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giovedì 11 dicembre 2025

La Siria un anno dopo Assad: il Terroristan della CIA

 di Davide Malacaria

Un anno fa la caduta di Assad e l’ascesa al potere di al-Jolani, attuale presidente della Siria. Così Kevork Almassian sul Ron Paul Institute ricorda quel regime-change iniziato nel 2011. Una nota che spiega perché l’ex terrorista sia stato accolto a braccia aperte da Washington e dall’Occidente. “Cominciamo con la cronologia”, scrive, “perché già solo questa fa pensare che fin dall’inizio si è trattato di un’operazione di intelligence”.

“Abu Mohammed al-Jolani era in una prigione gestita dalla CIA in Iraq – Camp Bucca – insieme a un altro nome familiare: Abu Bakr al-Baghdadi. Entrambi furono rilasciati all’inizio del 2011. ‘Per una singolare coincidenza’ è proprio allora che inizia la guerra per il regime-change in Siria. Nel giro di poche settimane al-Baghdadi diventa il capo di quello che diventerà l’ISIS e al-Jolani attraversa il confine con la Siria per fondare Jabhat al-Nusra – ufficialmente la filiale di al-Qaeda nel mio Paese”.

Al-Jolani e la sua rete sono identificati come terroristi, c’è anche una taglia che pende sulla sua testa, ma “per oltre un decennio, mentre gli Stati Uniti radevano al suolo intere città in Iraq e Siria per combattere il ‘terrorismo’, per qualche oscuro motivo non hanno mai trovato il tempo o le coordinate per colpire seriamente al-Jolani o la sua struttura di comando”. Ciò perché al-Jolani combatteva “contro un governo che Washington aveva deciso che doveva scomparire: lo Stato siriano di Bashar al-Assad”.

Così, mentre al-Jolani e la sua rete iniziano a imperversare in Siria, ha inizio anche “l’Operazione Timber Sycamore: un programma segreto multimiliardario della CIA che ha fornito armi, denaro e addestramento ai cosiddetti ‘ribelli’ siriani. Questi sono stati spacciati all’opinione pubblica occidentale come ‘opposizione moderata’. Sul campo, quei moderati erano una specie in via di estinzione. Ciò che esisteva in realtà erano fazioni salafite-jihadiste fondamentaliste, con al Nusra al vertice della catena”.

“L’Esercito Siriano Libero (ESL) era la maschera, il logo sui documenti, il marchio che si poteva vendere al Congresso e alla CNN. La vera forza sul campo erano gli uomini di al-Jolani e gli altri gruppi takfiri, che combattevano sul serio, conquistavano territorio e imponevano il loro potere. Le armi andavano ‘ai moderati’ e i moderati le consegnavano magicamente ad al-Qaeda. Tutti a Washington fingevano sorpresa, ma nessuno fermò il flusso”.  “Nel corso degli anni, la maschera è caduta. I funzionari statunitensi hanno iniziato a parlare di al-Jolani come di qualcosa di più di un semplice ex nemico. James Jeffrey, ex inviato di Washington in Siria, ha apertamente definito al-Jolani ‘una risorsa’ per la strategia statunitense […]. Robert Ford, ex ambasciatore statunitense in Siria, ha ammesso pubblicamente di aver collaborato personalmente con al-Jolani per ‘toglierlo dal mondo del terrorismo’ e trasformarlo in un politico”.

“Di recente, l’ex direttore della CIA David Petraeus si è persino seduto vicino ad al-Jolani e gli ha detto: ‘Il tuo successo è il nostro successo’. Cosa ha bisogno di vedere la gente? La firma su un contratto di lavoro? Ma supponiamo, per un momento, che pensiate ancora che sia una forzatura. E qui entra in scena John Kiriakou […] un ex agente della CIA finito in prigione per aver denunciato un programma di tortura [della CIA] e aver fatto i nomi dei torturatori. La sua lealtà non è chiaramente rivolta al dipartimento PR dell’Agenzia”.

Di recente, in un programma Tv Kiriakou ha descritto la situazione di al-Jolani senza mezzi termini: “Il ‘nuovo presidente’ della Siria è un ex membro di al-Qaeda e co-fondatore dell’ISIS; lo stesso uomo è accolto alla Casa Bianca; alti funzionari statunitensi lo incontrano […]; il presidente Trump revoca improvvisamente le sanzioni alla Siria mentre al-Jolani consolida il suo potere, spingendo i siriani, disperati ed esausti, a ballare per le strade. L’unica cosa sensata è che al-Jolani sia una risorsa della CIA, conclude Kiriakou”.

“Quando un ex agente della CIA che ha sacrificato la sua carriera e la sua libertà per dire la verità osserva lo schema e dice: ‘Questo è un nostro uomo’, non si tratta più di una teoria del complotto”.   “[…] Credo che al-Jolani sia stato reclutato a Camp Bucca. La cronologia altrimenti non avrebbe senso. Non si esce da una prigione gestita dagli americani e, dopo poche settimane, si hanno magicamente le reti, i soldi, le armi e la capacità logistica per fondare al-Qaeda in Siria, proprio nel momento in cui Washington e i suoi alleati hanno bisogno di un ariete contro Damasco”.

Ma perché gli Stati Uniti e i loro alleati hanno sostenuto “un uomo simile? La risposta sta in ciò che era la Siria e in ciò che è diventata. Prima di questa guerra, la Siria, nonostante tutti i suoi limiti, era uno Stato integrato. Le persone si identificavano prima come siriane e poi come armene, druse, cristiane, alawite, sunnite, sciite, curde e così via. La sua politica estera era allineata con l’Iran ed Hezbollah, sosteneva i palestinesi e manteneva un atteggiamento di deterrenza nei confronti di Israele. Per Washington e Tel Aviv tutto questo era inaccettabile”.

