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martedì 2 dicembre 2025

Papa Leone abbraccia tutti i dolori del popolo libanese

 da  Agenzia Fides . di Pascale Rizk

Anche oggi nelle notti del Libano si possono “trovare le piccole luci splendenti” che possono aprire i cuori alla gratitudine. E riconoscere, come sempre, che il Regno che Gesù viene a inaugurare è come “un germoglio, un piccolo virgulto che spunta su un tronco, una piccola speranza che promette la rinascita quando tutto sembra morire”. Segni che possono essere intravisti “solo dai piccoli, da coloro che senza grandi pretese sanno riconoscere i dettagli nascosti, le tracce di Dio in una storia apparentemente perduta”.
Attingono al cuore della speranza cristiana le parole di rinascita che Papa Leone XIV consegna a tutti i libanesi, nell’ultimo giorno del suo viaggio nel Paese dei Cedri. Nell’omelia della messa finale, celebrata al Beirut Waterfront, il Vescovo di Roma abbraccia tutti i dolori del popolo libanese e chiama tutti a “riconoscere la piccolezza del germoglio che spunta e cresce pur dentro avvenimenti dolorosi. Piccole luci che risplendono nella notte, piccoli virgulti che spuntano, piccoli semi piantati nell’arido giardino di questo tempo storico possiamo vederli anche noi, anche qui, anche oggi”. E cita come prima luce e primo virgulto di rinascita “la vostra fede semplice e genuina, radicata nelle vostre famiglie e alimentata dalle scuole cristiane”. 

La preghiera del Porto e l’abbraccio ai disabili

Poco prima della liturgia eucaristica, celebrata davanti a 120mila persone, Papa Prevost era andato al Porto di Beirut e si era raccolto in preghiera silenziosa davanti al monumento alle vittime dell’esplosione avvenuta il 4 agosto 2020, per poi fermarsi a lungo a salutare uno per uno i loro famigliari.

Papa Leone aveva iniziato l'ultima giornata del viaggio apostolico in Libano recandosi in visita all’Ospedale psichiatrico dei disabili mentali “de la Croix” a Jal ed Dib. Pazienti, medici e assistenti all’arrivo del Papa continuavano a gridare «ahla w sahla», il ‘benvenuto’ libanese, e «alla yehmik » («che Dio ti protegga»), con la letizia incontenibile dei più amati da Dio.

L’ospedale psichiatrico «non sceglie i suoi pazienti ma che accoglie coloro che non sono accolti da nessuno». Così lo ha descritto la Superiora generale Suor Maria Maakhlouf, ringraziando nel suo saluto il Papa per la sua visita che «conferma ai più piccoli che sono amati dal Signore, hanno un posto speciale nel suo cuore» e sono un «tesoro per la Chiesa».
«Vorrei solo ricordare – ha detto loro Papa Prevost - che siete nel cuore di Dio nostro Padre. Egli vi porta sul palmo delle sue mani, vi accompagna con amore, vi offre la sua tenerezza attraverso le mani e i sorrisi di chi si prende cura della vostra vita»
 Il Convento della Croce è il luogo di fondazione delle Suore Francescane della Croce, e incarna la vocazione della Congregazione : ospitare le persone più bisognose che soffrono di ogni tipo di malattia mentale e psicologica.

Il congedo del Papa : cessino attacchi e ostilità

Nelle sue parole di congedo pronunciate all’aeroporto di Beirut, prima di salire sull’aereo diretto a Roma, Leone XIV ha fatto riferimento a “tutte le regioni del Libano che non è stato possibile visitare: Tripoli e il nord, la Beqa’a e il sud del Paese, Tiro, Sidone – luoghi biblici –, tutte quelle aree, specialmente nel sud, che sperimentano una continua situazione di conflitto e di incertezza. A tutti - ha proseguito il Pontefice - il mio abbraccio e il mio augurio di pace. E anche un accorato appello: cessino gli attacchi e le ostilità. Nessuno creda più che la lotta armata porti qualche beneficio. Le armi uccidono, la trattativa, la mediazione e il dialogo edificano”.

L’incontro a Harissa 


“Salam el Masseeh”, (la pace di Cristo) sono state le prime parole che Papa Leone aveva indirizzato di mattina a Vescovi, ai sacerdoti, alle suore, ai consacrati e agli operatori pastorali delle Chiese cattoliche presenti in Libano che lo avevano accolto nella basilica di Nostra Signora del Libano a Harissa. Dopo aver ascoltato alcune testimonianze, il Papa ha ha sottolineato l’importanza dell’amore continuo nella costruzione della comunione nonché della forza della preghiera e della profondità della speranza nei momenti di difficoltà.


La visita alla grotta di San Charbel


Dalle prime ore del mattino tanti libanesi avevano iniziato ad affluire da tutte le regioni lungo le strade che avrebbe attraversato Papa Leone XIV per recarsi alla grotta che custodisce le spoglie mortali di San Charbel, nel monastero di Annaya.

Lungo tutto il viaggio da Byblos a Annaya le campane delle chiese hanno suonato ripetutamente, alternandosi con i canti in arabo e siriaco con alcuni momenti di silenzio. Prima dell’arrivo del corteo copie della preghiera che il Papa avrebbe recitato in francese davanti alla tomba di San Charbel, sono state distribuite ai fedeli sulle strade e nella piazza. Arrivato al Santuario, il Sommo Pontefice si è inginocchiato davanti alla tomba di San Charbel in un momento di preghiera per accendere poi, accanto alla tomba, una candela che aveva portato da Roma. Riassumendo l’eredità dell’eremita originario da Baakafra, Papa Leone si è soffermato sull’attrazione che tanti sperimentavano per il monaco, santo «come l’acqua fresca e pura per chi cammina in un deserto».

