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giovedì 16 gennaio 2025

Come l'Occidente ha distrutto la Siria

 

Rick Sterling, How the West Destroyed Syria, 11 gennaio 2025

Tradotto da Maria Antonietta Carta 

Durante molti anni, Peter Ford ha lavorato presso il Ministero degli Esteri del Regno Unito. Fu ambasciatore in Bahrein (1999-2003) e poi in Siria (2003-2006). In seguito, è stato rappresentante nel mondo arabo per il Commissario generale dell'Agenzia delle Nazioni Unite. Rick Stering lo ha intervistato il 6 gennaio 2025.


Rick Sterling: Perché secondo lei l’esercito e il governo siriano sono crollati così rapidamente?

Peter Ford: Tutti siamo stati sorpresi, ma col senno di poi non avremmo dovuto esserlo. Nel corso di oltre un decennio, l’esercito siriano si è logorato a causa della drammatica situazione economica, causata principalmente dalle sanzioni occidentali. La Siria aveva solo poche ore di elettricità al giorno, niente acquistare per acquistare armi e nessuna possibilità di utilizzare il sistema bancario internazionale. Non sorprende che l’esercito sia stato abbattuto. Con il senno di poi, si potrebbe dire che dovremmo piuttosto sorprenderci che il governo siriano e l’esercito siano riusciti per anni a respingere gli islamisti. L’esercito siriano li aveva costretti nella ridotta di Idlib quattro o cinque anni fa, ma da quel momento in poi si è indebolito, diventando meno pronto a combattere sia a livello tecnico sia morale. I soldati siriani, in larga parte coscritti, hanno sofferto tanto quanto qualsiasi comune Siriano a causa della terribile situazione economica. Esito ad ammetterlo, ma le sanzioni occidentali sono state estremamente efficaci nel fare ciò che erano state progettate per fare: distruggere l’economia siriana. Quindi dobbiamo riconoscere, e lo dico con profondo rammarico, che le sanzioni hanno funzionato. Esse hanno causato esattamente ciò per cui erano state progettate: far soffrire il popolo siriano e quindi provocare il malcontento contro quello che chiamano il regime.

I Siriani comuni non capivano le complessità della geopolitica e incolpavano il governo per tutto: mancanza di elettricità, cibo, gas, petrolio e l’alta inflazione. Tutto ciò che è arrivato dall’essere tagliati fuori dall’economia mondiale e dal non avere sostenitori ricchi sfondati. La Siria fu attaccata e occupata dalle principali potenze militari (Turchia, USA, Israele), e da migliaia di jihadisti stranieri. L’esercito siriano si demoralizzò tanto da diventare una tigre di carta.

RS: Pensa che il Regno Unito e gli Stati Uniti siano stati coinvolti nell’addestramento dei jihadisti prima dell’attacco di dicembre ad Aleppo?

PF: Assolutamente sì, e anche gli Israeliani. Il leader di Hayat Tahrir al Sham (HTS), Ahmed Hussein al Sharaa (precedentemente noto come Mohammad abu Jolani) ha quasi certamente consiglieri britannici dietro le quinte. Ho individuato la mano di tali consulenti in alcune delle dichiarazioni fatte in un inglese impeccabile. Le dichiarazioni avevano l’ortografia americana, quindi anche la CIA è lì. Jolani è un burattino, una marionetta che dice quello che vogliono che dica.

RS: Qual è la situazione attuale, un mese dopo il crollo?

PF: Ci sono schermaglie qua e là, ma in generale gli islamisti e i combattenti stranieri la fanno da padrone. Ci sono sacche di resistenza a Latakia dove gli alawiti stanno letteralmente combattendo per la loro vita. Gran parte dei combattimenti riguarda i tentativi di HTF, gli attuali governanti, di confiscare le armi. Gli alawiti resistono, ed esistono sacche di resistenza nel Sud del Paese, dove sono presenti milizie druse locali. HTS si insedia in maniera discreta nel territorio, ma affronta problemi nonostante l’ultimo scontro con l’esercito siriano sia stato poco più di una passeggiata, e in genere non abbiano mai dovuto affrontare molti combattimenti. Immagino che i loro combattenti siano circa 30.000 soltanto sparsi in tutta la Siria, e non è molto. C’è un’importante sacca di resistenza nel nord-est dove si trovano i Curdi. I Curdi alleati degli Stati Uniti stanno resistendo e il cosiddetto Esercito nazionale siriano, che è un fronte per l’esercito turco, potrebbe entrare in guerra a tutti gli effetti contro le forze curde. Ma dipenderà in parte da ciò che accadrà dopo l’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, di come Trump affronterà la situazione.

RS: Cosa sente dalle persone in Siria?

PF: Non è una bella storia. HTS e i suoi alleati hanno sfilato esibendo la loro forza e sventolando le bandiere dell’ISIS e di al-Qaeda. Hanno bullizzato, intimidito, confiscato e saccheggiato. Contro cristiani e soldati alawiti hanno fatto giustizia sommaria. Le esecuzioni lungo le strade sono la norma. I cristiani nelle loro città e villaggi stanno solo cercando di nascondersi e pregare. Letteralmente. Mi dispiace dire che il clero cristiano, con una o due nobili eccezioni, ha optato per l’arrendevolezza e ha tradito effettivamente le sue comunità. La leadership di alto livello della Chiesa ortodossa e in particolare la chiesa greco-cattolica si sono appena fatte fotografare con dignitari del regime jihadista. Stanno porgendo l'altra guancia. Al contrario degli alawiti. Ma non hanno scelta. Ricordiamo che lo slogan degli eserciti jihadisti durante il conflitto era: “Cristiani a Beirut, alawiti nelle tombe”. HTS cerca di incontrare i rappresentanti religiosi e di fare poco chiasso, ma nel frattempo i suoi scagnozzi sfilano sui camion sventolando bandiere dell’ISIS. Quello che sento è molto deprimente.

Il regime sta lasciando gli alawiti completamente abbandonati a se stessi e in Occidente si legge a malapena qualche parola nei media sulla situazione degli Alawiti e non molto più sui cristiani.

RS: I media occidentali hanno demonizzato Bashar al -Assad e persino sua moglie Asma. Qual è stata la sua impressione su Bashar e Asma quando li ha conosciuti? Cosa pensa delle accuse di avere accumulato miliardi di dollari?

PF: Le accuse sono del tutto false. Conosco qualche membro della famiglia Assad; alcuni di loro hanno vissuto per molti anni in Gran Bretagna dove vivevano modestamente. Se Assad fosse stato un miliardario, come si dice, le informazioni si sarebbero propalate. Vi posso garantire che non è come stanno dicendo. Queste accuse vanno anche contro le impressioni che ho raccolto quando vedevo gli Assad all'epoca in cui ero ambasciatore in Siria. Apprezzavano le cose buone della vita come tutti, ma non sembravano personaggi alla Marcos. Niente del genere. Sono tutte menzogne inventate per servire l'agenda più profonda. I calci mediatici a Bashar e Asma sono davvero disgustosi e inutili. Egli ha deluso i pochi seguaci che gli restano, anche se era irrealistico, credo, per loro di aspettarsi di più. Ma il fatto è che è scappato quando gli altri non sono riusciti a scappare e molti di loro sono stati uccisi o si nascondono o in alcuni casi sono fuggiti in Libano, dove si nascondono. Lui ha salvato la sua pelle, ma colpirlo come i media stanno facendo è davvero disgustoso e inutile. È una specie di nuovo genere di pornografia politica, il porno Assad, le storie di torture, la narrazione esagerata sulle prigioni e sulle tombe che vengono scoperte. A proposito, in realtà la maggior parte di quelle tombe sono di morti in guerra e non di persone che erano state torturate a morte come i media pretendono. Centinaia di migliaia di persone sono morte nel conflitto durato oltre un decennio, e molte di loro sono state sepolte in tombe non contrassegnate, ma i media occidentali si stanno divertendo con questo nuovo genere di porno Assad. Tutto ciò è stato montato per far digerire meglio all’opinione pubblica occidentale il modo in cui l’Occidente va a letto con al-Qaeda. Più demonizzano Assad e insistono sui misfatti del regime di Assad e più è probabile che dobbiamo ingoiare e siamo distratti dalle orrende atrocità che vengono portate avanti in questo momento.

I leader occidentali stanno baciando i piedi di un tipo che è ancora un terrorista ricercato e che è stato un membro fondatore dell’ISIS così come un membro fondatore di al-Qaeda in Siria. È moralmente disgustoso e vergognoso.

Jolani ha disperatamente bisogno dell'Occidente altrimenti finirà per affrontere la stessa sorte di Bashar al-Assad. Se l'economia seguisse l’andamento degli anni passati, Jolani sarebbe carne morta in tempi abbastanza brevi. Deve fornire un massiccio e rapido miglioramento economico per sopravvivere come leader. Ed è di questo che si tratta. La sua strategia, ovviamente, è quella di sfruttare il suo status di burattino dell’Occidente al fine di garantire non solo gli aiuti per la ricostruzione nel lungo termine, ma più immediatamente l’alleggerimento delle sanzioni perché tornino l’elettricità e il petrolio.

