TEMPI, 9 marzo 2014
Reportage di Rodolfo Casadei
Improvviso un pianto di donna rompe il silenzio della corsia. Lo attutisce la porta chiusa della stanza da cui proviene. Come a un segnale convenuto la dozzina di uomini che fanno capannello nel corridoio china la testa. La mamma di Gima ha appena saputo che la figlia dodicenne è morta nell’attentato che ieri sera (27 febbraio, ndr) ha visto esplodere una bomba collocata fra il marciapiede e la sede stradale quasi davanti all’ingresso dell’ospedale francese di Damasco, nel quartiere a maggioranza cristiana di Qassaa (foto sotto a destra). E qui nell’ospedale stesso sono stati ricoverati o trattati i trenta feriti dell’attacco. Fra loro la donna e un’altra figlia, che non sono in pericolo di vita. Invece a Gima, le schegge hanno squarciato la schiena.
Un uomo si stacca dal gruppo e mi viene incontro. È il padre di Gima, cristiano ortodosso. Mi parla come a un nemico: «Perché attaccate i civili? Se ce l’avete col regime, fate la guerra contro l’esercito, contro la polizia. Lasciate stare i bambini! Questo è successo per colpa dell’Europa, per colpa dell’America». La voce non è adirata ma implorante, come se temesse che io possa fargli di peggio. Uno zio mi si avvicina. Parla con dignità, contenendosi: «Voi appoggiate la cultura della morte. Noi difendiamo la cultura della vita».
Nel corridoio seguente dentro a una stanza c’è Ronza, un’altra mamma cristiana con le sue due bambine: tutte ferite, ma vive. Una era compagna di scuola di Gima, ed è quella che desta più preoccupazione: ha ancora una scheggia in corpo, piantata nel collo, il chirurgo non ha osato intervenire per paura di ledere organi vitali. «Non è la prima volta che rischiamo la vita per questa guerra», dice la mamma con un filo di voce, sdraiata nel letto con un frammento di bomba nel petto. «L’anno scorso un colpo di mortaio ha colpito la classe di fianco a quella di mia figlia nella scuola cristiana che frequenta. E l’anno prima io mi sono salvata per miracolo, quando un’autobomba è esplosa a Jaramana uccidendo cinquanta persone».
Jaramana è un quartiere della periferia, sulla strada per l’aeroporto, abitato principalmente da cristiani e drusi. Nel 2012 subì due attacchi sanguinosi, in agosto e a novembre, ad opera di Jabhat al Nusra. Nel secondo, all’esplosione della prima autobomba fece seguito, dopo pochi minuti, quella di un’altra sopraggiunta sul luogo dell’attacco quando già si era radunata una folla di soccorritori: una tecnica omicida di tipica marca qaedista, mirata a causare il maggior numero di vittime. La colpa di Jaramana, stando ai terroristi, era quella di non lasciare libero passaggio ai rifornimenti per i ribelli dei quartieri più vicini al centro città, Jobar e Daraya. Da allora i proiettili di mortaio non hanno mai cessato di tormentare la vita dei residenti di Jaramana, nonostante l’esercito abbia spianato a cannonate tutti gli edifici – una moschea compresa – della vicina Mleha, da cui i colpi provengono.
Nell’incrocio principale del quartiere è stato innalzato un memoriale alle vittime della strage (foto sotto a destra): un grande cuore blu di plastica lucida e luci al neon che spunta da un supporto di pietra e fiancheggiato da due specie di grossi petali coi colori della bandiera siriana. Sulla superficie del cuore le foto a colori e sorridenti dei volti delle vittime: cristiani, drusi, musulmani sunniti, profughi iracheni che avevano trovato rifugio nel quartiere. Lo stesso assortimento di ogni attentato contro le zone cristiane di Damasco, compreso quello del 27 febbraio davanti all’ospedale francese. Perché là dove ci sono i cristiani, ci sono anche tutti gli altri volti del popolo siriano.
