Testimonianza dalla roccaforte jihadista di Idlib: “Resteremo cristiani fino alla morte”
Da Knayeh, non distante da Idlib, ultima roccaforte dei ribelli anti-Assad e dei jihadisti filo-qaedisti del fronte Hayat Tahrir al-Sham (al-Nusra), arriva la testimonianza dei pochi cristiani rimasti sostenuti dagli unici religiosi, due frati della Custodia di Terra Santa, rimasti al loro fianco, padre Hanna Jallouf e padre Louai Bsharat. Minacciati da rapimenti e omicidi, privati di case e terreni, tollerati nel culto sottoposto a rigide restrizioni: "Ai fondamentalisti diciamo che siamo cristiani e lo resteremo fino alla morte. Anche se nella sofferenza viviamo un tempo di grazia"
di
Daniele Rocchi
Agensir,
25 settembre 2018
“Ringraziamo
il Signore che ancora siamo vivi”. La
voce di padre Hanna
Jallouf,
66 anni, francescano siriano della Custodia di Terra Santa, è quella
dei cristiani che vivono nei villaggi di Knayeh, Yacoubieh e Gidaideh
che si trovano nella zona di Idlib, nel nord della Siria, ultimo
bastione degli oppositori al presidente siriano Assad e dei
terroristi islamisti. Qui, a poca distanza dal confine turco, si sono
concentrati, in questi anni di guerra, decine di migliaia di
combattenti, anche stranieri, del fronte Hayat Tahrir al-Sham –
gruppo jihadista di ideologia salafita, affiliato ad Al-Qaeda ed
erede del meglio conosciuto Jabhat Al Nusra – decisi a non
arrendersi all’esercito regolare siriano e ai suoi alleati russi e
iraniani. Nei giorni scorsi si era parlato di un’imminente attacco
volto alla riconquista della roccaforte jihadista poi rientrato in
seguito al vertice di Sochi, sul Mar Nero, durante il quale il
presidente russo Putin e il leader turco Erdogan hanno trovato un
accordo per creare, intorno a questa area contesa, una zona
demilitarizzata. L’accordo dovrebbe portare al “ritiro di tutti i
combattenti radicali” da Idlib, scongiurando una crisi umanitaria
di vaste proporzioni dal momento che nell’area vivono anche due
milioni e mezzo di siriani, molti dei quali sfollati interni.
Una
sofferenza comune. L’accordo
ha fatto tirare un sospiro di sollievo a padre Hanna, e al suo
confratello Louai Bsharat, gli unici religiosi cristiani rimasti a
Knayeh e Yacoubieh, nei conventi di san Giuseppe e di Nostra Signora
di Fatima. Allontanato per ora lo spettro di nuovi combattimenti, sul
terreno restano i problemi di sempre e “condizioni di vita sempre
più dure man mano che sale la tensione”.
“Non
sappiamo come andrà a finire – dice padre Hanna che è parroco
latino di Knayeh – i ribelli non intendono né arrendersi né
ritirarsi. Se lo facessero tutti noi che viviamo qui, cristiani e
musulmani, ne trarremmo giovamento. Anche i nostri fratelli musulmani
soffrono molto. Vengono costretti ad andare in moschea e a seguire
pratiche che sono solo nella mente di questi fanatici”.
Cristiani
vittime di rapimenti e omicidi. Dal
canto loro i cristiani di Knayeh e Yacoubieh vivono rintanati in casa
terrorizzati. “La paura è enorme per le nostre comunità già
povere – dichiara il frate -. Gli aiuti non arrivano come un
tempo e sono iniziati i rapimenti non conosciamo gli autori di
questi crimini, se siano semplici malviventi o membri delle milizie
che controllano la zona. Alcuni
giorni fa è stato rapito il nostro avvocato e la famiglia ha dovuto
sborsare circa 50mila dollari per il suo rilascio. Una cifra
enorme”. Anche
padre Hanna ha vissuto l’esperienza del rapimento: venne prelevato
da miliziani del fronte Jahbat Al-Nusra, nell’ottobre del 2014, con
16 parrocchiani. “Dopo diversi giorni sono stato riportato al mio
convento di Knayeh”, ricorda il religioso.
“Volevano
costringerci alla conversione e prenderci il convento. Ma siamo
rimasti saldi nella fede e tornati a casa più forti e motivati di
prima”.