Non dimentichiamo che il petrolio e il gas della Siria sono ancora effettivamente nelle mani degli Stati Uniti, che attraverso i suoi burattini curdi controllano un segmento dell’economia pari, credo, al 20% del PIL, e fornivano prima della guerra combustibile essenziale per il carburante, l’impiego domestico e tutto il resto. Deve mettere le mani su questo e ottenere la cessazione delle sanzioni, ma ha un problema importante: Israele. Non può comprare Israele. Israele è l’eccezione. Tutto il fronte occidentale si sta inchinando per andare a baciare i piedi del sultano di Damasco, ma gli Israeliani digrignano i denti dicendo che non si fidano del tipo.

Israele sta distruggendo i resti dell’esercito siriano e delle sue infrastrutture, e nel frattempo afferra altra terra siriana. Vuole mantenere la Siria in ginocchio a tempo indeterminato, insistendo sul fatto che le sanzioni occidentali non siano revocate. Sento che c’è una battaglia reale in corso a Washington tra quello che potremmo chiamare lo stato profondo, che favorirebbe la revoca delle sanzioni, e la lobby israeliana, che resiste a questo per ragioni egoistiche. Dato che la lobby israeliana vince nove volte su 10, le prospettive potrebbero non essere così grandi per il regime di Jolani.

RS: Quali sono le sue speranze e i suoi timori per la Siria? Qual’è lo scenario da incubo e quale il migliore possibile?

PF: Sono molto pessimista. È estremamente difficile vedere un lato positivo in quello che è successo. La Siria è stata eliminata dal tavolo da gioco mediorientale. La vecchia Siria è morta. La Siria è stata l’ultima tra i Paesi arabi a sostenere i Palestinesi. Non ce n'era nessun altro. Ci sono milizie come Hezbollah più lo Yemen, ma non altri Stati. La Siria è ormai andata, e i jihadisti stanno dicendo, dicono al mondo che non gli importa. A proposito, questo è un esempio di come gli Israeliani non accetteranno un sì per risposta. I jihadisti continuano a dire al mondo: “Noi amiamo Israele. Non ci interessano i Palestinesi. Per favore accettateci. Noi vi vogliamo bene”. E gli Israeliani non accetteranno un sì per risposta.

La migliore speranza per il popolo siriano è che possa ottenere un po’ di tregua. È possibile immaginare uno scenario in cui il popolo siriano sia in grado di riprendersi almeno economicamente; uno scenario in cui le sanzioni vengono revocate; in base al quale il governo centrale recupera il controllo del suo petrolio e del suo grano; dove i combattimenti si sono fermati; dove non deve pagare nulla per tenere un esercito che non cerca di avere. I Siriani potrebbero essere in grado di ricostruire tutto. Quindi, è possibile immaginare uno scenario in cui la Siria perdendo la sua anima guadagni più ore di elettricità. Questo è forse lo scenario più probabile. Ma ci sono grandi ostacoli. Mentre stiamo parlando, Israele ostacola il ritiro delle sanzioni sollevando sacche di resistenza alla disciplina tra i ranghi jihadisti; la Turchia si scatena contro i Curdi e contro l’ISIS, che non è ancora una forza completamente esaurita. La prospettiva è ovviamente buia. Dovremmo fare il punto tra un mese, quando vedremo a Washington i primi passi del nuovo regime da cui dipenderà così tanto. 

RS: Durante il suo primo mandato, Trump ha cercato di rimuovere le truppe statunitensi dalla Siria orientale, ma i suoi sforzi sono stati ignorati. Forse questo avrebbe potuto fare una grande differenza?

PF: Sì, poteva essere una svolta totale. Se la Siria avesse avuto accesso al suo petrolio, non avrebbe avuto il problema del carburante e il problema dell’elettricità. Potrebbe aver cambiato la storia della regione. Ora, gli Stati Uniti stanno aumentando il numero dei soldati e delle basi in Siria e hanno recentemente assassinato un leader dell’ISIS che avrebbe potuto avere un ruolo nello scatenare il recente attacco terroristico negli Stati Uniti. Tutto questo rende molto più difficile per Trump ritirare le forze statunitensi, perché sembrerebbe una ricompensa per l’ISIS.

Ho sostenuto per anni che le sanzioni non funzionavano, ma alla fine lo hanno fatto. È stato come per un ponte che viene indebolito e poi improvvisamente crolla. Non c'é stata un’unica causa. Era solo il culmine e le cose hanno raggiunto il punto di svolta.

https://dissidentvoice.org/2025/01/how-the-west-destroyed-syria/

lunedì 13 gennaio 2025

La Siria a brandelli

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L’8 settembre in salsa siriana

di Salvo Ardizzone

L’8 dicembre la Siria è collassata, assai più che una sconfitta militare – ne parlerò a lungo - è stato il crollo repentino di un sistema, la fine del regime degli Assad, l’ultimo di quelli nati dal cosiddetto socialismo nazionale arabo, sopravvissuto per 54 anni alle tempeste della Storia. L’evento ha avuto molti padri che hanno agito con interessi e finalità diverse, spesso contrastanti. Seppur preparato da molto tempo, molti soggetti vi si sono inseriti in corso d’opera condizionandone le dinamiche e portando a conseguenze non sempre previste dai registi, costringendo gli attori a riposizionamenti e determinando un quadro finale ancora ben lontano dall’assestamento. Di seguito saranno descritti i fatti, le finalità di chi vi è stato coinvolto e le possibili prospettive di una crisi tutt’altro che conclusa. Anzi.

Gli eventi

All’alba del 27 novembre è iniziata l’Operazione “Dissuadere l’Aggressione”, così è stata chiamata la guerra in Siria 2.0. Ad attaccare da Idlib e dalle campagne occidentali di Damasco sono state le milizie di Harar Tharir al-Sham e dell’Esercito Nazionale Siriano, quest’ultimo una sigla ombrello che racchiude una quarantina di bande al soldo della Turchia, mercenari già usati più volte in Siria. La situazione si è evoluta con grande rapidità, in realtà troppa: Aleppo, la seconda città della Siria, è stata conquistata dopo pochi giorni, Saraqib è stata presa subito dopo e sono state tagliate le autostrade A4 e A5, fondamentali per la connessione del paese.

Dopo la spallata congiunta su Aleppo, i gruppi si sono divisi e le colonne di HayatTharir al-Sham si sono dirette verso sud: Hama è caduta dopo aspre battaglie, che sono state le uniche resistenze serie del regime. Da notare: l’improvviso ordine di ritirata è arrivato ai reparti lealisti appena dopo che essi avevano inflitto una pesante sconfitta alla cosiddetta “Banda Rossa”, il gruppo di punta di HayatTharir al-Sham. I miliziani si sono quindi diretti a sud verso Homs, la terza città del paese, che hanno preso praticamente senza combattere: la 25^ Divisione dell’Esercito Siriano, schierata a difesa, ha ricevuto dal Comando centrale l’ordine di ritirata generale appena prima del contatto col nemico; il suo disimpegno ha costretto anche i reparti di Hezbollah che l’affiancavano a ripiegare.

A quel punto, dai governatorati meridionali di Daraa e Suwayda al confine con la Giordania, e da Al-Tanf, anch’essa sul confine giordano, altri gruppi di ribelli d’assai dubbia matrice hanno respinto le forze lealiste e sono entrati a Damasco senza che nessuno organizzasse una resistenza. Nel frattempo, le milizie inquadrate dalle SDF, sostenute da Aviazione e Special Forces USA (alcuni operatori delle Forze Speciali americane, feriti, sono stati evacuati in Giordania), hanno attaccato lealisti e forze della Resistenza a DeirEzzor e Al-Bukamal, sull’Eufrate. Respinte in un primo momento, sono poi dilagate dopo che i reparti dell’Esercito Siriano hanno ricevuto l’ordine di ritirarsi e le formazioni della Resistenza hanno dovuto adeguarsi. Da quanto è emerso, l’Intelligence USA aveva allertato quelle milizie mercenarie diversi giorni prima dell’attacco, e aveva distribuito materiali e un primo pagamento in vista dell’azione.

Nel frattempo, la Turchia ha spinto le milizie dell’Esercito Nazionale Siriano lungo il confine e le forze curde delle SDF sono state costrette a ripiegare. La città chiave di Manbji è stata presa dai miliziani e, al momento in cui scrivo, oltre l’Eufrate e dalla parte turca del confine dinanzi a Kobani, si stanno ammassando grosse formazioni di milizie sostenute dall’Esercito di Ankara. Nei fatti la Turchia sta espandendo il proprio controllo su una fascia di territorio siriano confinante, col fine dichiarato di estenderla da Afrin, sul Mediterraneo, a Qamishli, al confine iracheno.

Spicca il fatto che, eccetto un certo numero di raid dell’Aviazione, le forze russe non abbiano opposto alcuna significativa resistenza;sono rimaste per lo più confinate nelle loro basi sparse per la Siria e, nei giorni successivi al collasso, le hanno abbandonate per ritirarsi nel governatorato di Latakia sul mare, a Tartus e Hmeimin; le lunghe colonne di uomini e mezzi hanno viaggiato scortate dai miliziani di HayatTharir al-Sham. La flotta russa presente (tre fregate, un sottomarino e due navi appoggio) ha levato gli ormeggi allontanandosi dal porto di Tartus, alcuni vascelli si sono poi ormeggiati al largo. Nei giorni successivi sono giunte nel porto due grandi navi trasporto per imbarcare i mezzi che vi erano stati concentrati.

