Nella cittadina totalmente cristiana ortodossa di Muhardeh si sono svolti i funerali di Elias, 14 anni, Amira, 23 anni, Lena, di 8 anni con sua sorella di 4 anni, Maria di 8 anni con suo fratello Fadi di 6 anni e la sorellina lamya 4 anni, Dima la loro madre di 30 anni: vittime dei missili che i jihadisti da Hama e Idlib lanciano da 7 anni sulla città in odio ai cristiani.
AsiaNews
Le tensioni internazionali attorno a Idlib “fanno paura” e la sensazione diffusa è che fra le cancellerie occidentali, in testa gli Stati Uniti e i suoi alleati nella regione, “si cerchi un pretesto” per colpire la Siria. È quanto sottolinea ad AsiaNews il vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, secondo cui “in tutte le battaglie vi è un pericolo reale per i civili”, ma non è possibile lasciare un intero settore del Paese nelle mani di gruppi jihadisti e terroristi. Il prelato ricorda infatti che, proprio da quell’area, nei giorni scorsi è partito un lancio di razzi e granate che ha colpito una cittadina cristiana, uccidendo una decina di persone in maggioranza donne e bambini.
Per il vicario di Aleppo è doveroso mantenere alta l’attenzione sulla sorte della popolazione civile ma, al tempo stesso, “governi occidentali e media mainstream esasperano la situazione”. Il prelato ricorda inoltre le vittime cristiane che spesso vengono relegate ai margini. “Quattro giorni fa - racconta - gruppi terroristi [vicini alla Turchia] presenti a Latamneh hanno lanciato razzi sulla cittadina cristiana di al-Mahardeh, uccidendo una decina di persone”. Fra queste, aggiunge, “sei erano bambini e tre le donne. Di una famiglia si è salvato solo il padre”.
La zona da cui sono partiti i razzi è sotto il controllo di al Qaeda ed è fra gli obiettivi dell’annunciata offensiva dell’esercito siriano, che vuole riconquistare il controllo di tutta la zona. “Nessuno ha parlato di questo attacco - accusa mons. Georges Abou Khazen - ed è inaccettabile”. La speranza, prosegue, è che “si giunga ad un accordo che porti una vera riconciliazione” evitando violenze e combattimenti “ma siamo scettici. Bisogna capire quale sarà la posizione della Turchia e valutarne le azioni: una cosa sono le parole, altro i comportamenti sul campo” e dall’incontro della scorsa settimana a Teheran fra Russia, Turchia e Iran non sono emersi sviluppi positivi.
L’esodo di milioni di disperati, che hanno cercato riparo all’estero in Medio oriente, Europa, Nord America e Australia, è una delle conseguenze più gravi del conflitto che, da sette anni, insanguina la Siria. L’offensiva su Idlib rappresenta una ulteriore fonte di preoccupazione per una nuova emergenza umanitaria e per le ripercussioni a livello internazionale, con possibili interventi del blocco occidentale, Stati Uniti in testa. Washington, infatti, ha già minacciato di attaccare la Siria in caso di utilizzo di arsenale chimico nella provincia. Tuttavia, per i critici ciò rappresenta un pretesto per intervenire contro Assad e colpirne gli alleati: Russia e Iran.
Ad alimentare l’allarme anche le principali agenzie delle Nazioni Unite presenti sul territorio, secondo cui fra il primo e il 9 settembre oltre 30mila persone hanno abbandonato le loro case nella provincia di Idlib e sono fuggire in cerca di salvezza. Il timore, avvertono. è che si sviluppi “la peggiore catastrofe umanitaria” del secolo. “Una eccessiva drammatizzazione” chiosa il vicario apostolico dei Latini di Aleppo.
“Fra le persone a rischio nella provincia di Idlib - conclude il prelato - vi sono almeno 200 famiglie cristiane che non hanno mai abbandonato la zona, nonostante la presenza dei terroristi di al Nusra. In questi sei anni hanno dovuto subire espropri di case, terreni e denaro, le donne hanno dovuto indossare il velo e una statua della Madonna è stata utilizzata come bersaglio per l’addestramento all’uso delle armi. la speranza è che anche per queste persone giunga la “liberazione” dal gioco fondamentalista perché “nessuno, cristiano o musulmano, deve vivere nelle mani dei terroristi”.
La Scuola Elementare 'Amal' in Hassakè (foto AINA).
Hassakeh contava 420 000 abitanti di cui 50 000 cristiani prima che Daesh circondasse la zona, ora la città conta solo 150 000 abitanti di cui 5000 cristiani. Ricordiamo che le chiese assire siriane fanno parte del patrimonio mondiale e sono tra le più antiche della cristianità.
di Gianandrea Gaiani
Dopo aver subito uccisioni, espropri, stupri e violenze di ogni tipo da parte dei miliziani jihadisti, prima qaedisti e salafiti e poi dello Stato Islamico, che hanno ridotto al lumicino la loro presenza, i cristiani delle regioni nord orientali siriane subiscono da tempo la “pulizia etnica” attuata dalle forze curde.
