Traduci

lunedì 24 novembre 2025

Lettera apostolica “In unitate fidei” nel 1700° anniversario del Concilio di Nicea


 Pubblichiamo la prima parte della Lettera Apostolica “In unitate fidei” di Papa Leone XIV in occasione del 1700° anniversario del Concilio di Nicea, diffusa nella Solennità di Cristo Re dell’Universo. 
SIR:"Papa Leone XIV, con la Lettera apostolica “In unitate fidei”, rilancia il valore del Credo niceno come fondamento condiviso tra le Chiese cristiane. Alla vigilia del viaggio in Turchia e Libano, il Pontefice richiama l’unità nella fede come risposta alle sfide del Mediterraneo, segnato da tensioni politiche e religiose".

(1) Nell’unità della fede, proclamata fin dalle origini della Chiesa, i cristiani sono chiamati a camminare concordi, custodendo e trasmettendo con amore e con gioia il dono ricevuto. Esso è espresso nelle parole del Credo: «Crediamo in Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, disceso dal cielo per la nostra salvezza», formulate dal Concilio di Nicea, primo evento ecumenico della storia della cristianità, 1700 anni or sono.

Mentre mi accingo a compiere il Viaggio Apostolico in Türkiye, con questa lettera desidero incoraggiare in tutta la Chiesa un rinnovato slancio nella professione della fede, la cui verità, che da secoli costituisce il patrimonio condiviso tra i cristiani, merita di essere confessata e approfondita in maniera sempre nuova e attuale. A tal riguardo, è stato approvato un ricco documento della Commissione Teologica Internazionale: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore. Il 1700° anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea. Ad esso rimando, perché offre utili prospettive per l’approfondimento dell’importanza e dell’attualità non solo teologica ed ecclesiale, ma anche culturale e sociale del Concilio di Nicea.

(2) «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio»: così San Marco intitola il suo Vangelo, riassumendone l’intero messaggio proprio nel segno della figliolanza divina di Gesù Cristo. Allo stesso modo, l’Apostolo Paolo sa di essere chiamato ad annunciare il Vangelo di Dio sul suo Figlio morto e risorto per noi (cf. Rm1,9), che è il “sì” definitivo di Dio alle promesse dei profeti (cf. 2Cor1,19-20). In Gesù Cristo, il Verbo che era Dio prima dei tempi e per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte – recita il prologo del Vangelo di San Giovanni –, «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). In Lui, Dio si è fatto nostro prossimo, così che tutto quello che noi facciamo ad ognuno dei nostri fratelli, l’abbiamo fatto a Lui (cf. Mt 25,40).

È quindi una provvidenziale coincidenza che in questo Anno Santo, dedicato alla nostra speranza che è Cristo, si celebri anche il 1700° anniversario del primo Concilio Ecumenico di Nicea, che proclamò nel 325 la professione di fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio. È questo il cuore della fede cristiana. Ancor oggi nella celebrazione eucaristica domenicale pronunciamo il Simbolo Niceno-costantinopolitano, professione di fede che unisce tutti i cristiani. Essa ci dà speranza nei tempi difficili che viviamo, in mezzo a molte preoccupazioni e paure, minacce di guerra e di violenza, disastri naturali, gravi ingiustizie e squilibri, fame e miseria patita da milioni di nostri fratelli e sorelle.

(3) I tempi del Concilio di Nicea non erano meno turbolenti. Quando esso iniziò, nel 325, erano ancora aperte le ferite delle persecuzioni contro i cristiani. L’Editto di tolleranza di Milano (313), emanato dai due imperatori Costantino e Licinio, sembrava annunciare l’alba di una nuova epoca di pace. Dopo le minacce esterne, tuttavia, nella Chiesa emersero presto dispute e conflitti.

Ario, un presbitero di Alessandria d’Egitto, insegnava che Gesù non è veramente il Figlio di Dio; seppure non una semplice creatura, Egli sarebbe un essere intermedio tra il Dio irraggiungibilmente lontano e noi. Inoltre, vi sarebbe stato un tempo in cui il Figlio «non era». Ciò era in linea con la mentalità diffusa all’epoca e risultava perciò plausibile.

Ma Dio non abbandona la sua Chiesa, suscitando sempre uomini e donne coraggiosi, testimoni nella fede e pastori che guidano il suo Popolo e gli indicano il cammino del Vangelo. Il Vescovo Alessandro di Alessandria si rese conto che gli insegnamenti di Ario non erano affatto coerenti con la Sacra Scrittura. Poiché Ario non si mostrava conciliante, Alessandro convocò i Vescovi dell’Egitto e della Libia per un sinodo, che condannò l’insegnamento di Ario; agli altri Vescovi dell’Oriente inviò poi una lettera per informarli dettagliatamente. In Occidente si attivò il Vescovo Osio di Cordova, in Spagna, che si era già dimostrato fervente confessore della fede durante la persecuzione sotto l’imperatore Massimiano e godeva della fiducia del Vescovo di Roma, Papa Silvestro.

Anche i seguaci di Ario, però, si compattarono. Ciò portò a una delle più grandi crisi nella storia della Chiesa del primo millennio. Il motivo della disputa, infatti, non era un dettaglio secondario. Si trattava del centro della fede cristiana, cioè della risposta alla domanda decisiva che Gesù aveva posto ai discepoli a Cesarea di Filippo: «Voi chi dite che io sia?» (Mt16,15).