Non ci sono dubbi: i cristiani di Siria sono bersagli intenzionali dei ribelli che combattono il regime di Damasco. Lo dimostra il rosario di villaggi espugnati dai jihadisti con successivi eccidi di abitanti cristiani: Maloula, Sadad, Deir Atieh. Lo dimostrano i puntuali tiri di mortaio contro obiettivi civili dei tre quartieri damasceni dov’è concentrato il grosso della popolazione cristiana: Jaramana nella periferia, Bab El Touma e Qassaa nel centro.
I martiri decapitati
L’11 novembre scorso alle 13.30 una pioggia di proiettili di mortaio si è abbattuto sulla scuola armena che sorge nei pressi della porta orientale di Bab El Touma. Quelli che sono caduti nel recinto che racchiude la scuola e la chiesa di San Sergio hanno solo danneggiato cornicioni e marmi, compresi quelli del memoriale del genocidio. Ma quello che ha colpito un autobus scolastico fuori dalle mura ha ucciso quattro bambini di sei anni (due armeni apostolici, un greco ortodosso e un melchita) e l’autista, ferendone molti altri. «Tutti i passanti ci hanno aiutato a soccorrere i nostri piccoli», racconta il presidente del consiglio di gestione. «Se in Italia avete specialisti del trauma psicologico disponibili ad aiutarci ce li faccia conoscere, perché ne abbiamo ancora bisogno per i nostri studenti».
Il sacerdote Makarios Kallouma è il segretario del patriarca della Chiesa melchita, ed è originario di Maloula. Fra i cristiani locali ostaggi dei jihadisti di Jabhat al Nusra ci sono anche un suo fratello e un suo cugino. «Avevano detto che non avrebbero attaccato il villaggio, ma non hanno mantenuto la promessa. Hanno scelto come pretesto i vetri rotti dell’unica moschea, presi a sassate da alcuni ragazzi. Loro hanno devastato e razziato le chiese e abbattuto le croci! Conoscevo alcuni dei cristiani che sono morti martiri».
Makarios racconta la storia di Antoine, Mikhail e Sarkis. Insieme ad altri si trovavano in una casa al momento della presa della località. Riuniti in una stanza pregavano: «Se dobbiamo morire, moriremo cristiani». Quando i ribelli sono entrati nell’edificio ai presenti hanno detto: «Avete salva la vita». Ma appena Mikhail e Sarkis sono usciti dalla casa, sono stati abbattuti dai ribelli che sostavano fuori. Al 21enne Antoine, studente di ingegneria, i jihadisti hanno imposto: «Se non ti converti all’islam, morirai». Le sue ultime parole: «Sono nato cristiano e morirò cristiano».
Le testimonianze dei fuggitivi di Adra, sobborgo operaio e impiegatizio di Damasco assalito e occupato da circa 3 mila ribelli di varie formazioni la mattina dell’11 dicembre scorso, sono ancora più raccapriccianti. «Hanno sgozzato Alì, l’unico alawita del mio palazzo. Urlavano “sei un infedele, sei un alawita!”», racconta Samer, un sunnita, pensionato di una vetreria industriale. «Ci hanno fatto scendere tutti e ci hanno obbligato a urlare tre volte con loro: “Allahu Akbar!”. Quindi hanno ordinato: “I cristiani, gli alawiti e gli ismaeliti vengano fuori”. Ma nel mio palazzo eravamo tutti sunniti. Ci hanno fatto anche delle domande trabocchetto per capire se dicevamo la verità. Erano vestiti all’afghana e alla pakistana, ma parlavano con accenti giordano e saudita. Avevano una fascetta gialla intorno alla fronte con su scritto “Stato islamico”, che è propria di Jabhat al Nusra. Ma quando ci hanno trasferiti di palazzo, i ribelli che ci controllavano i documenti erano dell’Esercito siriano libero. Avevano liste di nomi di persone che cercavano. Lungo il tragitto ho visto coi miei occhi otto cadaveri decapitati di uomini abbandonati per strada, un ragazzo con le mani legate dietro la schiena è stato sgozzato e decapitato mentre passavamo in quel momento». Ad Adra sono stati trucidati almeno 80 civili alawiti, drusi, cristiani e ismaeliti in base alla sola appartenenza religiosa
La politica del perdono
Come reagiscono i cristiani siriani alla persecuzione? In molti modi. Inveendo contro l’Occidente, organizzandosi militarmente, protestando con Dio, riavvicinandosi a Dio, riavvicinandosi fra loro in un rinnovato ecumenismo, praticando la carità, la solidarietà e la gratuità verso i concittadini più colpiti, perdonando chi ha fatto il male, operando per la riconciliazione. E va sottolineato che questo arco di reazioni caratterizza non solo i cristiani, ma la società siriana nel suo complesso per quanto riguarda le sue componenti di area filogovernativa.
