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domenica 19 dicembre 2021

“Francesco e il Sultano" in Siria, per continuare il suo bel mosaico di religioni ed etnie

La mostra in lingua araba “Francesco e il Sultano” è stata inaugurata in Siria nella città di Lattakia, il 30 ottobre e si è conclusa ieri a Damasco alla presenza del Ministro della Cultura Lubana Meshaweh e del Nunzio cardinale Zenari.  Organizzata per la prima volta al Meeting di Rimini del 2019, la mostra è stata in seguito realizzata in forma itinerante e presentata a Mosca nell’aprile 2021 al Centro culturale “Pokrovskie vorota”.
La vicenda di San Francesco e del sultano Malik al-Kamil, che, nel bel mezzo della Quinta Crociata, hanno trovato le risorse spirituali per incontrarsi, rimane un esempio per tutte le nostre società. È quello che l’Assessore alla cultura della città di Lattakia, il dott. Madj Sarem, ha sottolineato nel suo discorso inaugurale: «Questa mostra testimonia che il dialogo è la base della costruzione della civiltà e della cultura. E in Siria abbiamo molto bisogno di questo dialogo per ricostruire il nostro Paese che ha cosi sofferto a causa della guerra».
La Siria, la terra che ha dato al cristianesimo l’apostolo Paolo, testimonia ancora oggi che l’apertura e l’ospitalità non sono un mero fatto del passato, ma una forza creativa per i tempi presenti, anche quando sono difficili. 
Alexandra Shilova


 Da Mosca a Damasco. La mostra che racconta dell’incontro fra san Francesco e il sultano Malik Al Kamil ha girato le città della Siria. Perché, in una terra martoriata dalla povertà, puntare sulla cultura? Ce lo racconta Jean François Thiry che intervista il nunzio apostolico a Damasco card. Mario Zenari.

Lei ci diceva che la Siria sta morendo in silenzio. Mi piacerebbe capire come la Chiesa qui in Siria, anche attraverso di lei, sta affrontando le difficoltà odierne, e come può essere un segno di speranza per il popolo siriano.
Innanzitutto, c’è bisogno che si parli della Siria. Io sono qui da quasi 13 anni come nunzio. Sono arrivato due anni prima della guerra e ho vissuto gli anni del conflitto anche nei suoi periodi più disastrosi. Allora almeno si parlava della Siria, i giornalisti chiamavano tutte le settimane. Più tardi ho chiesto a un giornalista: ma perché non ne parlate più? La risposta: la Siria non si vende più, dopo un certo numero di anni la gente è stufa.

La situazione però purtroppo, da quello che constato personalmente, non è migliorata. Quello che vedo per le strade di Damasco sono certi segni di povertà che prima non c’erano. È vero, per fortuna non cadono più le bombe, colpi di mortaio; però c’è un’altra bomba terribile che è quella della povertà. Secondo i dati delle Nazioni Unite il 90% della popolazione siriana vive sotto la soglia della povertà, ed è una cosa allarmante. Purtroppo, non si vedono i segni di una ripartenza economica, occorrerebbero miliardi e miliardi per ricostruire la Siria, per mettere in piedi le fabbriche, dar lavoro alla gente, un futuro ai giovani: siamo ancora lontani da tutto ciò. Anzi, quello che osservo è una situazione bloccata, e questo significa che a pagare è la povera gente senza lavoro che fa la coda davanti a certi panifici che vendono a prezzi calmierati dallo Stato. Si fa fatica a trovare la benzina, il gasolio per viaggiare o per riscaldarsi, e con l’inverno la situazione peggiora. Quindi, il mio impegno, come nunzio apostolico, è cercare di tenere viva l’attenzione su questo paese.

Per quanto riguarda la Chiesa locale, in generale, i preti, i religiosi, le religiose durante la guerra sono rimasti accanto alla loro gente e questo è stato un esempio positivo. In tutti questi anni anche i cristiani hanno sofferto, soprattutto a causa del loro numero esiguo. In queste guerre gli anelli più deboli della catena sono i gruppi minoritari. Fatta eccezione per casi di pressione esercitata dall’Isis, dagli jihadisti sui cristiani durante gli anni più duri dello stato islamico (insulti, sfregi di icone o simboli religiosi), direi che non c’è stata una persecuzione in senso stretto. I cristiani hanno subito tutti questi oltraggi perché erano una minoranza, e i gruppi minoritari hanno sofferto per la guerra perché più esposti, più deboli.

Tra le varie sofferenze ce n’è una in particolare che pesa molto e che durerà a lungo: l’emigrazione dei cristiani. Parliamo di un’emigrazione forzata perché per queste minoranze il futuro è molto incerto, soprattutto per i giovani. In questi anni di guerra abbiamo assistito a flussi migratori che ancora continuano e che interessano più della metà della popolazione cristiana. Diverse chiese distrutte sono state ricostruite ancora più belle di prima, con le varie pietre posizionate al loro posto originario. Ma se anche una chiesa venisse riportata al suo primitivo splendore e mancassero le pietre vive, sarebbe una ferita enorme. E non solo per le Chiese (che certamente sono le prime a piangere questa partenza), ma anche per la società siriana. Pensiamo ai 2000 anni di presenza dei cristiani in Siria, al loro apporto notevole nel campo dell’educazione, della salute, dell’economia, della politica. Un politico molto conosciuto degli anni dell’indipendenza e ricordato ancora oggi con grandissima stima era un cristiano, Fares al-Khoury. Io dico sempre: i cristiani per la società siriana sono come una finestra aperta sul mondo che fa entrare una boccata d’aria. Con i cristiani generalmente tutti si trovano bene. Ho visitato villaggi misti dove c’erano metà cristiani, metà musulmani, sunniti o alawiti, e tutti si trovavano in pace.

Quindi i cristiani sono uno spirito aperto universale, sono una ricchezza. E in ogni cristiano o in ogni famiglia cristiana che vedo partire, vedo questa finestra della Siria aperta sul mondo che adagio adagio si chiude. Rischiamo di avere una Siria mono-culturale, mono-religiosa. Quindi la ferita più grave per le Chiese, ma anche per la stessa società siriana, è l’emigrazione cristiana. Poi abbiamo cristiani che sono morti sotto le bombe. Abbiamo cinque ecclesiastici dei quali dopo anni non si sa niente: due metropoliti ortodossi di Aleppo spariti più di 8 anni fa, e altri tre preti di cui si sono perse le tracce. Purtroppo, questo fa parte di quelle migliaia e migliaia (qualcuno arriva a dire 100.000) di persone scomparse. Poi ci sono altre varie ferite. Abbiamo avuto chiese distrutte o semidistrutte, simboli religiosi sfregiati. Abbiamo subito pressioni per far convertire i cristiani.