(4) Mentre la controversia divampava, l’imperatore Costantino si rese conto che insieme all’unità della Chiesa era minacciata anche l’unità dell’Impero. Convocò quindi tutti i Vescovi a un concilio ecumenico, cioè universale, a Nicea, per ristabilire l’unità. Il sinodo, detto dei “318 Padri”, si svolse sotto la presidenza dell’imperatore: il numero dei Vescovi riuniti insieme era senza precedenti. Alcuni di loro portavano ancora i segni delle torture subite durante la persecuzione. La grande maggioranza di essi proveniva dall’Oriente, mentre sembra che solo cinque fossero occidentali. Papa Silvestro si affidò alla figura, teologicamente autorevole, del Vescovo Osio di Cordova, e inviò due presbiteri romani.

(5) I Padri del Concilio testimoniarono la loro fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Tradizione apostolica, come veniva professata durante il battesimo secondo il mandato di Gesù: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt28,19). In Occidente ne esistevano varie formule, tra le quali il cosiddetto Credo degli Apostoli.[1] Anche in Oriente esistevano molte professioni battesimali, tra loro simili nella struttura. Non si trattava di un linguaggio erudito e complicato, ma piuttosto – come si disse in seguito – del semplice linguaggio comprensibile ai pescatori del mare di Galilea.

Su questa base il Credo niceno inizia professando: «Noi crediamo i un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili».[2] Con ciò i Padri conciliari espressero la fede nel Dio uno e unico. Al Concilio non ci fu controversia al riguardo. Venne invece discusso un secondo articolo, che utilizza anch’esso il linguaggio della Bibbia per professare la fede in «un soloSignore, Gesù Cristo, Figlio di Dio». Il dibattito era dovuto all’esigenza di rispondere alla questione sollevata da Ario su come si dovesse intendere l’affermazione “Figlio di Dio” e come potesse conciliarsi con il monoteismo biblico. Il Concilio era perciò chiamato a definire il corretto significato della fede in Gesù come “il Figlio di Dio”.

I Padri confessarono che Gesù è il Figlio di Dio in quanto è «dalla sostanza(ousia)del Padre[…]generato, non creato, della stessa sostanza (homooúsios)del Padre». Con questa definizione veniva radicalmente respinta la tesi di Ario.[3]Per esprimere la verità della fede, il Concilio ha usato due parole, «sostanza» (ousia)e «della stessa sostanza» (homooúsios),che non si trovano nella Scrittura. Così facendo non ha voluto sostituire le affermazioni bibliche con la filosofia greca. Al contrario, il Concilio ha utilizzato questi termini per affermare con chiarezza la fede biblica distinguendola dall’errore ellenizzante di Ario. L’accusa di ellenizzazione non si applica dunque ai Padri di Nicea, ma alla falsa dottrina di Ario e dei suoi seguaci.

In positivo, i Padri di Nicea vollero fermamente restare fedeli al monoteismo biblico e al realismo dell’incarnazione. Vollero ribadire che l’unico vero Dio non è irraggiungibilmente lontano da noi, ma al contrario si è fatto vicino e ci è venuto incontro in Gesù Cristo.

        CONTINUA LA LETTURA QUI:

 https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/apost_letters/documents/20251123-in-unitate-fidei.html

mercoledì 19 novembre 2025

Un gruppo ecumenico di leader cristiani palestinesi critica la recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu

In Libano Israele ha bombardato il campo profughi di Ein el-Hilweh uccidendo almeno 13 persone.
 

Asia News 19 novembre 2025

Anche dopo la firma del cessate il fuoco a Gaza, la spirale di violenza sulla Striscia e in Cisgiordania non si è arrestata. E anche il Libano (che si prepara ad accogliere Papa Leone XIV a fine mese) è stato nuovamente colpito: Israele ha compiuto nelle ultime ore un attacco aereo contro il campo profughi di Ein el-Hilweh, nei pressi di Sidone, uccidendo almeno 13 persone e ferendone diverse altre, in uno dei peggiori bombardamenti registrati negli ultimi mesi dopo la tregua tra Israele e Hezbollah siglata nel novembre 2024. I droni israeliani hanno preso di mira una moschea sostenendo fosse un campo di addestramento di Hamas, accusa che il gruppo ha negato. L’esercito israeliano ha poi lanciato nuovi avvisi di evacuazione ad alcuni villaggi nel sud del Libano.

Dentro questo contesto diversi leader religiosi, teologi, attivisti e membri della società civile cristiana palestinese hanno diffuso oggi da Gerusalemme questa dichiarazione in cui sottolineano come la violenza persistente getti un’ombra profonda sulla proposta di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvata lunedì 17 novembre, sollevando interrogativi cruciali sul futuro dell’autodeterminazione palestinese, sulla responsabilità internazionale e sulle reali condizioni della pace.

Una voce di Gerusalemme per la giustizia
una testimonianza ecumenica per l’uguaglianza e una pace giusta in Palestina/Israele

Un’altra risoluzione?

La risoluzione UNSC 2803 (17.11.2025), basata su una bozza dell’amministrazione statunitense, è stata accettata da tredici Stati membri del Consiglio di Sicurezza, mentre due (Russia e Cina) si sono astenuti. La risoluzione mira a istituire un “Consiglio di Pace”, guidato dal presidente Trump, che supervisionerebbe una Forza Internazionale di Stabilizzazione.

Ci sono alcuni aspetti positivi nel cessate il fuoco negoziato dagli Stati Uniti il 4 ottobre 2025 e in questa risoluzione: meno genocidio, meno domicidio, meno sfollamenti e meno smantellamento delle poche istituzioni palestinesi ancora esistenti. Tuttavia, nonostante il cessate il fuoco, la distruzione di Gaza e della sua popolazione continua. (Da quando il cessate il fuoco è entrato in vigore, circa 250 abitanti di Gaza sono stati uccisi e circa 650 feriti). La risoluzione dell’ONU porterà all'autodeterminazione dei palestinesi? Essa subordina l’autodeterminazione alle “riforme” palestinesi. Le riforme previste hanno lo scopo di porre fine alla corruzione e alla cattiva amministrazione o cercano di imporre l’accettazione dei vincoli imposti da Israele e dagli Stati Uniti all’autodeterminazione? Il diritto di un popolo all’autodeterminazione non può essere condizionato, soprattutto da coloro che hanno impedito questa autodeterminazione per decenni. Inoltre, l’autodeterminazione inizia con un processo democratico libero, senza interferenze da parte di Israele o degli Stati Uniti.

