Lei ci diceva che la Siria sta morendo in silenzio. Mi piacerebbe capire come la Chiesa qui in Siria, anche attraverso di lei, sta affrontando le difficoltà odierne, e come può essere un segno di speranza per il popolo siriano.
Innanzitutto, c’è bisogno che si parli della Siria. Io sono qui da quasi 13 anni come nunzio. Sono arrivato due anni prima della guerra e ho vissuto gli anni del conflitto anche nei suoi periodi più disastrosi. Allora almeno si parlava della Siria, i giornalisti chiamavano tutte le settimane. Più tardi ho chiesto a un giornalista: ma perché non ne parlate più? La risposta: la Siria non si vende più, dopo un certo numero di anni la gente è stufa.
La situazione però purtroppo, da quello che constato personalmente, non è migliorata. Quello che vedo per le strade di Damasco sono certi segni di povertà che prima non c’erano. È vero, per fortuna non cadono più le bombe, colpi di mortaio; però c’è un’altra bomba terribile che è quella della povertà. Secondo i dati delle Nazioni Unite il 90% della popolazione siriana vive sotto la soglia della povertà, ed è una cosa allarmante. Purtroppo, non si vedono i segni di una ripartenza economica, occorrerebbero miliardi e miliardi per ricostruire la Siria, per mettere in piedi le fabbriche, dar lavoro alla gente, un futuro ai giovani: siamo ancora lontani da tutto ciò. Anzi, quello che osservo è una situazione bloccata, e questo significa che a pagare è la povera gente senza lavoro che fa la coda davanti a certi panifici che vendono a prezzi calmierati dallo Stato. Si fa fatica a trovare la benzina, il gasolio per viaggiare o per riscaldarsi, e con l’inverno la situazione peggiora. Quindi, il mio impegno, come nunzio apostolico, è cercare di tenere viva l’attenzione su questo paese.
Per quanto riguarda la Chiesa locale, in generale, i preti, i religiosi, le religiose durante la guerra sono rimasti accanto alla loro gente e questo è stato un esempio positivo. In tutti questi anni anche i cristiani hanno sofferto, soprattutto a causa del loro numero esiguo. In queste guerre gli anelli più deboli della catena sono i gruppi minoritari. Fatta eccezione per casi di pressione esercitata dall’Isis, dagli jihadisti sui cristiani durante gli anni più duri dello stato islamico (insulti, sfregi di icone o simboli religiosi), direi che non c’è stata una persecuzione in senso stretto. I cristiani hanno subito tutti questi oltraggi perché erano una minoranza, e i gruppi minoritari hanno sofferto per la guerra perché più esposti, più deboli.
Tra le varie sofferenze ce n’è una in particolare che pesa molto e che durerà a lungo: l’emigrazione dei cristiani. Parliamo di un’emigrazione forzata perché per queste minoranze il futuro è molto incerto, soprattutto per i giovani. In questi anni di guerra abbiamo assistito a flussi migratori che ancora continuano e che interessano più della metà della popolazione cristiana. Diverse chiese distrutte sono state ricostruite ancora più belle di prima, con le varie pietre posizionate al loro posto originario. Ma se anche una chiesa venisse riportata al suo primitivo splendore e mancassero le pietre vive, sarebbe una ferita enorme. E non solo per le Chiese (che certamente sono le prime a piangere questa partenza), ma anche per la società siriana. Pensiamo ai 2000 anni di presenza dei cristiani in Siria, al loro apporto notevole nel campo dell’educazione, della salute, dell’economia, della politica. Un politico molto conosciuto degli anni dell’indipendenza e ricordato ancora oggi con grandissima stima era un cristiano, Fares al-Khoury. Io dico sempre: i cristiani per la società siriana sono come una finestra aperta sul mondo che fa entrare una boccata d’aria. Con i cristiani generalmente tutti si trovano bene. Ho visitato villaggi misti dove c’erano metà cristiani, metà musulmani, sunniti o alawiti, e tutti si trovavano in pace.
