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venerdì 7 luglio 2017

Tutto il mondo occidentale arma i terroristi in Siria

 Traduzione da Sputniknews a cura di OraproSiria 

Il Centro Russo per la riconciliazione dei belligeranti in Siria ha prove inconfutabili che i terroristi dello Stato islamico (Daesh) e al-Nusra (Al Qaeda), gruppi vietati in Russia, stanno utilizzando armi occidentali.

Il Centro ha trasmesso, inoltre, immagini di parti di munizioni con relativi numeri di serie. I percorsi di instradamento delle armi nella zona del conflitto stanno per essere identificati.

Il possesso da parte dei terroristi di moderni fucili di precisione che hanno già causato la morte di soldati russi ( non accaduto in precedenza) è di particolare preoccupazione. Ad esempio: il colonnello Alexeï Boutchelnikov, consigliere militare russo, è stato colpito da un cecchino lontano dalla linea di fronte, su un poligono delle retrovie dove egli addestrava i soldati di Bashar al-Assad per l'uso dell'artiglieria in condizioni notturne. Si è scoperto che il cecchino ha mirato e sparato nella più completa oscurità a parecchie centinaia di metri di distanza, ma anche così è riuscito a individuare l'istruttore russo fra i militari siriani e a ucciderlo con un solo proiettile. Gli specialisti sono convinti che un simile risultato è impossibile senza un'apparecchiatura di precisione avanzata.
I terroristi già da lungo tempo usano diversi fucili di precisione, specialmente quelli a disposizione delle forze della NATO, come il Remington MSR americano o l'austriaco Steyr Mannlicher SSG 08. Gli esperti dicono che queste armi devono essere utilizzate con i più sofisticati occhiali da tiro dotati di dispositivi di visione notturna. È risaputo che questi occhiali con visore notturno di terza generazione, sono fabbricati solo negli USA e in Russia, dal momento che altri paesi non possono permettersi di produrli a motivo della loro complessa tecnologia e del loro costo elevato.

Far uscire questi occhiali per riprese notturne di 3ª generazione fuori dal territorio è proibito sia negli U.S.A. che in Russia. Ecco perché gli esperti russi sono rimasti molto sorpresi di scoprire dentro a questi visori di costruzione occidentale, presi ai terroristi, dei componenti elettronici di origine russa, tra cui i trasformatori optoelettronici. Secondo una delle versioni, questi componenti potrebbero arrivare in Siria attraverso paesi terzi, ai quali la Russia fornisce ufficialmente gli occhiali o pezzi per equipaggiarli. Il fuoco dei cecchini in Siria ha fatto almeno quattro morti tra i militari russi, tra i quali il soldato di fanteria Alexandre Pozynitch, che partecipava nel novembre 2015 alle ricerche e alla spedizione di recupero in elicottero del corpo del pilota abbattuto Oleg Peshkov, eroe della Russia.
Un'inchiesta è in corso relativa ai canali di fuoriuscita di tecnologia sensibile russa a favore dei terroristi. Prima o poi, saranno bloccati. Ma è improbabile che ciò possa influenzare l'arsenale di Daesh e di Al-Nusra, che sono armati praticamente da quasi tutto il mondo occidentale.

Il 15 giugno, un rapporto delle Nazioni Unite ha denunciato che le autorità israeliane hanno finanziato e armato regolarmente terroristi che combattono contro il governo legittimo siriano e l'esercito arabo siriano sulle alture del Golan. Ma il traffico più intenso di armi agli islamisti è partito dalla Bulgaria. Sappiamo che 15 servizi speciali occidentali, tra cui Americani, Inglesi, Francesi e Paesi del Golfo, ha partecipato all'organizzazione del "traffico bulgaro".

I giornalisti bulgari sono riusciti a rintracciare il principale mezzo di trasporto per la fornitura di armi allo Stato islamico e ad Al-Nusra: è la nave Marianne Danica, battente bandiera danese. La sorveglianza via satellite ha dimostrato che fino a poco tempo fa la Marianne Danica faceva due viaggi al mese dal porto bulgaro di Burgas al porto di Jeddah, sulla costa saudita.

giovedì 6 luglio 2017

Astana: Mons. Abou Khazen "ogni occasione di incontro è sempre un elemento positivo”