Nel momento in cui scrivo, gli assetti aerei delle varie basi siriane si sono concentrati nella base di Hmeimin; da subito dopo il collasso è stato attivato un ponte aereo operato da due colossali AN 126-100 e tre IL-76MD che hanno trasferito materiali, personale e sistemi d’arma fra la Russia e gli aeroporti libici di Al-Jufra e Khadim controllati dalle forze russe dell’Afrikansy Korpus, su cui è stata già notata la presenza di nuovi sistemi antiaerei. È da notare, e ci ritornerò, che durante i giorni convulsi dell’offensiva Mosca aveva notificato a Damasco che avrebbe continuato a dare sostegno, ma limitato, perché le proprie priorità erano ormai altre.

Hezbollah aveva spostato circa duemila combattenti nell’area di Homs, accanto alle formazioni della 25^ Divisione dell’Esercito Siriano ma, dopo l’improvviso ordine di ritirata generale, si è disimpegnato ritirando tutti i suoi elementi dalla Siriagià il 7 dicembre e posizionando truppe lungo il confine libanese. L’Iran ha evacuato i consiglieri della Forza Quds mentre l’Iraq si è limitato ad attestarsi massicciamente sui propri confini. Fatta eccezione di un assai limitato contingente del Badr, entrato in Siria nei primissimi giorni dell’attacco, a seguito della decisione della Shura della Resistenza irachena le Hashd al-Shaabi hanno deciso di non precipitarsi in un teatro dichiarato compromesso. Il mancato intervento di una forza oggettivamente enorme, e tutto sommato vicina al teatro degli scontri, ha un chiaro significato che s’inquadra nel contesto complessivo che è emerso già a pochi giorni dagli eventi.

Mentre la situazione era in evoluzione, in una dichiarazione su X, Donald Trump ha dichiarato che gli USA dovevano rimanere estranei al conflitto. Con ciò avvalorando l’idea che la partecipazione al blitz sia stata anche un’ennesima iniziativa dell’Amministrazione uscente per avvelenare i pozzi, lasciando la nuova Amministrazione dinanzi a crisi difficilmente gestibili. A prescindere da ogni retroscena, è evidente un diverso approccio alle cosiddette “Attività Oltremare”.

Il 7 dicembre, a Doha, a margine di una conferenza tenutasi in Qatar, i ministri degli esteri russo, iraniano e turco hanno discusso nel format di Astana di una situazione ormai segnata: il regime siriano si era già dissolto, Erdogan emergeva dalla crisi con le carte migliori e Mosca appariva in rapido riposizionamento, anche troppo per l’evidente assonanza di Lavrov col Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan. Da parte sua, il ministro degli Esteri iraniano Araqchi dava mostra di pragmatismo, prendendo atto della situazione e attivando contatti anche con HayatTharir al-Sham che, per bocca del proprio leader, ha affermato di non aver nulla contro Teheran.

Quello stesso giorno, Damasco è caduta in mano dei gruppi ribelli che provenivano dal governatorato di Daraa e Suwayda; il presidente Al-Assad è fuggito in Russia e il primo ministro Mohammad al-Jalali si è messo a disposizione degli insorti per garantire la continuità del governo, mentre nel resto della Siria dilagavano le bande di HayatTharir al-Sham, dell’Esercito Nazionale Siriano, delle SDF curde e varie altre milizie sorte per l’occasione.

Dal canto suo, con la motivazione di voler prevenire gli eventi e garantire la propria sicurezza, Israele è entrato in forze nella zona cuscinetto del Golan istituita dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 350 del 1974, e si è allargato nella regione siriana di Quneitra; nei giorni immediatamente successivi ha occupato il versante siriano del Monte Hermon e diversi villaggi, fino a giungere a una quindicina di chilometri da Damasco. Colonne dell’IDF si sono dirette anche verso il governatorato di Daraa, al confine siro-giordano, giungendo a Qusayr. Netanyahu ha subito dichiarato che le terre del Golan siriano saranno israeliane per l’eternità.

Con la medesima “giustificazione”, dall’indomani del collasso del regime siriano, le IDF hanno lanciato la più pesante campagna aerea mai effettuata sulla Siria dai tempi della Guerra dello Yom Kippur; centinaia di raid hanno distrutto basi, depositi, aeroporti, installazioni e mezzi delle Forze Armate siriane. Al contempo, sono state affondate tutte le imbarcazioni militari alla fonda nei porti del Mediterraneo. Secondo le dichiarazioni di Tsahal, doveva essere evitato che mezzi e materiale potessero cadere in “mani sbagliate”.

È inutile sottolineare quanto i timori espressi da Israele siano strumentali: Tel Aviv è sempre stata vicina a qaedisti e “ribelli” vari della guerra siriana e li ha aiutati largamente al tempo del conflitto precedente; le foto di “Re Bibi” che visita i feriti taqfiri curati negli ospedali israeliani si sprecano. Dal canto loro, i nuovi padroni di Damasco, per bocca di diversi esponenti di HayatTharir al-Sham, e dello stesso leader al-Jolani, hanno dichiarato apertamente che Israele non ha nulla da temere da loro e che in futuro progettano di aprire un’ambasciata a Gerusalemme. In realtà, da quanto sta emergendo, le IDF pensano assai più a una possibile guerriglia “lealista” che a eventuali problemi con i “ribelli” siriani.    

Il 9 dicembre, Muhammad al-Bashir (già “premier” del cosiddetto “Governo di Salvezza Siriano” basato nell’enclave di Idlib controllata da HTS), è stato designato capo del governo provvisorio di transizione che entro il 30 marzo 2025 dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) traghettare la Siria verso un nuovo governo. 

Fin qui i fatti di un collasso che si è consumato in appena 11 giorni. Troppo pochi perché possa parlarsi solo del cedimento dell’Esercito siriano dinanzi a una riuscita operazione militare, né spiegare l’improvviso dissolversi del regime di Damasco. Soprattutto se si tiene conto di quanto sta emergendo. Ma andiamo con ordine.

Il regime siriano

Per comprendere quanto accaduto occorre fare alcune premesse che riguardano il regime siriano. A costo di mostrarmi tranchant, dico subito che esso è stato assai più attento a consolidare e mantenere il potere del proprio clan familiare e della propria base di riferimento, la componente alawita, che gli interessi delle popolazioni che ha retto con mano di ferro. Come ho avuto modo di spiegare lungamente nel volume che ho dedicato alla guerra in Siria[i], la decisione presa da Hezbollah e dalle altre componenti dell’Asse della Resistenza di scendere in campo accanto al regime di Damasco, e di combattere per anni per sostenerlo, non fu determinata da vicinanza politica. Fede ne fa che nello scenario siriano non è mai attecchito un soggetto politico che si rifacesse alla Dottrina della Resistenza, malgrado gli sforzi e le energie profuse da Hezbollah, Iran e dalle altre componenti dell’Asse.

La Resistenza era in tutto e per tutto assai lontana dall’apparato di potere siriano, fu un atto di realpolitik: nel 2011, lasciar affondare Bashar Al-Assad sarebbe equivalso a consegnare una vittoria a quello stesso sistema di potere che da decenni dominava il Medio Oriente e contro cui la Resistenza stava combattendo da tanti anni. E qui arriviamo alle radici che hanno generato la situazione odierna. Fino al 2016 Al-Assad è stato molto attento a rispettare la Resistenza, in particolare Hezbollah e l’Iran, a cui doveva la permanenza al potere; da quel momento è iniziato un progressivo mutamento delle posizioni del governo siriano, sempre più attratto dall’orbita di Mosca e sempre più sicuro per la sua protezione; questa dinamica l’ha reso progressivamente meno disponibile verso l’Asse della Resistenza e più sensibile alle lusinghe di soggetti terzi. In altre parole, ha ritenuto d’essere troppo importante per essere abbandonato e, dunque, di poter alzare il prezzo a piacimento giocando anche in proprio.

Da quanto è emerso, questa deriva è culminata nella visita del Ministro degli Esteri emiratino a Damasco nel gennaio del 2023, visita ricambiata dal Presidente siriano nel marzo successivo. Era già noto che nel corso di quegli incontri s’era parlato della riammissione della Siria nella Lega Araba (avvenuta nel maggio successivo), della fine delle sanzioni e di massicci finanziamenti. Ciò che rimaneva nell’ombra era la contropartita richiesta, ovvero l’allontanamento dall’Asse della Resistenza. E beninteso: gli Emirati non parlavano solo per sé, erano i portavoce di un fronte assai più largo che dal Golfo giungeva a Israele (con cui avevano già da tempo normalizzato i rapporti), agli USA e anche più in là.

Da quel momento, le relazioni fra il governo siriano e l’Asse della Resistenza sono continuamente a peggiorate: il totale distacco siriano dalla guerra scoppiata in seguito ad Al-Aqsa Flood è stato eclatante ed è emerso che Damasco ha posto il veto a operazioni dal Golan, fermando l’azione delle forti formazioni della Resistenza palestinese basate in Siria. E non è tutto: malgrado il gran parlare che si è fatto del corridoio di rifornimenti da Teheran a Beirut, pochi sanno che quei canali sono stati progressivamente recisi dal governo siriano fino a inaridirsi del tutto già da diversi mesi, con l’Iran ed Hezbollah – benché perfettamente consapevoli delle dinamiche – costretti a fare buon viso a cattivo gioco per gestire la situazione e non intestarsi politicamente una rottura.