Le Chiese in questo momento sono molto impegnate nel campo degli aiuti umanitari. C’è gente che ha fame, che è sempre più ammalata (pensate cosa possono essere 10 anni di guerra), bambini che non hanno la scuola. Qui non c’è solo la gente che geme e che piange, ma c’è tutto il creato che geme e piange. L’aria, il terreno, le acque piangono per l’inquinamento. Da dieci anni infatti si usano esplosivi di ogni genere. Quindi adesso le Chiese sono impegnate al massimo nei programmi umanitari. Noi ringraziamo tutte le varie istituzioni assistenziali, caritative di ogni genere, soprattutto quelle cristiane di diverse parti del mondo. Ricordo che durante gli anni più duri della guerra le nostre istituzioni assistenziali cattoliche distribuivano ogni giorno circa 25.000 pasti caldi, di cui 15.000 ad Aleppo e in varie altre parti della Siria. Abbiamo varie attività anche nel settore della salute; un’iniziativa, ad esempio, è stata sostenuta dal papa e dal Pontificio consiglio per lo sviluppo umano integrale: quella di salvare tre ospedali cattolici, due a Damasco e uno ad Aleppo, molto stimati ma che rischiavano di chiudere. Durante la guerra infatti circa la metà degli ospedali era inagibile, ed era un costo enorme tenerli aperti. Allora l’iniziativa si era chiamata “ospedali aperti”, aperti a una condizione: che uno fosse povero e non potesse pagarsi le cure mediche. In tre anni e mezzo sono state curate più di 50.000 persone con risultati molto buoni.

La maggior parte di questi poveri che bussano alla porta non è cristiana (noi cristiani infatti siamo sì e no il 2%), però da quello che sento dire è molto riconoscente verso i cristiani. Molti si sorprendono di vedere il figlio o la moglie curati gratuitamente perché sono poveri. Direi che qui ci sono due bei frutti: la cura del corpo e la cura delle relazioni umane. E il fatto che queste persone non cristiane parleranno bene dei cristiani è un altro bel frutto.  Poi ci sono tantissime iniziative in diversi settori: dall’aiuto a pagare l’affitto di casa o la retta scolastica, a quello per costruire l’appartamento o cercare un posto di lavoro. Direi che le Chiese hanno sviluppato una “fantasia della carità” come diceva san Giovanni Paolo II, che è fatta di molte iniziative lodevoli, e siamo riconoscenti a tutti quelli che aiutano. Anch’io come nunzio cerco di chiedere elemosine, perché purtroppo mi accorgo che tutti questi aiuti sono come rubinetti nel deserto. Come rappresentante del papa devo darmi da fare, perché oltre ai rubinetti c’è bisogno di un fiume di aiuti. Un fiume che secondo gli esperti ammonterebbe almeno a 400 miliardi di dollari affinché ci sia la ricostruzione, una ripartenza economica. Purtroppo questo fiume è bloccato. Bloccato tra le altre cose dalle sanzioni che alcuni paesi che potrebbero aiutare mettono come condizioni. A mio parere c’è bisogno di fare pressione contemporaneamente su tre capitali: Damasco, Bruxelles, e Washington. Tutte e tre devono fare qualche gesto di buona volontà, qualche segno di compromesso. Invece, purtroppo, come dice l’inviato speciale delle Nazioni Unite Wennesland, c’è la sindrome del you first, quella per cui “tu devi muoverti per primo”. Dobbiamo trovare una comunità internazionale, ripete Wennesland, che faccia pressione perché le sanzioni vengano tolte, perché vengano meno anche corruzione e incompetenza.

Temo che la Siria rischi di essere strangolata nel silenzio. Questa bomba gravissima della povertà, di cui ho parlato, non fa chiasso. I mortai, le bombe durante la guerra (ne è caduta una anche sopra la nunziatura), quelle sì che facevano chiasso. La povertà invece colpisce il 90% della popolazione in silenzio. Bisogna cominciare a parlare, bisogna fare qualcosa: la comunità internazionale, le Chiese, tutti.

Ci ha descritto un panorama davvero surreale. La guerra distrugge tanti rapporti di convivenza pacifica… In un simile disastro, la mostra “Francesco e il Sultano” può essere uno strumento utile per l’incontro fra religioni diverse? Qual è la situazione odierna del dialogo interreligioso ed ecumenico?
Quando sono arrivato qui mi sono sentito ben accolto; dalla comunità cristiana naturalmente ma anche da quella musulmana, dalla gente comune. Sono andato tante volte in moschea con la talare e la croce e sono sempre stato rispettato. C’era un bel mosaico di convivenza tra le varie etnie e religioni. Spero davvero che questo mosaico non sia stato rovinato da questi anni di guerra, anche se si sono create fratture tra le varie comunità (quella maggioritaria sunnita, quella alawita, e le altre), ma spero siano danni che si possono riparare.

Questa mostra che viaggia per la Siria farà molto bene al dialogo interreligioso. Ho notato sempre un buon clima tra cristiani e musulmani e la mostra certamente contribuirà ad alimentarlo. Sto pensando al dialogo tra Francesco e il sultano avvenuto 800 anni fa, o ai gesti degli ultimi tempi come la preghiera di Assisi voluta da san Giovanni Paolo II a cui parteciparono vari esponenti delle varie religioni, o alla dichiarazione di Abu Dhabi firmata dal papa e dal grande imam di Al Azhar. E poi penso al viaggio del papa in Iraq con la visita al capo sciita Sayyed Jawad Al-Khoei. Anche io qui in Siria ne ho avuto un’eco molto positiva. Sono tutte pietre miliari sul cammino della fratellanza umana. Credo ci sia bisogno di rinsaldare queste relazioni ecumeniche e interreligiose, e direi che una mostra simile senz’altro produrrà dei frutti, assieme alla diffusione dell’enciclica Fratelli tutti.

Per vincere il male che c’è, i conflitti nel Medio Oriente, occorre che gli eredi della fede di Abramo, ebrei, cristiani, musulmani, diano dei segni particolari. Quando sono arrivato qui, mi sono recato nella grande moschea degli omayyadi che era sorta su un’antica basilica cristiana, e che è stata la prima moschea nella quale è entrato un papa, san Giovanni Paolo II. E vi è entrato principalmente perché lì secondo la tradizione è conservata la testa di san Giovanni Battista. Ogni volta che vado in questa moschea e mi dirigo verso il luogo della reliquia dove c’è un grande cenotafio, vedo sempre della gente che la venera, ed è gente musulmana. In quel punto della moschea potremmo trovarci davanti a quella reliquia ebrei, cristiani, e musulmani, perché nel Corano hanno la figura del profeta Giovanni il Battista. Quindi, proprio come eredi della fede di Abramo dovremmo mettere sempre più in risalto questi segni di fratellanza.