Asia News, 5 luglio 2017

Ogni occasione di incontro, confronto, dialogo è sempre un fattore positivo e deve indurre all’ottimismo, anche se la situazione sul terreno non è facile e permane una sensazione diffusa di incertezza per l’avvenire. È quanto racconta ad AsiaNews il vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, commentando il secondo giorno di colloqui di pace bilaterali in programma ad Astana (Kazakhstan) sulla Siria, patrocinati da Russia, Turchia e Iran. “La speranza - aggiunge - resta sempre quella di arrivare a un cessate il fuoco permanente, che favorirebbe il ritorno degli sfollati e una ripresa delle attività economiche e commerciali”, fattori chiave per far ripartire il Paese. 
Ad Astana si è aperto il quinto incontro internazionale sulla Siria, con l’obiettivo di rafforzare la “fragile” tregua nazionale in vigore dal dicembre scorso; una due giorni di trattative, che registra la presenza di delegati del governo siriano e rappresentanti delle opposizioni armate. La mediazione messa in campo da Teheran, Mosca e Ankara (su fronti opposti nel conflitto) si affianca agli sforzi diplomatici promossi dalle Nazioni Unite a Ginevra (Svizzera), i quali però non hanno sortito sinora effetti duraturi. 
In passato gli incontri di Astana, durante i quali per la prima volta si sono seduti allo stesso tavolo leader di Damasco e fronte dei ribelli, si sono rivelati più decisivi rispetto ai colloqui patrocinati dall’Onu. All’ultimo appuntamento, nel maggio scorso, si è giunti alla creazione di  zone di “de-escalation” del conflitto che prevedevano il cessate il fuoco, il divieto di sorvolo dell’area, il rifornimento immediato di aiuti umanitari e il ritorno dei rifugiati.
L’obiettivo della due giorni, cui gli Stati Uniti partecipano nel ruolo di osservatori, che si conclude oggi è definire i confini esatti delle quattro aree cuscinetto e le procedure per verificare il rispetto della tregua. A due mesi di distanza dalla firma, resta dunque prioritario definire le zone di de-escalation che riguardano alcuni territori ribelli nella provincia di Idlib, un settore del governatorato centrale di Homs, una enclave ribelle a Ghouta e il settore meridionale del Paese, al cui interno vivono fino a 2,5 milioni di persone. 
All’interno della delegazione anti-Assad, in cui spicca l’assenza del capo negoziatore Mohammad Allouche, si registra un clima di diffuso scetticismo. L’idea è che la Russia voglia promuovere queste discussioni, per “distogliere” l’attenzione generale sui “bombardamenti, sfollamento di civili e ripetute aggressioni” che sta conducendo nel Paese. Dal canto suo, il governo siriano ha dichiarato che non permetterà ai propri nemici di “beneficiare” della formazione di zone cuscinetto nell’ovest per ottenere progressi sul piano militare. 
Un quadro complesso, in cui la diplomazia regionale e internazionale si muove con estrema lentezza e fatica. 
“Dal punto di vista della sicurezza - racconta mons.  Abou Khazen - la situazione in diverse zone, fra cui Aleppo, è migliorata. Manca ancora l’elettricità, ma è tornata l’acqua e la vita riprende a scorrere. Certo, la mancanza di giovani e uomini perché emigrati o richiamati fra i riservisti dell’esercito si fa sentire, in particolare nell’opera di ricostruzione. Ma noi pastori incoraggiamo le persone a rimanere e cerchiamo di aiutarle contribuendo ai fabbisogni delle famiglie, dei loro bambini”. 
Interpellato sui colloqui di Astana, il vicario apostolico vuole essere “ottimista”, anche se “non possiamo essere sicuri che vi sia una davvero una soluzione all’orizzonte, vediamo ciò che succederà”. “Ogni incontro, ogni occasione di dialogo - prosegue - è importante e la speranza è che possa condurre a un cessate il fuoco permanente. Questi colloqui hanno favorito in molte zone la riconciliazione interna, basti pensare che da 500 si è passati a 1300 cittadine in cui i fronti in lotta hanno deposto le armi e rifiutato la guerra come mezzo per risolvere le controversie. Spero possano essere il viatico per una riconciliazione di livello nazionale”. 
In questi villaggi e cittadine, racconta il prelato, le persone “hanno ricominciato a coltivare la terra, a riaprire le scuole, a riprendere le attività. Si parla poi di oltre mezzo milione di sfollati fuggiti in passato e oggi rientrati nelle loro terre di origine, nell’area di frontiera vicino al Libano e nelle zone centrali di Homs e Hama e lungo alcuni tratti dell’Eufrate. Sono un numero significativo, che incoraggia e potrebbe incentivare altri a tornare”. “Questo - conclude - è il primo risultato tangibile dei colloqui e l’attuazione delle zone cuscinetto mi auguro possa dare una ulteriore accelerazione a questo processo”.  
http://www.asianews.it/notizie-it/Vicario-di-Aleppo:-su-Astana-pi%C3%B9-ottimismo-che-incertezza,-favorire-il-rientro-degli-sfollati-41203.html