Questa risoluzione presenta anche aspetti negativi. Essa sa di tradizionale colonialismo: prevede l’amministrazione della Striscia di Gaza da parte di stranieri con a capo il presidente degli Stati Uniti. Indubbiamente, l’aspetto più negativo della risoluzione è la sua mancanza di una visione complessiva. Ignora le realtà della Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est): lo smantellamento violento dei campi profughi e dei villaggi palestinesi, l’estrema violenza dell’esercito e della polizia israeliani, e in particolare dei coloni ebrei, ostacoli continui alla vita quotidiana dei palestinesi che vivono lì e i tentativi di cancellare la loro identità. Nel complesso, la risoluzione adotta una prospettiva problematica facendo iniziare il problema è  il 7 ottobre 2023. Tuttavia, in questo modo si ignora la vera genesi del conflitto.

Non c'è via d’uscita se non siamo disposti a ripensare la situazione complessiva in Palestina/Israele. Fin dalla Dichiarazione Balfour (1917), il discorso si è basato su una divisione tra ebrei e non ebrei, stabilendo una disuguaglianza che continua da allora. Il piano di spartizione dell’ONU del 1947 era in diretta continuità con il dominio coloniale britannico: l’istituzione forzata di uno Stato etnocentrico ebraico. Gli ebrei sono legati a questa terra e non sono semplici coloni. Tuttavia, il loro legame con la terra non è esclusivo e non dà loro il diritto di espropriare e sfrattare, reprimere e occupare, distruggere e commettere genocidi. Lo smantellamento del sistema di etnocentrismo, discriminazione e occupazione deve mirare a integrare gli ebrei israeliani in una nuova realtà che si profila all’orizzonte: una società multiculturale e pluralista che garantisca uguaglianza, giustizia e pace a tutti coloro che vivono oggi in Palestina/Israele.

Firmato da:

Patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah (emerito)

Arcivescovo greco-ortodosso Attallah Hanna

Il vescovo luterano di Terra Santa Munib Younan (emerito)

Il sig. Yusef Daher

La sig.ra Sawsan Bitar

Il sig. Samuel Munayer

La sig.ra Dina Nasser

Il sig. John Munayer

La sig.ra Sandra Khoury

Il rev. David Neuhaus SJ

Il rev. Frans Bouwen MAfr

Il rev. Firas Abdrabbo

Il sig. Rafi Ghattas

Il rev. Alessandro Barchi

e altri membri

martedì 18 novembre 2025

Siria, il ritorno dei cristiani a Ghassanieh

 

Un evento di straordinaria portata umana, ecclesiale e francescana

Sabato 8 novembre 2025 una folla immensa si è radunata nel villaggio siriano di Ghassanieh, nella Siria occidentale, nella valle dell’Oronte. Ha accolto, al suono di clacson e tamburi, il vescovo latino di Siria, mons. Hanna Jallouf OFM, il vescovo greco-ortodosso di Latakia, mons. Athanasius Fahed, e il presidente del Sinodo Evangelico di Siria e Libano, il pastore Ibrahim Nuseir. Insieme a loro, una decina di frati della Custodia di Terra Santa [Entità da cui dipendono le presenze in Siria] sono arrivati dai villaggi vicini e da Aleppo, Latakia e Damasco, tra cui Fr. Firas Lutfi, l’ultimo frate rimasto nel villaggio, che ricorda benissimo l’assassinio di padre François Murad (23 giugno 2013) da parte dei jihadisti, la fuga dei cristiani e quindi anche dei frati e delle suore del Rosario, e i bombardamenti successivi che hanno devastato l’intero villaggio.

Si comprende così meglio il giubilo che avvolge la folla in questo ritorno al villaggio. Tra le rovine, il corteo ecumenico si è spostato di chiesa in chiesa per benedire i luoghi e i fedeli, come a voler esorcizzare il male e le molteplici profanazioni qui commesse. Il Padre Nostro viene proclamato con fervore: “Non ci sono più Greci, Latini o Protestanti; siamo un solo popolo, abbiamo sofferto lo stesso dolore”, testimonia Gisèle, con la figlia più piccola tra le braccia.



Il ritmo dei tamburi si fa più insistente man mano che ci si avvicina alla chiesa latina, dedicata a Sant’Antonio da Padova, e al convento francescano. Tony, poco più che ventenne, è pieno di elogi per i francescani: “È grazie a loro che oggi possiamo tornare a casa”. Infatti, Fr. Louai Bsharat e Fr. Khukaz Mesrob, rispettivamente sacerdoti dei villaggi vicini di Yacoubieh e Knayeh, non hanno risparmiato sforzi dalla liberazione della Siria, avvenuta lo scorso 8 dicembre. Sostenuti dal vescovo latino Jallouf, hanno perorato la causa di tutti i cristiani della regione presso le autorità locali e nazionali. Qui, i cristiani sono stati espropriati delle loro proprietà, sia case che terreni agricoli. Coloro che sono rimasti hanno sopportato umiliazioni, la privazione dei loro diritti e, per alcuni, prigionia e tortura. Con il peggiorare della situazione, la Custodia di Terra Santa ha scelto di rimanere presente nei villaggi di Yacoubieh e Knayeh: i frati sono stati gli unici religiosi ad aver sopportato tutte queste difficoltà insieme ai loro fratelli cristiani, che servono come sacerdoti, infermieri, insegnanti, avvocati e altro ancora. Tra le grida di gioia, i fedeli non esitano a caricarli sulle proprie spalle in segno di gratitudine.