L’esempio più fulgido di perdono dei nemici resta quello del gran muftì Ahmad Badreddin Hassoun, il capo religioso di tutti i sunniti della Siria, il cui figlio 22enne fu assassinato in un’imboscata nell’ottobre 2011 per rappresaglia contro l’allineamento del padre sulle posizioni del governo. Al funerale Hassoun perdonò gli assassini, che non erano stati ancora catturati. E oggi il perdono è diventato la politica ufficiale del regime: a tutti i ribelli che depongono le armi e firmano un impegno scritto, lo Stato concede l’amnistia, mentre in alcuni quartieri della capitale gli insorti hanno concordato tregue e/o capitolazioni con l’esercito che prevedono che dopo aver consegnato le armi pesanti essi mantengano le armi leggere, per difendersi dai loro ex compagni.
A Babila, a Beit Sahem, a Barzeh, ad Akraba, Moudamya e Yelda le armi tacciono, vuoi per armistizi vuoi per veri e propri processi di riconciliazione avviati. A Homs, una delle prime città dove la rivolta scoppiò nel 2011, abbiamo visto coi nostri occhi la cerimonia di reinserimento nella vita civile di 60 ex ribelli della città vecchia (foto sopra a destra), culminata nel discorso con cui il governatore della città accoglieva i figlioli prodighi: «Siete stati coraggiosi a consegnarvi quando tutti vi dicevano che qui avreste trovato l’inferno. Tutti facciamo errori, ma voi siete nostri fratelli e la patria appartiene a tutti. Nessuno ha il diritto di dirvi che lui è più patriota di voi. Siamo sicuri che farete bene e aiuterete a ricostruire il mosaico della Siria. Ma se sbaglierete ancora, non ci sarà un’altra amnistia». I 60 facevano parte di un gruppo di 560 usciti dalla città vecchia a seguito di un accordo umanitario che doveva esfiltrare dall’area sotto assedio i civili, ma che è stata l’occasione per la resa condizionata di molti combattenti.
Da una parte, dunque, i cristiani sono entrati numerosi nella Forza nazionale di difesa, che è un corpo di autodifesa dei villaggi e dei quartieri delle città. Sono 100 mila civili armati e forniti di divisa e parzialmente stipendiati dal governo. Alcuni di questi sporadicamente si uniscono alle operazioni dell’esercito. Dall’altra, sono impegnati come tutti gli altri siriani, funzionari pubblici ma anche gente comune, nell’assistenza ai 6 milioni di sfollati interni, su una popolazione di 23 milioni. La cosa che colpisce di più del grande sforzo che Stato e società fanno per accogliere i rifugiati privi di mezzi di sostentamento – la maggior parte dei 6 milioni trova sistemazione presso parenti o in affitti e seconde case di proprietà in zone sicure – è l’assoluta non discriminazione verso le famiglie sunnite che provengono dalle aree dove si combatte.