Da qui il regime-change: “L’obiettivo non era la ‘democrazia’; questa parola era solo la carta del pacco regalo. Il vero obiettivo era rimuovere un governo alleato con l’Iran e sostituirlo con un caos frammentato: un’autorità centrale debole a Damasco, circondata da cantoni settari ed enclavi dominate da signori della guerra, tutti dipendenti da protettori stranieri. Al-Jolani è perfetto per questo ruolo”.   E adesso “un uomo con un lungo passato in al-Qaeda governa la Siria, un incubo per le minoranze: cristiani, drusi, alawiti, sciiti, molti curdi e altre comunità più piccole non accettano il dominio di al-Qaeda. Quindi si ritirano, con le proprie milizie, nei propri cantoni, nei loro mini-stati di fatto, esattamente in linea con le vecchie dottrine strategiche israeliane come il Piano Yinon, che sosteneva apertamente la frammentazione degli stati confinanti a Israele lungo linee settarie”.

Washington ci guadagna il petrolio siriano e il gas dell’area del Mediterraneo adiacente, oltre alla ricostruzione: un affare da “300 miliardi di dollari”. Peraltro, attorno ad al-Jolani si muove “una costellazione di veterani dell’intelligence occidentale e di ONG impegnate nella ‘risoluzione dei conflitti’ che agiscono da intermediari. Gli ambienti dell’MI6 britannico, guidati da figure come Jonathan Powell – ex capo di gabinetto di Tony Blair – svolgono un ruolo centrale nella gestione di questo processo. Powell dirige un’organizzazione chiamata Inter Mediate, specializzata nel ‘dialogo con i gruppi armati’. Dietro il linguaggio umanitario si nasconde un’ingegnosa ingegneria politica”.

“Si dice che una delle agenti di Inter Mediate, una donna di nome Clare Haigh, abbia un ufficio all’interno del palazzo presidenziale siriano e consiglia al-Jolani su come parlare, come vestirsi, come trattare i giornalisti e a presentarsi come un jihadista pentito diventato statista. E poi c’è il Qatar. Ahmed Zaidan, un tempo il giornalista preferito di Osama bin Laden, fotografato mentre sorseggiava il tè con lui e trasmetteva i suoi filmati su Al Jazeera, è ora consigliere personale di al-Jolani”.

Tale la situazione dopo il successo del regime-change, accompagnato da una manipolazione mediatica e da una censura massiva. A subirne le conseguenze, lo stremato popolo siriano.

https://www.piccolenote.it/mondo/la-siria-un-anno-dopo-assad-il-terroristan-della-cia

mercoledì 10 dicembre 2025

A un anno dalla caduta di Assad c'è poco da festeggiare

Nonostante la nuova Siria sia un paese disastrato e con un regime violento che perseguita le minoranze, il suo leader al-Sharaa va all'Onu a prendersi gli applausi del mondo civile

di Elisa Gestri 

Jihadismo dilagante e nessuna democrazia. A un anno dalla caduta del regime di Assad, in Siria non si sta affatto meglio, soprattutto se si è membri delle minoranze religiose. E gli oppositori del nuovo regime di Al Sharaa sono braccati anche in Libano, dove le aree sunnite più estremiste sono legate al potere di Damasco. 

Domenica 8 dicembre 2024 la formazione islamista Hayat Tahrir Al Sham con a capo Abu Mohamed al Jolani entrò trionfalmente a Damasco, mentre il dittatore Bashar al Assad lasciava la Siria a bordo di un aereo diretto a Mosca.

Mentre scriviamo, sono in corso in tutta la Siria grandi celebrazioni del primo anniversario della caduta di Assad organizzate dal “nuovo governo” siriano. In realtà, leggendo il regime change attraverso la lente del rispetto dei diritti umani c'è poco da festeggiare: in quest’anno il Paese è stato teatro di migliaia di esecuzioni sommarie ai danni di supposti “membri del regime di Assad”, di ondate di omicidi, stupri, violenze, rapimenti e brutalità di ogni tipo nei confronti delle minoranze religiose (alawiti, sciiti, drusi e cristiani), è stata introdotta la shaaria nella Costituzione, allestite finte elezioni democratiche e istruiti finti processi agli autori delle atrocità di cui sopra.

I cambiamenti occorsi durante questo anno in Siria sono ormai sotto gli occhi del mondo intero, a partire dal nome del leader di HTS, tornato all’anagrafico Ahmed al Sharaa, e al suo abbigliamento, passato repentinamente dalla mimetica del miliziano al doppiopetto di Presidente autonominato della Siria. Altrettanto repentinamente i leader occidentali hanno dato fiducia al “nuovo governo” formato da uomini rimasti fedeli alle vecchie abitudini dei tempi di al Qaeda - per citare solo l’esempio più clamoroso, Donald Trump ha ricevuto a Washington l’ex ricercato dall’antiterrorismo USA al Sharaa (con taglia di 10 milioni di dollari sulla testa), a cui è stato riservato anche l’onore di parlare davanti all’Assemblea Generale dell’ONU.

Ma si sa, «gli accordi economici e militari e le partnership strategiche pesano di più dei diritti umani», come ha affermato in una recente intervista Metin Rhawi, uomo politico e attivista svedese siro-cattolico che si occupa delle minoranze religiose perseguitate in Medio Oriente. Alla domanda sul perché l’Occidente taccia davanti alle palesi violazioni dei diritti umani perpetrate in Siria e altrove dall’estremismo islamico, Rhawi ha risposto che «le potenze occidentali hanno timore di parlare apertamente di estremismo religioso; non vogliono offendere partner di cui hanno bisogno per interessi economici e geopolitici». A proposito in particolare dei cristiani, «Le comunità cristiane in Siria sono al collasso», ha dichiarato. Città come Qamishli, Hassake, Homs e Aleppo, dove i cristiani vivono da più di 2000 anni, si stanno svuotando.