Quindi i cristiani sono uno spirito aperto universale, sono una ricchezza. E in ogni cristiano o in ogni famiglia cristiana che vedo partire, vedo questa finestra della Siria aperta sul mondo che adagio adagio si chiude. Rischiamo di avere una Siria mono-culturale, mono-religiosa. Quindi la ferita più grave per le Chiese, ma anche per la stessa società siriana, è l’emigrazione cristiana. Poi abbiamo cristiani che sono morti sotto le bombe. Abbiamo cinque ecclesiastici dei quali dopo anni non si sa niente: due metropoliti ortodossi di Aleppo spariti più di 8 anni fa, e altri tre preti di cui si sono perse le tracce. Purtroppo, questo fa parte di quelle migliaia e migliaia (qualcuno arriva a dire 100.000) di persone scomparse. Poi ci sono altre varie ferite. Abbiamo avuto chiese distrutte o semidistrutte, simboli religiosi sfregiati. Abbiamo subito pressioni per far convertire i cristiani.
Le Chiese in questo momento sono molto impegnate nel campo degli aiuti umanitari. C’è gente che ha fame, che è sempre più ammalata (pensate cosa possono essere 10 anni di guerra), bambini che non hanno la scuola. Qui non c’è solo la gente che geme e che piange, ma c’è tutto il creato che geme e piange. L’aria, il terreno, le acque piangono per l’inquinamento. Da dieci anni infatti si usano esplosivi di ogni genere. Quindi adesso le Chiese sono impegnate al massimo nei programmi umanitari. Noi ringraziamo tutte le varie istituzioni assistenziali, caritative di ogni genere, soprattutto quelle cristiane di diverse parti del mondo. Ricordo che durante gli anni più duri della guerra le nostre istituzioni assistenziali cattoliche distribuivano ogni giorno circa 25.000 pasti caldi, di cui 15.000 ad Aleppo e in varie altre parti della Siria. Abbiamo varie attività anche nel settore della salute; un’iniziativa, ad esempio, è stata sostenuta dal papa e dal Pontificio consiglio per lo sviluppo umano integrale: quella di salvare tre ospedali cattolici, due a Damasco e uno ad Aleppo, molto stimati ma che rischiavano di chiudere. Durante la guerra infatti circa la metà degli ospedali era inagibile, ed era un costo enorme tenerli aperti. Allora l’iniziativa si era chiamata “ospedali aperti”, aperti a una condizione: che uno fosse povero e non potesse pagarsi le cure mediche. In tre anni e mezzo sono state curate più di 50.000 persone con risultati molto buoni.
La maggior parte di questi poveri che bussano alla porta non è cristiana (noi cristiani infatti siamo sì e no il 2%), però da quello che sento dire è molto riconoscente verso i cristiani. Molti si sorprendono di vedere il figlio o la moglie curati gratuitamente perché sono poveri. Direi che qui ci sono due bei frutti: la cura del corpo e la cura delle relazioni umane. E il fatto che queste persone non cristiane parleranno bene dei cristiani è un altro bel frutto. Poi ci sono tantissime iniziative in diversi settori: dall’aiuto a pagare l’affitto di casa o la retta scolastica, a quello per costruire l’appartamento o cercare un posto di lavoro. Direi che le Chiese hanno sviluppato una “fantasia della carità” come diceva san Giovanni Paolo II, che è fatta di molte iniziative lodevoli, e siamo riconoscenti a tutti quelli che aiutano. Anch’io come nunzio cerco di chiedere elemosine, perché purtroppo mi accorgo che tutti questi aiuti sono come rubinetti nel deserto. Come rappresentante del papa devo darmi da fare, perché oltre ai rubinetti c’è bisogno di un fiume di aiuti. Un fiume che secondo gli esperti ammonterebbe almeno a 400 miliardi di dollari affinché ci sia la ricostruzione, una ripartenza economica. Purtroppo questo fiume è bloccato. Bloccato tra le altre cose dalle sanzioni che alcuni paesi che potrebbero aiutare mettono come condizioni. A mio parere c’è bisogno di fare pressione contemporaneamente su tre capitali: Damasco, Bruxelles, e Washington. Tutte e tre devono fare qualche gesto di buona volontà, qualche segno di compromesso. Invece, purtroppo, come dice l’inviato speciale delle Nazioni Unite Wennesland, c’è la sindrome del you first, quella per cui “tu devi muoverti per primo”. Dobbiamo trovare una comunità internazionale, ripete Wennesland, che faccia pressione perché le sanzioni vengano tolte, perché vengano meno anche corruzione e incompetenza.