Di qui il progressivo allontanamento di gran parte delle milizie della Resistenza – le vere vincitrici del primo step della guerra siriana – e di molti degli assetti di Hezbollah e della Forza Quds. Inoltre, e non da ultimo, da quanto lasciato trapelare dopo che il regime siriano è collassato, le clamorose falle nella sicurezza della Resistenza libanese e dei Pasdaran di cui hanno approfittato i servizi israeliani e americani sono da addebitare a soggetti appartenenti al più alto livello del regime siriano. Nei fatti, la continuità dell’Asse della Resistenza era già stata recisa da diversi mesi; gli sviluppi recenti hanno solo ufficializzato una situazione che era già nei fatti.

Il ruolo della Russia…

Per comprendere la posizione della Russia e i perché del suo coinvolgimento in Siria necessita sgombrare il campo da partigianerie sterili o tifoserie da stadio – nel comprendere i processi geopolitici esse sono escluse. È vero che Mosca aveva una lunga storia di rapporti con Damasco, ma la tradizionale vicinanza fra i due governi non è stata la causa, bensì l’occasione perfetta dell’intervento russo avvenuto nel settembre del 2015. Allora la Russia era isolata a seguito dell’occupazione della Crimea e delle conseguenti sanzioni occidentali. Le sue contromisure e il successivo riposizionamento sulla scena internazionale erano a venire; a Mosca serviva un modo per uscire dall’angolo sparigliando le carte.

Intervenendo in Siria su richiesta del legittimo governo di Damasco, la Russia conseguiva molti obiettivi in un colpo solo: si assicurava basi nei “mari caldi”; occupava il vuoto lasciato dall’Amministrazione Obama in Medio Oriente e ricavava così carte pesanti da giocare su altri fronti per lei più rilevanti: già nel 2016 entrava nell’OPEC Plus, gestendo di conserva con i sauditi il mercato petrolifero (e, allora ancora di riflesso, gasiero). Inoltre, intervenendo nel teatro siriano con operazioni “coperte” e no, curava l’eliminazione dei tanti terroristi caucasici e centroasiatici che vi si erano concentrati, impedendo che tornassero in terra russa. Infine, aveva altre due ottime ragioni per installarsi nel Levante: laggiù trovava la solida (e discreta) sponda di Israele, con cui la leadership russa ha sempre intrattenuto più che solidi rapporti che, seppur screziati da baruffe più di facciata che di sostanza, hanno retto sia alle vicende della guerra in Ucraina, sia a quasi un decennio di convivenza attraverso crisi e guerre mediorientali.

E ancora, Mosca ingaggiava la Turchia in quello che quest’ultima riteneva il suo giardino di casa, in un confronto prima tempestoso (vedi l’abbattimento del Su-24 russo per 17 secondi di sorvolo d’un lembo di territorio turco), col tempo divenuto reciprocamente assai fruttuoso (l’elenco delle reciproche convenienze è lungo: il transito delle navi russe dai Dardanelli, la costituzione di un hub gasiero e le triangolazioni di merci in barba alle sanzioni occidentali, la costruzione di una centrale nucleare ad Akkuyu [nel sud dell’Anatolia], gli accomodamenti dei reciproci interessi nel Caucaso, in Asia Centrale, in Africa, perfino nei Balcani e via discorrendo). 

A seguito dell’indiscusso successo ottenuto, e del conseguente prestigio, la Russia ha ritenuto di poter controllare la regione. Ma ha commesso l’errore di pensare di poterlo continuare a fare anche se impegnata in Ucraina in una partita esistenziale che le ha assorbito capitale politico e risorse. Le leggi della geopolitica non ammettono deroghe e la Siria non è stata un’eccezione: quando avversari e competitor avvertono distrazione o debolezza agiscono e Mosca, che fino a non molto tempo fa era convinta di poter continuare a dare le carte nell’area, s’è trovata nelle condizioni di doversi riposizionare dinanzi a nuove dinamiche.

I fatti (e le indiscrezioni) dicono che la Russia abbia accettato di sacrificare il regime siriano convincendo Al-Assad a farsi da parte e il Comando di Damasco a impartire l’ordine del “tutti a casa” ogni volta che veniva imbastita una resistenza. In cambio di cosa lo dirà il tempo. In ogni caso, ha fatto assai presto ad adeguarsi alla situazione, d'altronde, nessuno degli attuali vincitori della partita siriana era – ed è – in condizione di stravincere, ma il prestigio russo nell’area ha subito un vulnus e non è ancora chiaro il destino delle sue basi in Siria. Al momento in cui scrivo le trattative sembrano ancora in corso (e non sarà affatto semplice trovare una quadra fra i tanti interlocutori che ora hanno voce in capitolo sull’area).

A parte le diverse installazioni che Mosca aveva nell’interno per il controllo del territorio, oggi inutili nel nuovo scenario, il futuro della base navale di Tartus e di quella aerea di Hmeimin non è affatto assicurato. Tartus è uno scalo su cui, sulla scorta di un accordo concluso con Damasco nel gennaio del 2017, la Russia avrebbe (il condizionale è obbligo vista la situazione) giurisdizione sovrana fino al 2066; Mosca vi ha fatto grandi investimenti che ora corrono il rischio d’essere persi. Ma se lo scalo di Tartus potrebbe in prospettiva essere sostituito da un altro porto in Libia (come si vocifera da tempo, a Tobruk o a Bengasi), diversa è la questione della base aerea Hmeimin. La Russia ha speso molto per quell’installazione realizzando una seconda pista e varie infrastrutture, ma il suo valore sta nell’essere a mezza strada con l’Africa; se venisse meno, il carico utile dei velivoli destinati in Libia – costretti ad imbarcare molto più carburante - sarebbe giocoforza assai limitato. In ogni caso, il venir meno delle basi siriane farebbe alzare il prezzo di quelle libiche; Khalifa Haftar e il suo clan familiare non si farebbero sfuggire l’occasione. Pare stia già accadendo.

…e della Turchia

La Turchia è stata l’attrice principale, retroterra e base di “Dissuadere l’Aggressione”, senza di essa l’operazione sarebbe stata impossibile. Tuttavia, Ankara, benché perfettamente consapevole del progetto e pienamente coinvolta nei preparativi a Idlib, non si è impegnata da subito, lasciando che gli altri lavorassero mentre trattava con tutti per spuntare le migliori condizioni, inserendosi alla fine per indirizzare gli eventi verso la propria convenienza. Erdogan era stato messo all’angolo da Al Aqsa Flood; quella guerra aveva polarizzato la scena fra Iran e Israele, spiazzando la Turchia e ponendola fuori dai giochi; la nuova guerra le serviva per rientrarci. E c’è riuscita. Semmai è da vedere come saprà gestire un successo assai più ampio e repentino di quanto preventivato.

Erano (e rimangono a tutt’oggi) tre le imperative esigenze turche: la prima è completare l’occupazione di una fascia di territorio profonda una trentina di chilometri lungo tutti i confini con la Siria. La seconda è costituire una sorta di area cuscinetto in cui riversare almeno una parte dei milioni di profughi siriani residenti in Turchia, che rappresentano un impellente problema di politica interna. Il collasso del regime siriano va ora molto più in là, giustificando il loro rimpatrio sull’intero territorio della Siria. Almeno in teoria. La terza è la questione delle questioni: l’eliminazione delle milizie dell’SDF egemonizzate dai curdi, ovvero dalla branca siriana del PKK, che occupavano la Siria oltre l’Eufrate gestendo i territori per conto degli USA e nell’interesse proprio.

Per centrare questi obiettivi serviva la normalizzazione dei rapporti con Damasco, che Erdogan aveva cercato da circa un anno. Ma il presidente siriano Al-Assad, reso (troppo) sicuro dall’appoggio russo (e contando a prescindere su quello iraniano) aveva posto una precondizione all’inizio delle trattative: l’impegno formale al ritiro delle truppe turche dai territori siriani che già occupavano. Per Ankara prospettiva irricevibile, meno che mai nel quadro che si preparava. L’offensiva era ormai pronta da diverse settimane, mesi: Erdogan ha cercato fino all’ultimo il via libera di Putin e la collaborazione di Al-Assad; ma la Russia, pur consapevole di quanto stava maturando, ha dichiarato che la presenza turca in Siria era occupazione militare e Al-Assad, in margine del vertice di Astana, è stato irremovibile con il Presidente turco nella sua precondizione. A quel punto Erdogan ha dato il via libera al progetto caldeggiato da americani e israeliani.

Ultima notazione - ma determinante - per comprendere la traiettoria della Turchia. S’è molto detto sul fatto che Ankara mantenga una posizione ambigua giocando su più tavoli per massimizzare i guadagni: vero, sta sfruttando al meglio sia l’appartenenza alla NATO, sia le relazioni che intrattiene con i competitor dell’Alleanza per seguire una propria agenda sempre più assertiva. Ma c’è un ma: dopo anni di esitazioni la Turchia si è volta a est, girando le spalle agli USA e all’Occidente, con cui continua a coltivare rapporti per pura convenienza contingente.

La scelta è avvenuta dopo il tentato golpe del luglio 2016 azzardato dall’Izmet di Fetullah Gulem con la piena collaborazione di americani, emiratini e sauditi. Allora furono Mosca e Teheran a dare l’avviso e sostenere Erdogan, e lui stesso, rivolto agli USA dichiarò: “Ci avete persi quella notte”. Decisione rafforzata dopo l’attacco alla lira turca lanciato dalla finanza americana nell’agosto del 2018 su input dell’Amministrazione Trump; la Turchia si salvò a stento grazie a un assegno di 15 miliardi staccato dall’emiro del Qatar dalla sera alla mattina. Da allora il governo turco ha giocato partita in proprio, gravitando sempre più verso l’Oriente (vedi la richiesta di adesione ai BRICS) e facendosi pagare sempre più caro dall’Occidente. Resta comunque il fatto che la base economica su cui Ankara fonda la sua potenza è esigua, due terzi a stento di una disastrata Italia. Si regge solo perché è ritenuta attrice utile e credibile nell’interazione fra le potenze. Un passo falso ed è crollo. 