"Sono anni che lo ripeto, è in atto un tentativoda parte dei curdi di eliminare la presenza cristiana da quest' area della Siria" ha detto sabato monsignor Jacques Behnam Hindo, arcivescovo siro-cattolico di Hassaké-Nisibi, nel nord-est della Siria. Il presule conferma all’organizzazione Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS - autrice ogni anno di un rapporto che evidenzia le persecuzioni dei cristiani perpetrate in tutto il mondo e in particolare nel mondo islamico) la chiusura di alcune scuole cristiane da parte delle Forze Democratiche Siriane (FDS), la milizia curdo-araba istituita dagli Stati Uniti per strappare le aree tra Raqqa e la provincia di Deir Ezzor all’Isis e impedire alle truppe regolari di Damasco di riconquistare la regione orientale del Paese. Grazie agli aiuti Usa, che in quell’area mantengono basi e oltre 2mila militari, la regione nord orientale siriana è di fatto un territorio autonomo amministrato dalle Forze di difesa popolare curde (Ypg - braccio militare del partito curdo dell'Unione Democratica – PDY), protagoniste della difesa di Kobane e celebrate in Occidente come le più acerrime avversarie del Califfato.
"Già dall' inizio dell'anno, l'amministrazione locale ha preso possesso di un centinaio di scuole statali, nelle quali ha imposto un proprio programma scolastico e i propri libri di testo” – ha sottolineato monsignor Hindo. “I funzionari curdi ci avevano assicurato che non si sarebbero neanche avvicinati alle scuole private, molte delle quali sono cristiane. Invece non soltanto ci si sono avvicinati, ma ne hanno anche serrato le porte". La motivazione ufficiale della chiusura di varie scuole cristiane nelle città Qamishli, Darbasiyah e Malikiyah, è che tali istituti hanno rifiutato di conformarsi al programma imposto dalle autorità della regione. "Loro non vogliono che si insegni nella lingua della Chiesa, il siriaco antico, e non vogliono che insegniamo la storia, perché preferiscono inculcare agli alunni la propria storia". Nulla di diverso, in fondo, da quanto attuato negli stessi territori negli anni scorsi quando erano controllati dallo Stato Islamico.
Hindo non nasconde la preoccupazione, sia per la probabile chiusura di altre scuole cristiane - ve ne sono altre sei soltanto ad Hassaké - sia per i gravi danni che il programma scolastico "curdo", differente da quello ufficiale siriano, potrà causare agli studenti. "Ho detto ad un funzionario curdo che così una intera generazione verrà penalizzata, perché non potrà accedere a gradi di istruzione superiori. Lui mi ha risposto che sono disposti a sacrificare anche sei o sette generazioni pur di imporre la loro ideologia". La vicenda rappresenta una conferma del tentativo di "curdizzazione" di quella regione, un piano che secondo Hindo prevede anche l'allontanamento della locale comunità cristiana.
"È almeno dal 2015 che continuiamo a denunciare tale pericolo. Vogliono cacciar via noi cristiani per aumentare la loro presenza”. Ad oggi i curdi rappresentano soltanto il 20 percento della popolazione siriana ma controllano quasi per intero l’oriente siriano, a est del fiume Eufrate, soltanto grazie al sostegno dell’Occidente, Stati Uniti e Francia in testa, che grazie alle milizie curde cercano di impedire che l’intera Siria torni nelle mani di Assad e dei suoi alleati russi e iraniani. Le FDS controllano infatti un’area molto più ampia di quella abitata dalla popolazione curda siriana e la “pulizia etnica” ha l’obiettivo di allontanare i cristiani e “omogeneizzare” la popolazione ricollocando in queste aree le popolazioni curde cacciate dai militari turchi dalle aree di Afrin e Manbji. Attraverso ACS, il presule ha lanciato un appello alla comunità internazionale ed in particolare alle nazioni europee. "La chiusura delle nostre scuole ci addolora. È dal 1932 che la Chiesa gestisce questi istituti e mai ci saremmo immaginati che potessero venire chiusi. L'Occidente non può rimanere in silenzio. Se siete davvero cristiani dovete gettare luce su quanto sta accadendo ed impedire nuove violazioni dei nostri diritti e ulteriori minacce alla nostra presenza nella regione" ha concluso Hindo.
Non è la prima volta che i curdi, in Siria come in Iraq, puntano ad allargare le aree sotto il loro controllo a spese di minoranze di peso etnico inferiore. Lo hanno fatto nella città petrolifera irachena di Kirkuk cacciando soprattutto i turcomanni e, più a est nel Sinjar, gli Yazidi. Dopo la caduta di Mosul e la sconfitta dell’Isis in Iraq, l’invio di truppe di Baghdad e di milizie scite filo-iraniane in quelle regioni ha fatto tramontare il sogno indipendentistico del Kurdistan iracheno relegandolo a un’autonomia molto limitata. In Siria invece l’espansionismo curdo continua a manifestarsi grazie al supporto militare di Washington che finora ha impedito che prendesse piede la proposta di Damasco che offre autonomia ai curdi, ma limitata alla regione del Rojava, in cambio della restituzione allo Stato siriano dei territori oggi occupati dalle FDS che includono giacimenti e pozzi di gas e petrolio.
Il regime siriano di Bashar Assad ha sempre tutelato minoranze e confessioni diverse ed è stato in questi anni di guerra l’unico a sostenere le comunità cristiane. Donald Trump ha più volte manifestato l’intenzione di ritirare i militari statunitensi dalla Siria, iniziativa che renderebbe problematico per le FDS far fronte alle truppe di Damasco e ai loro alleati, inclusi gli iracheni che, come i turchi, non vedono certo di buon occhio la nascita “de facto” di uno Stato curdo nella Siria Orientale.
Onu:
alla Siria nessun aiuto per la ricostruzione se Assad non verrà
rimosso
di
Patrizio Ricci
Recentemente
sono stati diffusi alcuni documenti interni delle Nazioni Unite riguardanti la Siria. Questa informazione non era destinata alla
pubblicazione, dal momento che le istruzioni contenute nelle linee
guida interne stilate sotto forma di direttiva interna,
contraddicevano direttamente l’etica dell’organizzazione.