domenica 2 luglio 2017

Fra Firas: ciò che resta è la carità

Nella guerra in Siria la Russia non è solo una presenza politica e militare, ci sono anche legami nati dalla comune radice cristiana. J.F. Thiry è andato da Mosca a Damasco per offrire l’esperienza di un lavoro culturale che aiuti a ricostruire l’uomo.
La Nuova Europa, 26 giugno
Nella ventina di progetti che i francescani di Aleppo stanno seguendo per riportare speranza e dignità in questa città siriana, divenuta simbolo della «terza guerra mondiale», c’è anche quello di usare la cultura per ricostruire ponti. Ne ha parlato padre Firas Lutfi, superiore del collegio di Terra Santa e vice-parroco di San Francesco ad Aleppo, nell'intervista rilasciata a Jean-François Thiry.
 
Qual è la situazione attuale ad Aleppo?
A partire dal 22 dicembre scorso la città sta vivendo una rinascita. Durante gli ultimi cinque anni abbiamo sentito solo il sibilo e lo scoppio delle bombe. Uno scenario di pianto, sangue, innocenti uccisi barbaramente da entrambe le parti, sia nella parte controllata dal regime sia nella cosiddetta zona orientale. Il 22 dicembre con la mediazione russa è stato raggiunto un accordo tra l'esercito siriano e le varie fazioni di jihadisti. Alcuni hanno deposto le armi e sono rientrati nella società civile, altri hanno deciso di continuare a combattere. Dunque il 22 dicembre ha segnato un nuovo inizio per questa città martire, la più colpita, che ha portato su di sé il peso della guerra. Certo, qui la battaglia è finita, ma non la guerra che si continua a combattere nel resto della Siria, a Raqqa, Idlib, nel Nord… I segni visibili della guerra sono scomparsi, riusciamo a dormire più tranquillamente, dopo notti e notti di allerta e paura!
Ma è una città in ginocchio: non dimenticherò mai l'impatto che ho avuto attraversando la cittadella, sembrava la Berlino della Seconda guerra mondiale, una distruzione totale… Ora i media occidentali non parlano più di Aleppo, come se tutto fosse tornato alla normalità. È vero che la battaglia non c'è più, ma si continua a combattere in periferia e altrove, e alla fine il dramma della guerra ricade ancora qui. Continua la carenza d'acqua, sarebbe necessario ripristinare le infrastrutture, anche se i momenti duri in cui uno doveva stare per ore ad attingere un po' d'acqua sono passati.
 
