di: Marinella Correggia da Aleppo
L'Ordine.La ProvinciadiComo, 4 giugno 2017
A
Herat, nell’Afghanistan occidentale, il supervisore
dell’organizzazione di sminatori Said Karim aveva allestito un
«museo degli orrori»: esemplari delle migliaia di mine, granate e
altri ordigni estratti e disinnescati nella bonifica dei suoli
restituiti alla vita. Il museo voleva aiutare la memoria
post-bellica. Era fiorente anche l’attività di un fabbro che
ricavava zappe e vanghe dai rottami ferrosi.
Forgeranno
le loro spade in vomeri.
Ad
Aleppo, Siria, suor Arcangela Orsetti coltiva una forma di arte dal
riciclo che potremmo definire anti-bellica. Religiosa lucchese delle
suore di San Giuseppe dell’Apparizione, vive nella città siriana
da più di 40 anni e con cinque
consorelle gestisce l’ospedale Saint Louis. Nel suo inesistente
tempo libero in lunghi anni di guerra, suor Arcangela si è ingegnata
a «trasformare oggetti di morte in simboli di vita e riscatto».
Un enorme bossolo metallico contiene un ramo d’ulivo. Le mani della
suora («fervide come la sua fantasia», osserva sorridendo
suor Thèrese) hanno unito proiettili a formare scritte di pace in
varie lingue, simboli cristiani classici,
rosari, una colomba. Arredi sui muri e sulle finestre
dell’ospedale. Pezzi di ordigni e ferraglia assortita si sono
trasformati in portacandele, assai utili in questi ultimi anni di
black-out, quando l’ospedale era interamente affidato al generatore
a diesel – e nelle settimane più difficili non arrivava nemmeno
quello, in città.
«Ho
cominciato all’inizio della guerra, perché erano piovuti sulla
terrazza dell’ospedale, in giardino e nei dintorni proiettili e
pezzi di mortaio sparati dai musallahin
(così in arabo sono definiti gli
uomini armati che non fanno parte di un esercito regolare,
ndr).
Poi il personale ospedaliero, visto cosa stavo facendo, nel tragitto
fra la casa e qui ha cominciato a raccogliere per me pezzi non
pericolosi».
L’ospedale
nasce nel 1912, ma le prime suore
arrivano in Siria dalla Francia nel 1856,
a dorso di asinello. Sono obbligate a partire durante la prima guerra
mondiale. Ma durante quest’ultima guerra mondiale a pezzi, le
suore di San Giuseppe non si sono mai mosse da
Aleppo in questi anni di pericolo talvolta estremo, a partire dal
2012: «Mi dicevano: “Tu che non
sei siriana sei rimasta qua mentre tanti sono andati via”. Del
resto, Gesù ci ha detto “non c’è gioia più grande che donare
la vita per coloro che amiamo. E io amo questo popolo. E poi San
Giuseppe là sul tetto ci ha protetti al meglio»,
dice semplicemente suor Arcangela.
Sul
cellulare conserva foto per lei preziose: un sacerdote ortodosso
grande e grosso le regala una rosa mentre lascia l’ospedale,
guarito; un bambino calzolaio fa i compiti per terra fuori da un
portone; una donna pulisce verdure sul balcone di casa, niente di
speciale se non fosse che tutto intorno sono rovine.
Negli ultimi anni, di
guerra, ad Aleppo «abbiamo sofferto, sì, e rischiato; non
andavamo nel rifugio, nelle ore più pericolose, per rispetto verso
gli ammalati in corsia». Al Saint Louis, il programma «Feriti
di guerra» portato avanti insieme
all’organizzazione dei Fratelli Maristi ha curato negli anni
centinaia di persone. Si calcola che nel Paese gli amputati di guerra
siano ormai 30mila. E in questa parte occidentale di Aleppo, che
essendo sotto il controllo governativo non è mai stata sotto i
riflettori internazionali, 15mila persone sono morte dal 2012 colpite
dai razzi, dalle esplosioni, dalle bombole del gas ripiene (chiamate
«bombe dell’inferno») lanciate dai
jihadisti asserragliati in Aleppo Est; là, interi quartieri sono
distrutti da una guerra i cui fronti erano ravvicinati, dentro la
città.