La
suddetta direttiva prevede che la ricostruzione del paese dovrà
iniziare solo quando in Siria sarà sostituito il governo attuale con
uno gradito alle potenze occidentali. In altre parole, la
ricostruzione potrà avvenire solo in caso di un colpo di stato,
ovvero su precise indicazioni degli aggressori. Ancor più
chiaramente: non è prevista la possibilità che un voto democratico
possa far risultare ancora Assad come la scelta preferita dei
siriani.
La
notizia dell’esistenza di questo ‘memorandum’ è stata
resa nota dal ministro degli Esteri russo Sergei
Lavrov.
Il responsabile del dicastero degli esteri di Mosca ha definito
questo documento un esempio di come i paesi occidentali
manipolano le organizzazioni internazionali. Il testo del documento è
stato pubblicato sulla rivista russa Kommersant.
Un
passaggio della direttiva dice chiaramente che “Le Nazioni Unite,
con l’attiva partecipazione del Segretario Generale, cercheranno di
garantire il maggior flusso possibile di aiuti umanitari in Siria,
anche direttamente, per garantire la non interferenza nelle sue
operazioni, secondo le operazioni di supporto previste nel Piano
della risposta umanitaria (UNCHR)” ma gli aiuti saranno limitati
agli aiuti umanitari, “solo dopo l’effettiva e completa
transizione politica del potere, le Nazioni Unite saranno pronte a
promuovere la ricostruzione”.
Secondo
il quotidiano “Kommersant”, l’autore della direttiva – è
l’ex sottosegretario permanente delle Nazioni Unite per gli affari
politici Jeffrey Feltman , che ha cessato di ricoprire il suo
incarico la scorsa primavera. Gli Stati Uniti hanno ripetutamente
sottolineato che la ricostruzione della Siria sarà impossibile senza
una soluzione politica gradita all’occidente.
Ciò
vuol dire che è irrilevante che si addivenga semplicemente ad
una soluzione democratica , condivisa e gradita al popolo siriano ma
che tale scelta dovrà essere conforme agli interessi degli USA e a
quelli dei principali alleati.
Se da un
lato queste evidenze rivelano l’estrema dipendenza dell’Onu
dall’occidente, certe dinamiche – secondo un punto di vista
estremamente disincantato – non sorprendono: sono i paesi
occidentali che pagano l’Onu per la maggior parte del bilancio e
tra una soluzione legittima e l’aiuto alla Siria amica della Russia
e dell’Iran, preferiscono una soluzione illegittima, laddove il
prolungare la sofferenza del popolo siriano è solo un tragico
effetto collaterale , addirittura auspicabile se serve ad accelerare
il raggiungimento degli obiettivi prefissati (leggesi ‘sanzioni’
e ‘terrorismo’).
Mi
capita sempre più spesso di leggere nei social commenti spicci o
anche considerazioni che si pretendono ‘’ponderate’’ sul
riconsiderare se sia giusto che tutti continuino a godere della
libertà di voto o di espressione. C’è chi ritiene che soltanto le
persone educate e istruite abbiano il diritto di esprimersi
pubblicamente nelle piazze virtuali e chi arriva a sostenere che il
Suffragio universale sia da abolire. Certo, nella maggior parte dei
casi si tratta di chiacchiere e basta, magari condite con un po’ di
snobismo provinciale, ma anche di insofferenza e timore in questa
Italia disorientata, però a me sembrano disquisizioni sconsiderate e
pericolose. Su certe cose dovremmo impedirci di essere superficiali.
Non bisogna mai dimenticare o scherzare sul senso profondo di
‘’libertà di espressione’’, di quanto sia preziosa e
irrinunciabile questa conquista e su quanto sarebbe tremendo
perderla.
Non
avere libertà di parola significa costante controllo del pensiero,
delle opinioni, delle emozioni e delle azioni nella vita quotidiana.
Significa timore della delazione che genera diffidenza e solitudine,
e la conseguente perdita di altri diritti fondamentali. Perciò,
trovo sbagliato e azzardato questo genere di chiacchiere o pseudo
riflessioni sulla libertà di parola o anche, che ci piaccia o no, di
vaniloqui o sproloqui.
Tutto
ciò mi è tornato in mente leggendo i ‘’pensieri sparsi’’ di
Janice Kortkamp. Troppo poco infatti si parla e si riflette sulla
deriva di una censura esercitata in maniera sempre più decisa e
opprimente nei confronti dei media alternativi e di tutti coloro che
informano o dibattono sulle storture dei nostri sistemi politici
sempre meno democratici, sulla dittatura di fatto dei poteri
finanziari, sulle guerre imperialiste che stanno devastando un numero
sempre crescente di Paesi e martoriando i popoli. Quelli di Janice
non sono soltanto pensieri sulla censura, ma monito sull’urgenza di
un impegno fattivo per la salvaguardia del nostro diritto a una
informazione indipendente da poteri politici e finanziari, alla
libertà, appunto, di parlare, raccontare, esprimerci e riflettere ad
alta voce. Sono un grido di ambascia, che sento mio, per quel che si
sta tramando contro la democrazia e la verità, nell’indifferenza e
oscurità di mente quasi generali, in un mondo dove la finzione, cioè
la propaganda del potere trasmessa dai media ad esso asserviti
suscita più emozioni e consenso della realtà. Maria
Antonietta Carta
"Non
abbiamo ancora visto nulla." Pensieri sparsi sulla censura.
di
Janice Kortkamp
Qualche
mese fa, ho subito un colpo duro per essere stata bloccata
definitivamente da Twitter, e uno shock e stato per me anche
assistere alla palese censura contro Alex Jones - no, non sono una
sua estimatrice, ma era una voce indipendente contro lo ‘’Stato
profondo’’ dei centri di potere – e uno shock vedere "l'ombra
che vieta" agire contro molti buoni siti e ottime persone, uno
shock sentire che Twitter ha appena sospeso Caitlin Johnston (ed altri)... Peggio
di tutto però è per me assistere alla morte lenta di Julian Assange
- la sua salute non è buona –isolato dal mondo per aver osato
rivelare "segreti" sulla corruzione e i crimini del governo
degli Stati Uniti. Molti, per avere denunciato gli abusi del potere,
sono stati imprigionati, hanno perso carriera e reputazione e spesso
anche la famiglia, quando essa non è riuscita a sopportare la
pressione.