E dal punto di vista umano? Sta rinascendo una speranza? Qual è il lavoro principale da fare?
Il lavoro principale è ritrovare l'uomo. Tante ferite – come quelle sugli edifici – sono ben visibili, ma quelle che hanno segnato in profondità l'animo di ogni cittadino, sia di Aleppo Est che di Aleppo Ovest, sono sentite in modo particolare dai bambini e dagli anziani. Ci sono migliaia di anziani abbandonati dalle famiglie giovani che hanno dovuto scappare, e io personalmente lavoro nel recupero dei traumi post-bellici nei giovani. Mi sto occupando ad esempio di alcune ragazze sui 13-14 anni che hanno tentato il suicidio: c'è chi non riesce a dimenticare il momento in cui una bomba ha ucciso una compagna di scuola, chi ha perso i genitori e si trova nella preoccupazione costante di vivere da sola… Questi disturbi sono il frutto di una violenza enorme che hanno assorbito come una spugna, perciò l'animo di questi poveretti è tutto da ricostruire. Sicuramente c'è da ricostruire la struttura di una città antichissima, ma prima di tutto c'è da ricostruire l'essere umano che è stato ferito e danneggiato.
 E la vostra parrocchia come interviene?
La parrocchia prosegue quel che aveva iniziato a fare all'inizio della guerra, ad esempio distribuisce pacchi alimentari – l'emergenza non è cessata, siamo ancora in una fase di passaggio. Oppure cerchiamo di assistere le coppie giovani, perché la presenza cristiana prima era di 150mila fedeli, ora siamo rimasti solo 30mila, quindi c'è stato un calo demografico enorme, ecco perché va sostenuto il dono della vita. Seguiamo circa 800 coppie, di tutti i riti, non solo della nostra parrocchia.
La guerra, per terribile che sia, ha facilitato un contesto di solidarietà, di partecipazione, di carità, aperta ai fratelli nella fede e a tutti. Sosteniamo anche la ristrutturazione delle abitazioni, in modo che le famiglie non se ne vadano: il nostro obiettivo è anzitutto quello di aiutare i cristiani a rimanere, a non cedere alla forte tentazione di andarsene. È chiaro che il governo non riesce a coprire le esigenze e le aspettative dei cittadini, per cui la Chiesa sta supplendo anche al ruolo delle istituzioni: ce la mettiamo tutta a sostenere questa scintilla di speranza.
 Tutto ciò rientra nell'«ecumenismo del sangue»?
Sì, questa espressione l'ha usata papa Francesco quando si è incontrato con il patriarca di Costantinopoli, un bellissimo incontro che sintetizza cosa significa essere fratelli, e non solo della stessa famiglia. Il papa intende dire che quando uno jihadista sta per ucciderti non ti chiede se sei ortodosso, cattolico o protestante, ma se sei cristiano. Anche recentemente in Egitto: agli ostaggi gli jihadisti chiedevano di rinnegare la fede cristiana, non se fossero copti o protestanti… Ecco, molti innocenti sono martiri per Cristo.
Era una sensibilità già presente qui. Poi, durante la guerra, nel momento di assoluto bisogno, noi come comunità cattolica abbiamo avuto il vantaggio di avere fratelli sparsi in tutto il mondo, siamo parte della Chiesa universale, sentiamo la vicinanza dei nostri benefattori. I superiori del nostro Ordine francescano hanno lanciato l'appello già all'inizio della guerra, e l'aiuto che ci arriva lo condividiamo con i nostri fratelli, un po' come è descritto negli Atti degli apostoli.
 A Lei, come ai tanti che ancora se ne vanno, non è mai venuta la tentazione di dire «non ce la faccio»? Che cosa permette di ricominciare ogni giorno, di fronte a un lavoro così enorme?
Una volta un giornalista mi ha chiesto: Perché resti lì? Gli ho risposto: non «perché» ma «per Chi». E non è solo il mio caso, lo vedo anche nei miei confratelli. «Per Chi». Credo che abbiamo sperimentato la mano del Signore anche in mezzo al buio totale, a questo tunnel di cui non si vedeva l'uscita.
Una ragazza in confessione mi ha chiesto: ma perché Dio permette questo male, se è il Dio della bontà e della misericordia? E un'anziana: dove sono i nostri fratelli sparsi nel mondo? Perché non si muovono? Alla prima domanda mi è venuto in mente un crocifisso che abbiamo trovato in un quartiere di Aleppo completamente distrutto, era rimasto appeso senza braccia, qualcuno gli aveva anche sparato in faccia… Ecco, i segni di sofferenza ci sono, ma Lui è ancora lì, è lì «appeso», presente. È un Dio che sa condividere, che già duemila anni fa ha offerto fisicamente la vita per amore, e lo continua a fare. Qui ora siamo a Damasco, famosa per l'episodio collegato alla conversione di san Paolo. «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», chiede Gesù – e Saulo, poveretto: ma chi sei? E lui risponde: sono Gesù che tu perseguiti. Era già morto e risorto, e si riferiva al Suo corpo mistico sofferente. Dio è fortemente presente accanto a chi soffre e piange.
Dove sono i nostri fratelli? Siamo dei testimoni perché facciamo da ponte, nel corpo soffriamo con chi soffre, gioiamo e diamo speranza a chi l'ha persa. Però sappiamo che dall'altra parte del continente ci sono molti amici che pregano per noi, ci sostengono fortemente in questa unità di preghiera, siamo corpo di Cristo, membra gli uni degli altri. Certo, anche il sostegno economico è indispensabile per sostenere questa speranza. Non posso limitarmi a consolare un povero dicendo: beh, io non ho niente da darti, ma intanto preghiamo insieme… No: qualcosa ce l'abbiamo, ed è un dono di Dio e dei fratelli.
 