L’incontro coi giovani


Nella parte finale della lunga giornata, il Pontefice si è recato a Bkerke per l’incontro con i giovani, arrivati anche dalla Siria e dall’Irak, con le loro testimonianze « come stelle lucenti in una notte buia ». «La vostra patria, il Libano» ha detto ai giovani Papa Leone «, rifiorirà bella e vigorosa come il cedro, simbolo dell’unità e della fecondità del popolo. Sappiamo bene che la forza del cedro è nelle radici, che normalmente hanno le stesse dimensioni dei rami. Il numero e la forza dei rami corrisponde al numero e alla forza delle radici. Allo stesso modo, il tanto bene che oggi vediamo nella società libanese è il risultato del lavoro umile, nascosto e onesto di tanti operatori di bene, di tante radici buone che non vogliono far crescere solo un ramo del cedro libanese, ma tutto l’albero, in tutta la sua bellezza».
«Attingete» ha esortato il Pontefice «dalle radici buone dell’impegno di chi serve la società e non “se ne serve” per i propri interessi. Con un generoso impegno per la giustizia, progettate insieme un futuro di pace e di sviluppo. Siate la linfa di speranza che il Paese attende».

http://www.fides.org/it/news/77110

mercoledì 26 novembre 2025

Il 43° anniversario delle apparizioni di Nostra Signora di Soufanieh a Damasco e la preghiera per l'unità dei cristiani

  

di Pina Baglioni

Nell’inferno della guerra siriana ha trovato casa un pezzo di Paradiso.  
Ormai dal 22 novembre del 1982. Precisamente a Soufanieh, un modesto quartiere a nord di Damasco, fuori dalle mura della città, presso la porta detta “di Tommaso”.
Qui, in una vecchia e umile abitazione, abita la famiglia Nazzour: Myrna, suo marito Nicolas e i loro due figli, Myriam e John-Emmanuel. E proprio nella loro casetta accadono, da trentatré anni, miracoli straordinari: una piccola icona con la cornicetta in plastica, copia dell’immagine di Nostra Signora di Kazan, veneratissima in Russia – dov’è custodita l’originale – e in tutto il mondo ortodosso, trasuda olio miracoloso che guarisce anime e corpi di ortodossi, cattolici e musulmani.

È ormai venerata in Siria e in tutto il mondo come la Madonna di Soufanieh. Nicolas Nazzour, di fede greco-ortodossa, aveva acquistato l’icona a Sofia nel 1980, che poi aveva conservato  amorevolmente su un piccolo mobile di casa, come accade per tante immagini sacre che i fedeli custodiscono nelle proprie dimore.
Una normalità che presto diventa qualcosa di straordinario: il miracolo dell’olio è solo uno dei mirabili segni di predilezione che il Signore ha accordato a questo angolo della periferia di Damasco: Myrna, la madre di famiglia, cattolica melchita, di media istruzione e di formazione religiosa elementare, è stata fatta oggetto di una serie di grazie che hanno reso la sua umile casa un santuario mariano incastonato in uno dei Paesi più martoriati del mondo.
Myrna aveva diciotto anni quando tutto ebbe inizio. E da trentatrè anni vive sempre alla stessa maniera, umilmente, ricevendo nella sua abitazione – conosciuta ormai come “la casa della Vergine Maria” – un flusso costante di fedeli provenienti da ogni dove: cattolici, ortodossi, protestanti, musulmani, senza distinzioni di sorta.
Da quel giorno le capita di essere invitata a raccontare quanto le accade anche in Paesi lontani, dove sono sorti gruppi di preghiera devoti alla Madonna di Soufanieh.

La vergine Maria trova casa a Soufanieh
Tutto comincia il 22 novembre del 1982, giorno in cui Myrna, sposata da poco, va a trovare, insieme con alcune amiche, sua cognata Laila, seriamente ammalata. Appena le ragazze cominciano a pregare, ecco che le sue mani si ricoprono di olio. Lo sconcerto è immaginabile. Istintivamente, le donne decidono di ungere con quell’olio il volto e le mani della malata. Che, dopo qualche giorno, guarisce.
Il 27 novembre accade dell’altro: anche dall’iconcina raffigurante Nostra Signora di Kazan conservata in casa di Myrna comincia a colare olio. Qualche giorno dopo, Myrna va dalla madre, malata anche lei. Quando cominciano a pregare, ecco che dalle mani della ragazza, esce altro olio. E la madre guarisce.
Paura, sconcerto, meraviglia. Stati d’animo opposti si affollano nelle menti e nei cuori della famiglia Nazzour. Ma non è finita: l’11 dicembre, Samir Hanna, un vicino di casa che soffre di continui attacchi di cuore, ha avuto da poco un’emorragia cerebrale che gli ha provocato una paralisi: appena lo ungono con un po’ di quell’olio, guarisce. E così accade a Ghalya Armouche la quale, paralizzata anche lei, guarisce.
A quel punto, Nicolas, il marito di Myrna, decide di informare il 
Patriarcato ortodosso. Anche perché ormai a Soufanieh s’è sparsa la voce e la gente comincia ad accalcarsi all’uscio di casa per vedere con i propri occhi quanto vi accade.
Da lì a poco si presenta in casa monsignor Boulos Pandéli, vicario patriarcale, accompagnato da due giovani sacerdoti. Tutti constatano la trasudazione di olio dall’icona e dalle mani di Myrna. E ne informano immediatamente il Patriarca, il quale ordina di far analizzare la sostanza. Cosa che accadrà tra il 1984 e il 1985, presso laboratori di Damasco, Germania, Francia e Italia. Alla fine, le analisi chimiche daranno risultato univoco: si tratta di semplice olio d’oliva.
Dopo la visita dei religiosi, si precipitano nella casa di Myrna due agenti dei servizi segreti siriani, che, avvertiti dei fatti, vogliono capire cosa stia avvenendo da quelle parti. I due esaminano accuratamente l’icona, che proprio in quel momento ricomincia a trasudare olio: la smontano, la rimontano. E alla fine, mentre se ne vanno, esclamano ad alta voce: «Dio è grande!» (“Allah Akbar”: il grido che suonerà poi come bestemmia sulla bocca dei terroristi che stanno insanguinando il Paese e il mondo).

