È
buio pesto a Mosul nella notte tra il 15 e 16 luglio 2014,
quando d’improvviso il silenzio si rompe. Gli uomini neri dello
Stato islamico, calati da Raqqa il 10 giugno, lanciano ai cristiani
un ultimatum: «Convertitevi all’Islam, pagate la jizya [1] o
lasciate la città senza portare nulla con voi entro il 19 luglio a
mezzogiorno. Altrimenti vi aspetta la decapitazione».
Da
quel momento in poi è l’inferno: è fuga per migliaia e migliaia
di famiglie che si mettono in marcia verso villaggi considerati più
sicuri, verso il Kurdistan. Ai checkpoint gli uomini di Isis
strappano loro tutto, denaro, documenti, le chiavi di casa, perfino
gli orecchini. Non risparmiano neppure i neonati, ai quali portano
via il biberon di latte, lasciandoli affamati e urlanti.
Nella
calura insopportabile di un’estate di sangue viene sradicato quel
che restava dell’antichissima comunità caldea di Mosul.
L’antica Ninive del libro di Giona, dove nel settimo secolo ebbe
origine la liturgia caldea, si svuota degli ultimi quindicimila
cristiani. Questo piccolo resto aveva scelto di rimanere nonostante
le violenze ripetute, esacerbatesi dopo la caduta del regime di
Saddam Hussein, come attesta il rapimento e l’uccisione nel 2006
del vescovo caldeo mons. Farraj Rahho, per citare solo uno tra i
tanti casi.
Ma
quella notte di luglio la violenza conosce un’impennata: le chiese
sono profanate, le croci strappate dai tetti per far posto alle
bandiere nere del terrore, tutti i miscredenti cacciati. Una nuova
pagina surreale, nella sua tragicità, per Mosul, dopo la caduta in
sole sette ore nelle mani di poche centinaia di terroristi a fronte
dei 60.000 uomini dell’esercito iracheno.
Da
quel momento il
terrore dilagante nella piana di Ninive genera un
mare di sfollati:
solo da Mosul fuggono 500.000 persone, un quarto della popolazione
circa. Nel giro di poche settimane naufraga nel Kurdistan iracheno,
tra Erbil, Dohuk e Zakho, un milione di persone, che si aggiungono a
una popolazione di cinque milioni circa e ai 500.000 profughi dalla
Siria.
Non
è la prima volta nella storia che i cristiani, per sfuggire a
persecuzioni e ingiustizie trovano riparo nella regione alla quale,
dopo decenni di scontri con Baghdad (nei quali i cristiani stessi
sono rimasti schiacciati pagando un altissimo prezzo), è stata
riconosciuta l’autonomia nel 1992. Ricca di petrolio, è
considerata l’area più sicura del Paese grazie alla presenza dei
quasi mitologici peshmerga, oggi addestrati anche da
eserciti stranieri, e nonostante le costanti tensioni con il governo
federale che non ha mai sopportato le spinte indipendentiste locali.
Ma
è in tutto l’Iraq che il numero degli IDPs (internal
displaced people, sfollati), come li definiscono
le agenzie delle Nazioni Unite, sta rasentando livelli da collasso:
le violenze settarie che hanno incendiato e spaccato il Paese dopo la
guerra del 2003 hanno lasciato senza un tetto due milioni di persone,
per metà bambini. Si adattano per mesi a vivere in campi allestiti
con tende o caravan su pezzi di terra brulla alle periferie dei
centri urbani o in parchi cittadini (come quello del cuore di Erbil
attorno alla parrocchia di Mar Elia) o in edifici in via di
costruzione. Si accalcano anche quattro o cinque famiglie in piccole
casette o negli appartamenti di palazzi ancora allo stadio del
cemento grezzo, senza intonaco, né pavimenti, né infissi. Perché
in Kurdistan l’attività edilizia paradossalmente ferve:
sorprendono gli ambiziosi grattacieli incompiuti che svettano nel
centro della capitale e i quartieri residenziali che si intravedono
lungo la strada che collega la capitale a Dohuk. Investono qui i
ricchi iracheni del Sud, così come stranieri facoltosi, tra cui i
turchi, perché la zona è considerata appunto “stabile”.