Durante gli anni terribili del conflitto che cosa le ha permesso di rimanere in Siria? Non può essere solo il lavoro o la missione papale. Credo che abbia vissuto questo tempo in modo molto personale…
Quando sono arrivato qui avevo già alle spalle 36 anni di esperienza nelle nunziature apostoliche di quattro continenti. Ho notato che tutti i nunzi prima di me erano rimasti in Siria quattro anni. I miei propositi di studiare l’arabo sono stati quindi rovinati da questa scoperta, perché non immaginavo che sarei rimasto di più. Ho però detto al papa e ai miei superiori: «Non pensate che io sia lì che pianga e che muoia di paura o di fame. Secondo me è opportuno che il nunzio rimanga. Si dice ai cristiani di non partire, ma occorre dare loro l’esempio». Se anche il papa mi nominasse nunzio in Europa, non mi sentirei contento, penserei sempre alla Siria. Il Signore mi darà la forza di rimanere con la gente che soffre, e posso dire di avere sempre avuto il necessario per vivere. Il 5 novembre 2013 è caduto un colpo di mortaio sopra la residenza, ma erano le 6.30 del mattino e ha fatto solo danni materiali molto limitati. Però ho visto gente morire, ho visitato diversi bambini che andando o tornando da scuola, quando bombardavano, venivano colpiti, magari alle gambe o alle braccia. Mi ricordo che un sabato santo del 2014 ho visitato una bambina, Lorin di 9 anni, e i suoi genitori che stavano in silenzio ai piedi del letto della figlia. La suora mi ha detto: «Lorin è molto nervosa oggi perché ieri che era venerdì santo le hanno amputato entrambe le gambe e si rende conto che non le ha più». 

Poi il 9 ottobre 2016, una domenica, mi dicono che il papa nella lista dei cardinali aveva messo anche il mio nome: arcivescovo Mario Zenari, nunzio in Siria che rimarrà in Siria. Ero il primo nunzio a essere fatto cardinale, che cosa significava? Nella storia ci sono stati dei nunzi trasferiti a Roma e poi fatti cardinali, ma di nunzi cardinali credo di essere l’unico esempio nella storia moderna delle nunziature. Mi hanno chiesto: «Lei che cosa pensa di questa nomina del papa?». E ho risposto: «il papa ha donato la porpora, simbolo del sangue, ai bambini morti del conflitto siriano». La porpora è il segno del sangue che un cardinale deve essere disposto a versare per la Chiesa, ma io porto questa porpora in segno del sangue versato soprattutto dagli innocenti e da tanti bambini. E indosso spesso anche una fascia sempre color porpora e alle volte la levo per chiedere alla gente un parere su quanto è larga. Qualche signora ci prova e spara delle cifre, sbagliando. Allora io dico: è larga 876 km e mezzo e lunga 975 km, perché il papa mi ha dato tutta la Siria. La Siria è catalogata come il paese che ha la più grande catastrofe umanitaria dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, basta pensare ai morti: più di mezzo milione. Con la metà della popolazione sfollata o rifugiata nei paesi vicini.

Infine, aggiungo un ultimo particolare: sarei dovuto andare in pensione già lo scorso gennaio. Ho detto al papa che io sono sempre disposto ad andare in pensione, ma che qui la situazione è quello che è. Allora il papa mi ha chiesto di rimanere. Anche se non faccio miracoli, se non porto qui miliardi, credo che una delle cose più interessanti sia vivere con la gente che soffre. Questo è tutto. 

Pur non sapendo niente della Siria, sapevo però che l’ambasciata del Vaticano non era stata chiusa durante la guerra, e che il nunzio era rimasto col popolo e coi cristiani siriani. Questo fatto ha colpito tutti, è stata una grande testimonianza per tutti. Noblesse oblige, sono nunzio, devo rimanere qui. Sono diventato dall’anno scorso anche decano del corpo diplomatico per anzianità. Io direi con linguaggio calcistico che sono ai tempi supplementari. Spetterà all’arbitro fischiare, e finché non fischia…


Qualcuno potrebbe chiedersi: ma c’è un senso nell’organizzare un evento del genere in un luogo dove mancano l’elettricità e la benzina? Io credo di sì, perché proprio in un paese così martoriato dalla povertà, simili iniziative possono aiutare la gente a guadagnare una speranza. Non posso certamente risolvere i problemi economici, ma posso dire che molte persone che visitano la mostra vedono l’esempio di Francesco e del sultano come un segno di speranza per loro, come una possibilità di dialogare con le altre comunità, e quindi come un bene per il paese.

La mostra viaggia in posti molto diversi fra loro: chiese cattoliche, ortodosse, centri culturali musulmani o laici. È capitato spesso che a inaugurarla fossero sacerdoti ortodossi, e questo è curioso se pensiamo che nel primo pannello c’è la foto del papa. Ma non ho visto difficoltà. In Siria non c’è il problema dell’ecumenismo, i problemi sono altri. I cristiani non hanno la forza di litigare fra loro e un prete ortodosso può benissimo inaugurare una mostra che parla di un santo cattolico. La Chiesa ortodossa russa cerca in vari modi di sostenere la Chiesa di Antiochia. Quindi gli ortodossi guardano con molta curiosità e simpatia l’attività che facciamo in Siria e i rapporti che il centro culturale ha coi musulmani di Mosca. Direi che

nella terra dove san Paolo si fece fratello di coloro che aveva perseguitato, ci convinciamo sempre di più che l’apertura e la disponibilità non sono fatti del passato, ma un avvenimento del presente capace di vivificare anche le circostanze più opprimenti.

 https://www.lanuovaeuropa.org/cultura/2021/12/11/da-mosca-alla-siria-francesco-e-il-sultano/

giovedì 16 dicembre 2021

L'obiettivo è cacciare i cristiani da Gerusalemme e dal resto della Terra Santa, secondo i vertici della Chiesa.

 

Il 13 dicembre i Patriarchi e i Capi delle Chiese di Gerusalemme hanno firmato una  dichiarazione congiunta su “L'attuale minaccia alla presenza cristiana in Terra Santa". Leader cattolici, ortodossi e protestanti hanno lanciato un appello alle autorità civili di Israele, Palestina e Giordania sulla situazione prevalente della comunità cristiana in Terra Santa.  

“Dal 2012 ci sono stati innumerevoli episodi di aggressioni fisiche e verbali contro sacerdoti e altro clero, attacchi a chiese cristiane, con luoghi santi regolarmente vandalizzati e profanati, e continue intimidazioni nei confronti dei cristiani locali che cercano semplicemente di adorare liberamente e di svolgere la loro vita quotidiana .”

Gli obiettivi del dialogo richiesto:

“(1) Affrontare le sfide presentate dai gruppi radicali a Gerusalemme sia alla comunità cristiana che allo stato di diritto, in modo da garantire che nessun cittadino o istituzione debba vivere sotto la minaccia della violenza o dell'intimidazione; (2) Avviare il dialogo sulla creazione di una speciale zona culturale e del patrimonio cristiano per salvaguardare l'integrità del quartiere cristiano nella Città Vecchia di Gerusalemme e per garantire che il suo carattere unico e il suo patrimonio siano preservati per il benessere della comunità locale , la nostra vita nazionale e il resto del mondo”.

Organizzazioni cristiane in altre parti del mondo hanno rapidamente aggiunto il loro sostegno all'appello.  Anche le Chiese per la pace in Medio Oriente (CMEP), un gruppo di difesa delle Chiese ortodosse, cattoliche e protestanti con sede negli Stati Uniti, hanno aderito all'appello, affermando che le comunità cristiane sono una parte importante della Terra Santa e custodi dei luoghi santi cristiani.  