Le apparizioni della Madonna, le stimmate e l’unità della Chiesa
Per Myrna, quanto accaduto è solo l’inizio. Nella notte del 15 dicembre dell’82, mentre se ne sta in terrazzo a riposare, vede una luce abbagliante provenire da una pianta di eucalipto vicino ad un piccolo ruscello che scorre proprio accanto alla sua casa. All’interno del globo di luce, ecco una sorta di mezzaluna blu che subito dopo scompare per lasciare spazio ad una donna bellissima che avanza verso di lei. È vestita di bianco, con una cintura blu in vita. In testa indossa un cappuccio e porta sulla spalla destra uno scialle, anche quello di colore blu. In mano tiene un rosario che sembra di cristallo. La signora dice qualcosa, ma Myrna non sente nulla: atterrita, scappa.

Quella sarà la prima delle apparizioni, che si protrarranno fino al 24 marzo del 1983. Myrna, intanto, si è resa conto dell’identità della donna che la viene a trovare: è la vergine Maria, che si rende visibile solo a lei. «Figli miei pensate a Dio»: sono le prime parole che Myrna riesce a sentire nel corso della seconda apparizione, il 18 dicembre 1982.
«Vi ho dato l’olio, e ve ne darò di più di quanto ne avete chiesto – aggiunge Maria – Annunciate mio Figlio, l’Emmanuele. Colui che lo annuncerà sarà salvato, colui che non lo annuncerà, la sua fede sarà vana… non sto chiedendo soldi da dare alla Chiesa. Non vi sto chiedendo di costruirmi una chiesa, ma un luogo di pellegrinaggio. Date con generosità. Non private nessuno di coloro che vi chiedono aiuto».

C’è un messaggio che la Vergine ripeterà più di una volta a Myrna, sottolineato in modo particolare nell’ultima apparizione, avvenuta giovedì 24 marzo del 1983: «Il mio Dio l’ha detto: riunitevi in una sola Chiesa. La Chiesa che Gesù ha fondato è una, perché Gesù è uno. La Chiesa è il regno del cielo sulla terra. Colui che l’ha divisa ha peccato, e colui che gioisce della sua divisione, ha peccato lo stesso. Gesù la costruì: era molto piccola. E quando crebbe fu divisa. Colui che l’ha divisa non ha amore in Lui. Riunitevi. Io vi dico: pregate, pregate, pregate. Come sono belli i miei figli quando implorano inginocchiati. Non abbiate paura, io sono con voi. Non dividetevi come sono divisi i grandi. Pregate per gli abitanti del cielo e della terra».

Che l’unità della Chiesa fosse al centro dei messaggi sarà evidente in relazione a un altro segno divino che Myrna si troverà ad accogliere: le stimmate della passione di Gesù. La prima volta le vede comparire sul suo corpo venerdì 25 dicembre 1983: verso le 16 si aprono ferite sui suoi piedi, alle mani e al costato. I dolori sono lancinanti, ma non c’è effusione di sangue. Alle 23,00 le piaghe si cicatrizzano.
E come nel caso della manifestazione dell’olio, più di un medico e alcuni ufficiali dei servizi segreti vanno a vedere cosa sta succedendo. E anche stavolta non possono che constatare la buona fede di Myrna e l’autenticità di questi fenomeni. Ma c’è un aspetto stupefacente che li collega direttamente alla richiesta dell’unità della Chiesa: le stimmate compaiono esclusivamente quando la Pasqua  ortodossa coincide con la Pasqua cattolica. Accadrà infatti nell’84, nell’87, nel ’90, nel 2001. E il 20 aprile del 2015.

Anche Gesù parla a Myrna
Alle apparizioni sono succedute le visioni di Gesù e della Madonna, che producono in Myrna stati di estasi, durante i quali si accascia priva di forze mentre il suo corpo trasuda olio. Estasi che possono durare cinque minuti come delle ore.
«Figli miei, pregate per la pace e soprattutto per la pace in Oriente», le dirà la Madonna durante una di queste nel giorno della festa dell’Assunzione del 1999, mentre si trova in Belgio.
A maggio del 1984, il Signore le insegna una preghiera: «Beneamato Gesù, accordami di riposarmi in Te, sopra ogni altra cosa, sopra ogni creatura, sopra tutti i tuoi angeli, sopra ogni elogio, sopra ogni gioia di esaltazione, sopra ogni gloria e dignità, sopra tutto l’esercito celeste, perché Tu solo sei l’Altissimo, Tu solo sei potente e buono al sommo grado. Vieni a me e consolami e slega le mie catene, e accordami la libertà. Perché senza di Te la mia gioia è incompleta. Senza di Te la mia tavola è vuota. Allora verrò per dire: “eccomi sono venuto perché mi hai invitato”».
E ancora, il 10 aprile 2004, Sabato santo: «Un comando per voi: tornate ciascuno a casa vostra, portate l’Oriente nei vostri cuori. Di qui una nuova luce ha brillato, voi ne siete i raggi in un mondo dove potere, lussuria e cose materiali attirano così tanto da mettere a rischio l’umanità intera. Quanto a voi, salvaguardate il vostro essere orientali. Non permettete, in Oriente, che vi sia tolta la vostra volontà, la vostra libertà, la vostra fede».

Ogni volta che Myrna vede il Signore ha bisogno di molto tempo per recuperare la vista. Come nella visione del novembre del 1984: ci vollero ben settantadue ore per riacquistarla. Numerosi test sono stati eseguiti sulla donna, soprattutto sulla vista, la sensibilità e i riflessi: esami risultati sempre negativi, come se nulla fosse accaduto.
Oggi, a Soufanieh, è rimasto tutto come quel 27 novembre del 1982 nella casa di Myrna. La gente, di ogni religione, arriva da ogni parte del mondo per implorare la Madonna e ricevere un po’ di quell’olio benedetto. Tra questi, numerosissimi sono i musulmani. Le grazie e le conversioni continuano, nonostante le tante difficoltà che tormentano la martoriata Siria.
L’unica differenza, è che la famiglia Nazzour ha dovuto fare qualche cambiamento per via di tutta la gente che si accalca senza sosta presso la loro casa. Il vecchio patio è stato ricoperto con un tetto, la terrazza rinforzata per evitare che venga giù per il peso delle persone. E nel mezzo del patio è stata messa l’iconcina della Madonna di Soufanieh che continua a donare olio, che viene costantemente raccolto in un piattino di alabastro.  «Scusateci, non accettiamo denaro», recita una scritta ben visibile posta presso l’icona.