Trama
di destini, non masse senza nome
Finché
si leggono nei rapporti delle organizzazioni umanitarie accorse sul
campo, le statistiche dei rifugiati e
sfollati impressionano, ma
finiscono per coincidere con masse di uomini e donne senza volto, ai
quali occorre procurare urgentemente enormi quantità di acqua, cibo,
vestiti… Gente da organizzare e gestire con progetti specialistici,
per esempio di winterization, education, protection,
come prevede il gergo tecnico. Ma se ognuna di queste azioni è
indispensabile per garantire loro la sopravvivenza, non si può
arrivare a confondere con una massa impersonale quella che è una
trama articolata di profili singolari e vicende uniche. Ogni storia è
diversa, ha in sé dettagli particolari che concorrono a comporre
quel fenomeno travolgente, dalle radici lontane, che è lo
spostamento di intere comunità da Est a Ovest. Un “trasloco” che
va cambiando la geografia umana dell’Iraq, dei Paesi vicini e in
parte, forse, benché in modo non misurabile, di Paesi anche molto
lontani, fino all’altra parte dell’Oceano Atlantico.
«Se
va avanti così, in sei o sette anni non avremo più cristiani in
Iraq», sostiene mons. Bashar Warda, arcivescovo caldeo di Erbil.
Ogni giorno pare che una settantina di persone lasci il paese per
guadagnarsi un futuro altrove. Goccia dopo goccia, la costante
partenza dei cristiani si configura come un processo inarrestabile,
che ha innescato un cambiamento profondo, di ecosistema, a
prescindere dalla consapevolezza o meno dei suoi protagonisti. Perché
il fatto che a Mosul dal luglio 2014 non si celebri più la messa per
la prima volta in quasi duemila anni di storia di presenza cristiana,
non può essere tema esclusivo di quella particolare comunità o dei
cristiani di qui.
L’emorragia
continua che sta dissanguando il Medio
Oriente,
almeno da un secolo, da un lato ne cambia la composizione, privandolo
di una presenza garante della sua pluralità, come scrisse già nel
2002 non un cristiano, ma un saudita, il principe Talal Bin Abdel
Aziz al-Sa‘ud: «Gli arabi cristiani, in forza della loro pluralità
culturale, erano e sono sempre, una sfida costante per la cultura e
il pensiero. La loro presenza è una garanzia contro lo svilupparsi
dell’arbitrio e dell’estremismo, e di conseguenza, di una
violenza che conduce a catastrofi storiche»[2].
E dall’altra la diaspora impianta altrove comunità che
custodiscono – e nessun checkpoint di terroristi glielo può
sottrarre – il deposito di una tradizione millenaria. Che destino
avranno loro, le loro famiglie e il loro patrimonio di cultura,
tradizioni e religione? Si “integreranno” fino al punto di
confondersi completamente nelle nuove società o inietteranno una
differenza nei nuovi contesti? Se si entra in una chiesa a Erbil e si
assiste alla messa secondo un rito rimasto intatto nei secoli,
celebrato nella stessa lingua dell’apostolo Tommaso che evangelizzò
queste terre, o se si ascoltano i racconti di uomini e donne che per
fedeltà al loro battesimo si sono lasciati uccidere, sembra
impossibile accettare che questa cultura e fede siano destinate a
sbriciolarsi nell’innesto in Occidente. Eppure anche questo
pericolo incombe, accanto a quello più immediatamente violento di
Isis.
Quando
è cominciato?
Se
si volesse fissare una data di inizio per l’esodo dei cristiani
mediorientali, si potrebbe risalire a un secolo fa, al 1915, data
del genocidio
di armeni e siriaci.
Cominciarono a partire dalla Turchia, dall’Iraq e dalla Siria. Gli
anni del regime baatista hanno solo aggravato la tendenza all’esodo.