Dal canto suo, la comunità alawita siriana, colpevole di annoverare tra i suoi membri la famiglia Assad, ha vissuto un anno di terribili e ingiustificate sofferenze. La guida spirituale alawita Sheikh Gazal Gazal ha invitato le comunità presenti nel Paese a uno sciopero generale di cinque giorni, dall’8 al 12 dicembre, per non essere costrette ad aderire forzatamente ai festeggiamenti preparati dal governo. «Lo scorso 8 dicembre ci aspettavamo che quel giorno sarebbe caduta la tirannia; in realtà è caduto ciò che era rimasto in piedi del nostro Paese» ha dichiarato in un video-appello. «Ora vogliono costringerci a festeggiare la sostituzione della tirannia con una tirannia più grossa. … Ci hanno arrestato, ucciso, massacrato, rapito e bruciato e ora stanno minacciando la nostra stessa sussistenza attraverso licenziamenti, trasferimenti, vessazioni e intimidazioni per privarci dei mezzi di sostentamento e costringerci a partecipare a celebrazioni realizzate sul nostro stesso sangue, sul nostro dolore e sulla nostra sofferenza, con palese disprezzo delle nostre ferite». Il mondo sappia, ha concluso Gazal, che “ogni violazione contro gli alawiti è una violazione contro tutti, e una pugnalata al cuore collettivo” della Siria.

Frattanto, non si fermano violenze e fatti di sangue: le nostre fonti ci segnalano che il 4 dicembre una mamma di tre figli è stata rapita alla stazione degli autobus di Homs, appena arrivata da Tartous; il 7 un giovane si è dato alle fiamme ad Aleppo dopo che una pattuglia delle “Forze dell’ordine” lo ha prelevato, tentando di arrestarlo.

Se quest’ultimo anno ci ha tristemente abituati a centinaia, se non a migliaia, di episodi simili in Siria, il dato preoccupante emerso in questi giorni di “celebrazioni” è l’espansione, del resto prevedibile, del fenomeno dell’estremismo islamico dal Paese a quelli circonvicini. Ci troviamo a Tripoli, capoluogo del nord del Libano, dove sono in corso massicci festeggiamenti per la “vittoria della rivoluzione siriana”. I salafiti libanesi, concentrati soprattutto nella città sunnita di Tripoli, intrattengono legami più o meno coperti con i “confratelli” siriani almeno dai tempi della guerra civile in Siria. Dalla caduta di Assad i jihadisti libanesi hanno cominciato a mostrare apertamente la loro solidarietà ad al Jolani / al Sharaa - c’è chi ha imbracciato le armi e dal Libano ha raggiunto i miliziani di HTS. Raggiungiamo un caffè isolato dal chiasso delle strade per incontrare B., trentacinquenne alawita siriano arrivato in città nei mesi scorsi, in fuga da Tartous, sulla costa siriana. Parlando con noi, si riferisce al Presidente della Siria come ad al Jolani; evidentemente, per lui l’abbandono del nome di battaglia del leader di HTS non ha nessun significato. Gli chiediamo come sta, e se si sente finalmente libero dalle persecuzioni che infuriano in Siria contro la sua comunità.

«Non si può vivere in pace con i jihadisti, né in Siria né qui nel Libano» risponde. «Nemmeno i miei amici che si sono rifugiati in Europa sono tranquilli: ricevono minacce di morte dagli estremisti islamici in Francia, in Olanda… non ci lasciano in pace da nessuna parte, e non possiamo tornare in Siria: ovunque è un inferno.»

Dunque non si sente un po’ più al sicuro in Libano rispetto alla Siria? «No, non mi sento al sicuro nemmeno qui. Quando gli estremisti islamici si imbattono in qualcuno di noi alawiti cominciano a tormentarlo; non è possibile che ci lascino in pace, anche perché si vantano tra loro di aver ‘stanato un alawita‘. Ci riconoscono dai nostri nomi e cognomi, oppure dal dialetto, quando ci sentono parlare»

Da quello che ha potuto vedere, crede che il fenomeno dell’estremismo islamico in Libano si fermerà o continuerà la sua espansione? «Credo che non si fermerà qui, perché ogni volta che al Jolani ottiene un riconoscimento da parte di un Paese straniero o della comunità internazionale gli estremisti lo leggono come un passo verso l’islamizzazione del mondo, e acquistano sempre più fiducia nella vittoria finale della jihad».

Dietro la conquista della Siria da parte di al Sharaa e dei suoi uomini ci sono potenze straniere che l’hanno permessa e supportata - ad esempio Israele, che ha grandi ambizioni su Damasco. Non crede che, in caso il fenomeno estremista si allarghi troppo sulla regione, questi stessi Paesi penseranno a ridimensionarlo? «Io credo che quanti hanno dato il potere ad al Jolani potranno in qualche modo addomesticarlo, ma sarà difficile addomesticare queste masse di fanatici religiosi».

Lasciamo B. pensando alle parole di Metin Rhawi in un passaggio dell’intervista citata nell’apertura di questo articolo: «Se l’Europa continua su questa strada (di collaborazione con regimi estremisti, nda), gli europei seguiranno la stessa sorte: non necessariamente attraverso la violenza, ma attraverso la lenta erosione dei valori democratici di libertà e pluralismo. Quando un Paese supporta forze che distruggono la democrazia all’estero, alla fine queste stesse forze influenzeranno la democrazia al suo interno».