Temo che la Siria rischi di essere strangolata nel silenzio. Questa bomba gravissima della povertà, di cui ho parlato, non fa chiasso. I mortai, le bombe durante la guerra (ne è caduta una anche sopra la nunziatura), quelle sì che facevano chiasso. La povertà invece colpisce il 90% della popolazione in silenzio. Bisogna cominciare a parlare, bisogna fare qualcosa: la comunità internazionale, le Chiese, tutti.
Ci ha descritto un panorama davvero surreale. La guerra distrugge tanti rapporti di convivenza pacifica… In un simile disastro, la mostra “Francesco e il Sultano” può essere uno strumento utile per l’incontro fra religioni diverse? Qual è la situazione odierna del dialogo interreligioso ed ecumenico?
Quando sono arrivato qui mi sono sentito ben accolto; dalla comunità cristiana naturalmente ma anche da quella musulmana, dalla gente comune. Sono andato tante volte in moschea con la talare e la croce e sono sempre stato rispettato. C’era un bel mosaico di convivenza tra le varie etnie e religioni. Spero davvero che questo mosaico non sia stato rovinato da questi anni di guerra, anche se si sono create fratture tra le varie comunità (quella maggioritaria sunnita, quella alawita, e le altre), ma spero siano danni che si possono riparare.
Questa mostra che viaggia per la Siria farà molto bene al dialogo interreligioso. Ho notato sempre un buon clima tra cristiani e musulmani e la mostra certamente contribuirà ad alimentarlo. Sto pensando al dialogo tra Francesco e il sultano avvenuto 800 anni fa, o ai gesti degli ultimi tempi come la preghiera di Assisi voluta da san Giovanni Paolo II a cui parteciparono vari esponenti delle varie religioni, o alla dichiarazione di Abu Dhabi firmata dal papa e dal grande imam di Al Azhar. E poi penso al viaggio del papa in Iraq con la visita al capo sciita Sayyed Jawad Al-Khoei. Anche io qui in Siria ne ho avuto un’eco molto positiva. Sono tutte pietre miliari sul cammino della fratellanza umana. Credo ci sia bisogno di rinsaldare queste relazioni ecumeniche e interreligiose, e direi che una mostra simile senz’altro produrrà dei frutti, assieme alla diffusione dell’enciclica Fratelli tutti.
Per vincere il male che c’è, i conflitti nel Medio Oriente, occorre che gli eredi della fede di Abramo, ebrei, cristiani, musulmani, diano dei segni particolari. Quando sono arrivato qui, mi sono recato nella grande moschea degli omayyadi che era sorta su un’antica basilica cristiana, e che è stata la prima moschea nella quale è entrato un papa, san Giovanni Paolo II. E vi è entrato principalmente perché lì secondo la tradizione è conservata la testa di san Giovanni Battista. Ogni volta che vado in questa moschea e mi dirigo verso il luogo della reliquia dove c’è un grande cenotafio, vedo sempre della gente che la venera, ed è gente musulmana. In quel punto della moschea potremmo trovarci davanti a quella reliquia ebrei, cristiani, e musulmani, perché nel Corano hanno la figura del profeta Giovanni il Battista. Quindi, proprio come eredi della fede di Abramo dovremmo mettere sempre più in risalto questi segni di fratellanza.
Quando sono arrivato qui avevo già alle spalle 36 anni di esperienza nelle nunziature apostoliche di quattro continenti. Ho notato che tutti i nunzi prima di me erano rimasti in Siria quattro anni. I miei propositi di studiare l’arabo sono stati quindi rovinati da questa scoperta, perché non immaginavo che sarei rimasto di più. Ho però detto al papa e ai miei superiori: «Non pensate che io sia lì che pianga e che muoia di paura o di fame. Secondo me è opportuno che il nunzio rimanga. Si dice ai cristiani di non partire, ma occorre dare loro l’esempio». Se anche il papa mi nominasse nunzio in Europa, non mi sentirei contento, penserei sempre alla Siria. Il Signore mi darà la forza di rimanere con la gente che soffre, e posso dire di avere sempre avuto il necessario per vivere. Il 5 novembre 2013 è caduto un colpo di mortaio sopra la residenza, ma erano le 6.30 del mattino e ha fatto solo danni materiali molto limitati. Però ho visto gente morire, ho visitato diversi bambini che andando o tornando da scuola, quando bombardavano, venivano colpiti, magari alle gambe o alle braccia. Mi ricordo che un sabato santo del 2014 ho visitato una bambina, Lorin di 9 anni, e i suoi genitori che stavano in silenzio ai piedi del letto della figlia. La suora mi ha detto: «Lorin è molto nervosa oggi perché ieri che era venerdì santo le hanno amputato entrambe le gambe e si rende conto che non le ha più».