Ruolo di Israele, USA e paesi del Golfo

Non è certo un caso che l’attacco sia partito all’indomani della tregua in Libano; per Tel Aviv, provata dal lungo conflitto che durava dal 7 ottobre dello scorso anno, era imperativo distrarre l’Asse della Resistenza e isolare Hezbollah da una profondità strategica che pur sempre manteneva malgrado gli ultimi sviluppi. Per favorire il blitz, le IDF hanno effettuato numerosi raid per colpire basi, depositi e personale della Resistenza e delle forze armate siriane, e la sua Intelligence, che ha infiltrato ai massimi livelli la dirigenza siriana, è stata determinante per lo sviluppo dell’operazione.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, il regime degli Assad non era affatto inviso a Tel Aviv; da tempo Damasco aveva cessato d’essere un problema per Israele ma, piuttosto, un asset; flussi di preziose informazioni e i veti opposti alla Resistenza per operare nel Golan ne sono ampia dimostrazione. Tuttavia, il crollo della Siria ha dato modo alle IDF di espandersi oltre confini volutamente mai definiti (Israele è l’unico soggetto politico al mondo che non abbia mai stabilito confini ufficiali) in perfetta assonanza con i deliri dei nazional-religiosi oggi al potere, che sognano più che EretzYsrael, YsraelHashlema, ovvero il “Grande Israele”, dal Nilo all’Eufrate, e Damasco è ormai a un passo.

L’interrogativo strategico che si pone ora ai vertici israeliani è piuttosto la scelta fra curdi e turchi. Ovvero, se approfondire lo storico rapporto con le entità curde, oggi con la prospettiva assai concreta d’essere nuovamente abbandonate dagli USA e travolte dalla Turchia e dai suoi proxy, oppure volgersi ad Ankara, riallacciando i legami messi in stand-by dalle conseguenze di Al-Aqsa Flood, per gestire in condominio la Siria e, più in generale, il Levante. Realpolitik suggerirebbe nettamente la via di Ankara ma, con Israele, si sa, nulla è scontato meno che mai logico. 

Per gli USA l’obiettivo era ed è indebolire l’Iran, arcinemico per tutte le sfaccettature del Deep State americano. Dei tre soggetti che esso identifica come avversari sistemici, Mosca, Pechino e Teheran, è quest’ultima che mette d’accordo tutti e, poiché è ritenuta anche la più debole, è quella su cui si ritiene di poter esercitare la massima pressione, per molti fino allo scontro aperto, per ripristinare una deterrenza ormai in pezzi dopo un’ininterrotta serie di sconfitte (l’ultima, eclatante, quella che si delinea in Ucraina). Con ciò mostrando ancora una volta l’incapacità di leggere soggetti altri, ovvero culture diverse dalla propria.

A ciò s’aggiunge la volontà di limitare l’influenza russa nella regione, quantomeno ingaggiarla seriamente per acquisire carte negoziali da giocare con Mosca su altri quadranti; e se il conflitto ucraino è troppo rilevante perché la Russia possa accettare scambi, in Africa, dove essa è in netta espansione e l’America vorrebbe tornare (anche se non sa bene come), ciò può avvenire. In ogni caso, la protezione comunque e sempre dell’entità sionista è già obiettivo ritenuto necessario e sufficiente a giustificare qualunque operazione.

Resta la questione della presenza americana nell’est della Siria; il CENTCOM vorrà continuare a tenerlo, almeno fino a quando il nuovo regime si sarà stabilizzato, ma il Comando Centrale non è la nuova Amministrazione e comunque permane un quesito: con chi rimanere? Le SDF sono una creatura degli USA innervata dalle YPG curde, ma il destino di quelle milizie è quantomeno assai dubbio e, senza di loro, le SDF sono un contenitore vuoto. Mazloum Abdi, il loro capo, sta tentando di negoziare una tregua con la Turchia ma, a ogni evidenza, è solo questione di tempo prima che Ankara dia il via libera all’Esercito e spinga le milizie dell’ENS contro di loro.

Eternamente in vendita fra i vari contendenti, i curdi hanno storicamente avuto scelta infelice, che pagano regolarmente. Sotto la passata Amministrazione Trump è già avvenuto due volte: nel 2018 con l’Operazione Olive Brunch ad Afrin e nel 2019 con Peace Spring nel Rojava; in entrambi casi gli USA hanno lasciato mano libera ai turchi; con ogni probabilità a breve avverrà ancora. 

I paesi del Golfo Persico hanno giocato un ruolo rilevante nella preparazione della crisi, che però ha poi seguito via diversa; è altresì importante rilevare che Arabia Saudita, Qatar ed Emirati hanno ciascuno voluto intervenire, sì, ma con scopi e aspettative differenti. È vero, tutti e tre i soggetti hanno trovato convivenza con l’Iran e con altri paesi dell’Asse della Resistenza (vedi Iraq), ma per tutti è tre era (ed è) importante che l’ascesa di Teheran non si risolva in egemonia nell’area. Per essere più precisi, che nessun paese la raggiunga, Turchia inclusa.

Come detto, gli Emirati sono stati essenziali nel mutare la parabola del regime siriano, ma essi, come i sauditi, volevano una cooptazione di Damasco, non un suo crollo a beneficio d’altri. Significative sono state le dichiarazioni preoccupate e il turbine d’incontri mentre la situazione precipitava assai più di quanto voluto. Solo il Qatar, grazie alla vicinanza alla Turchia che ora regge in giochi in Siria, s’è mostrato assai più tranquillo. Per lui, l’emergere di un regime spacciato per una qualche forma d’Islam politico, come che sia ispirato alla Fratellanza, è successo. La stessa Riyadh è quantomeno inquieta per l’ombra “imperiale” proiettata da Ankara sulla Siria o su quanto ne resta.

Con l’eccezione di Israele, il cui obiettivo è semplicemente espandersi, facendo buon viso a gioco più che cattivo inaspettato, emiratini, sauditi e occidentali stanno correndo alla nuova corte di Damasco, ch’altro non aspetta che accoglierli.

L’Asse della Resistenza

Abbiamo già detto come la crisi abbia solo ufficializzato l’uscita della Siria dall’Asse della Resistenza, e di come l’Iran e i nuovi padroni di Damasco si siano reciprocamente riposizionati con pragmatismo, il primo allacciando da subito rapporti coi nuovi vertici siriani, i secondi dichiarando che non avevano nulla contro Teheran. Da come si sono svolti i fatti appare evidente che Mosca e Ankara hanno trovato un’intesa sacrificando Al-Assad che ha finito per aderire all’accordo. Quanto ciò inciderà fra le tre potenze e, di riflesso, sugli equilibri regionali si vedrà a breve.

Il 23 dicembre, il vice primo ministro russo Savelyev si è recato a Teheran per incontrarsi con i vertici iraniani; ufficialmente, al centro dei colloqui c’era il completamento del Corridoio Nord-Sud. Verificare se Teheran ribadisca l’impegno a rispettare l’accordo (come peraltro dichiarato dal presidente Pezeshkian), altro non è che tastare il terreno. La prova che la crisi è superata, e fino a che punto, potrebbe venire già a fine gennaio, quando sarebbe previsto il summit per la firma dell’intesa su rapporti securitari e difesa simile a quello con la Corea del Nord. Nei fatti, il trattato sarebbe coincidenza d’interessi fra le due potenze, la stessa che si è invece divaricata sulla Siria.

A occhio poco aduso alla realtà, può stupire questa dinamica che vede potenze convergere su taluni temi e divergere su altri, ma essa è la sostanza del multipolarismo, ancor di più del policentrismo, dove i rapporti fra i vari poli (e Mosca, Teheran e Ankara lo sono) vengono dettati da coincidenze d’interessi per uno o più scopi, mai da completa sovrapposizione che può esistere, per libera volontà o gioco forza, all’interno dello stesso polo, fra chi a esso aggrega.

Del resto, per l’Asse, farsi attirare in uno scontro sanguinoso in difesa di un regime che l’aveva già abbandonato non aveva senso. Per paradossale che possa apparire, dietro le quinte sono molti gli alti rappresentanti della Resistenza che giudicano la caduta di Al-Assad un fatto tutto sommato positivo. A domanda precisa essi rispondono che la Siria era già persa, ciò che è avvenuto ha fatto finalmente chiarezza e lascia loro le mani libere per gli sviluppi futuri che già si scorgono. Ciò che si ventila è una guerra strisciante, stavolta a parti invertite, che non logorerà le forze della Resistenza ma i suoi avversari. Con altrettanta franchezza sostengono che il processo attivato con Al-Aqsa Flood non s’arresterà, ma è destinato a svilupparsi fino allo scontro finale. E che non si tratti di mere dichiarazioni formali è testimoniato dalla determinazione mostrata. È una dinamica estranea a mente occidentale, ma del tutto connaturata al contesto.