https://lanuovabq.it/it/siria-a-un-anno-dalla-caduta-di-assad-ce-poco-da-festeggiare

martedì 2 dicembre 2025

Papa Leone abbraccia tutti i dolori del popolo libanese

 da  Agenzia Fides . di Pascale Rizk

Anche oggi nelle notti del Libano si possono “trovare le piccole luci splendenti” che possono aprire i cuori alla gratitudine. E riconoscere, come sempre, che il Regno che Gesù viene a inaugurare è come “un germoglio, un piccolo virgulto che spunta su un tronco, una piccola speranza che promette la rinascita quando tutto sembra morire”. Segni che possono essere intravisti “solo dai piccoli, da coloro che senza grandi pretese sanno riconoscere i dettagli nascosti, le tracce di Dio in una storia apparentemente perduta”.
Attingono al cuore della speranza cristiana le parole di rinascita che Papa Leone XIV consegna a tutti i libanesi, nell’ultimo giorno del suo viaggio nel Paese dei Cedri. Nell’omelia della messa finale, celebrata al Beirut Waterfront, il Vescovo di Roma abbraccia tutti i dolori del popolo libanese e chiama tutti a “riconoscere la piccolezza del germoglio che spunta e cresce pur dentro avvenimenti dolorosi. Piccole luci che risplendono nella notte, piccoli virgulti che spuntano, piccoli semi piantati nell’arido giardino di questo tempo storico possiamo vederli anche noi, anche qui, anche oggi”. E cita come prima luce e primo virgulto di rinascita “la vostra fede semplice e genuina, radicata nelle vostre famiglie e alimentata dalle scuole cristiane”. 

La preghiera del Porto e l’abbraccio ai disabili

Poco prima della liturgia eucaristica, celebrata davanti a 120mila persone, Papa Prevost era andato al Porto di Beirut e si era raccolto in preghiera silenziosa davanti al monumento alle vittime dell’esplosione avvenuta il 4 agosto 2020, per poi fermarsi a lungo a salutare uno per uno i loro famigliari.

Papa Leone aveva iniziato l'ultima giornata del viaggio apostolico in Libano recandosi in visita all’Ospedale psichiatrico dei disabili mentali “de la Croix” a Jal ed Dib. Pazienti, medici e assistenti all’arrivo del Papa continuavano a gridare «ahla w sahla», il ‘benvenuto’ libanese, e «alla yehmik » («che Dio ti protegga»), con la letizia incontenibile dei più amati da Dio.

L’ospedale psichiatrico «non sceglie i suoi pazienti ma che accoglie coloro che non sono accolti da nessuno». Così lo ha descritto la Superiora generale Suor Maria Maakhlouf, ringraziando nel suo saluto il Papa per la sua visita che «conferma ai più piccoli che sono amati dal Signore, hanno un posto speciale nel suo cuore» e sono un «tesoro per la Chiesa».
«Vorrei solo ricordare – ha detto loro Papa Prevost - che siete nel cuore di Dio nostro Padre. Egli vi porta sul palmo delle sue mani, vi accompagna con amore, vi offre la sua tenerezza attraverso le mani e i sorrisi di chi si prende cura della vostra vita»
 Il Convento della Croce è il luogo di fondazione delle Suore Francescane della Croce, e incarna la vocazione della Congregazione : ospitare le persone più bisognose che soffrono di ogni tipo di malattia mentale e psicologica.

Il congedo del Papa : cessino attacchi e ostilità

Nelle sue parole di congedo pronunciate all’aeroporto di Beirut, prima di salire sull’aereo diretto a Roma, Leone XIV ha fatto riferimento a “tutte le regioni del Libano che non è stato possibile visitare: Tripoli e il nord, la Beqa’a e il sud del Paese, Tiro, Sidone – luoghi biblici –, tutte quelle aree, specialmente nel sud, che sperimentano una continua situazione di conflitto e di incertezza. A tutti - ha proseguito il Pontefice - il mio abbraccio e il mio augurio di pace. E anche un accorato appello: cessino gli attacchi e le ostilità. Nessuno creda più che la lotta armata porti qualche beneficio. Le armi uccidono, la trattativa, la mediazione e il dialogo edificano”.

L’incontro a Harissa 


“Salam el Masseeh”, (la pace di Cristo) sono state le prime parole che Papa Leone aveva indirizzato di mattina a Vescovi, ai sacerdoti, alle suore, ai consacrati e agli operatori pastorali delle Chiese cattoliche presenti in Libano che lo avevano accolto nella basilica di Nostra Signora del Libano a Harissa. Dopo aver ascoltato alcune testimonianze, il Papa ha ha sottolineato l’importanza dell’amore continuo nella costruzione della comunione nonché della forza della preghiera e della profondità della speranza nei momenti di difficoltà.


La visita alla grotta di San Charbel


Dalle prime ore del mattino tanti libanesi avevano iniziato ad affluire da tutte le regioni lungo le strade che avrebbe attraversato Papa Leone XIV per recarsi alla grotta che custodisce le spoglie mortali di San Charbel, nel monastero di Annaya.

Lungo tutto il viaggio da Byblos a Annaya le campane delle chiese hanno suonato ripetutamente, alternandosi con i canti in arabo e siriaco con alcuni momenti di silenzio. Prima dell’arrivo del corteo copie della preghiera che il Papa avrebbe recitato in francese davanti alla tomba di San Charbel, sono state distribuite ai fedeli sulle strade e nella piazza. Arrivato al Santuario, il Sommo Pontefice si è inginocchiato davanti alla tomba di San Charbel in un momento di preghiera per accendere poi, accanto alla tomba, una candela che aveva portato da Roma. Riassumendo l’eredità dell’eremita originario da Baakafra, Papa Leone si è soffermato sull’attrazione che tanti sperimentavano per il monaco, santo «come l’acqua fresca e pura per chi cammina in un deserto».