Tanti
militanti che denunciano le storture , tanti narratori della realtà,
davanti alla crescente censura dei media main stream e di Internet
contro le voci libere, si sono spostati su piattaforme alternative.
Gli auguro il meglio, ma le ho visitate e ho constatato che si tratta
di uno scambio tra persone già informate. Scoraggiante. Il mio
obiettivo principale è cercare di raggiungere nuovi segmenti di
pubblico tra la grande maggioranza che percepisce il marcio ma non ha
tempo per indagare e documentarsi. Non
intendo asserire che noi siamo perfetti. Si tratta di questioni molto
complesse e le nostre maniere non sono sempre impeccabili come chi
sorseggia elegantemente un tè, quando proviamo, ad esempio, a
denunciare i crimini e le bugie di coloro che hanno letteralmente
ucciso milioni di persone in guerre giustificate con menzogne.
Talvolta, siamo molto duri e usiamo un linguaggio ordinario, diretto,
con l’intento di scuotere le coscienze in coma o, semplicemente, a
causa della frustrazione che proviamo per le ingiustizie che si
perpetrano.
So
di amici che temono di condividere i miei post o anche di manifestare
la loro approvazione con un "mi piace", pensando che i loro
impieghi governativi o le loro carriere potrebbero essere a rischio
se lo facessero. Non li biasimo troppo - hanno ragione su questo - ma
è ironico no? Si presume che l'esercito del nostro governo (ci è
stato ripetuto ancora e ancora e ancora) stia combattendo per
"proteggere le nostre libertà", mentre le persone che
lavorano per questo governo non hanno diritto alla libertà di
parola: la più grande libertà secondo la nostra Carta dei
Diritti.
Non
si tratta di libertà aziendali, infatti. Di fare ciò che desiderano
sui loro siti e piattaforme, perché molte società hanno ora il
potere, l'influenza e la ricchezza di piccole nazioni. Non sto
esagerando. La corporatocrazia, che controlla gran parte della nostra
vita quotidiana , ha costruito sistemi che, ci dicevano, sarebbero
state piattaforme libere e aperte. Ma queste corporazioni esercitano
sempre più una censura che deve salvaguardare una certa narrazione
governativa, e il connubio endogamico tra governo, multinazionali e
mass media è davvero allarmante.
Ma
"non abbiamo ancora visto nulla" come si suole dire. Tutto
ciò è niente in confronto a quello che potrebbe accadere. Per anni
, ho avuto la sensazione sgradevole che in questo momento storico "
si debba parlare subito per non perdere definitivamente la pace".
Il mondo si è trovato già molte volte a questo bivio. Quelli di noi
che sono almeno un poco consapevoli di cosa sta succedendo e di
quanto possa finire male hanno capito che i governanti degli Stati
Uniti e di altri Paesi sono capaci di tutto, persino di armare ISIS e
al Qaeda, come abbiamo visto in Siria. Ed è solo un esempio. Tutto
quello che so è che dobbiamo continuare incessantemente a usare le
libertà che abbiamo nel modo più efficace possibile e il più a
lungo possibile. Ognuno secondo le proprie forze e la capacità di
sopportare la pressione e le conseguenze. O secondo gli obblighi e
responsabilità familiari. In ogni caso, sento che le vere battaglie
qui stanno appena cominciando. Noi, che abbiamo seguito la vicenda
siriana, abbiamo un vantaggio. Non vogliamo mollare. E non
dimentichiamolo: abbiamo più potere di quanto immaginiamo. BTW
- Se mi hai letto in Facebook, vai al mio sito web per favore.
https://www.syriaresources.com/
Janice Kortkamp (traduzione di Maria Antonietta Carta)
Il parlamentare siriano Fares Shehabi ha twittato le fotografie di quattro bambini rapiti dai terroristi Idlib dal quartiere di Zirbeh; rapimenti di giovani da parte dei jihadisti di Idlib erano iniziati alcune settimane fa, erano giovani accusati di voler aderire al processo di riconciliazione. I rapimenti sono aumentati negli ultimi 10 giorni e si sono espansi in villaggi della provincia di Aleppo, e in campi di sfollati vicino al confine con la Turchia. I bambini vengono rapiti da questi campi: da una stessa famiglia, sono stati prelevati 3 bambini. Il timore è che i bimbi verranno utilizzati per inscenare il prossimo false flag con immagini di bambini 'gasati dalle armi chimiche di Assad'...
Piccole Note, 28 agosto 2018
John Bolton quattro giorni fa ammoniva il suo omologo russo: se Assad userà armi chimiche, gli Stati Uniti risponderanno attaccando la Siria.