Nella chiesa francescana, dove croci, vetrate, statue e altare sono scomparsi, il vescovo latino guida la preghiera. Dopo il Padre Nostro e l’Ave Maria, i frati cantano “Salve, Sancte Pater” in canto gregoriano – un inno francescano del XIV secolo – invocando la protezione e l’aiuto di San Francesco d’Assisi, profeta del dialogo e della riconciliazione. Il compito è immenso, ma la nuova generazione di frati intende raccogliere la sfida. 

Fr. Elias Giorgios, un fratello siriano in formazione a Roma, guarda i numerosi video che inondano il suo telefono. “Ghassanieh è il mio villaggio natale. È come se fossi in un sogno, non ci posso credere. Sono senza parole, piango... Mia madre e i miei fratelli sono qui. Sono pervaso da una gioia profonda e, allo stesso tempo, sono consapevole dell’entità della distruzione... Ma ho fiducia nel futuro; la gente ha sviluppato un fortissimo senso di appartenenza alla nostra terra durante questi anni di esilio. Aspettano il ritorno dei loro fratelli per poter tornare; si fidano di noi”.

Mentre i festeggiamenti sono ancora in pieno svolgimento sui gradini della Chiesa di Sant’Antonio da Padova, molte famiglie hanno steso tappeti e le risate dei bambini si levano tra le rovine. Si prepara il caffè o il mate e, per quanto folle possa sembrare, oggi tutti sono tornati a casa.

Si tratta di un “evento storico per la Custodia di Terra Santa, un evento di straordinaria portata umana ed ecclesiale”: così scrive Fr. Francesco Ielpo, Custode di Terra Santa, in una lettera indirizzata a tutti i suoi confratelli di Gerusalemme.

https://ofm.org/siria-il-ritorno-dei-cristiani-a-ghassanieh.html?

domenica 16 novembre 2025

Presto il Papa alla celebrazione di Nicea nel suo 1700° anniversario

Reso noto il programma del primo viaggio internazionale di Prevost. A Iznik la preghiera presso i resti della basilica di Nicea, a Istanbul la visita alla Moschea Blu ma non a Santa Sofia (dove si recarono Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI quando era ancora museo). In Libano incontro interreligioso nella piazza dei Martiri e la sosta al porto sventrato dall’esplosione del 2020.

da AsiaNews - 

Sei giornate scandite da sedici discorsi e un fitto susseguirsi di visite a luoghi significativi della storia ma anche a ferite del presente. È il programma della visita apostolica di Leone XIV in Turchia e Libano, il primo viaggio internazionale del suo pontificato, diffuso oggi dalla Sala stampa vaticana a un mese esatto dalla partenza, insieme ai loghi e ai motti di queste due distinte tappe. Come già annunciato, Prevost dal 27 al 30 novembre Prevost sarà in Turchia dove farà tappa ad Ankara, Istanbul e Iznik per commemorare insieme al patriarca Bartolomeo i 1700 anni del Concilio di Nicea: tre giornate dal profondo carattere ecumenico che saranno contrassegnate dal tema “Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef 4,5). Dal pomeriggio del 30 novembre, poi, si sposterà in Libano dove a Beirut e in alcune altre località del Paese porterà un messaggio di dialogo e riconciliazione tra le diverse comunità, incentrato sulle parole del Vangelo di Matteo “Beati gli operatori di pace”.

Leone XIV partirà da Roma la mattina del 27 novembre alla volta di Ankara, la capitale della Turchia, dove appena arrivato visiterà il mausoleo di Ataturk, incontrerà il presidente Recep Tayyip Erdogan e terrà il discorso alle autorità, alla società civile e al corpo diplomatico. Già alla sera stessa si sposterà poi a Istanbul. Qui la mattina successiva incontrerà i vescovi, i sacerdoti e gli operatori pastorali nella cattedrale cattolica dello Spirito Santo e visiterà una casa di accoglienza per anziani delle Piccole Sorelle dei Poveri. Nel pomeriggio andrà a Iznik, la città dove si trovano gli scavi archeologici dell’antica Nicea, dove nell’anno 325 si tenne lo storico Concilio che definì la professione di fede che tuttora unisce i cristiani di ogni confessione. Qui - nei pressi dei resti dell’antica basilica - si terrà un grande incontro ecumenico di preghiera.

Tornato a Istanbul la mattina di sabato 29 novembre Leone XIV visiterà la monumentale moschea Sultan Ahmet (nota come la Moschea Blu). A differenza di quanto accaduto nei precedenti viaggi di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, non è invece al momento prevista la visita di Santa Sofia, la storica basilica cristiana fatta erigere nel VI secolo dall’imperatore Giustiniano. Trasformata prima in moschea e poi in museo da Ataturk, dal 2020 è stata riconvertita da Erdogan al culto islamico.

Il resto del programma in Turchia sarà dedicato agli incontri con le altre Chiese e comunità cristiane: nel pomeriggio di sabato 29 è prevista la firma di una dichiarazione congiunta con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, prima della Messa con la comunità cattolica alla Volskwagen Arena. La mattina di domenica 30 novembre, infine, il papa parteciperà alla chiesa patriarcale di san Giorgio alla Divina liturgia in occasione della festa dell’apostolo Andrea, al termine della quale impartirà la benedizione insieme al patriarca Bartolomeo.