L’incontro coi giovani


Nella parte finale della lunga giornata, il Pontefice si è recato a Bkerke per l’incontro con i giovani, arrivati anche dalla Siria e dall’Irak, con le loro testimonianze « come stelle lucenti in una notte buia ». «La vostra patria, il Libano» ha detto ai giovani Papa Leone «, rifiorirà bella e vigorosa come il cedro, simbolo dell’unità e della fecondità del popolo. Sappiamo bene che la forza del cedro è nelle radici, che normalmente hanno le stesse dimensioni dei rami. Il numero e la forza dei rami corrisponde al numero e alla forza delle radici. Allo stesso modo, il tanto bene che oggi vediamo nella società libanese è il risultato del lavoro umile, nascosto e onesto di tanti operatori di bene, di tante radici buone che non vogliono far crescere solo un ramo del cedro libanese, ma tutto l’albero, in tutta la sua bellezza».
«Attingete» ha esortato il Pontefice «dalle radici buone dell’impegno di chi serve la società e non “se ne serve” per i propri interessi. Con un generoso impegno per la giustizia, progettate insieme un futuro di pace e di sviluppo. Siate la linfa di speranza che il Paese attende».

http://www.fides.org/it/news/77110

mercoledì 26 novembre 2025

Il 43° anniversario delle apparizioni di Nostra Signora di Soufanieh a Damasco e la preghiera per l'unità dei cristiani

  

di Pina Baglioni

Nell’inferno della guerra siriana ha trovato casa un pezzo di Paradiso.  
Ormai dal 22 novembre del 1982. Precisamente a Soufanieh, un modesto quartiere a nord di Damasco, fuori dalle mura della città, presso la porta detta “di Tommaso”.
Qui, in una vecchia e umile abitazione, abita la famiglia Nazzour: Myrna, suo marito Nicolas e i loro due figli, Myriam e John-Emmanuel. E proprio nella loro casetta accadono, da trentatré anni, miracoli straordinari: una piccola icona con la cornicetta in plastica, copia dell’immagine di Nostra Signora di Kazan, veneratissima in Russia – dov’è custodita l’originale – e in tutto il mondo ortodosso, trasuda olio miracoloso che guarisce anime e corpi di ortodossi, cattolici e musulmani.

È ormai venerata in Siria e in tutto il mondo come la Madonna di Soufanieh. Nicolas Nazzour, di fede greco-ortodossa, aveva acquistato l’icona a Sofia nel 1980, che poi aveva conservato  amorevolmente su un piccolo mobile di casa, come accade per tante immagini sacre che i fedeli custodiscono nelle proprie dimore.
Una normalità che presto diventa qualcosa di straordinario: il miracolo dell’olio è solo uno dei mirabili segni di predilezione che il Signore ha accordato a questo angolo della periferia di Damasco: Myrna, la madre di famiglia, cattolica melchita, di media istruzione e di formazione religiosa elementare, è stata fatta oggetto di una serie di grazie che hanno reso la sua umile casa un santuario mariano incastonato in uno dei Paesi più martoriati del mondo.
Myrna aveva diciotto anni quando tutto ebbe inizio. E da trentatrè anni vive sempre alla stessa maniera, umilmente, ricevendo nella sua abitazione – conosciuta ormai come “la casa della Vergine Maria” – un flusso costante di fedeli provenienti da ogni dove: cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani, senza distinzioni di sorta.
Da quel giorno le capita di essere invitata a raccontare quanto le accade anche in Paesi lontani, dove sono sorti gruppi di preghiera devoti alla Madonna di Soufanieh.

La vergine Maria trova casa a Soufanieh
Tutto comincia il 22 novembre del 1982, giorno in cui Myrna, sposata da poco, va a trovare, insieme con alcune amiche, sua cognata Laila, seriamente ammalata. Appena le ragazze cominciano a pregare, ecco che le sue mani si ricoprono di olio. Lo sconcerto è immaginabile. Istintivamente, le donne decidono di ungere con quell’olio il volto e le mani della malata. Che, dopo qualche giorno, guarisce.
Il 27 novembre accade dell’altro: anche dall’iconcina raffigurante Nostra Signora di Kazan conservata in casa di Myrna comincia a colare olio. Qualche giorno dopo, Myrna va dalla madre, malata anche lei. Quando cominciano a pregare, ecco che dalle mani della ragazza, esce altro olio. E la madre guarisce.
Paura, sconcerto, meraviglia. Stati d’animo opposti si affollano nelle menti e nei cuori della famiglia Nazzour. Ma non è finita: l’11 dicembre, Samir Hanna, un vicino di casa che soffre di continui attacchi di cuore, ha avuto da poco un’emorragia cerebrale che gli ha provocato una paralisi: appena lo ungono con un po’ di quell’olio, guarisce. E così accade a Ghalya Armouche la quale, paralizzata anche lei, guarisce.
A quel punto, Nicolas, il marito di Myrna, decide di informare il 
Patriarcato ortodosso. Anche perché ormai a Soufanieh s’è sparsa la voce e la gente comincia ad accalcarsi all’uscio di casa per vedere con i propri occhi quanto vi accade.
Da lì a poco si presenta in casa monsignor Boulos Pandéli, vicario patriarcale, accompagnato da due giovani sacerdoti. Tutti constatano la trasudazione di olio dall’icona e dalle mani di Myrna. E ne informano immediatamente il Patriarca, il quale ordina di far analizzare la sostanza. Cosa che accadrà tra il 1984 e il 1985, presso laboratori di Damasco, Germania, Francia e Italia. Alla fine, le analisi chimiche daranno risultato univoco: si tratta di semplice olio d’oliva.
Dopo la visita dei religiosi, si precipitano nella casa di Myrna due agenti dei servizi segreti siriani, che, avvertiti dei fatti, vogliono capire cosa stia avvenendo da quelle parti. I due esaminano accuratamente l’icona, che proprio in quel momento ricomincia a trasudare olio: la smontano, la rimontano. E alla fine, mentre se ne vanno, esclamano ad alta voce: «Dio è grande!» (“Allah Akbar”: il grido che suonerà poi come bestemmia sulla bocca dei terroristi che stanno insanguinando il Paese e il mondo).