Secondo stime non ufficiali oggi sono circa 350-400.000 i siriaci e i
caldei che vivono in Europa, in Svezia e Germania soprattutto. Il
resto è disperso tra Belgio, Francia, Olanda, Austria, Scandinavia e
Inghilterra. Circa 100.000 sono in Australia i cristiani che arrivano
da Oriente, con qualche presenza in Nuova Zelanda. Negli Stati Uniti
sono 800-900.000. Ma recuperare dati certi sulla parabola demografica
dei cristiani in Iraq è un’impresa. Il patriarca di Baghdad dei
caldei, Louis Sako, parla di un milione e mezzo circa prima del 2003.
Secondo l’ultimo censimento realizzato, che risale al 1965, i
cristiani erano 250.000 circa[3],
equivalenti al 3% della popolazione. Per quanto riguarda l’oggi,
secondo il patriarca caldeo i
cristiani si aggirano tra i 100.000 e i 400.000.
Non
solo cristiani i perseguitati
Sebbene
i numeri della cancellazione dei cristiani siano i più imponenti, va
sempre ricordato che non sono solo cristiane le vittime della
violenza praticata da Isis. Le minoranze come gli
yazidi, i turcomanni, i mandei, sono state tutte prese di mira dai
jihadisti nel loro disegno
di purificazione dello Stato dalla presenza dei “miscredenti”.
Gli yazidi pare fossero 500.000 in Iraq, la maggioranza residente
attorno a Sinjar. Oggi almeno 400.000 di loro sono sfollati. Mentre
sono 3.000 circa le loro donne rapite da Isis, delle quali solo 240
sono riuscite a tornare libere. Molte sono rimaste incinta dopo gli
abusi subiti, e hanno scelto nella maggior parte dei casi di
abortire. Una strage di innocenti dentro un’altra strage. Chi è
riuscita a scappare dalla morsa nera ha raccontato dell’assurda
violenza e dell’abbrutimento di quegli uomini. Come Amsha, 19 anni,
il viso pallido stretto da un velo cupo, lo sguardo basso, le mani
inquiete a tranquillizzare il suo bambino aggrappato alla gonna. Si è
rifugiata in una località nel nord del Kurdistan, Sharia, insieme ai
suoi famigliari e ai suoi due bambini, il primo di due anni e il
secondo appena nato, in una casetta in costruzione, dove l’odore di
una convivenza sovraffollata si mescola a quello del cibo in cottura
e della campagna brulla. Fu catturata e assegnata come schiava a un
jihadista dello Stato islamico originario di Falluja, stabilitosi a
Mosul con moglie e figli. È rimasta in quella casa per alcune
settimane, chiusa in una stanza con il figlio. Finché una notte,
spinta dal pianto disperato del bimbo affamato, è riuscita a
scappare e, dopo ore di marcia nella notte, a trovare aiuto. Il suo
racconto dei giorni di prigionia è molto asciutto: Amsha non riesce
a offrire molti dettagli, ma non può dimenticare che tre delle sue
compagne per la disperazione si sono tagliate le vene, e che del
marito non ha più notizie dal giorno del rapimento.
In
attesa del VISA
Di
quella trama sottile che lega milioni di sfollati in un destino
assurdo fanno parte anche Foco e sua sorella Lary, chiamati così dai
genitori legati al movimento dei Focolari. Diciott’anni, esile, lo
sguardo di pece, durante la permanenza provvisoria a Dohuk, Foco dava
una mano agli operatori della Caritas che si occupa là, come nel
resto del Paese, almeno fin dove può spingersi, delle migliaia e
migliaia di iracheni sfollati, a prescindere dalla loro appartenenza
religiosa: «Avevamo una profumeria a Qaraqosh – racconta Foco –
un bel negozio. Quando abbiamo capito che stavano per arrivare i
terroristi, il 6 agosto alle 11 siamo scappati. Tutti i cristiani del
mio villaggio sono fuggiti. Ora siamo qui, in attesa del permesso di
entrare in Francia, dove vive una zia. Per ricominciare da capo».
“In attesa di ripartire”: la fuga, decisa quando
ormai il tam-tam confermava l’avanzata inarrestabile degli
assassini e l’abbandono inaspettato della città da parte delle
forze curde che dovevano difenderla, approda in prima battuta in
Kurdistan. Ma la lunga sosta in quel luogo sospeso nel tempo e nello
spazio, qual è un campo di profughi, non spegne il desiderio vitale
di chi è stato privato di tutto e si sente braccato, né rimuove il
bisogno di ri-partenza, di lasciarsi riafferrare da una speranza di
ripresa.