Un testimone d’eccezione: padre René Laurentin
«Cos’è quest’olio? Probabilmente è un segno del potere divino. Ma perché avete scelto proprio me? Sono una qualunque, di scarsa istruzione. In migliaia avrebbero meritato tanto privilegio. In ogni caso, sia fatta la Tua volontà. Ti offro le mie azioni, la mia fatica, i miei dolori, la mia gioia. Ho messo tutta la mia speranza in te», sono stati questi i primi pensieri di Myrna nei giorni dei primi miracoli, come ha confidato nel 1987 a padre René Laurentin, forse la più alta autorità in materia di apparizioni mariane che la Chiesa abbia avuto in tempi recenti.
Padre Laurentin si è recato a Soufanieh nel 1982 per vedere con i propri occhi ciò di cui aveva tanto sentito parlare. Il 25 novembre si reca con Myrna, il marito e la piccola Myriam, una dei due figli della coppia, a far visita al nunzio apostolico a Damasco. E nel corso della conversazione, ecco che le mani di Myrna cominciano a coprirsi di olio, tra la meraviglia di tutti; il giorno dopo, la casa di Myrna e di Nicolas si riempie di gente.
Ma, improvvisamente, scatta un blackout, fatto abbastanza abituale in Siria. Quando la luce torna, Myrna è in uno stato di estasi: stesa sul letto, dalle sue mani scorre copiosamente olio benedetto. Ad assistere al fenomeno anche il medico della donna, Gamil Mergy, un ateo convertito grazie ai miracoli di Soufanieh, che prontamente tampona le mani di Myrna perché quella grazia di Dio non vada perduta.
Nei giorni successivi, il grande teologo avrà modo di parlare con i due coniugi e conoscerli meglio. Prima delle visite della vergine Maria e di Gesù erano entrambi fedeli normalissimi, dediti al minimo indispensabile per conservare la fede.
 Nicolas, per esempio, non andava neanche in chiesa. Alla domanda di come la loro vita fosse cambiata e quanto tempo dedicassero alla preghiera, Myrna aveva risposto: «La nostra vita è quella di sempre. È solo più vera, piena di gioia. Un po’ più faticosa, certo, vista tutta la gente che ospitiamo nella nostra casa. Poi, ci sono i tremendi dolori delle stimmate, ancora più intensi di quelli del parto. Ma li accolgo come un grande dono di Dio.
Le preghiere? «Recitiamo semplicemente il santo rosario e le preghiere ordinarie della Chiesa». Tutto semplice, come semplice è la grazia del Signore.

lunedì 24 novembre 2025

Lettera apostolica “In unitate fidei” nel 1700° anniversario del Concilio di Nicea


 Pubblichiamo la prima parte della Lettera Apostolica “In unitate fidei” di Papa Leone XIV in occasione del 1700° anniversario del Concilio di Nicea, diffusa nella Solennità di Cristo Re dell’Universo. 
SIR:"Papa Leone XIV, con la Lettera apostolica “In unitate fidei”, rilancia il valore del Credo niceno come fondamento condiviso tra le Chiese cristiane. Alla vigilia del viaggio in Turchia e Libano, il Pontefice richiama l’unità nella fede come risposta alle sfide del Mediterraneo, segnato da tensioni politiche e religiose".

(1) Nell’unità della fede, proclamata fin dalle origini della Chiesa, i cristiani sono chiamati a camminare concordi, custodendo e trasmettendo con amore e con gioia il dono ricevuto. Esso è espresso nelle parole del Credo: «Crediamo in Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, disceso dal cielo per la nostra salvezza», formulate dal Concilio di Nicea, primo evento ecumenico della storia della cristianità, 1700 anni or sono.

Mentre mi accingo a compiere il Viaggio Apostolico in Türkiye, con questa lettera desidero incoraggiare in tutta la Chiesa un rinnovato slancio nella professione della fede, la cui verità, che da secoli costituisce il patrimonio condiviso tra i cristiani, merita di essere confessata e approfondita in maniera sempre nuova e attuale. A tal riguardo, è stato approvato un ricco documento della Commissione Teologica Internazionale: Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore. Il 1700° anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea. Ad esso rimando, perché offre utili prospettive per l’approfondimento dell’importanza e dell’attualità non solo teologica ed ecclesiale, ma anche culturale e sociale del Concilio di Nicea.

(2) «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio»: così San Marco intitola il suo Vangelo, riassumendone l’intero messaggio proprio nel segno della figliolanza divina di Gesù Cristo. Allo stesso modo, l’Apostolo Paolo sa di essere chiamato ad annunciare il Vangelo di Dio sul suo Figlio morto e risorto per noi (cf. Rm1,9), che è il “sì” definitivo di Dio alle promesse dei profeti (cf. 2Cor1,19-20). In Gesù Cristo, il Verbo che era Dio prima dei tempi e per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte – recita il prologo del Vangelo di San Giovanni –, «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). In Lui, Dio si è fatto nostro prossimo, così che tutto quello che noi facciamo ad ognuno dei nostri fratelli, l’abbiamo fatto a Lui (cf. Mt 25,40).