“Mentre i cristiani si preparano a celebrare il Natale”, si legge in una dichiarazione del CMEP, “abbiamo vivo il pensiero dei  nostri fratelli in Terra Santa che continuano a portare avanti le tradizioni nel luogo in cui è iniziata la nostra fede”.

Di seguito il testo della "Dichiarazione congiunta su l'attuale minaccia alla presenza cristiana in Terra Santa.":

Throughout the Holy Land, Christians have become the target of frequent and sustained attacks by fringe radical groups. Since 2012 there have been countless incidents of physical and verbal assaults against priests and other clergy, attacks on Christian churches, with holy sites regularly vandalized and desecrated, and ongoing intimidation of local Christians who simply seek to worship freely and go about their daily lives. These tactics are being used by such radical groups in a systematic attempt to drive the Christian community out of Jerusalem and other parts of the Holy Land.

We acknowledge with gratitude the declared commitment of the Israeli government to uphold a safe and secure home for Christians in the Holy Land and to preserve the Christian community as an integral part of the tapestry of the local community. As evidence of this commitment we see the government’s facilitation of the visit of millions of Christian pilgrims to the holy sites of the Holy Land. It is therefore a matter of grave concern when this national commitment is betrayed by the failure of local politicians, officials and law enforcement agencies to curb the activities of radical groups who regularly intimidate local Christians, assault priests and clergy, and desecrate Holy Sites and church properties.

The principle that the spiritual and cultural character of Jerusalem’s distinct and historic quarters should be protected is already recognised in Israeli law with respect to the Jewish Quarter. Yet radical groups continue to acquire strategic property in the Christian Quarter, with the aim of diminishing the Christian presence, often using underhanded dealings and intimidation tactics to evict residents from their homes, dramatically decreasing the Christian presence, and further disrupting the historic pilgrim routes between Bethlehem and Jerusalem.

Christian pilgrimage, in addition to being the right of all the Christians around the world, brings great benefits to Israel’s economy and society. In a recent report by the University of Birmingham, it was highlighted that Christian pilgrimage and tourism contributes $3bn to the Israeli economy. The local Christian community, while small and decreasing in number, provides a disproportionate amount of educational, health and humanitarian services in communities throughout Israel, Palestine, and Jordan. In accordance with the declared commitment to protect religious freedom by the local political authorities of Israel, Palestine, and Jordan, we are requesting an urgent dialogue with us the Church Leaders, so as to:

1. Deal with the challenges presented by radical groups in Jerusalem to both the Christian community and the rule of law, so as to ensure that no citizen or institution has to live under threat of violence or intimidation.

2. Begin dialogue on the creation of a special Christian cultural and heritage zone to safeguard the integrity of the Christian Quarter in Old City Jerusalem and to ensure that its unique character and heritage are preserved for the sake of well-being of the local community, our national life, and the wider world.

—The Patriarchs and Heads of Churches in Jerusalem

13 December, 2021


https://www.custodia.org/it/news/statement-current-threat-christian-presence-holy-land

domenica 12 dicembre 2021

I rifugiati di Damasco

VaticanNews

Suor Antonietta, gli occhiali che incorniciano un viso sempre sorridente, è una delle cinque Suore di Gesù e Maria presenti a Damasco. La congregazione, fondata a Lione nel 1818 da Santa Claudine Thévenet, è presente in Siria dal 1983 con la missione fondamentale di educare i bambini. Dal loro convento, le religiose lavorano duramente per trovare aiuti per le famiglie cristiane povere che sono fuggite a Damasco a causa della guerra.  


Incontrare gli sfollati

Suor Antoinette cammina per le stradine della città vecchia. La capitale è piena di negozi e ristoranti, ma non mancano vicoli non illuminati, un po' più lontani dalle strade principali, che sembrano molto più tristi. È in uno di questi vicoli che suor Antoinette entra, prima di salire su una scala, sotto un portico. Si ferma davanti a una porta di metallo grigiastro. "Jacqueline", dice la suora, bussando alla porta. Qualche istante di attesa e appare una bambina: Sidra, 8 anni, si getta sorridente tra le braccia di suor Antoinette. Poi è il turno di suo fratello Azar, di 11 anni, e finalmente Jacqueline, la loro madre, fa entrare la religiosa. La donna accoglie la suora in un piccolo cortile, che si affaccia sull'unica stanza, piuttosto umida, della casa dove vive sola con i suoi tre figli. La figlia maggiore, Sarah, 12 anni, non è presente perché è a catechismo.

Fuggire o morire

La storia di Jacqueline è agghiacciante: viveva a Maaloula, qualche decina di km a nord-est di Damasco. Una città prevalentemente cristiana. Lei e suo marito, Ghassan, possedevano terreni agricoli, coltivavano uva e fichi e producevano melassa. Ma quando è scoppiata la guerra, la situazione si è complicata da un giorno all'altro. Nel 2013, le milizie islamiste di al-Nosra circondano la città e non mostrano alcuna pietà, soprattutto verso i cristiani. Nella piazza centrale, effettuano esecuzioni pubbliche. Rapiscono anche diverse persone, tra cui Ghassan, il marito di Jacqueline. In questo clima di terrore, la donna non ha altra scelta che quella di fuggire. Con i suoi figli, parte per Damasco. Come lei, migliaia di famiglie vanno nella capitale, considerata più sicura. Jacqueline non ha notizie di suo marito per molto tempo. All’inizio ha ricevuto una richiesta di riscatto, ma poi nessun contatto con i rapitori o i loro intermediari. In tutto, ha vissuto per tre anni senza sapere che fine avesse fatto il padre dei suoi figli, fino a un giorno del 2016 e ad una telefonata di un ufficiale dell'esercito siriano che le ha detto che i resti umani di cinque persone erano stati trovati in Libano e che, secondo le indagini, Ghassan poteva essere una delle vittime, come confermato poi dall'esame del Dna. Secondo l'esercito, i cinque uomini sono stati giustiziati dalla milizia islamista e, secondo i testimoni, hanno tutti rifiutato di convertirsi all'Islam, preferendo morire come martiri.

Sopravvivere a Damasco

Per sopravvivere, Jacqueline ha qualche piccolo lavoro, aiuta le suore del convento. Le armi ora tacciono in gran parte del Paese, ma la crisi economica che ne è conseguita è profonda. L'inflazione galoppa, rendendo i beni essenziali praticamente inaccessibili. Nella stanza in cui vivono Jacqueline e i suoi figli, c'è un letto dove dorme lei con le sue due figlie, un divano dove dorme Azar, un vecchio frigorifero, una televisione e una stufa a nafta. Sul bordo dell'unica finestra, alcune scatole di cibo e pane. Dall'altro lato del cortile, una zona "cucina" contiene un lavandino e un fornello a gas. C'è anche una toilette, ma nessun bagno vero e proprio. Suor Antoinette sta lavorando duramente per trovare il denaro in modo che possa essere installata almeno una doccia, affinché i bambini non debbano più andare al convento per lavarsi, anche se le suore li accolgono ben volentieri.