Molte di esse hanno parenti o addirittura il padre di famiglia impegnato coi ribelli, e tuttavia non subiscono vessazioni. «La responsabilità penale è personale, le nostre leggi non puniscono colpe di gruppo», ci tiene a dire Nizar Ismael Mousa, governatore di Tartus, la città portuale oasi di pace nella Siria devastata. La località ha visto quasi raddoppiare la sua popolazione, che è passata da 900 mila a 1 milione e mezzo di abitanti, ma le vie sono pulite e la pressione demografica non si nota. «Noi trattiamo tutti allo stesso modo. Non è colpa di queste famiglie se un loro consanguineo ha scelto di essere disumano». Elias Sleman è il vescovo maronita di Tartus, e traduce in termini cristiani il concetto: «Tutti i bambini hanno diritto a essere nutriti e vestiti. Non possiamo dire: “I vostri padri combattono, quindi noi non vi diamo da mangiare”. E poi non possiamo fare a meno di mostrare a questa gente il volto di Cristo. Per questo aiutiamo tutti senza porre condizioni».
«Dio ti ha ascoltato»
La scelta sembra dare risultati, se è vero quello che il vescovo racconta. «A una suora, una donna sfollata di famiglia musulmana ha detto: “È la prima volta che incontriamo dei cristiani, nella nostra zona d’origine non ce ne sono. Non siete come ci avevano detto. Noi vi stiamo uccidendo e voi ci state dando da mangiare!”». Ma come tutti gli esseri umani, anche i cristiani vanno in crisi davanti all’infuriare del male. «I più credenti non protestano, colgono le opportunità che la guerra offre per praticare la carità, l’ecumenismo con tutte le chiese e la solidarietà verso tutti. I meno credenti ci sfidano: “Perché Dio non ferma queste atrocità? ”. Noi diciamo loro: “La prima vittima dell’ingiustizia è Dio stesso, lo vedete lì sulla croce”. Quando a porre quelle domande sono coloro che hanno perso persone care, noi non rispondiamo. Li ascoltiamo, li facciamo sfogare e stiamo accanto a loro. Dopo si sentono sollevati e ci ringraziano di essergli stati vicini. Allora noi gli diciamo: “Dio ti ha ascoltato, Dio è con te”».
http://www.tempi.it/siria-ecco-i-frutti-della-carita-di-cristo-dentro-linferno-della-guerra#.Ux4hfUaYbwp
La politica del perdono
Come reagiscono i cristiani siriani alla persecuzione? In molti modi. Inveendo contro l’Occidente, organizzandosi militarmente, protestando con Dio, riavvicinandosi a Dio, riavvicinandosi fra loro in un rinnovato ecumenismo, praticando la carità, la solidarietà e la gratuità verso i concittadini più colpiti, perdonando chi ha fatto il male, operando per la riconciliazione. E va sottolineato che questo arco di reazioni caratterizza non solo i cristiani, ma la società siriana nel suo complesso per quanto riguarda le sue componenti di area filogovernativa.
L’esempio più fulgido di perdono dei nemici resta quello del gran muftì Ahmad Badreddin Hassoun, il capo religioso di tutti i sunniti della Siria, il cui figlio 22enne fu assassinato in un’imboscata nell’ottobre 2011 per rappresaglia contro l’allineamento del padre sulle posizioni del governo. Al funerale Hassoun perdonò gli assassini, che non erano stati ancora catturati. E oggi il perdono è diventato la politica ufficiale del regime: a tutti i ribelli che depongono le armi e firmano un impegno scritto, lo Stato concede l’amnistia, mentre in alcuni quartieri della capitale gli insorti hanno concordato tregue e/o capitolazioni con l’esercito che prevedono che dopo aver consegnato le armi pesanti essi mantengano le armi leggere, per difendersi dai loro ex compagni.