È quindi una provvidenziale coincidenza che in questo Anno Santo, dedicato alla nostra speranza che è Cristo, si celebri anche il 1700° anniversario del primo Concilio Ecumenico di Nicea, che proclamò nel 325 la professione di fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio. È questo il cuore della fede cristiana. Ancor oggi nella celebrazione eucaristica domenicale pronunciamo il Simbolo Niceno-costantinopolitano, professione di fede che unisce tutti i cristiani. Essa ci dà speranza nei tempi difficili che viviamo, in mezzo a molte preoccupazioni e paure, minacce di guerra e di violenza, disastri naturali, gravi ingiustizie e squilibri, fame e miseria patita da milioni di nostri fratelli e sorelle.

(3) I tempi del Concilio di Nicea non erano meno turbolenti. Quando esso iniziò, nel 325, erano ancora aperte le ferite delle persecuzioni contro i cristiani. L’Editto di tolleranza di Milano (313), emanato dai due imperatori Costantino e Licinio, sembrava annunciare l’alba di una nuova epoca di pace. Dopo le minacce esterne, tuttavia, nella Chiesa emersero presto dispute e conflitti.

Ario, un presbitero di Alessandria d’Egitto, insegnava che Gesù non è veramente il Figlio di Dio; seppure non una semplice creatura, Egli sarebbe un essere intermedio tra il Dio irraggiungibilmente lontano e noi. Inoltre, vi sarebbe stato un tempo in cui il Figlio «non era». Ciò era in linea con la mentalità diffusa all’epoca e risultava perciò plausibile.

Ma Dio non abbandona la sua Chiesa, suscitando sempre uomini e donne coraggiosi, testimoni nella fede e pastori che guidano il suo Popolo e gli indicano il cammino del Vangelo. Il Vescovo Alessandro di Alessandria si rese conto che gli insegnamenti di Ario non erano affatto coerenti con la Sacra Scrittura. Poiché Ario non si mostrava conciliante, Alessandro convocò i Vescovi dell’Egitto e della Libia per un sinodo, che condannò l’insegnamento di Ario; agli altri Vescovi dell’Oriente inviò poi una lettera per informarli dettagliatamente. In Occidente si attivò il Vescovo Osio di Cordova, in Spagna, che si era già dimostrato fervente confessore della fede durante la persecuzione sotto l’imperatore Massimiano e godeva della fiducia del Vescovo di Roma, Papa Silvestro.

Anche i seguaci di Ario, però, si compattarono. Ciò portò a una delle più grandi crisi nella storia della Chiesa del primo millennio. Il motivo della disputa, infatti, non era un dettaglio secondario. Si trattava del centro della fede cristiana, cioè della risposta alla domanda decisiva che Gesù aveva posto ai discepoli a Cesarea di Filippo: «Voi chi dite che io sia?» (Mt16,15).

(4) Mentre la controversia divampava, l’imperatore Costantino si rese conto che insieme all’unità della Chiesa era minacciata anche l’unità dell’Impero. Convocò quindi tutti i Vescovi a un concilio ecumenico, cioè universale, a Nicea, per ristabilire l’unità. Il sinodo, detto dei “318 Padri”, si svolse sotto la presidenza dell’imperatore: il numero dei Vescovi riuniti insieme era senza precedenti. Alcuni di loro portavano ancora i segni delle torture subite durante la persecuzione. La grande maggioranza di essi proveniva dall’Oriente, mentre sembra che solo cinque fossero occidentali. Papa Silvestro si affidò alla figura, teologicamente autorevole, del Vescovo Osio di Cordova, e inviò due presbiteri romani.

(5) I Padri del Concilio testimoniarono la loro fedeltà alla Sacra Scrittura e alla Tradizione apostolica, come veniva professata durante il battesimo secondo il mandato di Gesù: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt28,19). In Occidente ne esistevano varie formule, tra le quali il cosiddetto Credo degli Apostoli.[1] Anche in Oriente esistevano molte professioni battesimali, tra loro simili nella struttura. Non si trattava di un linguaggio erudito e complicato, ma piuttosto – come si disse in seguito – del semplice linguaggio comprensibile ai pescatori del mare di Galilea.

Su questa base il Credo niceno inizia professando: «Noi crediamo i un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili».[2] Con ciò i Padri conciliari espressero la fede nel Dio uno e unico. Al Concilio non ci fu controversia al riguardo. Venne invece discusso un secondo articolo, che utilizza anch’esso il linguaggio della Bibbia per professare la fede in «un soloSignore, Gesù Cristo, Figlio di Dio». Il dibattito era dovuto all’esigenza di rispondere alla questione sollevata da Ario su come si dovesse intendere l’affermazione “Figlio di Dio” e come potesse conciliarsi con il monoteismo biblico. Il Concilio era perciò chiamato a definire il corretto significato della fede in Gesù come “il Figlio di Dio”.

I Padri confessarono che Gesù è il Figlio di Dio in quanto è «dalla sostanza(ousia)del Padre[…]generato, non creato, della stessa sostanza (homooúsios)del Padre». Con questa definizione veniva radicalmente respinta la tesi di Ario.[3]Per esprimere la verità della fede, il Concilio ha usato due parole, «sostanza» (ousia)e «della stessa sostanza» (homooúsios),che non si trovano nella Scrittura. Così facendo non ha voluto sostituire le affermazioni bibliche con la filosofia greca. Al contrario, il Concilio ha utilizzato questi termini per affermare con chiarezza la fede biblica distinguendola dall’errore ellenizzante di Ario. L’accusa di ellenizzazione non si applica dunque ai Padri di Nicea, ma alla falsa dottrina di Ario e dei suoi seguaci.

In positivo, i Padri di Nicea vollero fermamente restare fedeli al monoteismo biblico e al realismo dell’incarnazione. Vollero ribadire che l’unico vero Dio non è irraggiungibilmente lontano da noi, ma al contrario si è fatto vicino e ci è venuto incontro in Gesù Cristo.

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 https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/apost_letters/documents/20251123-in-unitate-fidei.html

mercoledì 19 novembre 2025

Un gruppo ecumenico di leader cristiani palestinesi critica la recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu

In Libano Israele ha bombardato il campo profughi di Ein el-Hilweh uccidendo almeno 13 persone.
 