Le Suore di Gesù e Maria stanno sostenendo questa famiglia, e molte altre, in ogni modo possibile: preparano pacchi di cibo, si danno da fare per trovare vestiti e soldi per aiutare molte persone a pagare l'affitto. Nonostante le enormi difficoltà della vita quotidiana, Jacqueline vuole rimanere a Damasco, mentre molti siriani scelgono di andare all'estero. Ma lei vuole dare una possibilità ai suoi figli: "Le scuole sono migliori a Damasco", dice.

A Maaloula, il fratello di Ghassan ha restaurato la casa di famiglia e sta cercando di rilevare la piccola fattoria originaria. Jacqueline e i bambini ci vanno d'estate durante le vacanze scolastiche, ma tornare a vivere a Maaloula è un trauma che la donna non ha la forza di affrontare.

Georges e Marie

A pochi chilometri di distanza, suor Antoinette visita un'altra famiglia. Una coppia con tre figli di età compresa tra i 16 e i 18 anni. Sta piovendo, non c'è corrente elettrica (funziona solo per tre o quattro ore al giorno), e alcune gocce di pioggia cadono attraverso il tetto di lamiera, finendo in un secchio. Come molte famiglie che non possono permettersi un generatore privato, Georges e Marie (nomi fittizi, per preservare l’anonimato di questa famiglia minacciata di morte) hanno una batteria che alimenta una lampada a Led. Vengono da Homs, dove erano apicoltori. In una notte, hanno abbandonato tutto e sono partiti in pigiama, sotto il fuoco dei "terroristi". Sono fuggiti a piedi, poi in auto e infine in autobus verso Damasco. Poco dopo il loro arrivo nella capitale, Georges ha avuto un infarto. Ha subíto un intervento chirurgico e si è miracolosamente salvato, ma risente ancora dell’accaduto e non è più in grado di lavorare e guadagnare uno stipendio. È quindi Marie, con la sua piccola attività di sarta, a sfamare i cinque membri della famiglia. Ma ora l'inflazione è tale che tutto ciò non è più sufficiente. La donna ha anche dovuto rallentare il suo lavoro a causa di reumatismi alle mani. Quindi, è stata presa la decisione di ritirare il figlio da scuola in modo che possa lavorare per integrare il magro reddito familiare. A 18 anni, il ragazzo consegna cereali e fa il pendolare tra la fabbrica di Homs e la capitale, Damasco. Dei cinque membri della famiglia, lui è l'unico che è tornato a Homs.

 L'identità della terra

A Homs, non rimane nulla della loro casa e della loro terra. La villa in cui vivevano è stata rasa al suolo e gli alberi che alimentavano i loro alveari sono stati abbattuti per farne legna da ardere. A Homs, il numero di case abbandonate è incalcolabile; ogni giorno, le famiglie continuano a fuggire. Spesso le famiglie musulmane che sono rimaste lì fanno offerte per comprare dai cristiani che sono partiti. Ma è come se la rivendicazione dell'identità avesse permeato il terreno. Le famiglie cristiane, nella stragrande maggioranza dei casi, rifiutano di cedere i loro appezzamenti di terreno ai musulmani. Qualunque sia il costo. Marie e Georges potrebbero permettersi una migliore qualità di vita vendendo ciò che possiedono a Homs. Non hanno intenzione di tornare a vivere lì, ma se devono vendere, sceglieranno una famiglia cristiana. E se vendono, spenderanno i loro soldi per lasciare la Siria. Non fanno mistero del loro desiderio di stabilirsi all'estero. Ma non prima che il loro figlio abbia conseguito il diploma. Hanno promesso a suor Antoinette che, in cambio dell'aiuto fornito dalle suore, dei pacchi di cibo e dei soldi per l'affitto, il ragazzo tornerà a scuola il prossimo trimestre per finire il suo corso di studio e ottenere la licenza, uno strumento minimo di garanzia per un lavoro stabile e pagato meglio.

Alcune cifre

Il numero di sfollati in Siria è stimato intorno ai 7 milioni. Il 90% della popolazione vive oggi, come le famiglie di Jacqueline e Georges, sotto la soglia di povertà (con meno di 1 dollaro al giorno). 13,5 milioni di persone nel Paese hanno bisogno di aiuti umanitari. 2,5 milioni di bambini sono senza scuola, in gran parte a causa della distruzione del 40% degli edifici scolastici durante la guerra.

lunedì 6 dicembre 2021

Padre Daniel dalla Siria: un felice cammino di vocazione religiosa


Cari amici,

Venerdì 26 novembre 2021, padre Jean-Beauduin è stato ordinato diacono nella Chiesa greco-melchita dal nostro vescovo Jean-Abdo Arbach nella comunità di Mar Yakub secondo il rito orientale.

Fr. Jean è arrivato per la prima volta in questo monastero nel 2010. Suo nipote, Sebastiain de Fooz, aveva intrapreso un'escursione molto avventurosa da Gand a Gerusalemme nel 2005 e aveva ricevuto un caloroso benvenuto lungo il percorso al monastero Mar Yakub, a Qâra in Siria ( A piedi verso Gerusalemme. Un viaggio in solitaria di 184 giorni , Lannoo, 2011 ).

Ha esortato Jean a contattare la comunità, cosa che ha fatto. Fr. Jean incontrò madre Agnes-Mariam, che aveva ristrutturato le rovine di questo monastero un tempo famoso, fondato nel VI secolo, dedicato al santo persiano Jacob (= Mar Yakub) il Mutilato.  Con l'appoggio dell'allora vescovo, vi aveva fondato l'Ordine dell'Unità di Antiochia .

Fr Jean tornò in Belgio per completare i suoi studi di giornalismo e in seguito si trasferì definitivamente a Mar Yakub.

Nel frattempo, io stesso ero affascinato dal movimento mondiale Verso Gerusalemme II (tjcii) : sulla restaurazione dell'unità originaria della Chiesa, composta dalla "chiesa dei Giudei" e dalla " chiesa delle nazioni ”  (ecclesia ex judaeis  et ecclesia ex gentibus), unità nella diversità. In un congresso a Gerusalemme (2009), Madre Agnes-Mariam ha dato un'affascinante testimonianza sull' “unità di Antiochia” il luogo dove la Chiesa per prima (e ultima?) ha sperimentato quell'unità.

L'ho invitata a tenere conferenze su questo argomento in Belgio e nei Paesi Bassi. Dopo una prima serie di lezioni, è stata invitata altre tre volte da altri, dopodiché mi ha chiesto: “quando vieni a trovarci?”

E così sono andato a Mar Yakub come turista nel 2010 per due mesi. Ho vissuto un vero shock culturale in questo Paese musulmano con la sua sicurezza, prosperità, ospitalità e convivenza armoniosa di popoli e religioni diverse. Prima di tornare, Madre Agnes-Mariam mi ha chiesto se volevo aiutare a creare una scuola del sacerdozio cattolico, che sarebbe stata la prima nella storia della Siria, cosa che ho accettato. Abbiamo iniziato con quattro studenti, di cui alla fine fratel Jean è l'unico rimasto.