Ancora le armi chimiche…
Un monito che arrivava alla vigilia della battaglia di Idlib, ultima area della Siria (insieme al cantone curdo di Afrin) in mano alle forze anti-Assad, che Damasco vuol riportare sotto il suo controllo. Monito strano, ché non c’è alcuna ragione per cui Assad debba usare armi chimiche, stante che è l’unico modo per attirarsi contro le bombe degli Stati Uniti. Peraltro proprio ora che ha tutta la forza per portare a compimento quanto si propone, dato che può scagliare contro Idlib tutto il potenziale militare, ormai libero da altre incombenze,
Il 25 agosto i russi hanno risposto allarmati al Consigliere per la sicurezza Usa. Il portavoce del ministero della Difesa russo, Igor Konashenkov, ha dichiarato che il gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham (al Qaeda) sta “preparando un’altra provocazione attraverso l’uso di armi chimiche contro la popolazione civile della provincia di Idlib da attribuirsi alle forze governative siriane”. E ha specificato che sono stati portati “otto barili di cloro” nel villaggio di Jisr al-Shughur per “mettere in scena” l’attacco. Inoltre ha specificato che ad aiutare i miliziani jihadisti sarebbe “la compagnia militare britannica Oliva”, che avrebbe inviato in loco personale addestrato allo scopo.
Di navi da guerra e allarmi
A seguito delle accuse incrociate per la Siria, e per il mondo, è scattato l’allarme rosso. Un incrociatore Usa armato di missili tomahawk si sta dirigendo verso la Siria. Mossa alla quale i russi hanno risposto inviando precipitosamente al largo delle coste siriane una vera e propriaflotta, mentre Damasco ha diramato l’allerta generale. Ciò avviene mentre Teheran e Damasco siglano un accordo di cooperazione militare, che ha come conseguenza diretta che le milizie iraniane dislocate in Siria vi resteranno. Uno sviluppo del tutto indigesto a Tel Aviv, stante che da tempo Israele chiede il ritiro di tali milizie dal Paese confinante.
Insomma, improvvisamente la Siria è tornata nel mirino dell’Occidente. Cosa inattesa anche perché a metà agosto Trump aveva tagliato i fondi ai ribelli siriani, cosa che sembrava confermare le sue dichiarazioni sul disimpegno Usa dalla regione. Tutto ribaltato? Vedremo se l’allarme, che è reale, resterà tale o è preludio a una tempesta settembrina. Da notare che Idlib è controllata damilizie legate ad al Qaeda, alle quali si sono sottomesse le bande minori presenti nell’area.
Sono quelli delle Torri gemelle e di altre stragi consumate in terre d’Occidente. E l’Occidente si appresta a difenderli “dall’aggressore siriano”.
Siria: piano B
Se qualcosa non vi quadra potete stare tranquilli: non è uno scherzo di cattivo gusto. È la follia neocon, che fa il paio con quella dei sanguinari terroristi che controllano Idlib.
Ciò avviene mentre si appresta, come scritto, la battaglia finale per Idlib, inevitabile dal momento che ad oggi la Turchia ha respinto ogni tentativo di risoluzione diplomatica della crisi. A quanto pare quanti hanno elaborato il regime-change siriano non si rassegnano.
Fallito il piano A resta il piano B: fare della Siria una nazione preda di una destabilizzazione permanente, ché tale sarebbe il destino del Paese se una regione restasse sotto il controllo del Terrore. E pur di non far evaporare anche questa seconda opzione sono pronti a rischiare una possibile escalation Usa-Russia, perché tale è la sfida lanciata da Bolton, che piuttosto che a Damasco, come avrebbe dovuto, si è rivolto al suo omologo moscovita.
Vedremo gli sviluppi. Oggi registriamo che l’Agenzia stampa ufficiale turca, Anadolu, non cita minimamente la criticità che pure interessa non poco Ankara. Segno che, nel segreto, fervono trattative. Speriamo.
Dalle
torce nelle mani dei bambini sfollati a Jibreen ai semafori nelle
strade di Aleppo; dalle luci installate nel giardino del museo
archeologico di Damasco ai pannelli spuntati sui tetti dei palazzi
rimasti in piedi a Kafarbatna nella Ghouta orientale: il futuro della
Siria si presenta solare. Almeno nel senso dell'energia fotovoltaica
e termica.
E
le monache trappiste di Azeir, un villaggio a metà strada fra Homs e
Tartous, hanno avviato un progetto pilota di notevoli dimensioni
(1700pannelli,
pari
a 40 kw per il pozzo e 40 Kw per lavoro e vita quotidiana di potenza
installata),
all'insegna, come vedremo, dell'autonomia energetica solidale. Ecco
in questo video
su un pianoro in collina, file e file di pannelli solari recentemente
installati nei pressi del monastero da tecnici siriani.
La
superiora, suor Marta, racconta dal monastero siriano questa storia che
incrocia tecnologia e volontà, doni di materiali dall'estero e
lavoro di tecnici e operai siriani. Ma prima, una premessa di
contesto.
Le
verità di parte, la volontà di vita, la ricostruzione dell'umano
«Di
questa guerra in Siria si sono fatte conoscere approfonditamente
tutte le atrocità, le violenze, le distruzioni, come è giusto che
sia. Anche se purtroppo, come abbiamo detto in altre occasioni, la
“verità” viene presentata sempre con una faccia sola- cosa che
non è MAI vera- e guarda caso la faccia presentata è quella che più
conviene agli interessi esterni al paese, interessi che muovono ogni
pedina, come su una tragica scacchiera…. Ciò di cui invece si
parla pochissimo è tutta la forza di resistenza, la volontà di vita
dei siriani, il quotidiano che faticosamente continua, e non solo per
fatalismo…E tutto il lavoro di ricostruzione, nel campo materiale
ma anche ricostruzione “dell’umano”.