Il
visto alla fine è arrivato, a fine febbraio, e il giovane di
Qaraqosh è partito con tutta la famiglia per Lione. La foto che ha
postato su Facebook con poche valigie all’aeroporto di Erbil prima
del decollo è la traccia di quel viaggio che conduce lui e migliaia
di altri dagli antichi villaggi iracheni verso l’Europa. Tornerà
un giorno alla sua casa? Ci sarà una nuova chance per lui in Iraq?
Intanto a Lione ha ricominciato ad andare a scuola.
L’addio
dei Vescovi
Lungo
la direttrice da Oriente a Occidente si colloca anche la vicenda
di mons. Amel Shamon Nona, già vescovo di Mosul. Papa
Francesco l’ha nominato vescovo della comunità di Sidney, che
conta circa 50.000 fedeli, al posto di mons. Djibrail Kassab, che a
sua volta lasciò Bassora nel 2006. La città era stata abbandonata
in massa dai cristiani per il massacro sistematico perpetrato contro
di loro, quella volta da milizie sciite. «Quando mi hanno detto “o
ti converti o paghi la jizya o te ne vai”, io ho
scelto di andarmene – spiega mons. Nona, a febbraio ancora a Erbil.
Basta, era arrivato il momento di dire basta: la misura era stata
superata. Da 1400 anni i cristiani in queste terre vivono pagando il
prezzo della loro fede. Ci si sorprende di Isis come di un fenomeno
recente, ma noi a Mosul lo conoscevamo almeno dal 2003: la vita per i
cristiani era drammaticamente peggiorata. Quando uscivano la mattina
per andare al lavoro, non sapevano se sarebbero ritornati la sera.
Chi aveva attività commerciali doveva pagare la jizya e
riceveva una ricevuta con la scritta Stato islamico. Dopo
la morte del mio amico e predecessore, quando mi muovevo cercavo di
fare percorsi sempre diversi, per ridurre il pericolo di attentati».
Nona
è rimasto dall’arcivescovo di Erbil per qualche mese, prima del
trasferimento in Australia. Anche lui “ospite” del quartiere
cristiano, Ankawa, che tra giugno e agosto 2014 ha visto più che
raddoppiata la sua popolazione: da 40.000 gli abitanti sono passati a
80-90.000. Non è mancata la solidarietà immediata di tanti che
hanno ospitato sotto il loro tetto per mesi famiglie intere, mentre
la Caritas irachena e le diocesi hanno moltiplicato gli sforzi per
rispondere ai bisogni di persone sconosciute, strappate dal ciglio
della strada.
«Vogliamo
aiutarli non solo assicurando cibo, coperte, cure mediche, ma
promuovendo la loro dignità integrale – spiega mons. Warda.
Desideriamo “aiutarli
ad aiutarsi”.
La sfida che incombe prepotente è l’emigrazione verso la
Turchia, il Libano, la Giordania,
prime tappe di un viaggio che spesso ha destinazioni ancora più
remote. Se non possiamo arginarla del tutto, almeno possiamo tentare
di contenerla. Per esempio offrendo un contributo economico per
pagare l’affitto di una casa qui. Erbil non è il loro villaggio,
ma almeno non è straniera. L’Europa, l’America sembrano
promettere molto, quanto le immagini da qui, ma poi cosa troverà lì
davvero, chi parte esattamente non lo sa. Magari solo porte chiuse e
ancora la strada». Un progetto in controtendenza per tutelare la
ricchezza di una stoffa umana variegata come quella del popolo
iracheno: «Per l’Occidente può essere facile accogliere cento o
mille profughi – osserva il patriarca Sako – il punto è come
aiutare coloro che vogliono rimanere in patria. Tutti parlano di
democrazia, di riforme, di cambiamento. Ma prima di tutto ci
vuole un’educazione
nuova,
che sradichi fin dai suoi primi germogli la mentalità del jihadista.