Situazione attuale e prospettive

A fine dicembre, tre settimane dopo il collasso del regime, la Siria è tutto fuorché pacificata, meno che mai unita. Mentre già USA e UE si preparano a rimuovere le sanzioni, è stucchevole la processione di leader occidentali che volano a Damasco a incontrare un personaggio come Ahmed Sharaa. L’ipocrisia ha già fatto scordare che l’uomo si faceva chiamare Abu Mohammad al-Jolani quando era luogotenente di spicco di Abu Bakr al-Baghdadi (il fu “califfo”), in Iraq. Poiché era un siriano (al-Jolani significa “del Golan”), nel 2011 venne inviato in Siria per creare una costola di Al-Qaeda che partecipasse alla guerra allora agli inizi; il gruppo si chiamò Jahbat al-Nusra. Quando nel 2013 al-Baghdadi pensò di fondere al-Nusra con l’ISI iracheno per creare ciò che sarebbe divenuto l’ISIS, al-Jolani si rifiutò; non voleva tornare al rango di subordinato e, da quanto emerso, non intendeva invischiarsi nelle trame che s’intravedevano dietro la nascita dell’ISIS.

Pagò il rifiuto: la gran parte dei miliziani lo abbandonò, attratti dal nuovo brand e dal tanto denaro che vi girava, e perse pure molte posizioni e materiali finendo per stabilirsi principalmente nella Siria nord-occidentale, riducendosi al governatorato di Idlib, sovraffollato di profughi; un’enclave che “governò” sfruttando il contrabbando frontaliero con la Turchia e ogni tipo di crimine. Con lo smantellamento dell’ISIS, al-Nusra crebbe inglobando molti dei terroristi scampati e al-Jolani pensò di cambiarle un nome divenuto scomodo: fra il 2015 e il 2017 lo mutò tre volte giungendo all’attuale HayatTharir al-Sham; un’operazione di pura facciata che in nulla aveva mutato caratteristiche e qualità del gruppo originario, appena velate da un pulviscolo di bande inglobate.

A Idlib al-Jolani ha più volte corso il rischio d’essere eliminato o rovesciato dai servizi turchi perché pensava di giocare in proprio grazie alla forza di HTS; alla fine, in grave difficoltà, ha deciso d’uscire dall’angolo facendosi strumento di Ankara e questo gli ha spalancato le porte di Damasco. Oggi, mentre riceve leader e concede interviste, è tornato al suo vero nome, Ahmed Sharaa, per lasciarsi dietro il suo passato criminale. È vergognoso il modo in cui l’Occidente e il mainstream mediatico trattano ora dei terroristi spacciandoli da “insorti”, “oppositori” d’un governo iniquo, scordando che fino a qualche anno fa l’opinione pubblica mondiale veniva mobilitata contro quella stessa gente. E non è finita.

Per ridare verginità e ruolo a bande d’assassini, riconosciuti tali da tutti fino a ieri, il 24 dicembre è stato annunciato un accordo che scioglie le milizie e le ingloba nelle Forze Armate siriane. Che gruppi ostili, ferocemente avversi, possano integrarsi è quantomeno dubbio, come è dubbio che riconoscano un’unica autorità. Ed è altrettanto dubbio che tutti gli attori - così diversi - coinvolti in Siria riconoscano al-Jolani/al-Sharaa come proprio rappresentante; resta il fatto che la Siria oggi appare divisa fra aree d’influenza ancora tutte da determinare, lievito di nuovi scontri.

La ripresa della guerra è prospettiva più che probabile, certa: nel governatorato di Latakia si sono già registrati pesanti scontri fra forze lealiste e i “ribelli”. Il comandante della 25^ Divisione ha annunciato che i suoi uomini combatteranno contro i miliziani a prescindere dalla caduta di un regime da cui si sono sentiti traditi. Dichiarazioni simili ha rilasciato Maher Al-Assad, passato in Iraq con alcune migliaia di elementi della sua 4^ Divisione. Dal canto loro, i “ribelli” annunciano l’avvio di grandi operazioni per eliminare ogni resistenza, in particolare sulla costa. Sta già avvenendo. Come detto, si prepara la ripresa di un conflitto mai cessato. Sarà l’ennesimo buco nero sulle sponde orientali del Mediterraneo; una Libia 2.0, ma assai più pericolosa. E sarà pure tragicamente ridicolo, grottesco, vedere l’Occidente riallacciare rapporti con le stesse bande che ha raccontato d’aver combattuto in passato, magari aiutandole contro i nuovi cattivi, i “lealisti” senza Al-Assad. Ma tant’è, ci hanno abituato a tutto.  

https://www.ariannaeditrice.it/articoli/l-8-settembre-in-salsa-siriana

venerdì 3 gennaio 2025

Dichiarazione storica a Damasco: i capi delle Chiese siriane uniscono le loro voci per la pace

In questa storica dichiarazione pubblicata il 29 dicembre 2024 a Damasco, Sua Beatitudine Giovanni X, patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente dei greci ortodossi, Sua Santità Efrem II, patriarca di Antiochia e di tutto l'Oriente, capo supremo della Chiesa siriana ortodossa e Sua Beatitudine Joseph I, patriarca della Chiesa greco-melchita cattolica hanno lanciato un vibrante appello alla riconciliazione nazionale, alla revoca delle sanzioni economiche, a una partecipazione attiva nella redazione di una nuova Costituzione, e alla speranza di un futuro migliore per il loro paese, segnato da anni di guerra e sofferenza.


In questo momento storico, mentre la Siria attraversa una nuova transizione, noi, i capi delle Chiese cristiane della Siria, ci rivolgiamo alla popolazione con un messaggio di amore e speranza. Questo messaggio deriva dal nostro senso di responsabilità e dalla nostra profonda fede nella missione del Signore Gesù Cristo, che ha benedetto i costruttori di pace e li ha chiamati figli di Dio (San Matteo 5:9). In questo tempo santo della Natività, Cristo ci chiama ad essere messaggeri di pace sulla terra.

Oggi ci troviamo alla soglia di una nuova era che richiede da ciascuno di noi umiltà, coraggio e determinazione per costruire la Siria del futuro. Questa nuova fase richiede un impegno verso una cultura del dialogo e l'apertura agli altri. Richiede saggezza, deliberazione e lungimiranza, nonché la capacità di evitare di rimanere bloccati in conflitti inutili, populismo o isolamento.

Come cristiani, abbiamo un ruolo vitale e centrale da svolgere in questa fase collaborando con tutti per far avanzare e ricostruire questa patria.

Riconosciamo che la nostra responsabilità spirituale, morale e nazionale ci obbliga a sempre alzare la voce della verità, a difendere la dignità umana in ogni circostanza e ad operare con forza per sostenere il cammino verso la democrazia, della libertà, dell'indipendenza e della pace, che garantisce i diritti e la dignità di tutti i siriani.

Il nostro messaggio di oggi si basa su quattro assi principali:

Riconciliazione

Appello al mondo per la revoca delle sanzioni economiche esterne

Partnership

Speranza 

Primo: Riconciliazione nazionale e dialogo come cammino verso l'unità

La Siria è una nazione con un'identità umana e civilizzatrice, costruita su una storia e una geografia che si sono evolute nel corso dei secoli. Tuttavia, è rimasta ferma nella sua volontà di coesistenza per garantire gli interessi comuni. La diversità etnica, religiosa e culturale che caratterizza le comunità locali siriane è una fonte di ricchezza e forza. Oggi la Siria è chiamata a ritrovare il suo ruolo attivo nella comunità internazionale e a rafforzare la sua appartenenza al suo ambiente geografico e arabo allargato.

Per raggiungere questo obiettivo, chiediamo di:

Avviare un dialogo nazionale globale che riunisca tutte le componenti della società, rafforzando la fiducia e la coesione sociale, affrontando le radici del conflitto e ridefinendo l'identità nazionale siriana sulla base di valori comuni: cittadinanza, dignità, libertà e coesistenza.

Organizzare workshop di dialogo locale in tutte le province, città e villaggi per affrontare le sfide che influenzano la coesione sociale, realizzare una riconciliazione autentica e consentire alle comunità di lavorare insieme per un risanamento condiviso in Siria.

Rafforzare la fiducia tra tutti i siriani attraverso progetti di sviluppo comunitari che contribuiscano a ricostruire il tessuto sociale e rafforzare il senso di appartenenza ad uno stato unito.

Ravvivare lo spirito di convivenza che è sempre stato parte dell'eredità siriana, lavorando per eliminare i pregiudizi, contrastando le parole di odio e discriminazione, perché la vendetta e il risentimento non costruiscono una nazione.

Collaborare per rafforzare la sicurezza e la protezione al fine di garantire il benessere di tutti i cittadini e consolidare la pace civile.

Secondo: Un appello al mondo per la revoca delle sanzioni economiche esterne

La Siria ha recentemente subito sanzioni economiche e un blocco economico. Questo ha colpito i cittadini siriani di tutte le origini. Le sanzioni hanno avuto un impatto negativo sulle comunità locali in Siria e nei paesi vicini, anche loro colpiti dall'emigrazione. Le loro ripercussioni si sono estese ai paesi che accolgono i siriani, sia attraverso la migrazione legale che quella illegale.

Pertanto, chiediamo alla comunità internazionale di agire rapidamente per:

Rimuovere queste sanzioni ingiuste

Sostenere il cammino della ricostruzione e della ripresa economica

Creare opportunità di lavoro

Terzo: Partecipazione alla redazione di una nuova costituzione per il paese

Crediamo che la redazione di una nuova costituzione, che rifletta le aspirazioni dei siriani, sia essenziale per costruire uno stato moderno e democratico.

Sottolineiamo che:

La necessità che il processo di redazione della costituzione sia inclusivo e coinvolga tutte le componenti della società siriana.