Il
nostro progetto sull’energia rinnovabile - suggerito, per essere
onesti, dalla disponibilità di questo grosso dono- viene soprattutto
dal desiderio di costruire per il futuro, più ancora che dalla
necessità di far fronte alle difficoltà dell’immediato.
Prima
di tutto, da ormai tre anni a questa parte, cioè da quando il
conflitto ha cominciato poco a poco a prendere una svolta più decisa
verso la messa in sicurezza di ampi territori, il numero degli ospiti
che accogliamo al monastero, pur con le nostra strutture limitate,
aumenta ogni mese.Persone
che vengono da città e villaggi più vicini, come Homs e Tartous, ma
anche da Damasco, da Aleppo…Ospiti del monastero che cercano un
luogo di silenzio, di preghiera, di pace, per ritrovare se stessi
davanti a Dio.Quindi
abbiamo bisogno di luce, acqua, di poter coltivare la terra…sempre
più. E poi ci sembra importante fare progetti per il futuro: tutti
hanno bisogno di lavoro, gli uomini, i giovani, ma anche tante donne
rimaste sole a portare il peso dei figli e sovente anche dei
familiari più anziani. Ma come creare un lavoro che abbia un
rendimento, se il costo dell’elettricità azzera ogni guadagno?
Forse le imprese più grandi riescono ad essere competitive, anche
con la guerra, ma per le piccole imprese è molto difficile. Noi
abbiamo bisogno come monastero di crearci un lavoro per vivere, e
così tante donne dei nostri villaggi. Non potremo fare moltissimo,
ma almeno dare lavoro a qualche famiglia sì…e se si incomincia,
altri saranno incoraggiati a fare lo stesso, a cercare soluzioni
possibili e creative…Questa è stata l’idea che ci ha mosso.»
Un
progetto pilota di fronte alla penuria di guerra
Continua
la superiora: «Un'azienda
internazionale offriva gratuitamente pannelli nuovi in grande
quantità, di ottima qualità ma non di nuova generazione. Era stato
indetto una specie di “bando di concorso”. Un nostro amico in
Italia presentò un progetto per l'autosufficienza del monastero e
per l’aiuto a qualche realtà locale. All'epoca la
nostra zona era già stata messa in sicurezza, ma ciò non significa
che non si soffrissero le condizioni della guerra: in particolare
l’elettricità, se eravamo fortunate, veniva per una/due ore al
giorno…a volte meno…Quindi i disagi erano tanti,
e oltretutto il costo elevato dell'elettricità ci impediva di
avviare in modo deciso le nostre attività (ad esempio con le candele
e i biscotti) e ancor più di coinvolgere la gente del villaggio,
soprattutto le donne del villaggio che chiedono lavoro. L'elettricità
dal sole ci avrebbe permesso anche di pagare meno i costi per
l'irrigazione - relativi alla pompa del pozzo -, e di pensare
all'avvenire in generale».
Il
progetto viene accettato. Inizia l'impegno per risolvere i problemi
burocratici relativi all'importazione, soprattutto a causa delle
sanzioni occidentali alla Siria. Alla fine, con l’aiuto delle
autorità civili e portuali, arrivano tre container di pannelli.
Alcuni benefattori dall’Italia aiutano il monastero per le spese di
trasporto.
Giovani
ingegneri siriani molto preparati
A
quel punto, prosegue suor Marta, «ci
siamo rivolte per l'installazione a diversi professionisti,
scegliendo alla fine una ditta di Damasco. Va detto che il settore
delle rinnovabili prende sempre più piede qui in Siria».
Il lavoro ha visto la preparazione del terreno da parte di operai
locali e il controllo e la direzione degli ingegneri di Damasco: «Ci
siamo trovate benissimo, hanno lavorato in modo eccellente, con
attenzione e precisione. Sono tutti giovani ingegneri molto
preparati, e questo per loro è diventato un po' un progetto
esemplare, una pubblicità per un settore che si sta sviluppando. E'
difficile che qualcuno abbia la possibilità di investire in
un'attività di queste dimensioni».
Appunto.
La decisione di accettare il dono dei pannelli non è stata presa con
disinvoltura: «I
pannelli di ultima generazione producono tre volte più energia, a
parità di superficie, rispetto a quelli che ci venivano offerti.
Quindi il costo dell'installazione poteva essere un deterrente. Ma al
tempo stesso, gli ingegneri che abbiamo consultato, in Italia e qui -
e soprattutto quelli di qui, che conoscono la situazione-, ci hanno
spiegato che si trattava di un'occasione unica, poiché, a causa
delle sanzioni , in Siria si possono trovare solo pannelli in
silicone, o comunque di bassa qualità- che dopo poco tempo si
opacizzano e perdono in efficienza. Quelli che ci hanno offerto sono
invece in vetro, di ottima qualità, di lunga durata e di resa
perfetta: per studiare il progetto, gli ingegneri hanno realizzato
un'installazione di prova, con otto pannelli, misurandone la
produzione di energia nelle varie situazioni. Hanno potuto così
constatare che la resa dichiarata corrisponde perfettamente a quella
effettiva. Questo ha permesso uno studio davvero attento di consumi e
alternanze fra parti dell’impianto supportate da batterie e parti a
sola energia diurna. Dunque, il progetto era reso vantaggioso
dall'efficienza e dalla durata prevista dei pannelli, oltre
naturalmente alla loro gratuità».
Fiat
lux! per il monastero....
Gli
effetti sono chiari come il sole: «Da
un mesetto abbiamo elettricità continua, il pozzo (che
rappresentava uno dei consumi più alti in termini di energia)
si
è reso indipendente già
da prima. In
casa abbiamo energia sufficiente giorno e notte grazie alle batterie.