Asia News 19 novembre 2025

Anche dopo la firma del cessate il fuoco a Gaza, la spirale di violenza sulla Striscia e in Cisgiordania non si è arrestata. E anche il Libano (che si prepara ad accogliere Papa Leone XIV a fine mese) è stato nuovamente colpito: Israele ha compiuto nelle ultime ore un attacco aereo contro il campo profughi di Ein el-Hilweh, nei pressi di Sidone, uccidendo almeno 13 persone e ferendone diverse altre, in uno dei peggiori bombardamenti registrati negli ultimi mesi dopo la tregua tra Israele e Hezbollah siglata nel novembre 2024. I droni israeliani hanno preso di mira una moschea sostenendo fosse un campo di addestramento di Hamas, accusa che il gruppo ha negato. L’esercito israeliano ha poi lanciato nuovi avvisi di evacuazione ad alcuni villaggi nel sud del Libano.

Dentro questo contesto diversi leader religiosi, teologi, attivisti e membri della società civile cristiana palestinese hanno diffuso oggi da Gerusalemme questa dichiarazione in cui sottolineano come la violenza persistente getti un’ombra profonda sulla proposta di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvata lunedì 17 novembre, sollevando interrogativi cruciali sul futuro dell’autodeterminazione palestinese, sulla responsabilità internazionale e sulle reali condizioni della pace.

Una voce di Gerusalemme per la giustizia
una testimonianza ecumenica per l’uguaglianza e una pace giusta in Palestina/Israele

Un’altra risoluzione?

La risoluzione UNSC 2803 (17.11.2025), basata su una bozza dell’amministrazione statunitense, è stata accettata da tredici Stati membri del Consiglio di Sicurezza, mentre due (Russia e Cina) si sono astenuti. La risoluzione mira a istituire un “Consiglio di Pace”, guidato dal presidente Trump, che supervisionerebbe una Forza Internazionale di Stabilizzazione.

Ci sono alcuni aspetti positivi nel cessate il fuoco negoziato dagli Stati Uniti il 4 ottobre 2025 e in questa risoluzione: meno genocidio, meno domicidio, meno sfollamenti e meno smantellamento delle poche istituzioni palestinesi ancora esistenti. Tuttavia, nonostante il cessate il fuoco, la distruzione di Gaza e della sua popolazione continua. (Da quando il cessate il fuoco è entrato in vigore, circa 250 abitanti di Gaza sono stati uccisi e circa 650 feriti). La risoluzione dell’ONU porterà all'autodeterminazione dei palestinesi? Essa subordina l’autodeterminazione alle “riforme” palestinesi. Le riforme previste hanno lo scopo di porre fine alla corruzione e alla cattiva amministrazione o cercano di imporre l’accettazione dei vincoli imposti da Israele e dagli Stati Uniti all’autodeterminazione? Il diritto di un popolo all’autodeterminazione non può essere condizionato, soprattutto da coloro che hanno impedito questa autodeterminazione per decenni. Inoltre, l’autodeterminazione inizia con un processo democratico libero, senza interferenze da parte di Israele o degli Stati Uniti.

Questa risoluzione presenta anche aspetti negativi. Essa sa di tradizionale colonialismo: prevede l’amministrazione della Striscia di Gaza da parte di stranieri con a capo il presidente degli Stati Uniti. Indubbiamente, l’aspetto più negativo della risoluzione è la sua mancanza di una visione complessiva. Ignora le realtà della Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est): lo smantellamento violento dei campi profughi e dei villaggi palestinesi, l’estrema violenza dell’esercito e della polizia israeliani, e in particolare dei coloni ebrei, ostacoli continui alla vita quotidiana dei palestinesi che vivono lì e i tentativi di cancellare la loro identità. Nel complesso, la risoluzione adotta una prospettiva problematica facendo iniziare il problema è  il 7 ottobre 2023. Tuttavia, in questo modo si ignora la vera genesi del conflitto.

Non c'è via d’uscita se non siamo disposti a ripensare la situazione complessiva in Palestina/Israele. Fin dalla Dichiarazione Balfour (1917), il discorso si è basato su una divisione tra ebrei e non ebrei, stabilendo una disuguaglianza che continua da allora. Il piano di spartizione dell’ONU del 1947 era in diretta continuità con il dominio coloniale britannico: l’istituzione forzata di uno Stato etnocentrico ebraico. Gli ebrei sono legati a questa terra e non sono semplici coloni. Tuttavia, il loro legame con la terra non è esclusivo e non dà loro il diritto di espropriare e sfrattare, reprimere e occupare, distruggere e commettere genocidi. Lo smantellamento del sistema di etnocentrismo, discriminazione e occupazione deve mirare a integrare gli ebrei israeliani in una nuova realtà che si profila all’orizzonte: una società multiculturale e pluralista che garantisca uguaglianza, giustizia e pace a tutti coloro che vivono oggi in Palestina/Israele.

Firmato da:

Patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah (emerito)

Arcivescovo greco-ortodosso Attallah Hanna

Il vescovo luterano di Terra Santa Munib Younan (emerito)

Il sig. Yusef Daher

La sig.ra Sawsan Bitar

Il sig. Samuel Munayer

La sig.ra Dina Nasser

Il sig. John Munayer

La sig.ra Sandra Khoury

Il rev. David Neuhaus SJ

Il rev. Frans Bouwen MAfr

Il rev. Firas Abdrabbo

Il sig. Rafi Ghattas

Il rev. Alessandro Barchi

e altri membri

martedì 18 novembre 2025

Siria, il ritorno dei cristiani a Ghassanieh

 

Un evento di straordinaria portata umana, ecclesiale e francescana

Sabato 8 novembre 2025 una folla immensa si è radunata nel villaggio siriano di Ghassanieh, nella Siria occidentale, nella valle dell’Oronte. Ha accolto, al suono di clacson e tamburi, il vescovo latino di Siria, mons. Hanna Jallouf OFM, il vescovo greco-ortodosso di Latakia, mons. Athanasius Fahed, e il presidente del Sinodo Evangelico di Siria e Libano, il pastore Ibrahim Nuseir. Insieme a loro, una decina di frati della Custodia di Terra Santa [Entità da cui dipendono le presenze in Siria] sono arrivati dai villaggi vicini e da Aleppo, Latakia e Damasco, tra cui Fr. Firas Lutfi, l’ultimo frate rimasto nel villaggio, che ricorda benissimo l’assassinio di padre François Murad (23 giugno 2013) da parte dei jihadisti, la fuga dei cristiani e quindi anche dei frati e delle suore del Rosario, e i bombardamenti successivi che hanno devastato l’intero villaggio.