A Babila, a Beit Sahem, a Barzeh, ad Akraba, Moudamya e Yelda le armi tacciono, vuoi per armistizi vuoi per veri e propri processi di riconciliazione avviati. A Homs, una delle prime città dove la rivolta scoppiò nel 2011, abbiamo visto coi nostri occhi la cerimonia di reinserimento nella vita civile di 60 ex ribelli della città vecchia (foto sopra a destra), culminata nel discorso con cui il governatore della città accoglieva i figlioli prodighi: «Siete stati coraggiosi a consegnarvi quando tutti vi dicevano che qui avreste trovato l’inferno. Tutti facciamo errori, ma voi siete nostri fratelli e la patria appartiene a tutti. Nessuno ha il diritto di dirvi che lui è più patriota di voi. Siamo sicuri che farete bene e aiuterete a ricostruire il mosaico della Siria. Ma se sbaglierete ancora, non ci sarà un’altra amnistia». I 60 facevano parte di un gruppo di 560 usciti dalla città vecchia a seguito di un accordo umanitario che doveva esfiltrare dall’area sotto assedio i civili, ma che è stata l’occasione per la resa condizionata di molti combattenti.
Da una parte, dunque, i cristiani sono entrati numerosi nella Forza nazionale di difesa, che è un corpo di autodifesa dei villaggi e dei quartieri delle città. Sono 100 mila civili armati e forniti di divisa e parzialmente stipendiati dal governo. Alcuni di questi sporadicamente si uniscono alle operazioni dell’esercito. Dall’altra, sono impegnati come tutti gli altri siriani, funzionari pubblici ma anche gente comune, nell’assistenza ai 6 milioni di sfollati interni, su una popolazione di 23 milioni. La cosa che colpisce di più del grande sforzo che Stato e società fanno per accogliere i rifugiati privi di mezzi di sostentamento – la maggior parte dei 6 milioni trova sistemazione presso parenti o in affitti e seconde case di proprietà in zone sicure – è l’assoluta non discriminazione verso le famiglie sunnite che provengono dalle aree dove si combatte.
Molte di esse hanno parenti o addirittura il padre di famiglia impegnato coi ribelli, e tuttavia non subiscono vessazioni. «La responsabilità penale è personale, le nostre leggi non puniscono colpe di gruppo», ci tiene a dire Nizar Ismael Mousa, governatore di Tartus, la città portuale oasi di pace nella Siria devastata. La località ha visto quasi raddoppiare la sua popolazione, che è passata da 900 mila a 1 milione e mezzo di abitanti, ma le vie sono pulite e la pressione demografica non si nota. «Noi trattiamo tutti allo stesso modo. Non è colpa di queste famiglie se un loro consanguineo ha scelto di essere disumano». Elias Sleman è il vescovo maronita di Tartus, e traduce in termini cristiani il concetto: «Tutti i bambini hanno diritto a essere nutriti e vestiti. Non possiamo dire: “I vostri padri combattono, quindi noi non vi diamo da mangiare”. E poi non possiamo fare a meno di mostrare a questa gente il volto di Cristo. Per questo aiutiamo tutti senza porre condizioni».
«Dio ti ha ascoltato»
La scelta sembra dare risultati, se è vero quello che il vescovo racconta. «A una suora, una donna sfollata di famiglia musulmana ha detto: “È la prima volta che incontriamo dei cristiani, nella nostra zona d’origine non ce ne sono. Non siete come ci avevano detto. Noi vi stiamo uccidendo e voi ci state dando da mangiare!”». Ma come tutti gli esseri umani, anche i cristiani vanno in crisi davanti all’infuriare del male. «I più credenti non protestano, colgono le opportunità che la guerra offre per praticare la carità, l’ecumenismo con tutte le chiese e la solidarietà verso tutti. I meno credenti ci sfidano: “Perché Dio non ferma queste atrocità? ”. Noi diciamo loro: “La prima vittima dell’ingiustizia è Dio stesso, lo vedete lì sulla croce”. Quando a porre quelle domande sono coloro che hanno perso persone care, noi non rispondiamo. Li ascoltiamo, li facciamo sfogare e stiamo accanto a loro. Dopo si sentono sollevati e ci ringraziano di essergli stati vicini. Allora noi gli diciamo: “Dio ti ha ascoltato, Dio è con te”».
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