Questa situazione ci permette finalmente di pensare anche ad attività
lavorative per noi e il villaggio».
...e
presto per il pozzo del villaggio e per l'ospedale diTalkalakh
Lo
stock di pannelli solari era decisamente superiore alle necessità
del monastero: «Così
abbiamo intenzione di fornire elettricità al pozzo del villaggio
cristiano, il nostro villaggio; e di donare una parte significatica
di pannelli all'ospedale di Talkalakh,
il capoluogo della nostra regione nella provincia di Homs. E' una
zona mista, con sunniti, alauiti e cristiani, e l'ospedale è quello
dei poveri, serve proprio tutti (anche noi) in modo gratuito. Ma ha
risentito delle restrizioni della guerra. Il fotovoltaico darebbe
energia a una sala operatoria, al pronto soccorso e alle incubatrici,
insomma una certa autonomia».
Chi
è rimasto lavora per il futuro...sanzioni permettendo
Le
trappiste sottolineano la bravura, il coraggio, la volontà di chi è
rimasto in Siria e magari si è laureato durante gli orribili anni di
guerra: «La
nuova generazione di ingegneri rivela una grande precisione nel
lavoro. Chi è rimasto ha professionalità e voglia di fare, con
materiali nuovi e tecniche nuove. Naturalmente fra i problemi ci sono
le sanzioni. Ad esempio i nostri ingegneri che hanno contatti con
l'Italia, per aggiornarsi, hanno avuto problemi di visto; ed è
complicato portare il materiale. Comunque il settore è in piena
espansione. A Damasco si susseguono le fiere di settore, dove si
presentano i materiali e progetti più innovativi.»
Decisamente
la ripresa va avanti.
Che
cosa possiamo fare noi
D'accordo,
pannelli e batterie sono stati regalati. Ma il monastero delle
trappiste ha affrontato spese ingenti per il trasporto e
l'installazione, da parte di tecnici e maestranze interamente
siriani.
Per
rifornire il pozzo del villaggio, il progetto è pronto e «con
l'aiuto del vescovo latino padreGeorge
Abou Khazen
e di alcune organizzazioni abbiamo trovato quasi metà della cifra
necessaria».
Metà…
Anche
per l'ospedale, dice Marta, «il
progetto è pronto e stiamo prendendo contatti: regaliamo tutta
l'attrezzatura ma non possiamo coprire le spese di installazione.
Pensiamo di coinvolgere il Ministero Siriano della Salute, proponendo
la nostra offerta di pannelli, ma se ci arrivassero fondi...»
...sarebbero
di grande aiuto. Al monastero, al villaggio. Alla Siria.
Samarcanda,
la canzone di Roberto Vecchioni, sembra ispirata dalla storia che Om
Ahmad sta
raccontando. Robusta, foulard a fiori in testa e abito nero, seduta
sui cuscini che fungono da divano nello spoglio appartamento
affittato nel quartiere Masaken Barzeh, spiega che lei, il marito
meccanico e i loro tre figli maschi vivevano a Douma, l’area più
tradizionalista della regione Ghouta orientale. «Oltre
cinque anni fa, mentre diverse formazioni di musallahin
-
gruppi
armati islamisti, ndr –
stavano arrivando a controllare l’area, chiudemmo casa e arrivammo
qui a Damasco, dove avevamo conoscenze».
Guarda
il suo secondogenito Rabee, sedici anni, in carrozzella.«Un
giorno di tre anni fa, lui e mio marito erano nel garage…. che fu
centrato da uno dei missili che colpivano Damasco partendo proprio
dall’area che ci eravamo lasciati alle spalle».
Letale: il padre di Rabee morì nell’esplosione, e al ragazzo
dovettero amputare le gambe maciullate. Tirano avanti con aiuti
pubblici e privati. Rabee va a infilarsi le gambe. Con le protesi
cammina, ma solo aiutato dal girello: l’amputazione è avvenuta al
di sopra delle articolazioni. Ahmed mostra sul cellulare la loro casa
a Douma («ci
hanno detto che adesso è distrutta»),
mentre sua madre dice: «Ho
un unico desiderio ormai: che mio figlio possa avere le protesi
migliori».
E’ probabilmente il sogno di 30.000 amputati di guerra, in Siria.
Ma
le donne rimaste a Douma
come hanno vissuto gli ultimi mesi di scontri acerrimi fra esercito
siriano da una parte e la galassia islamista dall’altra? Dove
vivono adesso, visto che così tanti palazzi bombardati sono
inabitabili? La nostra visita insieme a SulafMaki,
giovane siro-sudanese studentessa di cinema impegnata in interviste
tutte al femminile in giro per il paese, è stata troppo breve per
convincere a parlare almeno una di quelle figure oscure incrociate
per strada sotto un sole cocente davvero inadatto alla loro mise:
cappotti neri e volto, testa, collo, spalle, talvolta anche gli occhi
coperti da stoffe ugualmente nere. Nemmeno le poche infermiere di un
ospedale hanno voluto parlare, forse intimorite dalla macchina da
presa. Forse molti mariti e figli di queste figure mute combattevano
insieme agli islamisti. Ma adesso il governo ricontrolla l’area e
nessuno lo ammetterebbe. Chi è rimasto ha accettato di deporre le
armi nella cosiddetta riconciliazione. Nondimeno, differenze e
diffidenze rimarranno a lungo.
