l'intera nazione in movimento.
Il giorno prima, dopo aver lasciato Ein-Tarma, eravamo arrivati vicino a Zamalka e Harasta. Interi vasti quartieri erano rasi al suolo o almeno terribilmente danneggiati.  Quando vedi i sobborghi orientali di Damasco, quando vedi gli edifici fantasma senza pareti e finestre, con i fori dei proiettili che punteggiano i pilastri, pensi di aver visto tutto. La distruzione è così grande; sembra che un'intera grande città sia stata fatta saltare in aria. Dicono che questo paesaggio inquietante non cambia per almeno 15 chilometri. L'incubo va avanti a lungo, senza alcuna interruzione.

Quindi sì, tendi a pensare di aver visto tutto, ma in realtà non è così. È perché non hai ancora visitato Aleppo, né Homs.
Per diversi anni ho combattuto per la Siria. Lo stavo facendo dalle periferie. Sono riuscito ad andare sulle alture del Golan occupate da Israele e a presentare resoconti sulla brutalità e il cinismo dell'occupazione. Per anni ho descritto la vita nei campi profughi e "intorno a loro". Alcuni campi erano reali, ma altri in realtà venivano utilizzati come campi di addestramento per i terroristi, che venivano successivamente infiltrati in territorio siriano dalla NATO. Una volta sono quasi scomparso mentre facevo riprese di Apayadin, una di queste "istituzioni", eretta non lontano dalla città turca di Hattay (Atakya). Io sono 'quasi' scomparso, ma in realtà altri sono morti davvero. Testimoniare ciò che l'Occidente e i suoi alleati hanno fatto alla Siria è pericoloso quanto coprire la guerra all'interno della stessa Siria.
Ho lavorato in Giordania, scrivendo sui rifugiati, ma anche sul cinismo della collaborazione giordana con l'Occidente. Ho lavorato in Iraq dove, in un campo vicino a Erbil, il popolo siriano era costretto sia dall'ONG che dallo staff delle Nazioni Unite, a "denunciare" il presidente Assad, se volevano ricevere almeno alcuni servizi di base. E, naturalmente, ho lavorato in Libano, dove sono stanziati più di un milione di siriani, spesso affrontando terribili condizioni inimmaginabili e discriminazioni (molti adesso stanno tornando indietro).
Ed ora che ero finalmente dentro, tutto sembrava in qualche modo surreale, ma mi sembrava giusto. La Siria appariva essere come mi aspettavo che fosse: eroica, coraggiosa, determinata e inconfondibilmente socialista.
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Homs. Prima di andarci, pensavo che niente potesse più sorprendermi. Ho lavorato in tutto l'Afghanistan, in Iraq, Sri Lanka, Timor Est. Ma presto mi sono reso conto che non avevo visto nulla, prima di visitare Homs.
La distruzione di diverse parti della città è così grave che assomiglia alla superficie di un altro pianeta, o un frammento di un film horror apocalittico.  La gente che si arrampica tra le rovine; una coppia di anziani che visita quello che un tempo era il loro appartamento; una scarpa da ragazza che trovo in mezzo alla strada, coperta di polvere. Una sedia in piedi nel bel mezzo di un incrocio, da cui tutte e quattro le strade portano verso orribili rovine. 
Homs è dove è iniziato il conflitto.
La mia amica Yamen mi ha spiegato, mentre guidavamo verso il centro: "Qui, i media hanno acceso l'odio; per lo più i mass media occidentali. Ma c'erano anche i canali del Golfo: Al-Jazeera, così come le stazioni televisive e radiofoniche dell'Arabia Saudita. Lo sceicco Adnan Mohammed al-Aroor appariva, due volte a settimana, in un programma televisivo mentre invitava la gente a manifestare in strada, sbattendo su pentole e padelle; di combattere contro il governo ".
Homs è il luogo in cui è iniziata la ribellione antigovernativa, nel 2011. La propaganda anti-Assad dall'estero ha presto raggiunto un crescendo. L'opposizione era sostenuta ideologicamente dall'Occidente e dai suoi alleati. Rapidamente il supporto divenne tangibile e includeva armi, munizioni e migliaia di combattenti jihadisti.
Una volta città tollerante e moderna (in un paese secolare), Homs ha iniziato a cambiare, a dividersi tra i gruppi religiosi. La divisione è stata seguita dalla radicalizzazione.
Un mio buon amico, un siriano che ora vive tra Siria e Libano, mi ha raccontato la sua storia: "Ero molto giovane quando iniziò la rivolta. Alcuni di noi avevano alcune lamentele legittime e abbiamo iniziato a protestare, sperando che le cose potessero cambiare per migliorare. Ma molti di noi si sono presto resi conto che le nostre proteste sono state letteralmente sequestrate da fuori. Volevamo una serie di cambiamenti positivi, mentre alcuni leader stranieri volevano solo rovesciare il nostro governo. Di conseguenza, ho lasciato il movimento."