Si comprende così meglio il giubilo che avvolge la folla in questo ritorno al villaggio. Tra le rovine, il corteo ecumenico si è spostato di chiesa in chiesa per benedire i luoghi e i fedeli, come a voler esorcizzare il male e le molteplici profanazioni qui commesse. Il Padre Nostro viene proclamato con fervore: “Non ci sono più Greci, Latini o Protestanti; siamo un solo popolo, abbiamo sofferto lo stesso dolore”, testimonia Gisèle, con la figlia più piccola tra le braccia.



Il ritmo dei tamburi si fa più insistente man mano che ci si avvicina alla chiesa latina, dedicata a Sant’Antonio da Padova, e al convento francescano. Tony, poco più che ventenne, è pieno di elogi per i francescani: “È grazie a loro che oggi possiamo tornare a casa”. Infatti, Fr. Louai Bsharat e Fr. Khukaz Mesrob, rispettivamente sacerdoti dei villaggi vicini di Yacoubieh e Knayeh, non hanno risparmiato sforzi dalla liberazione della Siria, avvenuta lo scorso 8 dicembre. Sostenuti dal vescovo latino Jallouf, hanno perorato la causa di tutti i cristiani della regione presso le autorità locali e nazionali. Qui, i cristiani sono stati espropriati delle loro proprietà, sia case che terreni agricoli. Coloro che sono rimasti hanno sopportato umiliazioni, la privazione dei loro diritti e, per alcuni, prigionia e tortura. Con il peggiorare della situazione, la Custodia di Terra Santa ha scelto di rimanere presente nei villaggi di Yacoubieh e Knayeh: i frati sono stati gli unici religiosi ad aver sopportato tutte queste difficoltà insieme ai loro fratelli cristiani, che servono come sacerdoti, infermieri, insegnanti, avvocati e altro ancora. Tra le grida di gioia, i fedeli non esitano a caricarli sulle proprie spalle in segno di gratitudine.

Nella chiesa francescana, dove croci, vetrate, statue e altare sono scomparsi, il vescovo latino guida la preghiera. Dopo il Padre Nostro e l’Ave Maria, i frati cantano “Salve, Sancte Pater” in canto gregoriano – un inno francescano del XIV secolo – invocando la protezione e l’aiuto di San Francesco d’Assisi, profeta del dialogo e della riconciliazione. Il compito è immenso, ma la nuova generazione di frati intende raccogliere la sfida. 

Fr. Elias Giorgios, un fratello siriano in formazione a Roma, guarda i numerosi video che inondano il suo telefono. “Ghassanieh è il mio villaggio natale. È come se fossi in un sogno, non ci posso credere. Sono senza parole, piango... Mia madre e i miei fratelli sono qui. Sono pervaso da una gioia profonda e, allo stesso tempo, sono consapevole dell’entità della distruzione... Ma ho fiducia nel futuro; la gente ha sviluppato un fortissimo senso di appartenenza alla nostra terra durante questi anni di esilio. Aspettano il ritorno dei loro fratelli per poter tornare; si fidano di noi”.

Mentre i festeggiamenti sono ancora in pieno svolgimento sui gradini della Chiesa di Sant’Antonio da Padova, molte famiglie hanno steso tappeti e le risate dei bambini si levano tra le rovine. Si prepara il caffè o il mate e, per quanto folle possa sembrare, oggi tutti sono tornati a casa.

Si tratta di un “evento storico per la Custodia di Terra Santa, un evento di straordinaria portata umana ed ecclesiale”: così scrive Fr. Francesco Ielpo, Custode di Terra Santa, in una lettera indirizzata a tutti i suoi confratelli di Gerusalemme.

https://ofm.org/siria-il-ritorno-dei-cristiani-a-ghassanieh.html?

domenica 16 novembre 2025

Presto il Papa alla celebrazione di Nicea nel suo 1700° anniversario

Reso noto il programma del primo viaggio internazionale di Prevost. A Iznik la preghiera presso i resti della basilica di Nicea, a Istanbul la visita alla Moschea Blu ma non a Santa Sofia (dove si recarono Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI quando era ancora museo). In Libano incontro interreligioso nella piazza dei Martiri e la sosta al porto sventrato dall’esplosione del 2020.

da AsiaNews - 

Sei giornate scandite da sedici discorsi e un fitto susseguirsi di visite a luoghi significativi della storia ma anche a ferite del presente. È il programma della visita apostolica di Leone XIV in Turchia e Libano, il primo viaggio internazionale del suo pontificato, diffuso oggi dalla Sala stampa vaticana a un mese esatto dalla partenza, insieme ai loghi e ai motti di queste due distinte tappe. Come già annunciato, Prevost dal 27 al 30 novembre Prevost sarà in Turchia dove farà tappa ad Ankara, Istanbul e Iznik per commemorare insieme al patriarca Bartolomeo i 1700 anni del Concilio di Nicea: tre giornate dal profondo carattere ecumenico che saranno contrassegnate dal tema “Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo” (Ef 4,5). Dal pomeriggio del 30 novembre, poi, si sposterà in Libano dove a Beirut e in alcune altre località del Paese porterà un messaggio di dialogo e riconciliazione tra le diverse comunità, incentrato sulle parole del Vangelo di Matteo “Beati gli operatori di pace”.