Cosa ritiene che l'Europa, o la Russia, possano fare?
Il primo dono che ogni siriano desidera è la pace. Se soffriamo è per la guerra. Qualcuno, con la violenza, ha cercato di dividere la società che era già diversificata, era un mosaico di etnie, confessioni e culture. Qualcuno ha gettato benzina sul fuoco della divisione, per questo il primo dono che desideriamo è la pace.
La Russia può e dovrebbe – non da sola – trovare modi per far sì che si ponga fine a questa guerra che non è semplicemente una guerra civile, perché non sono solo i siriani che combattono fra di loro, ma esistono tante fazioni con un altissimo numero di mercenari stranieri che combattono per interesse. La Russia, l'America, non dovrebbero guardare alla Siria solo considerando i propri interessi, ma aiutare il paese a ottenere la stabilità, e un segno concreto sarebbe la rimozione dell'embargo economico. La guerra in Siria è la più terribile del XXI secolo, molto complessa, anche perché legata all'Iraq, alla Libia, all'intero Medio Oriente.
Noi come francescani in Siria costruiamo la pace ogni giorno, con gesti apparentemente insignificanti. All'istituto di teologia per laici, di cui sono direttore, vengono ortodossi, cattolici… Sono responsabile di una realtà bellissima, perché varia, e lì sperimento come si può costruire la pace, mettendo assieme piccoli mattoni.
Lo so, dopo le nostre testimonianze in Occidente, ci chiedono: concretamente, cosa possiamo fare? L'invito primo e più efficace è l'unità spirituale, la preghiera, perché siamo veramente il Corpo mistico, come scrive san Paolo ai Corinzi: se un membro soffre, tutti gli altri soffrono con lui. In questo momento le membra di Cristo sofferenti patiscono in Siria tantissimo. D'altra parte è altrettanto importante la carità concreta, visibile. La carità nel Vangelo è stata sempre concreta: nessuno ha un amore più grande di chi dà la propria vita. L'amore allora non è solo sentimento ma la vicinanza concreta al prossimo, una piccola somma, qualche piccolo sacrificio: quanti amici hanno rinunciato ai doni del matrimonio per aiutare la Siria! Ultimamente un amico vescovo appena ordinato in Germania mi ha detto: le offerte della messa di ordinazione verranno inviate per sostenere il progetto di assistenza psicologica ai bambini.
Mi viene in mente madre Teresa, che era un'esperta nell'aiutare i poveri, e diceva che ogni gesto di bene che si fa è una goccia nell'oceano, e che l'oceano non sarebbe lo stesso senza questa goccia.
Tutto ciò aiuta a dare speranza, a dare le ragioni per rimanere e continuare la presenza dei cristiani. Un travaglio come questo genera una cristianità più purificata e motivata. Se il Signore ci ha voluti lì è perché c'è una missione, dobbiamo portare sempre l'amore di Cristo verso ogni persona, essere dei ponti di riconciliazione e dialogo. Penso a tutto il Medio Oriente con le sue religioni monoteiste, dove i cristiani fanno da ponte perché hanno una parola magica… poco conosciuta dalle altre: il perdono! Siamo portatori di pace, carità, servizio, e durante la guerra ci siamo resi conto che questa carità visibile e umile riesce a conquistare l'altro. Non facciamo proselitismo, ma la carità resta impressa nel cuore. Mi ha raccontato un musulmano russo, venuto in visita dalla madre ad Aleppo, che lei era così contenta quando gli ha mostrato una coperta donatale dai cristiani, e le scarpe distribuite dalla Caritas. Mi ha detto: Quello che fate rimarrà sempre impresso nella memoria. È quello che scriveva san Paolo: la carità è ciò che resta.
 
E come è possibile fare un'offerta, dare un aiuto concreto?
Tramite il 
fondo ATS .

giovedì 29 giugno 2017

La 'pax americana' che minaccia nuova guerra mondiale


Piccole Note, 28  giugno 2017

Stati Uniti e Francia stanno coordinando un’azione comune in caso di attacco chimico di Assad. Probabile che l’asse franco-americano andrà a saldarsi il 14 luglio, quando il presidente degli Stati Uniti si recherà a Parigi per la commemorazione della presa della Bastiglia.