Ha poi condiviso con me il suo segreto più doloroso: "In passato, Homs era una città estremamente tollerante. Sono un musulmano moderato e la mia fidanzata era una cristiana moderata. Eravamo molto uniti, ma la situazione in città stava cambiando rapidamente, dopo il 2011. Il radicalismo era in aumento. Le ho chiesto ripetutamente di coprirsi i capelli mentre attraversava i quartieri musulmani. Era una precauzione, perché stavo cominciando a vedere chiaramente cosa stava succedendo intorno a noi. Lei ha rifiutato. Un giorno, è stata colpita, in mezzo alla strada. L'hanno uccisa. La mia vita non è mai più stata la stessa."
In Occidente, si dice spesso che il governo siriano è stato almeno parzialmente responsabile della distruzione della città. Ma la logica di tali accuse è assolutamente perversa. Immaginate Stalingrado. Immaginate l'invasione straniera; un'invasione sostenuta da diverse potenze fasciste ostili. La città combatte, il governo cerca di fermare l'avanzamento delle truppe del nemico. La lotta è terribile, una lotta epica per la sopravvivenza della nazione prosegue. Di chi è la colpa? Degli invasori o delle forze governative che stanno difendendo la loro stessa patria? Qualcuno può accusare le truppe sovietiche di aver combattuto nelle strade delle loro città che erano attaccate dai nazisti tedeschi?  Forse la propaganda occidentale è capace di tali "analisi", ma sicuramente non lo è nessun essere umano razionale.    La stessa logica di Stalingrado dovrebbe applicarsi anche a Homs, ad Aleppo e a molte altre città siriane. Coprendo letteralmente dozzine di conflitti accesi dall'Occidente in tutto il mondo (e descritti in dettaglio nel mio libro di 840 pagine "Exposing Lies Of The Empire"), io non ho dubbi: la piena responsabilità della distruzione sta sulle spalle degli invasori.
Incontro la signora Hayat Awad in un antico ristorante chiamato Julia Palace. Questa era la roccaforte dei terroristi. Hanno occupato questo bellissimo posto, situato nel cuore della vecchia città di Homs. Ora, le cose stanno lentamente tornando alla vita qui, almeno in diverse zone della città. Il vecchio mercato funziona, l'università è aperta, così come molti edifici governativi ed alberghi. Ma la signora Hayat vive sia nel passato che nel futuro. La signora Hayat ha perso suo figlio, Mahmood, durante la guerra. Il suo ritratto è sempre con lei, inciso in un pendente che indossa sul petto.
"Aveva solo 21 anni, era ancora uno studente, quando decise di arruolarsi nell'esercito siriano. Mi disse che la Siria era come sua madre. Lui la amava, come amava me. Stava combattendo contro il Fronte di Al-Nusrah e la battaglia era molto dura. Alla fine della giornata mi ha chiamato, giusto per dirmi che la situazione non era buona. Nella sua ultima telefonata mi ha chiesto solo di perdonarlo. Ha detto: 'Può darsi che io non ritorni. Ti prego, perdonami. Ti amo!'". Ci sono molte madri come lei, qui a Homs, che hanno perso i loro figli?   "Sì, conosco molte donne che hanno perso i loro figli; e non solo uno, a volte due o tre. Conosco una signora che ha perso i suoi due soli figli. Questa guerra ha preso tutto di noi. Non solo i nostri figli. Do la colpa ai Paesi che hanno sostenuto le ideologie estreme iniettate in Siria; paesi come gli Stati Uniti e quelli in Europa ".
Dopo che ho finito le riprese, lei ringrazia la Russia per il suo sostegno. Ringrazia tutti i Paesi che sono stati vicino alla Siria, in quegli anni difficili. Non lontano dal Julia Palace, i lavori di ricostruzione sono in pieno svolgimento. E a pochi passi, una moschea restaurata sta riaprendo. La gente balla, celebrando. È il compleanno del profeta Mohammed. Il Governatore di Homs si incammina verso i festeggiamenti, insieme ai membri del suo governo. Non c'è quasi nessun apparato di sicurezza intorno a loro. Se l'Occidente non scatena l'ennesima ondata di terrore contro i suoi abitanti, Homs dovrebbe rimettersi proprio bene. Non subito, forse non presto, ma lo farà, con l'aiuto risoluto dei russi, cinesi, iraniani e altri compagni. La Siria stessa è forte e determinata. I suoi alleati sono potenti.
Voglio credere che gli anni più terribili siano finiti. Voglio credere che la Siria abbia già vinto. Ma so che c'è ancora Idlib, ci sono anche le sacche occupate dalle forze Turche e Occidentali. 
Non è ancora finita. I terroristi non sono stati completamente sconfitti. L'Occidente sparerà i suoi missili. Israele invierà la sua aviazione per brutalizzare il paese. E i mezzi di comunicazione di massa occidentali e del Golfo continueranno a combattere la guerra dei media, agitando e confondendo alcuni segmenti del popolo siriano.
Tuttavia, mentre esco da Homs, vedo negozi e persino boutiques che riaprono in mezzo alle macerie. Alcune persone si vestono, di nuovo elegantemente, per mostrare la loro forza; la loro determinazione a gettare il passato alle spalle e a vivere, ancora una volta, le loro vite normali....
Andre Vltchek è filosofo, romanziere, regista e giornalista investigativo. È  creatore di "Vltchek's World in Word and Images" e scrittore di diversi libri, tra cui "Revolutionary Optimism, Western Nihilism". Scrive in particolare per la rivista online "New Eastern Outlook".