Le apparizioni della Madonna, le stimmate e l’unità della Chiesa
Per Myrna, quanto accaduto è solo l’inizio. Nella notte del 15 dicembre dell’82, mentre se ne sta in terrazzo a riposare, vede una luce abbagliante provenire da una pianta di eucalipto vicino ad un piccolo ruscello che scorre proprio accanto alla sua casa. All’interno del globo di luce, ecco una sorta di mezzaluna blu che subito dopo scompare per lasciare spazio ad una donna bellissima che avanza verso di lei. È vestita di bianco, con una cintura blu in vita. In testa indossa un cappuccio e porta sulla spalla destra uno scialle, anche quello di colore blu. In mano tiene un rosario che sembra di cristallo. La signora dice qualcosa, ma Myrna non sente nulla: atterrita, scappa.

Quella sarà la prima delle apparizioni, che si protrarranno fino al 24 marzo del 1983. Myrna, intanto, si è resa conto dell’identità della donna che la viene a trovare: è la vergine Maria, che si rende visibile solo a lei. «Figli miei pensate a Dio»: sono le prime parole che Myrna riesce a sentire nel corso della seconda apparizione, il 18 dicembre 1982.
«Vi ho dato l’olio, e ve ne darò di più di quanto ne avete chiesto – aggiunge Maria – Annunciate mio Figlio, l’Emmanuele. Colui che lo annuncerà sarà salvato, colui che non lo annuncerà, la sua fede sarà vana… non sto chiedendo soldi da dare alla Chiesa. Non vi sto chiedendo di costruirmi una chiesa, ma un luogo di pellegrinaggio. Date con generosità. Non private nessuno di coloro che vi chiedono aiuto».

C’è un messaggio che la Vergine ripeterà più di una volta a Myrna, sottolineato in modo particolare nell’ultima apparizione, avvenuta giovedì 24 marzo del 1983: «Il mio Dio l’ha detto: riunitevi in una sola Chiesa. La Chiesa che Gesù ha fondato è una, perché Gesù è uno. La Chiesa è il regno del cielo sulla terra. Colui che l’ha divisa ha peccato, e colui che gioisce della sua divisione, ha peccato lo stesso. Gesù la costruì: era molto piccola. E quando crebbe fu divisa. Colui che l’ha divisa non ha amore in Lui. Riunitevi. Io vi dico: pregate, pregate, pregate. Come sono belli i miei figli quando implorano inginocchiati. Non abbiate paura, io sono con voi. Non dividetevi come sono divisi i grandi. Pregate per gli abitanti del cielo e della terra».

Che l’unità della Chiesa fosse al centro dei messaggi sarà evidente in relazione a un altro segno divino che Myrna si troverà ad accogliere: le stimmate della passione di Gesù. La prima volta le vede comparire sul suo corpo venerdì 25 dicembre 1983: verso le 16 si aprono ferite sui suoi piedi, alle mani e al costato. I dolori sono lancinanti, ma non c’è effusione di sangue. Alle 23,00 le piaghe si cicatrizzano.
E come nel caso della manifestazione dell’olio, più di un medico e alcuni ufficiali dei servizi segreti vanno a vedere cosa sta succedendo. E anche stavolta non possono che constatare la buona fede di Myrna e l’autenticità di questi fenomeni. Ma c’è un aspetto stupefacente che li collega direttamente alla richiesta dell’unità della Chiesa: le stimmate compaiono esclusivamente quando la Pasqua  ortodossa coincide con la Pasqua cattolica. Accadrà infatti nell’84, nell’87, nel ’90, nel 2001. E il 20 aprile del 2015.

Anche Gesù parla a Myrna
Alle apparizioni sono succedute le visioni di Gesù e della Madonna, che producono in Myrna stati di estasi, durante i quali si accascia priva di forze mentre il suo corpo trasuda olio. Estasi che possono durare cinque minuti come delle ore.
«Figli miei, pregate per la pace e soprattutto per la pace in Oriente», le dirà la Madonna durante una di queste nel giorno della festa dell’Assunzione del 1999, mentre si trova in Belgio.
A maggio del 1984, il Signore le insegna una preghiera: «Beneamato Gesù, accordami di riposarmi in Te, sopra ogni altra cosa, sopra ogni creatura, sopra tutti i tuoi angeli, sopra ogni elogio, sopra ogni gioia di esaltazione, sopra ogni gloria e dignità, sopra tutto l’esercito celeste, perché Tu solo sei l’Altissimo, Tu solo sei potente e buono al sommo grado. Vieni a me e consolami e slega le mie catene, e accordami la libertà. Perché senza di Te la mia gioia è incompleta. Senza di Te la mia tavola è vuota. Allora verrò per dire: “eccomi sono venuto perché mi hai invitato”».
E ancora, il 10 aprile 2004, Sabato santo: «Un comando per voi: tornate ciascuno a casa vostra, portate l’Oriente nei vostri cuori. Di qui una nuova luce ha brillato, voi ne siete i raggi in un mondo dove potere, lussuria e cose materiali attirano così tanto da mettere a rischio l’umanità intera. Quanto a voi, salvaguardate il vostro essere orientali. Non permettete, in Oriente, che vi sia tolta la vostra volontà, la vostra libertà, la vostra fede».

Ogni volta che Myrna vede il Signore ha bisogno di molto tempo per recuperare la vista. Come nella visione del novembre del 1984: ci vollero ben settantadue ore per riacquistarla. Numerosi test sono stati eseguiti sulla donna, soprattutto sulla vista, la sensibilità e i riflessi: esami risultati sempre negativi, come se nulla fosse accaduto.
Oggi, a Soufanieh, è rimasto tutto come quel 27 novembre del 1982 nella casa di Myrna. La gente, di ogni religione, arriva da ogni parte del mondo per implorare la Madonna e ricevere un po’ di quell’olio benedetto. Tra questi, numerosissimi sono i musulmani. Le grazie e le conversioni continuano, nonostante le tante difficoltà che tormentano la martoriata Siria.
L’unica differenza, è che la famiglia Nazzour ha dovuto fare qualche cambiamento per via di tutta la gente che si accalca senza sosta presso la loro casa. Il vecchio patio è stato ricoperto con un tetto, la terrazza rinforzata per evitare che venga giù per il peso delle persone. E nel mezzo del patio è stata messa l’iconcina della Madonna di Soufanieh che continua a donare olio, che viene costantemente raccolto in un piattino di alabastro.  «Scusateci, non accettiamo denaro», recita una scritta ben visibile posta presso l’icona.