Samar
è fra quei 150.000-200.000 abitanti (sul milione e mezzo
dell’anteguerra) a non essersi mai mossi dalla Ghouta orientale,
ampia area agricola. Vive nella cittadina di Kafarbatna ed è moglie
di un agricoltore i cui terreni hanno continuato a produrre
ortofrutta e legumi durante la guerra, pur pagando pesanti tangenti
in natura ai gruppi armati. Samar ricorda i rischi degli ultimi mesi
di guerra: «Ecco,
lì, quell’edificio distrutto proprio dall’altra parte della
strada, era occupato dai
musallahin,
l’aviazione lo ha bombardato. Quel giorno ci siamo rifugiati in
cantina, ma non abbiamo voluto andare via».
I gruppi islamisti che lei chiama «terroristi
occupanti»
lasciavano a stecchetto la popolazione: «Una
volta che sono andati via, si è scoperto che avevano i magazzini
pieni degli aiuti alimentari e medici arrivati da fuori Ghouta».
Ora nell’area e nei campi degli sfollati si susseguono racconti
così, opposti a quelli di chi denunciava un assedio affamante e
bombardamenti indiscriminati da parte del governo siriano. Ma in
guerra la narrazione è polarizzata.
Per
la video intervista, Samar ha indossato il niqab,
che lascia vedere solo gli occhi. Impossibile non confrontarla con la
donna dietro la telecamera: Sulaf, che sopra i pantaloni e la casacca
di maglina lunga porta il velo hijab
a coprire testa e collo, «ma
sono del tutto laica, lo faccio solo perché mia madre mi ci obbliga,
finché non sarò economicamente indipendente, poi basta…». Disapprova sia le donne murate di Ghouta sia quelle ragazze che a
Damasco mettono il velo su magliette iper-aderenti con biancheria
imbottita e fuseaux. E sgrana gli occhi a una scena che dal bus
intravvede su un marciapiede della capitale: un’ombra alta e
imponete in nero totale, con guanti pure neri e due strette feritoie
nel niqab.
Cosa avrà mai risposto all’uomo male in arnese che le chiedeva non
si sa che?
Portano
l’hijab
e lunghi soprabiti neri anche donne che nemmeno fanno il ramadan
(il
digiuno religioso dall’alba al tramonto, un mese all’anno). Come
Sarah
el Hawi, panettiera
nel quartiere damasceno di Jaramana; con lafamiglia
ha lasciato anni fa l’area di Deir Ezzor per sfuggire all’arrivo
di gruppi islamisti. O come donne appartenenti a gruppi politici
progressisti: Rabab
Sweid
del Fronte popolare per la liberazione della Palestinavive e milita
nel quartiere Rock Eddin sulle alture intorno a Damasco, insieme a
cinquemila palestinesi fuggiti negli anni dal campo di Yarmouk, a
lungo controllato prima da islamisti e poi da cellule dello Stato
islamico. Ma «mi
pare indiscreto parlarle dei suoi abiti; forse le servono a essere
accettata, in una comunità tradizionale»
fa notare la giovane economista agraria Dima
Hasan
che nel tempo libero fa volontariato presso gli sfollati.
Ventinovenne, capelli corvini e abbigliamento tranquillo privo di
eccessi, Dima abita
da sola a Damasco, in un seminterrato nel quartiere Bab Tuma,
popolato da molti cristiani: «Sono
nata e cresciuta nella regione di Tartous, in un villaggio sul mare;
i miei primi e in fondo unici contatti con gli islamisti sono stati i
missili lanciati da Ghouta e Jobar, la capitale ne è stata
bersagliata dal 2012 a pochi mesi fa.»
La
guerra ha coinvolto in modo ben più pesante Hayat
Awad,
madre di un soldato di leva ucciso anni fa a Deraa. A Homs dove vive,
percorre il quartiere Khalidia distrutto dagli scontri,
impolverandosi la camicia e i pantaloni neri del suo lutto
prolungato, e arriva nella via Share el Zon, dove la famiglia
Jabour è
tornata a casa. Erano partiti nel febbraio 2012 «perché
questo palazzo è proprio all’angolo con la cosiddetta via della
morte, una specie di linea di confine. Ecco là la carcassa di un
carro armato fatto esplodere due giorni dopo la nostra fuga, siamo
miracolati»
spiegano Norma
e
sua figlia Victoria.
I Jabour, per anni sfollati dai nonni in campagna, dal 2016 stanno
ricostruendo la parte superiore della casa, accampati intanto a
pianterreno. Il tetto per fortuna è a posto. Ricordano come
all’improvviso si ruppe la convivenza fra loro, cristiani, e i
vicini musulmani. «La
nostra casa fu poi occupata dai musallahin,
da qui sparavano contro l’esercito».
Ma adesso sono ottimisti. Victoria studia farmacia, «la
Siria era e tornerà a essere una grande produttrice di medicinali
con un buon servizio sanitario».
La
forza delle donne rimaste tenacemente in Siria è anche quella di
Naham,
studentessa ora reclutata in un ospedale pediatrico perché «almeno
il 30% dei medici del paese è andato all’estero e chi è rimasto
deve fare per tutti».
O di Bushra
Jawed,irachena
di Nassirya. Da sola, nel 2007, lasciò l’Iraq preso fra l’incudine
dell’occupazione statunitense e il martello del crescente
terrorismo al qaedista. Come altre centinaia di migliaia di iracheni
trovò asilo nell’allora tranquilla Damasco, nel quartiere Jaramana
dove aprì un ristorantino. Dopo il 2011, «questo
quartiere è stato bersagliato dai missili dei terroristi, ne ho
vista morire di gente»,
dice senza scomporsi mentre nella via stretta un’autobotte
rifornisce d’acqua il serbatoio del palazzo. Il cammino verso la
normalità è ancora lungo.