Da Istanbul nel pomeriggio si sposterà poi a Beirut, dove già in serata incontrerà il presidente della Repubblica (il maronita Joseph Aoun), il presidente dell’Assemblea nazionale (lo sciita Nabih Berri) e il primo ministro (Nawaf Salam), prima di tenere il discorso alle autorità, alla società civile e al corpo diplomatico. Lunedì 1 dicembre il pontefice si recherà alla mattina sulla tomba di san Charbel ad Annaya, per poi incontrare i vescovi, il clero, le religiose e gli operatori pastorali presso il santuario mariano di Harissa. Nel pomeriggio - nella cruciale piazza dei martiri a Beirut - avverrà l’incontro ecumenico ed interreligioso, che sarà seguito da quello con i giovani nel piazzale del patriarcato maronita a Bkerké.
L’ultima giornata del 2 dicembre, infine, dopo la vista all’ospedale de la Croix di Jal el Deib, un momento molto significativo del viaggio di Leone XIV sarà la sosta in preghiera silenziosa davanti al luogo della gigantesca esplosione nel porto di Beirut che il 4 agosto 2020 uccise 218 persone e ne ferì altre 7mila. Presiederà poi la Messa nel Beirut Waterfront, prima della cerimonia di congedo e della partenza per Roma.

https://www.asianews.it/notizie-it/Ecumenismo-e-ferite-di-oggi-nelle-tappe-di-Leone-XIV-a-Istanbul-e-Beirut-64156.html

Il viaggio di Leone XIV in Libano:  «Una speranza per tutta la regione»

Durante il suo viaggio in Libano dal 30 novembre al 2 dicembre, papa Leone XIV visiterà la tomba di San Charbel, nel monastero di Saint-Maron, ad Annaya, luogo sacro della Chiesa maronita. Un gesto che dovrebbe contribuire ad accrescere la crescente influenza dell'eremita libanese in Occidente.

L'Occidente sembra rivolgersi sempre più a San Charbel, monaco libanese, maronita ed eremita, al quale vengono attribuiti circa 30.000 miracoli. Perché infatti privarsi dell'intercessione di un santo taumaturgo così potente? In pochi decenni, san Charbel è passato da una devozione locale a una fama piuttosto fulminea nel mondo occidentale, incoraggiata dai papi che si sono succeduti. Beatificato nel 1965 e poi canonizzato nel 1977 da papa Paolo VI, san Charbel ha un mosaico con la sua effigie installato nel gennaio 2024 nelle grotte vaticane e si appresta a ricevere la visita di papa Leone XIV durante il suo primo viaggio all'estero.

Il 27 ottobre la Santa Sede ha reso noto il programma del viaggio di Leone XIV in Turchia e Libano, dal 27 novembre al 2 dicembre 2025. Nel Paese dei Cedri, Leone XIV si recherà la mattina del 1° dicembre sulla tomba di San Charbel, nel monastero di San Marone, ad Annaya. Un gesto forte che riflette non solo l'attaccamento del Papa al monaco libanese, ma che significa anche il legame che la Santa Sede intrattiene con la comunità maronita, la più importante comunità cristiana del Libano.

Sebbene i suoi predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si fossero recati in Libano nel 1997 e nel 2012, non avevano visitato il monastero di San Marone. È lì che San Charbel trascorse la maggior parte della sua vita: 16 anni di vita comunitaria tra i monaci di Annaya e 23 anni di vita solitaria nell'eremo dei Santi Pietro e Paolo, fino alla sua morte all'età di 70 anni.

Il santo dai 30.000 miracoli:
Da allora, il monastero di San Marone ad Annaya è diventato un importante luogo di pellegrinaggio nazionale e internazionale. La tomba di San Charbel attira ogni anno migliaia di pellegrini desiderosi di rendere grazie per un beneficio ricevuto, di affidare le proprie intenzioni o semplicemente di raccogliersi in preghiera sulla tomba dell'eremita libanese al quale il monastero attribuisce non meno di 29.600 miracoli. Dalla sua morte, migliaia di lettere provenienti da 133 paesi diversi sono state inviate al monastero per chiedere l'intercessione del santo taumaturgo o per rendere grazie per un miracolo.

La preghiera al porto di Beirut:

Non dimentichiamo inoltre che il Papa si recherà al porto di Beirut per pregare:
Memoria e giustizia: la preghiera al porto
La preghiera silenziosa sul luogo dell'esplosione del porto è un punto di svolta morale: si tratta di stare di fronte al dolore, onorare le vittime, ringraziare i soccorritori e affidare a Dio la ricerca della verità e della giustizia. Il silenzio non elimina l'esigenza di rendere conto, ma la nobilita, rifiutando la rabbia sterile e invocando istituzioni che funzionino. Questo gesto tocca l'intera nazione: guarisce la memoria aprendo uno spazio di dignità, dove c'è compassione.

da Facebook


Per una lettura più approfondita, segnaliamo il link al documento della Commissione Vaticana che approfondisce la teologia del dogma di Nicea:

https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_doc_20250403_1700-nicea_it.html

martedì 11 novembre 2025

Un jihadista alla Casa Bianca

Il presidente siriano, ex Isis ed ex Al-Qaeda, incontra Trump a Washington, che fino a pochi mesi fa lo ricercava come «terrorista». Il leader jihadista oggi è utile all'Occidente, ma la persecuzione delle minoranze dimostra che ancora non ci si può fidare


di LEONE GROTTI , Tempi , 11 novembre 2025

Quindici anni fa Ahmed al-Sharaa, aka Abu Muhammad al-Jolani, languiva in una prigione americana dopo essersi unito all’Isis in Iraq ed essere stato arrestato. Ieri il jihadista, che ha militato anche in Al-Qaeda e che fino a pochi mesi fa aveva sulla testa una taglia da 10 milioni di dollari, ha incontrato nello Studio Ovale Donald Trump in qualità di presidente della Siria. Non si è limitato a stringergli la mano, come a maggio in Arabia Saudita, ha anche accettato di far entrare la Siria nella coalizione di paesi che combattono lo Stato islamico.