Al
primo piano del Saint Louis, suor Lydia cura fra gli altri un uomo al
quale - a causa di una mina - è stata tagliata una gamba; l’altra
è in brutte condizioni; «oggi è
meno depresso, perché dopo un mese lontano dalla famiglia ha rivisto
moglie e figlia». Se le si chiede
«Che cosa vorrebbe dire o chiedere
all’Occidente?», la suora
libanese aggrotta la fronte e risponde secca: «Sì, da
anni ho una domanda: come mai lì da voi combattete gli integralisti
e qui li avete aiutati, se non lo fate ancora? Sono gli stessi, con
altre etichette».
Mirna
detta Mimì è una aiuto infermiera etiope,
di Addis Abeba, «vicino all’aeroporto» precisa. Lavora
nell’ospedale da 10 anni per mandare denaro a casa. Come hai fatto
in questi anni, quando tutta la notte anche quest’area di Aleppo
era bersagliata di colpi e scossa dalle esplosioni? «Certo la
vita non è stata facile, ma non ho avuto molta paura». E
adesso, che era arrivata una parvenza di normalità, ecco il
presidente statunitense con i suoi missili…«Trump, crazy!»,
taglia corto Mimi.
Anita è filippina; faceva la domestica presso una
famiglia abbiente che è partita lasciandola come custode della casa;
là si annoia, così arrotonda venendo ad aiutare in cucina. Nel
corridoio passa, sorridente sotto il velo, una
lavoratrice indonesiana appena arrivata. Per compensare
qualcuno che ha lasciato Aleppo. Il personale non siriano è sempre
più necessario, anche se, pagato in dollari, costa adesso di più;
il cambio lira siriana-dollari è stato sconvolto dalla guerra.
Come
tutta l’economia. E su questo crollo si innestano, come un cauterio
su una gamba di legno, le sanzioni economiche occidentali contro la
Siria. Il loro effetto ce lo spiega suor Thérèse, percorrendo
un’ala vuota dell’ospedale: «Il cateterismo cardiaco
è in questo momento fuori uso; finché non avremo i
pezzi di ricambio richiesti». Il fatto è, dice la libanese suor
Samia, che «per esempio, un’attrezzatura dalla Germania che
prima arrivava direttamente in aeroporto e andavamo a sdoganarla, ora
deve arrivare a Dubai, poi a Beirut, poi fin qua via terra. Sempre
che non si perda». Eppure, le sanzioni non riguardano le
attrezzature sanitarie…«sarà, ma si ripercuotono su tutto, lo
sperimentiamo noi», conferma la religiosa.
La
Siria è una grande produttrice di farmaci, ma non di certe
apparecchiature mediche, e non è per oggi l’indipendenza economica
in quel campo. Forse potrebbe andare un po’ meglio nel settore
energetico. Sui tetti a terrazza dell’ospedale, vicino alla statua
di San Giuseppe ecco i pannelli solari termici per il riscaldamento
dell’acqua. Ne è dotata anche la vicinissima moschea. Sotto,
nelle strade, semafori e rotonde funzionano con il fotovoltaico.
Forse le nuove energie avranno un posto nella ricostruzione della
Siria.
Ma,
intanto, «la guerra non è certo finita», dice suor Samia. I
colpi di cannone che si sentono in lontananza lo confermano. Dice
Suor Arcangela: «Il
percorso per una duratura pace è ancora lungo; i fronti aperti sono
tanti».
In una lettera ai
benefattori scritta in piena guerra, le responsabili
dell’ospedale scrivevano: «I grandi del mondo vogliono non la
pace ma i loro interessi geopolitici ed economici. E la sofferenza è
raddoppiata per la disinformazione sui vostri media, che ci arriva
fin qua».
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