Proprio allora però, le potenze occidentali insieme agli Stati del Golfo, inscenarono una guerra spietata contro il popolo e il Paese siriano, per spezzarne l'indipendenza, impadronirsi delle risorse minerarie, costruire il “gasdotto americano” dall'Arabia Saudita e dal Qatar attraverso Homs fino al Mediterraneo, rompere la sua alleanza con la Russia... Sono stati reclutati numerosi terroristi da tutto il mondo per mettere in ginocchio la Siria. Alla fine, tuttavia, il popolo siriano, il suo esercito, governo e presidente sono rimasti sufficientemente uniti e hanno resistito, anche se il Paese è stato in gran parte distrutto, il popolo in gran parte massacrato e la prosperità si è trasformata in povertà.

Nel frattempo, abbiamo lottato insieme per la necessaria formazione filosofica e teologica. Sotto i bombardamenti più pesanti, studiavamo le “Marialogie” a lume di candela ai piedi della torre romana, mentre i fratelli facevano a turno di notte la guardia per poter dare l'allarme in caso di pericolo. Sono stati prodotti anche numerosi lavori annuali, tra l'altro sulle divisioni tra la Chiesa d'Oriente e d'Occidente e sulle notevoli menzioni di Gesù e Maria nel Corano. Comprendiamo che puoi trovare quasi tutti gli insegnamenti cristiani su Gesù e Maria nel Corano, anche se mescolati con molte contraddizioni e confusione.

P. Jean ha ora potuto ottenere un diploma di laurea online di 3 anni in 2 anni presso la Domuni Universitas dei Padri Domenicani a Tolosa (Francia).  Parla anche abbastanza siriaco per dare catechesi ai bambini di Qâra. E abouna Georges di Qâra è il nostro professore di liturgia che, con pazienza e dedizione, ha anche sufficientemente formato padre Jean nella liturgia bizantina. Che padre Jean provenisse dal rito latino e sia ora ordinato di rito bizantino è rimasta a lungo una difficoltà (teorica).  Dopotutto, diaconi e sacerdoti della Chiesa greco-cattolica hanno la possibilità di scegliere se sposarsi o meno. Come monaco di Mar Yakub, p. Jean, però, ha già fatto la sua scelta.

La consacrazione si è svolta nel piccolo cortile coperto di St. Jacques e non nell'ancor più piccola chiesa buia.  Hanno concelebrato una dozzina di sacerdoti. Si trattava infatti di tre ordinazioni: lettore e suddiacono prima dell'Eucaristia e diacono al termine dell'Eucaristia. 

All'ordinazione come lettore, il vescovo gli consegna la tonsura con l'imposizione delle mani: il vescovo gli taglia i capelli a forma di croce. Fr. Jean poi legge un'epistola. Nel suddiaconato si prostra a terra con la stola. Lava le mani del vescovo in segno di servizio. Nella preghiera di accompagnamento si implora l'amore per la casa di Dio. Giunti al diaconato, viene condotto tre volte intorno all'altare, baciando ogni volta i quattro angoli dell'altare. Si inginocchia con la fronte sull'altare. Infine, il vescovo gli mette sul capo la stola insieme alla croce e gli impone le mani. Nella preghiera, Santo Stefano è presentato come esempio. Il diacono poi legge le litanie in cui si prega per ogni genere di necessità: per la pace nel mondo, per la patria, per questo luogo… Tre volte gli viene gridato che ne è degno. 

Nella sua omelia, il vescovo ha ricordato l'esempio del diacono Stefano e ha sottolineato che il diacono è al servizio della chiesa locale. Il Vescovo si è congratulato con noi come comunità Mar Yakub, Madre Agnes-Mariam, Madre Claire-Marie e me. 

L'ordinazione diaconale di P. Jean è stata accolta con sincero e grande entusiasmo dai presenti, amici e collaboratori della comunità. Nella sala c'è stata l'occasione per trasmettere gli auguri al nuovo diacono, insieme ad alcuni dolci e una bibita. In seguito la maggior parte di loro è andata a chiacchierare al sole nel grande cortile. Nel refettorio ogni luogo veniva utilizzato per portare a tavola i sacerdoti, gli ospiti, gli amici, i collaboratori e gli operai.

Durante i vespri solenni di san Jacub, P. Jean ha servito per la prima volta come diacono. Indossava la lunga stola dorata, graziosamente ricamata in lettere rosse con la parola “santo” in greco, arabo e siriaco, ed eseguiva tutte le preghiere del diacono. I vespri si sono conclusi con la consacrazione dell'olio, del vino e del pane. Ciascuno è stato benedetto con quest'olio sulla fronte e ha ricevuto un pezzo di pane intinto nel vino. 

La sera abbiamo avuto una bella riunione con la comunità e alcuni ospiti nella sala addobbata del nuovo edificio con del formaggio, pane e tè... Si sono svolte danze popolari spontanee e quasi tutti cantavano una canzone o raccontavano una storia. 

Una giornata gioiosa e riccamente benedetta.

Padre Daniel

 Qâra, 3 dicembre 2021

mercoledì 1 dicembre 2021

3 dicembre '21 : guarda e vota il film "Mother Fortress"

  2 proiezioni gratuite di 
MOTHER FORTRESS

3 dicembre 2021 - 
ore 19.05 e 22.43 

in concorso alla

MOSTRA del CINEMA di TARANTO 2021



GIURIA  di 5 esperti          

                                                     

 DIVENTA IL 6° GIURATO: 

vota il film "Mother Fortress"





Inespugnabile come una fortezza è il monastero siriano in cui si svolge l’azione di "Mother Fortress", film documentario di Maria Luisa Forenza, girato in Siria durante la guerra.

Madre Agnes, assieme a monaci, monache provenienti da Francia, Belgio, Portogallo, Libano, Cile, Venezuela, Colorado-USA (di cui alcuni ex- giornalisti), affronta gli effetti della guerra in Siria sul suo monastero, situato ai piedi delle montagne al confine con il Libano dove ISIS insidiosamente si nasconde.