La giravolta non potrebbe essere più perfetta. Anche se Al-Sharaa non fa più parte dell’Isis, anche se lo ha combattuto attivamente quando ha deciso di mettersi in proprio e anche se i suoi uomini formalmente appartenevano a un nuovo gruppo terroristico denominato Hayat Tahrir al-Sham, oggi confluito nell’esercito regolare, non c’è alcuna differenza tra loro nelle metodologie e negli obiettivi perseguiti. A cambiare è solo un piccolo ma fondamentale dettaglio: il colpo di Stato di Al-Sharaa, godendo degli appoggi giusti, è riuscito, quello degli altri fondamentalisti no.

Al-Sharaa non è più un «terrorista»

Per permettere l’arrivo negli Stati Uniti del presidente siriano, il primo da quando il paese è diventato indipendente dalla Francia nel 1946, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha votato giovedì la rimozione delle sanzioni che lo colpivano personalmente. Subito dopo gli Usa lo hanno cancellato dalla lista dei «terroristi globali».  Washington ha anche sospeso per sei mesi la maggior parte delle sanzioni contenute nel Caesar Act, approvato per punire gli abusi dei diritti umani del governo dell’ex dittatore Bashar al-Assad.  Secondo alcuni analisti, Al-Sharaa voleva l’eliminazione definitiva delle sanzioni da parte del Congresso Usa ma ha ottenuto soltanto una sospensione parziale, una decisione che Trump poteva prendere autonomamente.

La persecuzione delle minoranze in Siria

Per quanto la rimozione delle sanzioni sia fondamentale per far rinascere la Siria e dare respiro a tutta la popolazione, gli abusi che andavano a colpire non sono spariti con la fine del regno di Assad.

Gli alawiti, il gruppo religioso al quale apparteneva l’ex presidente, continuano a essere perseguitati: dopo un primo pogrom, in particolare le donne vengono rapite e stuprate e sono già 50 le vittime di tali crimini tra gennaio e aprile 2025.

Nel sud del paese l’enclave drusa non è ancora fuori pericolo dopo il massacro di Sweida, nel quale sono morte almeno 2.000 persone uccise dai miliziani legati ad Al-Sharaa ed è solo grazie all’intervento di Israele se la minoranza non è stata trucidata.

Omicidi e violenze contro i cristiani

Anche la situazione dei cristiani nella nuova Siria è preoccupante. Ieri un cristiano di Rableh, nella provincia di Homs, è stato ucciso da una banda di assalitori con un colpo di arma da fuoco in mezzo alla strada. Il giorno precedente una cristiana anziana era stata assassinata in casa propria ad Aleppo. Settimana scorsa, un orafo cristiano di Jaramana, alla periferia di Damasco, è stato derubato e assassinato all’interno del suo negozio.

Quindici giorni fa un macellaio cristiano dell’area di Homs è stato accusato di generiche «violazioni» e rinchiuso in carcere senza processo. Settimana scorsa è stato trovato morto in cella con evidenti segni di tortura sul corpo.

Omicidi e aggressioni hanno ormai cadenza settimanale. Le comunità cristiane siriane accusano le bande armate islamiste che hanno combattuto con Al-Sharaa e che non hanno abbandonato le armi, nonostante non siano confluite nell’esercito, di infestare il paese e di agire indisturbate, prendendo di mira soprattutto le minoranze religiose.

Alle violenze si aggiunge il problema dell’impunità: nessuno di questi crimini è stato perseguito dalle autorità. Il governo di Al-Sharaa, infatti, è ancora estremamente debole e non può permettersi di inimicarsi i jihadisti.

«La Chiesa in Siria sta morendo»

Come dichiarato ad Aiuto alla Chiesa che soffre dall’arcivescovo siro-cattolico di Homs, Jacques Mourad, «la Chiesa in Siria sta morendo. La gente è sotto pressione. Non pensate che ci stiamo dirigendo verso una maggiore libertà, sia essa religiosa o di altro tipo».

Lauren Homer, responsabile del Medio Oriente per il Forum internazionale sulla libertà religiosa di stanza a Washington, ha dichiarato: «Nelle ultime settimane una serie di assassinii mirati ha colpito gli abitanti della Valle dei cristiani (una serie di città e villaggi nel centro della provincia di Homs – ndr) solo perché hanno rifiutato di cedere alle richieste degli uomini armati di abbandonare le loro case o i loro negozi. Questa gente minaccia così i cristiani: “Siete i prossimi. Vi cacceremo via. Questo è il nostro territorio”».

Le Fds entrano nell’esercito regolare

La Siria è ancora un cantiere aperto: Al-Sharaa si è autoproclamato presidente, la Costituzione provvisoria istituisce la sharia e chiede alle minoranze di deporre le armi senza offrire loro un ruolo nel governo del paese, il Parlamento provvisorio non è stato eletto dalla popolazione, ma da sottocommissioni che nella scelta dei delegati non hanno valorizzato la diversità religiosa ed etnica della Siria, il paese è ancora alla mercé di bande armate che nessuno ha interesse a contrastare.

Nonostante questo, Al-Sharaa viene portato in palmo di mano dalla diplomazia mondiale, in particolare dai paesi sunniti della regione, Recep Tayyip Erdogan su tutti, che si sono finalmente liberati di uno scomodo alleato dell’Iran, anche se al suo posto è arrivato un terrorista.

Anche agli Stati Uniti il presidente siriano potrebbe tornare utile: soprattutto se prendesse in mano la guerra all’Isis e lasciasse gli Usa liberi di richiamare i propri soldati schierati in Siria e se accettasse di firmare gli Accordi di Abramo con Israele (anche se Tel Aviv non si fida).