Un testimone d’eccezione: padre René Laurentin
«Cos’è quest’olio? Probabilmente è un segno del potere divino. Ma perché avete scelto proprio me? Sono una qualunque, di scarsa istruzione. In migliaia avrebbero meritato tanto privilegio. In ogni caso, sia fatta la Tua volontà. Ti offro le mie azioni, la mia fatica, i miei dolori, la mia gioia. Ho messo tutta la mia speranza in te», sono stati questi i primi pensieri di Myrna nei giorni dei primi miracoli, come ha confidato nel 1987 a padre René Laurentin, forse la più alta autorità in materia di apparizioni mariane che la Chiesa abbia avuto in tempi recenti.
Padre Laurentin si è recato a Soufanieh nel 1982 per vedere con i propri occhi ciò di cui aveva tanto sentito parlare. Il 25 novembre si reca con Myrna, il marito e la piccola Myriam, una dei due figli della coppia, a far visita al nunzio apostolico a Damasco. E nel corso della conversazione, ecco che le mani di Myrna cominciano a coprirsi di olio, tra la meraviglia di tutti; il giorno dopo, la casa di Myrna e di Nicolas si riempie di gente.
Ma, improvvisamente, scatta un blackout, fatto abbastanza abituale in Siria. Quando la luce torna, Myrna è in uno stato di estasi: stesa sul letto, dalle sue mani scorre copiosamente olio benedetto. Ad assistere al fenomeno anche il medico della donna, Gamil Mergy, un ateo convertito grazie ai miracoli di Soufanieh, che prontamente tampona le mani di Myrna perché quella grazia di Dio non vada perduta.
Nei giorni successivi, il grande teologo avrà modo di parlare con i due coniugi e conoscerli meglio. Prima delle visite della vergine Maria e di Gesù erano entrambi fedeli normalissimi, dediti al minimo indispensabile per conservare la fede.
 Nicolas, per esempio, non andava neanche in chiesa. Alla domanda di come la loro vita fosse cambiata e quanto tempo dedicassero alla preghiera, Myrna aveva risposto: «La nostra vita è quella di sempre. È solo più vera, piena di gioia. Un po’ più faticosa, certo, vista tutta la gente che ospitiamo nella nostra casa. Poi, ci sono i tremendi dolori delle stimmate, ancora più intensi di quelli del parto. Ma li accolgo come un grande dono di Dio.
Le preghiere? «Recitiamo semplicemente il santo rosario e le preghiere ordinarie della Chiesa». Tutto semplice, come semplice è la grazia del Signore.

lunedì 24 novembre 2025

Lettera apostolica “In unitate fidei” nel 1700° anniversario del Concilio di Nicea


 Pubblichiamo la prima parte della Lettera Apostolica “In unitate fidei” di Papa Leone XIV in occasione del 1700° anniversario del Concilio di Nicea, diffusa nella Solennità di Cristo Re dell’Universo. 
SIR:"Papa Leone XIV, con la Lettera apostolica “In unitate fidei”, rilancia il valore del Credo niceno come fondamento condiviso tra le Chiese cristiane. Alla vigilia del viaggio in Turchia e Libano, il Pontefice richiama l’unità nella fede come risposta alle sfide del Mediterraneo, segnato da tensioni politiche e religiose".

(1) Nell’unità della fede, proclamata fin dalle origini della Chiesa, i cristiani sono chiamati a camminare concordi, custodendo e trasmettendo con amore e con gioia il dono ricevuto. Esso è espresso nelle parole del Credo: «Crediamo in Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, disceso dal cielo per la nostra salvezza», formulate dal Concilio di Nicea, primo evento ecumenico della storia della cristianità, 1700 anni or sono.

Mentre mi accingo a compiere il Viaggio Apostolico in Türkiye, con questa lettera desidero incoraggiare in tutta la Chiesa un rinnovato slancio nella professione della fede, la cui verità, che da secoli costituisce il patrimonio condiviso tra i cristiani, merita di essere confessata e approfondita in maniera sempre nuova e attuale. A tal riguardo, è stato approvato un ricco documento della Commissione Teologica Internazionale: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore. Il 1700° anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea. Ad esso rimando, perché offre utili prospettive per l’approfondimento dell’importanza e dell’attualità non solo teologica ed ecclesiale, ma anche culturale e sociale del Concilio di Nicea.

(2) «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio»: così San Marco intitola il suo Vangelo, riassumendone l’intero messaggio proprio nel segno della figliolanza divina di Gesù Cristo. Allo stesso modo, l’Apostolo Paolo sa di essere chiamato ad annunciare il Vangelo di Dio sul suo Figlio morto e risorto per noi (cf. Rm1,9), che è il “sì” definitivo di Dio alle promesse dei profeti (cf. 2Cor1,19-20). In Gesù Cristo, il Verbo che era Dio prima dei tempi e per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte – recita il prologo del Vangelo di San Giovanni –, «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). In Lui, Dio si è fatto nostro prossimo, così che tutto quello che noi facciamo ad ognuno dei nostri fratelli, l’abbiamo fatto a Lui (cf. Mt 25,40).