Adesione ai principi di cittadinanza, garanzia dei diritti umani, dello stato di diritto e della separazione dei poteri,la libertà di opinione, il credo e il coinvolgimento delle donne.

L'adozione dei valori di giustizia e uguaglianza come fondamento di uno Stato che offre pari opportunità nella vita politica, sociale ed  economica, a tutti i cittadini senza alcuna discriminazione.

Quarto: Speranza per un futuro di luce

Crediamo che la nuova Siria debba rimanere unita e servire come modello di uno Stato moderno basato sui principi della cittadinanza, della democrazia e dei diritti umani.

Affermiamo la nostra visione per la Siria di domani:

Una Siria unita, sovrana e indipendente che preservi la dignità di ogni cittadino, indipendentemente dalla sua religione, credo, etnia o appartenenza politica.

Una Siria dove lo Stato garantisce la neutralità religiosa, basata su una Costituzione che garantisce lo stato di diritto, la separazione dei poteri, il rispetto delle diversità e delle libertà.

Una Siria dove tutti, in particolare donne e giovani, partecipano attivamente alla costruzione del futuro

Un invito all'impegno e all'azione

Noi, capi delle Chiese cristiane presenti in Siria da quasi due millenni, chiediamo a tutti i siriani di lavorare insieme per realizzare questa visione.

Esortiamo anche i nostri fedeli a non cedere alla paura o all'isolamento, ma ad impegnarsi attivamente nella sfera pubblica, partendo dallo spirito del Vangelo fino a quando non diventeranno partner nella costruzione della nuova Siria.

Facciamo appello alla comunità internazionale affinchè si schieri dalla parte dei siriani nella ricostruzione della loro patria entro i confini riconosciuti a livello internazionale, per evitare qualsiasi invasione esterna della sovranità nazionale.

Crediamo che Dio, che ci ha riuniti in questa terra da cui sono nate civiltà e messaggi di fede, benedirà i nostri sforzi e ci guiderà sulla via della pace.

Sia benedetto il nome di Dio per sempre. Amen.»

Giovanni X - Patriarca di Antiochia e sacerdote della Chiesa ortodossa orientale

Ignazio Afrem II - Patriarca di Antiochia e presidente della Chiesa ortodossa siriana nel mondo

Youssef Al-Absi- Patriarca di Antiochia e dei fedeli cattolici romani

sabato 28 dicembre 2024

Card Pizzaballa "Il Natale del Signore è tutto qui: .... ci offre una via di uscita di vita e di speranza."

 

Pubblichiamo dalla traduzione di "Nuova Bussola Quotidiana" il testo dell’omelia pronunciata dal cardinale Pierbattista Pizzaballapatriarca di Gerusalemme dei Latini, per la Messa della Notte di Natale 2024 a Betlemme (Is 9, 1-16; Tt 2, 11-14; Lc 2, 1-14), .

Cari Fratelli e Sorelle,

non ho problemi quest’anno a riconoscere la mia fatica ad annunciare a voi che siete qui e a quanti da tutto il mondo guardano a Betlemme la gioia del Natale di Cristo. Il canto degli Angeli, che cantano gloria, gioia e pace mi sembra stonato dopo un anno faticoso, fatto di lacrime, sangue, sofferenza, speranze spesso deluse e progetti infranti di pace e di giustizia. Il lamento sembra sopraffare il canto e la rabbia impotente sembra paralizzare ogni cammino di speranza.

Mi sono chiesto più volte in queste ultime settimane come vivere, se non superare, questa fatica, questa spiacevole sensazione di inutilità delle parole, anche quelle della fede, di fronte alla durezza della realtà, alla evidenza di una sofferenza che pare non voler finire. Mi sono però venuti in soccorso i pastori del Natale che, come me e i vescovi e i presbiteri di questa terra, vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Essi in quella notte, che è questa, hanno ascoltato gli angeli credendoci. E allora mi sono deciso ad ascoltare anche io, di nuovo, il racconto del Natale dentro il contesto sofferto nel quale ci troviamo, non molto diverso dal contesto di allora.

Come abbiamo ascoltato«In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta» (Lc 2, 1-5).

Mi ha colpito questo aspettoGiuseppe e Maria vivono la grazia del loro Natale, del vero Natale, non in un modo, in un tempo o in circostanze decise da loro, o particolarmente favorevoli. Una volontà imperialistica di potenza governava allora il mondo e pensava di deciderne i destini, sociali ed economici. Questa nostra Terra Santa in quel tempo era soggetta a giochi di interessi internazionali non meno di oggi. Un popolo di poveri viveva facendosi registrare, contribuendo con la propria fatica e il proprio lavoro al benessere di altri… Eppure, senza lamentarsi, senza rifiutarsi, senza ribellarsi, Giuseppe e Maria vanno a Betlemme, disposti al Natale proprio lì. Rassegnazione la loro? Cinismo? Impotenza? Inettitudine? No! Era fede! E la fede, quando è profonda e vera, è sempre uno sguardo nuovo e illuminato sulla storia, perché “chi crede, vede!”.

E cosa hanno visto Giuseppe e Maria? Hanno visto, per la parola dell’Angelo, Dio nella storia, il Verbo farsi carne, l’Eterno nel tempo, il Figlio di Dio fatto uomo! Ed è quello che vediamo anche noi qui, stanotte, illuminati dalla Parola evangelica.

Noi vediamo in questo Bambino il gesto inedito e inaudito di un Dio che non fugge la storia, non la guarda indifferente da lontano, non la rifiuta sdegnato perché troppo dolorosa e cattiva ma la ama, la assume, vi entra con il passo delicato e forte di un Bambino appena nato, di una Vita eterna che riesce a farsi spazio, nella durezza del tempo, attraverso cuori e volontà disponibili ad accoglierla. Il Natale del Signore è tutto qui: attraverso il Suo Figlio, il Padre si coinvolge personalmente nella nostra storia e se ne carica il peso, ne condivide la sofferenza e le lacrime fino al sangue, e le offre una via di uscita di vita e di speranza.

Egli però non vi entra in concorrenza con gli altri potenti di questo mondo. La potenza dell’amore divino non è semplicemente più potente del mondo ma è diversamente potente. Questo Bambino, dopo aver vissuto fino in fondo la nostra vita, lo rivelerà con luminosa chiarezza: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato… ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36). Il passo con cui Dio entra nella storia è quello dell’Agnello, perché solo l’Agnello è degno di potenza e forza, e solo a lui appartiene la salvezza (cf. Ap 5,12). I Cesari Augusti di questo mondo sono dentro il circolo vizioso della forza, che elimina a vicenda i nemici per crearne sempre di nuovi (e dobbiamo constatarlo amaramente ogni giorno). L’Agnello di Dio, invece, immolato e vittorioso, vince, perché vince davvero, guarendo alla radice il cuore violento dell’uomo, con l’amore disposto a servire e a morire, generando così vita nuova.

Maria e Giuseppe, mentre sembrano obbedire passivamente a una storia più grande di loro, in realtà l’hanno attraversata e dominata con il passo di chi guarda a Dio e al suo progetto, e vi fanno entrare gloria e pace.

Anche noi possiamo e dobbiamo abitare questa nostra terra e vivere questa nostra storia: non costretti, però, e nemmeno rassegnati o, ancor meno, pronti a fuggire appena possibile. Noi siamo chiamati dagli Angeli di questa notte a viverla con fede e speranza. Anche noi come Giuseppe e Maria, come i pastori, dobbiamo scegliere e deciderci: accogliere con fede l’annuncio dell’angelo, o andarcene per la nostra strada. Credere o lasciare. Decidersi per Cristo e fare nostro lo stile di Betlemme, lo stile di chi è disposto a servire con amore e scrivere una storia di fraternità. Oppure assumere lo stile di Cesare Augusto, Erode e tanti altri, e scegliere di appartenere a chi presume di scrivere la storia con il potere e la sopraffazione.

Il Bambino di Betlemme ci prende per mano questa notte e ci conduce con Lui dentro la storia, ci accompagna ad assumerla fino in fondo e a percorrerla con il passo della fiducia e della speranza in Lui.

Egli non ha avuto paura di nascere in questo mondo né di morire per esso (non horruisti Virginis uterum). Ci chiede di non avere paura delle potenze di questo mondo, ma di perseverare nel cammino della giustizia e della pace. Noi possiamo e dobbiamo, come Giuseppe e Maria, come i pastori e i magi, percorrere le vie alternative che il Signore ci indica, trovare gli spazi adatti dove possano nascere e crescere stili nuovi di riconciliazione e di fraternità, fare delle nostre famiglie e delle nostre comunità le culle del futuro di giustizia e di pace, che è già iniziato con la venuta del Principe della Pace. È vero: siamo pochi e forse anche insignificanti nelle costellazioni del potere e nello scacchiere dove si giocano le partite degli interessi economici e politici. Siamo però, come i pastori, il popolo cui è destinata la gioia del Natale ed è partecipe della vittoria pasquale dell’Agnello.