Poi il 9 ottobre 2016, una domenica, mi dicono che il papa nella lista dei cardinali aveva messo anche il mio nome: arcivescovo Mario Zenari, nunzio in Siria che rimarrà in Siria. Ero il primo nunzio a essere fatto cardinale, che cosa significava? Nella storia ci sono stati dei nunzi trasferiti a Roma e poi fatti cardinali, ma di nunzi cardinali credo di essere l’unico esempio nella storia moderna delle nunziature. Mi hanno chiesto: «Lei che cosa pensa di questa nomina del papa?». E ho risposto: «il papa ha donato la porpora, simbolo del sangue, ai bambini morti del conflitto siriano». La porpora è il segno del sangue che un cardinale deve essere disposto a versare per la Chiesa, ma io porto questa porpora in segno del sangue versato soprattutto dagli innocenti e da tanti bambini. E indosso spesso anche una fascia sempre color porpora e alle volte la levo per chiedere alla gente un parere su quanto è larga. Qualche signora ci prova e spara delle cifre, sbagliando. Allora io dico: è larga 876 km e mezzo e lunga 975 km, perché il papa mi ha dato tutta la Siria. La Siria è catalogata come il paese che ha la più grande catastrofe umanitaria dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, basta pensare ai morti: più di mezzo milione. Con la metà della popolazione sfollata o rifugiata nei paesi vicini.
Infine, aggiungo un ultimo particolare: sarei dovuto andare in pensione già lo scorso gennaio. Ho detto al papa che io sono sempre disposto ad andare in pensione, ma che qui la situazione è quello che è. Allora il papa mi ha chiesto di rimanere. Anche se non faccio miracoli, se non porto qui miliardi, credo che una delle cose più interessanti sia vivere con la gente che soffre. Questo è tutto.
Pur non sapendo niente della Siria, sapevo però che l’ambasciata del Vaticano non era stata chiusa durante la guerra, e che il nunzio era rimasto col popolo e coi cristiani siriani. Questo fatto ha colpito tutti, è stata una grande testimonianza per tutti. Noblesse oblige, sono nunzio, devo rimanere qui. Sono diventato dall’anno scorso anche decano del corpo diplomatico per anzianità. Io direi con linguaggio calcistico che sono ai tempi supplementari. Spetterà all’arbitro fischiare, e finché non fischia…
La mostra viaggia in posti molto diversi fra loro: chiese cattoliche, ortodosse, centri culturali musulmani o laici. È capitato spesso che a inaugurarla fossero sacerdoti ortodossi, e questo è curioso se pensiamo che nel primo pannello c’è la foto del papa. Ma non ho visto difficoltà. In Siria non c’è il problema dell’ecumenismo, i problemi sono altri. I cristiani non hanno la forza di litigare fra loro e un prete ortodosso può benissimo inaugurare una mostra che parla di un santo cattolico. La Chiesa ortodossa russa cerca in vari modi di sostenere la Chiesa di Antiochia. Quindi gli ortodossi guardano con molta curiosità e simpatia l’attività che facciamo in Siria e i rapporti che il centro culturale ha coi musulmani di Mosca. Direi che
nella terra dove san Paolo si fece fratello di coloro che aveva perseguitato, ci convinciamo sempre di più che l’apertura e la disponibilità non sono fatti del passato, ma un avvenimento del presente capace di vivificare anche le circostanze più opprimenti.
https://www.lanuovaeuropa.org/cultura/2021/12/11/da-mosca-alla-siria-francesco-e-il-sultano/