Solo così si può pensare a un futuro per i cristiani qui. E anche a
un futuro sicuro per l’Occidente. L’islamizzazione radicale è
l’obiettivo di chi non vuole i cristiani qui e voi in Occidente non
li conoscete, non sapete cosa intendono dire quando parlano».
Senza
scarpe nel fango
Non
c’è spazio per le illusioni quando
si cammina tra tende di sfollati e bagni comuni provisori, si parla
con bambini che giocano nel fango nel pieno dell’inverno e non
hanno le scarpe, o si incrocia lo sguardo con chi è scampato alla
morte, è stato derubato di tutte le sue cose e dei suoi progetti, e
vive appeso a un filo. «Nella migliore delle ipotesi – osserva
ancora mons. Warda –, se anche lo Stato islamico fosse sconfitto e
i suoi miliziani eliminati, che cosa potrebbe trovare chi si
azzardasse a rientrare in quei villaggi? Case distrutte, terreni
minati e soprattutto il tessuto di fiducia reciproca tra gli abitanti
stracciato».
Tra
quanti sono stati cacciati dai loro villaggi c’è anche chi non
vuole abbassare la testa e cerca di costituire delle milizie
cristiane, come Yoseph Yacoub
Methy, del Bethnarin Patriotic Party: «Nessuno prende le nostre
difese fino in fondo, l’esercito iracheno e i peshmerga curdi
hanno già dimostrato nella piana di Ninive che sanno abbandonare i
cristiani nella mani di Isis senza muovere un dito. Dobbiamo imparare
a difenderci da soli». Un’impresa quasi impossibile considerata la
situazione di frammentazione dei pochi cristiani nel Paese (divisi
politicamente in oltre sette partiti), a fronte di nemici numerosi e
molto ben armati.
Dove
si è installata la furia diabolica di Isis, casi come quello di
Mahmad al-Assali, professore all’università di Mosul ucciso per
aver contestato l’espulsione dei cristiani e testimonianza potente
di quale tipo di coesistenza poteva essere possibile, sono rimasti
rari. Se per pavidità o calcolo, resterà da decifrare. Più si
affonda nella complessa realtà e storia irachena, più diventano
martellanti due interrogativi: perché tanto odio nei confronti dei
cristiani? E perché provare ad aiutarli a restare? Un principio di
risposta si può attingere da una riflessione del patriarca Sako: «Il
nostro problema è che siamo assimilati
all’Occidente.
E molti musulmani pensano che di là vengano tutti i loro mali:
l’Occidente sostiene Israele, l’Occidente attacca i musulmani e
sfrutta il petrolio… Siccome considerano l’Occidente cristiano,
la sua colpa ricade anche su di noi. I membri dello Stato islamico in
particolare ritengono che i cristiani con la loro libertà, i loro
costumi diano fastidio. Guardate le giovani cristiane in jeans e
senza velo! In questo presunto califfato una cristiana libera,
vestita diversamente, obbliga le altre donne a porsi delle domande. I
cristiani con la loro differenza seminano il dubbio»[4].
Sono insopportabili, vanno eliminati.
Insopportabili
come la croce, che nelle chiese caldee è senza il Cristo crocifisso,
solo legno. A sottolineare che Gesù ha sconfitto la morte, la
violenza, la spada, ed è risorto. La croce dei caldei è una croce
gloriosa, la certezza alla quale non smettono di restare aggrappati.
[1] La jizya,
l’imposta di “protezione” prevista dalla sharî‘a,
pare si aggirasse intorno ai 450 dollari, cifra esorbitante che non
sarebbe stata comunque sufficiente a salvare la vita di chi non si
convertiva, tanto più in uno Stato che non può accettare al suo
interno la presenza di “miscredenti”.
[2] Talal
Bin Abdel Aziz al-Sa‘ud, Arabes
chrétiens, ne partez pas !,
«an-Nahar», 28 marzo-3 aprile 2002, p. 28.
[3] Andrea
Pacini (a cura di), Comunità
cristiane nell’Islam arabo,
Fondazione Agnelli, Torino 1996, p. 69.
[4] Louis
Sako, «
Ne nous oubliez pas ». Le SOS du patriarche des chrétiens d’Irak,
Bayard, Paris 2015, p. 34.
Iraq