Trump sembra avere ottenuto ciò che voleva: la Siria combatterà l’Isis e probabilmente Al-Sharaa si è detto disponibile a trovare un accordo con Israele. Significativo anche che il governo siriano abbia annunciato che le Forze democratiche siriane alleate degli Usa entreranno nell’esercito regolare: ora toccherà agli uomini di Al-Sharaa fare la guardia a un totale di 50 mila persone riconducibili all’Isis rinchiuse nelle prigioni sorvegliate dalle Fds (8-10 mila elementi) e nei campi profughi che ospitano le famiglie dei combattenti. Così sarà più semplice il disimpegno dei soldati americani.

Al-Sharaa dimostri che la Siria è davvero cambiata

Trump si è detto soddisfatto al termine dell’incontro e si è complimentato con Al-Sharaa: «Con lui la Siria può tornare un paese di successo». Sulla possibilità del jihadista di restare in sella (sono già stati sventati numerosi attentati dell’Isis volti a ucciderlo e alcuni religiosi estremisti hanno definito «eretico» l’ingresso della Siria nella coalizione anti-Isis degli «infedeli») restano però molti dubbi.

È anche possibile che il leader jihadista, per pragmatismo, sia disposto a governare in modo diverso dal modo in cui ha gestito la provincia dell’Idlib durante il dominio islamista. Ma i suoi miliziani non hanno conquistato il paese e fatto la guerra ad Assad per oltre un decennio per rispettare le minoranze e governare in modo democratico la Siria.

Anche per questo Trump ha fatto bene a limitarsi a sospendere le sanzioni per sei mesi, invece che cancellarle definitivamente. Prima di farlo, Al-Sharaa deve dimostrare che la Siria è davvero cambiata. A un anno dalla presa del potere non è ancora accaduto.

@LeoneGrotti

mercoledì 5 novembre 2025

Osare le pace, anche in Terra Santa

 


 di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org

La messa inaugurale dell’Incontro internazionale ‘Osare la pace’ è stata presieduta domenica 26 ottobre 2025 in San Giovanni in Laterano dal cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme dei Latini. La sua omelia ha preso spunto dal Vangelo del giorno, quello della parabola del fariseo e del pubblicano, saliti al tempio per pregare (Lc 18, 9-14)…

Il fariseo, il pubblicano: 

Siamo dunque nel tempio, dove due uomini salgono per pregare. Due uomini, due preghiere, due cuori. Uno si presenta con l’orgoglio di chi si ritiene giusto; l’altro con l’umiltà di chi si riconosce peccatore. Il fariseo, pur osservando la Legge, non entra in relazione con Dio. Alza lo sguardo, ma non guarda a Dio: vede solo se stesso. Parla di sé, si confronta con gli altri, giudica. Non è descritto come ipocrita: è sinceramente religioso, e compie persino più di quanto la Legge richieda. Proprio per questo si sente a posto, con la coscienza tranquilla, e si ritiene migliore degli altri. Il pubblicano, invece, si affida. Tiene lo sguardo abbassato, ma è guardato da Dio, a differenza del fariseo. Riconosce il proprio peccato senza giustificarsi, senza difendere la propria condotta. Non minimizza i propri errori, ma si presenta davanti a Dio così com’è, senza maschere. Non cerca scuse, non si paragona, non si assolve da solo. Si limita a dire: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, e così si pone davanti a Dio nella verità. La verità di chi riconosce che solo Dio è giusto, e che nella Sua giustizia accoglie ogni uomo, anche il peccatore. In Dio, misericordia e giustizia sono inseparabili: fare giustizia significa perdonare.

Quanti farisei nel mondo!

 L’atteggiamento del fariseo è più diffuso di quanto sembri. È l’atteggiamento di chi confida nella forza, nella superiorità morale, nella presunzione di essere nel giusto. Di chi, di conseguenza, si arroga il diritto di giudicare gli altri e di interpretarli a proprio piacimento: “Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano” (Lc 18,11). Un atteggiamento che può annidarsi non solo nel cuore delle persone, ma anche in molte istituzioni, noi compresi. Un atteggiamento che, anziché costruire relazioni con Dio e tessere legami giusti con l’uomo, innalza barriere, genera incomprensione, fomenta violenza. Quanta sofferenza si può causare in nome della propria idea di giustizia, imposta e fuori da un contesto di rispetto e di ascolto!

Terra Santa e idea della forza risolutiva: 

Penso, in questo momento, alla nostra Terra Santa. Un odio profondo e lacerante ci ha invaso, creando divisioni tra i popoli e all’interno degli stessi popoli. Opinioni legittimamente diverse si trasformano in giudizi taglienti, che feriscono profondamente le relazioni. Come il fariseo, anche oggi molti si ergono a giudici, convinti di essere nel giusto. Ma il Vangelo ci ricorda che non è la forza del nostro giudizio a giustificarci, bensì la verità del nostro cuore davanti a Dio. Domina l’idea che la forza sia condizione necessaria per costruire la pace, che solo con le armi si possa imporre una soluzione giusta ai conflitti, che per fare giustizia sia necessario annientare l’avversario. Eppure, abbiamo visto quali macerie materiali, umane e spirituali tutto questo ha prodotto. Il nostro tempo sembra segnato da conflitti, da ferite aperte, da popoli che si guardano con sospetto o con paura. Ognuno è convinto di essere nel giusto, che ciò che ha fatto e continua a fare sia legittimo, persino necessario. È un circolo vizioso difficile da spezzare. Certo, c’è anche tanto dolore. Una sofferenza autentica, che merita rispetto e ascolto, e che nessuno ha il diritto di minimizzare.