È quindi una provvidenziale coincidenza che in questo Anno Santo, dedicato alla nostra speranza che è Cristo, si celebri anche il 1700° anniversario del primo Concilio Ecumenico di Nicea, che proclamò nel 325 la professione di fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio. È questo il cuore della fede cristiana. Ancor oggi nella celebrazione eucaristica domenicale pronunciamo il Simbolo Niceno-costantinopolitano, professione di fede che unisce tutti i cristiani. Essa ci dà speranza nei tempi difficili che viviamo, in mezzo a molte preoccupazioni e paure, minacce di guerra e di violenza, disastri naturali, gravi ingiustizie e squilibri, fame e miseria patita da milioni di nostri fratelli e sorelle.

(3) I tempi del Concilio di Nicea non erano meno turbolenti. Quando esso iniziò, nel 325, erano ancora aperte le ferite delle persecuzioni contro i cristiani. L’Editto di tolleranza di Milano (313), emanato dai due imperatori Costantino e Licinio, sembrava annunciare l’alba di una nuova epoca di pace. Dopo le minacce esterne, tuttavia, nella Chiesa emersero presto dispute e conflitti.

Ario, un presbitero di Alessandria d’Egitto, insegnava che Gesù non è veramente il Figlio di Dio; seppure non una semplice creatura, Egli sarebbe un essere intermedio tra il Dio irraggiungibilmente lontano e noi. Inoltre, vi sarebbe stato un tempo in cui il Figlio «non era». Ciò era in linea con la mentalità diffusa all’epoca e risultava perciò plausibile.

Ma Dio non abbandona la sua Chiesa, suscitando sempre uomini e donne coraggiosi, testimoni nella fede e pastori che guidano il suo Popolo e gli indicano il cammino del Vangelo. Il Vescovo Alessandro di Alessandria si rese conto che gli insegnamenti di Ario non erano affatto coerenti con la Sacra Scrittura. Poiché Ario non si mostrava conciliante, Alessandro convocò i Vescovi dell’Egitto e della Libia per un sinodo, che condannò l’insegnamento di Ario; agli altri Vescovi dell’Oriente inviò poi una lettera per informarli dettagliatamente. In Occidente si attivò il Vescovo Osio di Cordova, in Spagna, che si era già dimostrato fervente confessore della fede durante la persecuzione sotto l’imperatore Massimiano e godeva della fiducia del Vescovo di Roma, Papa Silvestro.

Anche i seguaci di Ario, però, si compattarono. Ciò portò a una delle più grandi crisi nella storia della Chiesa del primo millennio. Il motivo della disputa, infatti, non era un dettaglio secondario. Si trattava del centro della fede cristiana, cioè della risposta alla domanda decisiva che Gesù aveva posto ai discepoli a Cesarea di Filippo: «Voi chi dite che io sia?» (Mt16,15).

(4) Mentre la controversia divampava, l’imperatore Costantino si rese conto che insieme all’unità della Chiesa era minacciata anche l’unità dell’Impero. Convocò quindi tutti i Vescovi a un concilio ecumenico, cioè universale, a Nicea, per ristabilire l’unità. Il sinodo, detto dei “318 Padri”, si svolse sotto la presidenza dell’imperatore: il numero dei Vescovi riuniti insieme era senza precedenti. Alcuni di loro portavano ancora i segni delle torture subite durante la persecuzione. La grande maggioranza di essi proveniva dall’Oriente, mentre sembra che solo cinque fossero occidentali. Papa Silvestro si affidò alla figura, teologicamente autorevole, del Vescovo Osio di Cordova, e inviò due presbiteri romani.

(5) I Padri del Concilio testimoniarono la loro fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Tradizione apostolica, come veniva professata durante il battesimo secondo il mandato di Gesù: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt28,19). In Occidente ne esistevano varie formule, tra le quali il cosiddetto Credo degli Apostoli.[1] Anche in Oriente esistevano molte professioni battesimali, tra loro simili nella struttura. Non si trattava di un linguaggio erudito e complicato, ma piuttosto – come si disse in seguito – del semplice linguaggio comprensibile ai pescatori del mare di Galilea.

Su questa base il Credo niceno inizia professando: «Noi crediamo i un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili».[2] Con ciò i Padri conciliari espressero la fede nel Dio uno e unico. Al Concilio non ci fu controversia al riguardo. Venne invece discusso un secondo articolo, che utilizza anch’esso il linguaggio della Bibbia per professare la fede in «un soloSignore, Gesù Cristo, Figlio di Dio». Il dibattito era dovuto all’esigenza di rispondere alla questione sollevata da Ario su come si dovesse intendere l’affermazione “Figlio di Dio” e come potesse conciliarsi con il monoteismo biblico. Il Concilio era perciò chiamato a definire il corretto significato della fede in Gesù come “il Figlio di Dio”.

I Padri confessarono che Gesù è il Figlio di Dio in quanto è «dalla sostanza(ousia)del Padre[…]generato, non creato, della stessa sostanza (homooúsios)del Padre». Con questa definizione veniva radicalmente respinta la tesi di Ario.[3]Per esprimere la verità della fede, il Concilio ha usato due parole, «sostanza» (ousia)e «della stessa sostanza» (homooúsios),che non si trovano nella Scrittura. Così facendo non ha voluto sostituire le affermazioni bibliche con la filosofia greca. Al contrario, il Concilio ha utilizzato questi termini per affermare con chiarezza la fede biblica distinguendola dall’errore ellenizzante di Ario. L’accusa di ellenizzazione non si applica dunque ai Padri di Nicea, ma alla falsa dottrina di Ario e dei suoi seguaci.

In positivo, i Padri di Nicea vollero fermamente restare fedeli al monoteismo biblico e al realismo dell’incarnazione. Vollero ribadire che l’unico vero Dio non è irraggiungibilmente lontano da noi, ma al contrario si è fatto vicino e ci è venuto incontro in Gesù Cristo.

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 https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/apost_letters/documents/20251123-in-unitate-fidei.html