Sentiamo perciò rivolto particolarmente a noi l’invito che il Santo Padre ha fatto risuonare poche ore fa per tutta la Chiesa, varcando la soglia della Porta santa e inaugurando così il Giubileo 2025: siamo pellegrini di speranza. Noi cristiani, infatti, non attraversiamo la storia da turisti distratti e indifferenti e nemmeno come nomadi senza meta sballottati qua e là dagli eventi. Noi siamo pellegrini, e pur conoscendo e condividendo le gioie e le fatiche, i dolori e le angosce dei nostri compagni di strada, camminiamo verso la meta che è Cristo, vera Porta santa spalancata sul futuro di Dio (Cf. Gv 10,9). Noi osiamo credere che, da quando il Verbo qui si è fatto carne, in ogni carne e in ogni tempo Egli continua a fecondare la storia, orientandola alla pienezza della gloria. E così, carissimi, proprio quest’anno, proprio qui, ha ancora più senso ascoltare il canto degli angeli che annunciano la gioia del Natale! Proprio ora ha senso ed è bello vivere l’Anno santo del Signore, anzi, l’Anno santo che è il Signore! Quel canto infatti non è stonato, ma rende stonati i rumori di guerra e la vuota retorica dei potenti! Quel canto non è troppo debole ma risuona con forza dentro le lacrime di chi soffre, e incoraggia a disarmare la vendetta con il perdono. Possiamo essere pellegrini di speranza anche dentro le strade e tra le case distrutte della nostra terra, perché l’Agnello cammina con noi verso il trono della Gerusalemme celeste.

L’anno del giubileo, secondo la tradizione biblica, è un anno speciale in cui vengono liberati i prigionieri, cancellati i debiti, le proprietà vengono restituite e anche la terra riposa. È un anno nel quale si fa esperienza della riconciliazione con il prossimo, si vive in pace con tutti e si promuove la giustizia. Un anno di rinnovamento spirituale, personale e comunitario. Avviene questo perché, con il giubileo, è Dio che per primo cancella tutti i debiti con noi. È l’anno della riconciliazione tra Dio e l’uomo, dove tutto si rinnova. E Dio vuole che tale riconciliazione si completi nel rinnovo della vita e delle relazioni tra gli uomini. È il mio augurio per questa nostra Terra Santa, che ha bisogno più di tutti di un vero giubileo. Abbiamo bisogno di un nuovo inizio in tutti gli ambiti della vita, di nuova visione, di coraggio di guardare al futuro con speranza, senza arrendersi al linguaggio della violenza e dell’odio, che invece chiudono ogni possibilità di futuro. Possano le nostre comunità vivere un vero rinnovamento spirituale. Che anche per noi in Terra Santa, dunque, ci sia questo nuovo inizio: che vengano rimessi i debiti, siano liberati i prigionieri, siano restituite le proprietà e si possano davvero iniziare con coraggio e determinazione percorsi seri e credibili di riconciliazione e di perdono, senza i quali non ci sarà mai vera pace.

Voglio ringraziare i nostri fratelli di Gaza, che ho potuto nuovamente incontrare di recente. Rinnovo a voi, cari fratelli e sorelle, la nostra preghiera, la nostra vicinanza e la nostra solidarietà. Non siete soli. Davvero voi siete un segno visibile di speranza in mezzo al disastro della totale distruzione che vi circonda. Ma voi non siete distrutti, siete ancora uniti, saldi nella speranza. Grazie della vostra meravigliosa testimonianza di forza e di pace!

Un pensiero va anche a voi cari fratelli e sorelle di Betlemme. Anche quest’anno per voi è stato un Natale triste, all’insegna dell’insicurezza, della povertà, della violenza. Il giorno più importante per voi, è vissuto ancora una volta nella fatica e nell’attesa di giorni migliori. Anche a voi dico: coraggio! Non dobbiamo perdere la speranza. Rinnoviamo la nostra fiducia in Dio. Lui non ci lascia mai soli. E qui a Betlemme, proprio noi celebriamo il Dio-con-noi e il luogo dove si è fatto conoscere. Coraggio. Vogliamo che da qui ancora risuoni per tutto il mondo lo stesso annuncio di pace di duemila anni fa!

Allora con i pastori andiamo a vedere sempre di nuovo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere. Celebriamo il Natale anche con i segni esteriori della festa, poiché un Bambino è nato per noi e ha riempito di speranza la storia e il mondo intero. Ha trasformato il dolore in doglie di parto, e ha dato a tutti noi la possibilità di anticipare l’aurora di un mondo nuovo!

                   +Pierbattista Card. Pizzaballa

https://www.lpj.org/en/news/homily-for-midnight-mass-christmas-2024

Sunday Homily, December 22, 2024, on the Occasion of the Visit of His Beatitude Cardinal Pierbattista Pizzaballa, Latin Patriarch of Jerusalem, to Celebrate Christmas at the Holy Family Church – Gaza.

I first express my great joy at being among you today and extend to you the greetings of everyone who conveys their love, prayers, and solidarity with you. Everyone wanted to come and be with you and bring gifts, but we couldn’t carry much. You have become the light of our Church in the entire world. 

At Christmas, we celebrate the light and ask: Where is this light? The light is here, in this church. The beginning of the light is Jesus Christ, who is the source of our life. If we are a light to the world, it is only because of Him. At Christmas, I pray that Jesus grants us this light. 

We are living in a time filled with darkness, and there is no need to elaborate because you know it well. In these moments, we must first look to Jesus, for He gives us the strength to endure this dark time. Over the past year, we have learned that we cannot rely on humans. How many promises were made and never fulfilled? And how much violence and hatred arose because of people? 

To remain steadfast in hope, we must be deeply rooted in Jesus. If we are connected to Him, we can look at one another in a different way. 

I don’t know when or how this war will end, and every time we approach the end, it seems like we start anew. But sooner or later, the war will end, and we must not lose hope. When the war ends, we will rebuild everything: our schools, our hospitals, and our homes. We must remain resilient and full of strength. 

And I repeat: We will never abandon you, and we will do everything we can to support and assist you. 

But most importantly, we must not allow hatred to infiltrate our hearts. If you want to remain a light, we must make our hearts available for Jesus alone. 

This year has been a significant challenge to our faith, for all of us, and especially for you. Sometimes, we asked, “Until when, O Lord?” Today, we answer with our will: “We want this situation to end soon, but we want to remain with You, O Lord.” Christ affirmed this by saying, “I am Emmanuel,” which means “God is with us.” 

We must remain steadfast in our faith, pray for the end of this war, and trust completely that with Christ, nothing can overcome us. 

Despite the violence we witnessed this past year, we also witnessed many miracles. Amidst the darkness, there were people who wanted to help and did not let anything stand in their way. The whole world, not just Christians, wanted to support and stand with you. 

The war will end, and we will rebuild again, but we must guard our hearts to be capable of rebuilding. We love you, so never fear and never give up. 

We must preserve our unity to keep the light of Christ here in Gaza, in our region, and in the world. We have a mission, and you must also give something, not just receive. The world that looks at you must see to whom you belong, whether you belong to the light or to darkness? Do you belong to Jesus, who gives his life, or another?  

When the world looks at you, it must notice that we you different. One of you once said to me: “As Christians, there is no violence in our blood. We want to remain Christians and remain the light in this place.”  

Thank you for everything you do. You may not notice it in your difficult daily life, but the whole world does. We are all proud of you, not only for what you do but because you have preserved your identity as Christians belonging to Jesus. 

Belonging to Jesus makes everyone a friend to you, and our lives become lives of giving to all. 

I conclude by saying: Thank you. May Christmas bring light to each of us. Do not be afraid, for no one can take Christ’s light from us. Continue to give a good testimony of the Christian faith. 

Merry Christmas!

https://www.lpj.org/en/news/patriarch-to-gaza-you-are-the-light-of-the-world


La Luce della salvezza spunta da Gaza. La Luce della salvezza è la piccola e resistente comunità cristiana di Gaza a cui tutti guardiamo con affetto e solidarietà da ogni parte del mondo. Credenti e non credenti guardano a questi uomini, donne, giovani e anziani che attraversano da mesi una prova terribile, resistendo alla violenza che li circonda. Tutto il mondo chiede pace, ma la voce di pace che viene da questa comunità è la testimonianza più verace di come i cristiani debbano abitare un mondo che ha smarrito la bussola della convivenza pacifica. Non un risentimento, non un’espressione di rabbia, non una parola di disperazione o di rassegnazione. Ma solo speranza. Speranza che tutto finirà, che la pace tornerà , che il bene tornerà a prevalere. Una speranza che non è suscitata da un umanesimo ragionevole, non da un’identità distintiva, ma dalla fedeltà a Gesù. Questa comunità vive, nella preghiera incessante, accanto a Gesù. Nell’isolamento in cui si trovano hanno un’eco della solidarietà che gli giunge da ogni parte del mondo (e che ieri ho avuto la possibilità di trasmettergli a nome di tutti voi, di tutta la Chiesa), ma la vera forza a resistere gli viene dalla quotidiana e continua vicinanza a Gesù. È poca cosa quello che noi possiamo dare a questa gente, ma è tanto quello che loro danno a noi, con la loro vita. Guardiamo a loro con lo stesso silenzio attonito che usarono i pastori davanti alla grotta in cui comparve il Re della pace. La loro forza è data dall’aver mantenuto un cuore libero, un cuore aperto all’incontro con l’altro. La loro forza è la certezza dell’Emmanuele, del “Dio con noi”, che mai ti abbandona. Da Gaza viene dunque una luce: che sia la luce che illumina un mondo che sembra smarrito nelle tenebre. Può sembrare un paradosso: dalla devastazione di Gaza venga, in questo Natale, la Luce che dona speranza e pace a tutto il mondo. 

di PIERBATTISTA PIZZABALLA

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2024-12/quo-291/la-luce-che-spunta-dalle-macerie.html