Costruire la pace: 

La pace si fonda sulla fede e sulla conversione a Dio. Sullo stare nel modo giusto davanti a Lui, come il pubblicano, non come il fariseo. Quando riconosciamo che senza Dio non possiamo nulla. Se invece costruiamo la convivenza umana solo su modelli esclusivamente umani, sull’idea di potenza e di superiorità, allora costruiamo sulla sabbia. Un edificio che, alla fine, crollerà. Quando l’uomo si fa padrone di se stesso, finisce per rovinarsi. Quando le istituzioni, anziché servire le proprie comunità, si sentono superiori e autosufficienti, generano rovina. La pace non si costruisce con le dichiarazioni, ma con cuori che si lasciano toccare da Dio e dall’altro. (…) La pace non è soltanto una convenzione sociale, un armistizio, una tregua o l’assenza di guerra, frutto di sforzi diplomatici o di equilibri geopolitici, pur necessari. La pace è riconoscere la verità e la dignità di ogni uomo, è saper vedere nell’altro il volto di Dio. Quando il volto dell’altro si dissolve, svanisce anche il volto di Dio, e con esso la possibilità di una pace autentica. Nessuno è un’isola: distruggere il volto dell’altro significa dissolvere anche il proprio.

Parole esigenti e i pubblicani di oggi: 

La pace è frutto di giustizia, di verità, di misericordia. È il volto di Dio che si riflette nei nostri volti, quando ci lasciamo riconciliare con Lui e tra di noi. Misericordia, giustizia, verità, pace: parole centrali nella vita del mondo, ma che possono sembrare lontane dall’esperienza concreta di tanti popoli. Parole esigenti, che in Terra Santa – da dove provengo – suscitano talvolta persino fastidio. Perché appaiono come slogan, parole vuote, distanti dalla realtà di chi è schiacciato da conflitti atavici. Eppure, la testimonianza di persone coraggiose – i pubblicani di oggi – anche nel dramma del nostro tempo, ha restituito concretezza e verità a queste parole. È la testimonianza di chi sa battersi il petto (Lc 18,13), riconoscersi bisognoso di misericordia, e perciò capace di offrirla; di chinarsi sulle ferite altrui; di scorgere negli altri il volto di Dio. Giovani che il 7 ottobre hanno perso gran parte della loro famiglia e oggi dedicano il loro tempo ad aiutare altre famiglie devastate da quel giorno. Altri che, sotto le bombe, offrono protezione. Famiglie affamate che condividono il poco che hanno a chi ha perduto proprio tutto. Giovani che rischiano la vita per soccorrere feriti e malati. Madri che si uniscono per prendersi cura dei bambini rimasti soli. Insegnanti senza scuola che non rinunciano a cercare i loro alunni per continuare a istruirli. E tanti altri ancora. Abbiamo bisogno di questi testimoni. (…)  Saranno loro a ricostruire nuovi modelli di convivenza dalle macerie di questo tempo.

venerdì 24 ottobre 2025

Il volto nuovo di Fons Pacis

Newsletter Fons Pacis 2025

Carissimi,
la nostra newsletter è un po’ discontinua, ma...sappiamo che siete degli amici e ci perdonate. Se pensate che sia a causa delle “vacanze”, vi sbagliate: periodo intensissimo per noi, in questi ultimi mesi. La partenza al cielo delle nostre sorelle ci ha lasciato una grande eredità da raccogliere, a partire da tutto ciò che riguarda la liturgia, ad esempio imparare bene le parti di repertorio per il quale ci appoggiavamo sulla voce di Marita, e continuare il lavoro che lei ha già preparato sulle antifone, gli inni, e il materiale in arabo da completare..
Poi c’è il lavoro della campagna, che dà i suoi frutti: quest’anno un’uva buonissima e abbondante pomodoro per le conserve, il succo di melograno e di gelso da preparare, la marmellata di fragole... Rendiamo grazie a Dio per tanta abbondanza! Come sempre, i prodotti in eccedenza di orto e frutteto, una volta messe da parte le riserve, li condividiamo con i nostri operai. In luglio abbiamo avuto la gioia di una triplice visita, quella dei nostri superiori diretti. 
Mère Anne-Emmanuelle Dom Emmanuel in realtà non hanno mai tralasciato di venire, anno dopo anno, da quando il Capitolo ci ha affifìdate a loro. E questa è la loro terza visita consecutiva. Ma questa volta si è unita a loro anche Md. Giovanna, badessa del monastero di Matutum, nelle Filippine. Siamo state molto contente che abbia potuto conoscere dal vivo la comunità e il luogo.
Con loro abbiamo ringraziato per il dono della vita delle nostre sorelle Marita e Adriana, e abbiamo dialogato per affrontare la nuova tappa della comunità: assumere insieme il volto nuovo di Fons Pacis, cercando le priorità su cui impegnarci. Il nostro Abate Generale ci ha scritto per l’occasione di questa Visita una lettera veramente incoraggiante, di cui siamo grate. 


Arriva Natale

In questo mese di ottobre e novembre stanno riprendendo anche a venire i gruppi di ospiti nella nostra foresteria.. Ringraziamo il Signore, per noi è sempre una grazia e speriamo che sia anche un segno di ripresa di una vita più serena e normale..

E... si avvicina Natale: se volete e potete sostenerci, vi ricordo che i nostri saponi e creme ormai sono distribuiti in Francia, e disponibili anche in Italia; aiutateci a diffonderli, magari per fare qualche regalino... 

Potete scrivere a prodottiazer@gmail.com. Gli amici che se ne occupano (Attilio, Maria, Stefano, Alberto & C) vi aiuteranno.

(Scarica il catalogo

 

 A presto, con un abbraccio... e alla prossima newsletter,

       Madre Marta Fagnani


Aiuta a costruire un luogo

di Pace in terra di Siria!