Nonostante sia esso stesso obiettivo di attacchi, il monastero accoglie orfani, vedove, rifugiati (cristiani e sunniti), vittime di una guerra fratricida che dal 2011 ha prodotto caos e devastazione. Organizzando un convoglio di ambulanze e camion, che percorrono strade controllate da cecchini, Madre Agnes persegue la rocambolesca missione di fornire aiuti umanitari (cibo, vestiti, medicine) ai siriani rimasti intrappolati nel paese. Esplorazione non della guerra, ma della condizione umana in tempo di guerra, il film è un viaggio fisico e spirituale, una 'storia d'amore' con destinazione Roma dove il senso del racconto si rivela...


https://www.facebook.com/marialuisaforenza/

 
ecco il programma: entra nella Sala Online





HANNO DETTO DEL FILM…


MOTHER FORTRESS, “Testimonianza storica sul dramma della guerra in Siria”. (Avanti!, 2020)


Ida Guglielmotti (giornalista): “Film importante che parla di donne in un contesto complesso, difficile, come quello di una guerra, una delle più crudeli della nostra storia presente, che riguarda la Siria.” (Radio InBlu2000 “Le Donne per esempio”, 2021)


Claudio Ranieri (critico): “La Forenza fotografa da un punto di vista inedito la guerra in Siria, attraverso un viaggio che inizia in un monastero e prosegue nei luoghi di resistenza quotidiana, rendendo visibile quell’ordinarietà che prosegue mentre la guerra annichilisce”. (Arte Settima, 2021)


Francesco Zambon (filologo, critico letterario): “un film che nel rappresentare la realtà attuale e drammatica della Siria, ricrea la struttura dei poemi del Graal: il racconto che include altri racconti.” (Religion Today Film Festival, 2020)


Alfredo Baldi (critico cinematografico): “nonostante sia stato girato in un convento, ai piedi delle montagne al confine con il Libano, e che la protagonista sia una suora, Madre Agnes, ci troviamo di fronte a un film assolutamente laico, dove la religione che è pur presente dappertutto, sottesa in ogni momento, non viene mai presa a pretesto, a giustificazione del compimento di qualsiasi (buona) azione.” (BookCiak Magazine, 2020)


Gian Piero Brunetta (storico del cinema): “Una sola persona, una donna che ha fatto tutto: ripresa, suono, montaggio, e questo mi ha emozionato molto sin dall’inizio del progetto. Una tragedia raccontata fuori-scena: non c'è sangue eppure è piena di dolore, di tragedia di un intero paese. Al tempo stesso voglia di vivere… Da tempo la strada era stata aperta da personalità come Olmi: non c’è più differenza tra cinema documentario e cinema di finzione.” (Memoria Festival, 2021)


Cosimo Damiano Fonseca (medievista, accademico dei Lincei): “un film- culto, un documento aderente alla realtà e al tempo stesso racconto simbolico”. (2021)                       

lunedì 29 novembre 2021

I cristiani siriani furono avvertiti prima della guerra: "sarete i prossimi!"

"Al culmine della guerra, i leader ai vertici della Chiesa siriana andarono alla Casa Bianca per supplicare l'allora presidente Obama di abbandonare le disastrose politiche di cambio di regime..."


TRADUCIAMO LA SECONDA PARTE DELL'ARTICOLO DI BRAD HOFF* , TRALASCIANDO PER PROBLEMI DI SPAZIO LE PRIME PUR INTERESSANTI PAGINE CHE DANNO IL CONTESTO DELLA RICERCA ATTRAVERSO GUSTOSI ANEDDOTI PERSONALI, RIMANDANDONE LA LETTURA AL LINK:   https://libertarianinstitute.org/articles/syrian-christians-were-quietly-warned-before-the-war/ 

ORA PRO SIRIA 


Ho appreso attraverso le nostre interviste (ai Cristiani Siriani. NDT), molte delle quali sono dettagliate nel mio nuovo libro Syria Crucified con il coautore e amico Zachary Wingerd, che i cristiani siriani in particolare erano così in tensione durante gli anni iniziali dell'occupazione statunitense dell'Iraq proprio perché i rifugiati cristiani iracheni in fuga da oltre il confine verso Damasco stavano attivamente avvertendo i cristiani siriani: "Voi sarete i prossimi!"

Un certo numero di siriani ci aveva detto che anni prima dell'inizio della guerra nel 2011, avevano capito che non solo la Siria era in cima alla lista per il cambio di regime, ma che i cristiani in particolare sarebbero stati presi di mira in una guerra settaria pianificata, proprio come in Iraq . Sebbene rimanga una storia per un'altra volta, poiché è ancora oggi troppo delicata per discuterne apertamente , ho ottenuto conferma da alcuni cristiani siriani che nel 2010 fino all'inizio del 2011 (poco prima dell'inizio del conflitto in Siria), gli ufficiali dell'intelligence USA li stavano contattando e cercavano il loro aiuto in modo molto aggressivo, cercando di renderli risorse. Mentre questi particolari individui non sono presenti o menzionati nel mio nuovo libro (sempre a motivo della delicatezza delle informazioni e le situazioni individuali), mi limiterò a notare che in ogni caso sono stato in grado di verificare e confermare, ai funzionari statunitensi è stato detto dai siriani "vaffanculo!" – o qualche sua variazione.

Basti dire che alcuni cristiani siriani erano stati essenzialmente informati dagli agenti dell'intelligence statunitense che qualcosa di grosso stava arrivando per la Siria, ancora una volta, significativamente prima dell'inizio effettivo della guerra. Un caso lampante: un funzionario dell'allora esistente ambasciata degli Stati Uniti a Damasco (chiusa nel febbraio 2012) ha cercato di convincere un benvoluto uomo cristiano siriano locale che aveva trascorso una carriera lavorando per le principali testate americane in Medio Oriente (quindi aveva avuto molti contatti con i media di alto livello in tutto il mondo) per diventare parte dell'"opposizione politica" riconosciuta dagli Stati Uniti in Siria. Tenete presente che questo accadeva prima ancora che una tale "opposizione" fosse creata.  

L'attenzione della mia ricerca sulla condizione dei cristiani durante la guerra è iniziata seriamente nel lontano 2014, quando ho scritto quanto segue per il mio blog ormai defunto :

Una potenziale mappa del Medio Oriente , creata dal colonnello in pensione Ralph Peters, prevede una futura divisione secondo regioni sciite, sunnite, curde, senza assolutamente posto per i cristiani, che saranno "ripuliti" attraverso il genocidio o l'immigrazione forzata. Un articolo scritto da Peters si chiamava "Confini di sangue" perché ammetteva che le minoranze avrebbero dovuto essere eliminate affinché la sua mappa avesse un senso! (Sì, come nel noto collaboratore di FOX News Ralph Peters). 

Molti hanno visto il "Grande Libano" (che si estende molto a nord oltre i suoi confini effettivi fino a Latakia nella "mappa immaginata" in basso), come quella che sarebbe diventata un'enclave principalmente cristiana dopo che gli stati vicini sarebbero stati svuotati della presenza cristiana indigena ..

O peggio, durante i primi anni della guerra in Siria sono emerse mappe come quella qui sotto, con gli analisti che suggerivano che i cristiani sarebbero dovuti fuggire in uno “stato fantoccio”alawita ..