Adesso
ai rapimenti si sono aggiunte le esecuzioni sommarie e gli
omicidi: “Il
19 settembre – rivela padre Hanna – un uomo, da sempre vicino
alla nostra parrocchia, è stato ucciso. La sua unica colpa? Quella
di aiutare i cristiani”. Nella
comunità locale cresce la paura e nessuno vuole uscire più.
“Nessuno va più a lavorare i propri terreni. Dentro casa si
sentono più al sicuro”. Tuttavia i timori vengono messi da parte
quando si tratta di andare a messa. “Ogni giorno vengono in
chiesa almeno 50-60 persone. La domenica sono molte di più perché
arrivano anche dai villaggi vicini. I cristiani che vivono nei tre
villaggi – spiega padre Hanna – sono circa 1.100, tra latini,
armeno ortodossi e greco ortodossi”.
La
loro sofferenza non è di oggi.
“Viviamo così dal 2011, dall’inizio della guerra. Qui sono
passati tutti i gruppi di ribelli e terroristi, da Isis fino ad
al-Nusra e Hayat Tahrir al-Sham – sottolinea il francescano -.
Tutti i preti e i sacerdoti che c’erano sono andati via o fuggiti.
Molte chiese e luoghi di culto armeni e greco ortodossi sono stati
distrutti o bruciati. Tra questi anche il nostro convento di
Ghassanie. Siamo rimasti due frati in due conventi e cerchiamo di
assistere materialmente e spiritualmente i cristiani. La vita è
difficile, manca praticamente tutto, i prezzi per acquistare i beni
necessari sono altissimi. Non abbiamo elettricità e acqua corrente”.
“I
miliziani di al Nusra hanno preso le nostre terre, anche quelle dei
conventi, e hanno cacciato i cristiani dalle proprie case per dare
alloggio ai loro profughi e ai loro combattenti”.
Gli
aiuti ai cristiani locali arrivano dalla Custodia
di Terra Santa e
dalla sua ong “AtsPro Terra Sancta”:
“Ogni mese – racconta padre Hanna – riusciamo a dare alle
nostre famiglie, circa 260, beni di prima necessità come medicine e
latte oltre a voucher per acquistare gasolio per elettricità e
riscaldamento, vestiti e libri scolastici. Abbiamo organizzato anche
un servizio per portare i bambini a scuola. Le scuole non danno
sostegno che per il Corano, l’arabo, l’inglese e la matematica.
Ai nostri alunni diamo anche altro materiale di studio ma
all’insaputa dei gruppi fondamentalisti che controllano la zona. Se
lo sapessero sarebbe un guaio per noi”.
Testimonianza
e martirio.
Nella
tana del fronte qaedista Hayat Tahrir al-Sham questa sparuta comunità
di poco più di 1000 cristiani vive e testimonia la propria fede,
anche se le restrizioni sono tante.
“Le
nostre celebrazioni sono tollerate solo se svolte all’interno della
chiesa, ma ci è vietato esporre all’esterno croci, statue dei
santi, immagini sacre, suonare campane”, spiega il parroco, che poi
rivela: “Due mesi fa sono stato convocato dal tribunale religioso
dove mi è stato intimato di non vestire più l’abito da frate in
quanto segno religioso indicante la fede cristiana. Così mettiamo il
saio in valigia quando dobbiamo muoverci e lo indossiamo nelle zone
dove ci è permesso”.
Padre
Hanna sa bene che questo è il
prezzo da pagare da
chi ha scelto di “restare tra la nostra gente e il nostro popolo.
Restiamo saldi nella fede con la nostra comunità. Qui è nato il
cristianesimo, qui sono le nostre radici. A 500 metri da Knayeh,
nella strada che da Apamea portava ad Antiochia è passato san Paolo. Ai
fondamentalisti diciamo che siamo cristiani e lo resteremo fino alla
morte. I
nostri avi sono nati e morti qui. Così faremo anche noi”.
“La
situazione è grave – conclude padre Jallouf – ma continuiamo a
pregare e sentiamo ogni giorno sentiamo la mano di Dio che veglia su
di noi. Preghiamo
per la pace in Siria, perché finisca questa strage inutile. Abbiamo
paura del futuro ma nel dolore e nella sofferenza viviamo un tempo di
grazia”.
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