Significativa la tempistica: due giorni fa la Casa Bianca ha annunciato di avere le prove che Assad si accingerebbe a usare nuovamente le armi chimiche nel conflitto che da anni dilania il Paese.

Il giorno successivo le agenzie diffondono il contenuto di una conversazione telefonica intercorsa tra Donald Trump e il presidente francese Emmanuel Macron, i quali avrebbero concordato sulla necessità di «lavorare a un risposta comune» in caso di un attacco chimico.

Oggi la notizia che il presidente americano ha accettato di partecipare alle celebrazioni del 14 luglio è stata rilanciata con enfasi insolita da media e Tv.

Tutto è pronto per una nuova guerra neocon. Questo nonostante la Russia abbia avvertito in maniera categorica che ritiene «inammissibile» un intervento straniero in Siria, il che vuol dire che siamo sull’orlo di un vero e proprio baratro.

Ovviamente Assad non ha alcun motivo di portare un attacco chimico, dal momento che sta letteralmente sgretolando i suoi avversari, ovvero i terroristi armati e finanziati dalle Petromonarchie del Golfo e dall’Occidente, i quali, a breve, saranno costretti a capitolare sotto la spinta inarrestabile dell’esercito siriano e delle milizie sciite alleate di Damasco.

Da questo punto di vista, Assad non ha alcun motivo di portare un attacco chimico, dal momento che sarebbe un vero e proprio suicidio politico-militare.

Allo stesso tempo, gli sponsor dello jihadismo internazionale che hanno lavorato attivamente per attuare il regime-change in Siria reputano «inammissibile» che il loro piano venga vanificato, anzi ribaltato dall’evoluzione del conflitto.

Infatti, se non si verificheranno imprevisti, la guerra porterà alla creazione della mezzaluna sciiita, che congiungerà Teheran a hezbollah, una ipotesi geopolitica che prima della guerra non era neanche contemplata nel campo delle possibilità.

Per scongiurare tale evoluzione del conflitto serve un intervento diretto dell’Occidente, simile a quello realizzato in Iraq o Libia. Il problema è che in Siria ci sono i russi e tutto andrà a complicarsi dal momento che Mosca non può accettare tale eventualità.

A quanto pare la possibile risposta russa non rappresenta un freno per i neocon. L’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley ha anzi messo anche Mosca e Teheran nel mirino: in caso di attacco chimico saranno ritenute complici del regime di Damasco, il che vuol dire che anche l’Iran subirà l’intervento americano.

Siamo sull’orlo di una guerra nucleare? Il rischio c’è. Perché i neocon hanno fatto della follia la cifra della loro proiezione globale. Tanto da non escludere, anzi, un conflitto diretto con la Russia. L’opzione apocalisse, appunto, che resta come orizzonte ultimo della loro dottrina esoterica.

Pare che il Pentagono freni, come dimostrano le parole del segretario alla Difesa James Mattis, il quale, in una conferenza stampa tenuta ieri (cliccare qui), ha affermato che gli Stati Uniti non vogliono essere trascinati nella guerra civile siriana e ha elogiato il funzionamento del meccanismo di deconflicting che ha impedito incidenti tra russi e americani durante il conflitto.

Probabile che non sia il solo generale americano a comprendere la portata della follia che si sta preparando, ma lo scontro tra tali ambiti e i neocon si annuncia all’ultimo sangue. Per questi ultimi, infatti, quella che si annuncia è una battaglia esistenziale; e a costo di non perdere sono disposti a tutto.

Come dimostra quanto si sta preparando. Dapprima l’accusa della preparazione di un attacco chimico (del quale, al solito, non vengono mostrate prove), accusa che andrà poi ad avverarsi attraverso una montatura, una delle tante di questa sporca guerra.

Il fatto che l’opinione pubblica possa avere coscienza di un artificio fabbricato ad arte per iniziare una guerra non ha la minima importanza. Anzi, rappresenta una ulteriore dimostrazione di forza degli ambiti neocon, dal momento che in questo modo dimostrano di non aver neanche bisogno di una giustificazione credibile per dare inizio a una guerra.

Frenare tale deriva si annuncia esercizio difficile. Si può solo sperare che gli uomini di buona volontà, che pure restano in Oriente come in Occidente, riescano, nonostante i forti venti contrari.

Nota a margine. Per chi non l’avesse letto, rimandiamo all’articolo di Seymour Hersh sul presunto attacco chimico portato dall’aviazione di Assad a Khan Sheikhoun (cliccare qui).