Ho scritto ulteriormente in quell'articolo precedente del 2014 su come alcuni paesi dell'Unione Europea stavano spedendo armi agli insorti jihadisti offrendo allo stesso tempo asilo ai cristiani siriani se avessero lasciato la loro patria devastata dalla guerra : mentre alcuni potrebbero comprensibilmente beneficiare dell'ultima offerta della Francia [di asilo politico per i cristiani Medio orientali], e questo potrebbe essere un bene per quegli individui e famiglie che hanno già sofferto abbastanza, il Patriarcato della Chiesa ortodossa ha una solida comprensione dei progetti attuali e futuri dei responsabili politici occidentali. Il settarismo etnico-religioso non è stato una realtà modellante per i movimenti nazionalisti arabi del XX secolo, ma è il piano strategico a lungo termine dell'Arabia Saudita. Attraverso l'aiuto del loro più stretto alleato, gli Stati Uniti, insieme ad altri paesi occidentali, viene attuata la logica del settarismo, e sono pochi quelli che capiscono la natura del gioco.

I leader della Chiesa siriana lo avevano chiamato il complotto del "Cavallo di Troia" dell'Occidente nei confronti dei cristiani del Medio Oriente: incoraggiare l'emigrazione cristiana dalla regione e allo stesso tempo spedire di nascosto le stesse armi che sarebbero state usate per colpire i cristiani che cercavano di rimanere (dato anche che i cristiani locali nel complesso sono rimasti fedeli al governo di Assad, il che si sarebbe rivelato un problema molto "scomodo" per la politica statunitense visti gli sforzi per rovesciare detto governo). Questa teoria ha ricevuto un certo grado di convalida quando ho scritto l'articolo successivo nel 2015 basato su una indiscrezione saudita classificata e trapelata - un articolo successivamente diffuso da WikiLeaks ...

https://www.wikileaks.org/saudi-cables/doc1949.html

The Coming Genocide Of Syria’s Christians September 

Il nostro nuovo libro, "Syria Crucified" (“Siria crocifissa: Storie di martirio moderno in un'antica terra cristiana”), fornisce un'ampia testimonianza ed esempi che confermano i sospetti dei cristiani siriani secondo cui Washington è stata a lungo d'accordo nel "buttare i cristiani ai leoni" mentre cercava di rovesciare Assad (come ha scritto il NY Times in un articolo del 2013). Ad esempio, citiamo il vescovo della Chiesa ortodossa antiochena di Baghdad e Kuwait, Ghattas Hazim, che ha descritto durante il culmine della guerra in Iraq che "i cristiani vengono massacrati in Iraq e l'Occidente non alza un dito per proteggerli".

A questo sospetto che l'Occidente stesse perseguendo un'agenda non dichiarata di avviare ed esacerbare un conflitto settario che avrebbe spezzato la Siria, portando infine alla liquidazione dell'antica comunità cristiana siriana, forte di circa due milioni di persone (come è successo in larga misura in Iraq), ha fatto eco un medico cristiano siriano di nome Shaza, con cui Zac e io abbiamo parlato a lungo. Per decenni era stata un medico che esercitava in uno studio a Damasco, fino a quando non è fuggita negli Stati Uniti dopo che la sua famiglia è scampata al fuoco dei cecchini e dei mortai mentre Al-Qaeda invadeva il suo quartiere (la storia è raccontata nel capitolo 2), creando posti di blocco a pochi minuti da casa sua e dalla scuola dei bambini. Ci sono molte storie simili che riempiono questo nuovo libro e concluderò questa presentazione tortuosa fornendo un esempio straziante dal libro qui sotto.

Di seguito la storia della dottoressa siriana Shaza, estratta dal libro...

Mentre rifletteva sul catastrofico passaggio da una vita idilliaca a una di sconvolgimenti, Shaza racconta di aver ricevuto un preavviso della tragedia cristiana siriana. Come medico Shaza assisteva gli sfollati a causa della guerra in Iraq: “Ho lavorato con i rifugiati iracheni dal 2003 al 2010 in un centro di beneficenza. È un programma fatto dalla Chiesa, ma stanno accettando tutte le persone, cristiani e musulmani”. Shaza non aveva previsto che in meno di un decennio nel futuro sarebbero stati gli stessi cristiani siriani a trovarsi in gravi difficoltà. Shaza ha raccontato come un certo numero di rifugiati iracheni ha cercato di metterla in guardia:

Parlano di storie orribili. Rapiscono, uccidono, stuprano. Quando si fidano di me dopo un paio d'anni, continuano a dire: "Fatti un piano B. Lo faranno con i cristiani siriani".Continuo a dire: "No, non accadrà". Continuano a dire: "No, succederà, quindi pensa a quale sarà il tuo prossimo passo se è successo". E non ci abbiamo pensato. Non abbiamo mai pensato che sarebbe successo in Siria. La maggior parte dei siriani continua a dire che è protetta perché è una regione forte. Sono stata in Iraq e in Giordania, in Egitto, in passato come turista, ho visto gente povera. Non li vediamo mai in Siria. Non abbiamo senzatetto in Siria. È un paese prospero. Era un buon paese, ma dopo, credo dal 2006 o dal '07 al 2010, abbiamo cominciato a notare qualcosa. Forse la politica, forse l'economia, non so quale sia il problema, ma è successo qualcosa, sai. Rende le persone più povere quindi più sofferenti. Hanno questi pensieri di rivoluzione. Penso che questo li abbia fatti accettare facilmente."

I dati raccolti dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) hanno mostrato che nel 2007 il numero di rifugiati iracheni fuggiti in Siria ha superato 1,2 milioni. La maggior parte di questi non erano registrati, il che significa che avevano problemi a essere raggiunti con gli aiuti umanitari internazionali o ad accedere ai servizi del governo siriano. Un rapporto citato dall'Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) durante quel periodo ha sottolineato che gli sfollati iracheni sono stati aiutati "principalmente attraverso organizzazioni della Chiesa locale". L'onere finanziario sulla Siria, la cui popolazione era meno di venti milioni, di assorbire bruscamente oltre un milione di iracheni impoveriti che necessitavano di alloggi, assistenza sanitaria e istruzione aiuta a spiegare parte del declino economico appena prima della guerra menzionata da Shaza.

Ha poi riflettuto sulle origini della prima rivolta in Siria e su quanto rapidamente si sia militarizzata e internazionalizzata:

Continuo a pensare all'Esercito Siriano Libero. Ho sentito di alcuni giovani che hanno i loro pensieri di libertà. Credono in questi pensieri, ma erano come i pezzi degli scacchi. Qualcuno li sta muovendo per le sue idee... Quando hanno affrontato i musulmani estremi, hanno perso la vita. Quei musulmani estremi aprono le strade agli stranieri che verranno. Non riesco nemmeno a immaginare che il popolo siriano voglia distruggere la nostra storia, le nostre vecchie città, le nostre vecchie cose, perché significa molto per sè come siriano. Ma per gli stranieri, non significa nulla. È facile distruggere tutto.”

 * Brad Hoff ha prestato servizio come marine in servizio attivo nei primi anni 2000, osservando con allarme le conseguenze dell'azione degli Stati Uniti all'estero. Dopo aver lasciato l'esercito, si è dedicato al giornalismo indipendente, intraprendendo da ultimo un viaggio di cronaca in Siria al culmine della guerra. Il suo lavoro "Un Marine in Syriaè stato citato in più pubblicazioni internazionali.