Leone XIV partirà da Roma la mattina del 27 novembre alla volta di Ankara, la capitale della Turchia, dove appena arrivato visiterà il mausoleo di Ataturk, incontrerà il presidente Recep Tayyip Erdogan e terrà il discorso alle autorità, alla società civile e al corpo diplomatico. Già alla sera stessa si sposterà poi a Istanbul. Qui la mattina successiva incontrerà i vescovi, i sacerdoti e gli operatori pastorali nella cattedrale cattolica dello Spirito Santo e visiterà una casa di accoglienza per anziani delle Piccole Sorelle dei Poveri. Nel pomeriggio andrà a Iznik, la città dove si trovano gli scavi archeologici dell’antica Nicea, dove nell’anno 325 si tenne lo storico Concilio che definì la professione di fede che tuttora unisce i cristiani di ogni confessione. Qui - nei pressi dei resti dell’antica basilica - si terrà un grande incontro ecumenico di preghiera.

Tornato a Istanbul la mattina di sabato 29 novembre Leone XIV visiterà la monumentale moschea Sultan Ahmet (nota come la Moschea Blu). A differenza di quanto accaduto nei precedenti viaggi di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, non è invece al momento prevista la visita di Santa Sofia, la storica basilica cristiana fatta erigere nel VI secolo dall’imperatore Giustiniano. Trasformata prima in moschea e poi in museo da Ataturk, dal 2020 è stata riconvertita da Erdogan al culto islamico.

Il resto del programma in Turchia sarà dedicato agli incontri con le altre Chiese e comunità cristiane: nel pomeriggio di sabato 29 è prevista la firma di una dichiarazione congiunta con il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, prima della Messa con la comunità cattolica alla Volskwagen Arena. La mattina di domenica 30 novembre, infine, il papa parteciperà alla chiesa patriarcale di san Giorgio alla Divina liturgia in occasione della festa dell’apostolo Andrea, al termine della quale impartirà la benedizione insieme al patriarca Bartolomeo.

Da Istanbul nel pomeriggio si sposterà poi a Beirut, dove già in serata incontrerà il presidente della Repubblica (il maronita Joseph Aoun), il presidente dell’Assemblea nazionale (lo sciita Nabih Berri) e il primo ministro (Nawaf Salam), prima di tenere il discorso alle autorità, alla società civile e al corpo diplomatico. Lunedì 1 dicembre il pontefice si recherà alla mattina sulla tomba di san Charbel ad Annaya, per poi incontrare i vescovi, il clero, le religiose e gli operatori pastorali presso il santuario mariano di Harissa. Nel pomeriggio - nella cruciale piazza dei martiri a Beirut - avverrà l’incontro ecumenico ed interreligioso, che sarà seguito da quello con i giovani nel piazzale del patriarcato maronita a Bkerké.
L’ultima giornata del 2 dicembre, infine, dopo la vista all’ospedale de la Croix di Jal el Deib, un momento molto significativo del viaggio di Leone XIV sarà la sosta in preghiera silenziosa davanti al luogo della gigantesca esplosione nel porto di Beirut che il 4 agosto 2020 uccise 218 persone e ne ferì altre 7mila. Presiederà poi la Messa nel Beirut Waterfront, prima della cerimonia di congedo e della partenza per Roma.

https://www.asianews.it/notizie-it/Ecumenismo-e-ferite-di-oggi-nelle-tappe-di-Leone-XIV-a-Istanbul-e-Beirut-64156.html

Il viaggio di Leone XIV in Libano:  «Una speranza per tutta la regione»

Durante il suo viaggio in Libano dal 30 novembre al 2 dicembre, papa Leone XIV visiterà la tomba di San Charbel, nel monastero di Saint-Maron, ad Annaya, luogo sacro della Chiesa maronita. Un gesto che dovrebbe contribuire ad accrescere la crescente influenza dell'eremita libanese in Occidente.

L'Occidente sembra rivolgersi sempre più a San Charbel, monaco libanese, maronita ed eremita, al quale vengono attribuiti circa 30.000 miracoli. Perché infatti privarsi dell'intercessione di un santo taumaturgo così potente? In pochi decenni, san Charbel è passato da una devozione locale a una fama piuttosto fulminea nel mondo occidentale, incoraggiata dai papi che si sono succeduti. Beatificato nel 1965 e poi canonizzato nel 1977 da papa Paolo VI, san Charbel ha un mosaico con la sua effigie installato nel gennaio 2024 nelle grotte vaticane e si appresta a ricevere la visita di papa Leone XIV durante il suo primo viaggio all'estero.

Il 27 ottobre la Santa Sede ha reso noto il programma del viaggio di Leone XIV in Turchia e Libano, dal 27 novembre al 2 dicembre 2025. Nel Paese dei Cedri, Leone XIV si recherà la mattina del 1° dicembre sulla tomba di San Charbel, nel monastero di San Marone, ad Annaya. Un gesto forte che riflette non solo l'attaccamento del Papa al monaco libanese, ma che significa anche il legame che la Santa Sede intrattiene con la comunità maronita, la più importante comunità cristiana del Libano.

Sebbene i suoi predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si fossero recati in Libano nel 1997 e nel 2012, non avevano visitato il monastero di San Marone. È lì che San Charbel trascorse la maggior parte della sua vita: 16 anni di vita comunitaria tra i monaci di Annaya e 23 anni di vita solitaria nell'eremo dei Santi Pietro e Paolo, fino alla sua morte all'età di 70 anni.

Il santo dai 30.000 miracoli:
Da allora, il monastero di San Marone ad Annaya è diventato un importante luogo di pellegrinaggio nazionale e internazionale. La tomba di San Charbel attira ogni anno migliaia di pellegrini desiderosi di rendere grazie per un beneficio ricevuto, di affidare le proprie intenzioni o semplicemente di raccogliersi in preghiera sulla tomba dell'eremita libanese al quale il monastero attribuisce non meno di 29.600 miracoli. Dalla sua morte, migliaia di lettere provenienti da 133 paesi diversi sono state inviate al monastero per chiedere l'intercessione del santo taumaturgo o per rendere grazie per un miracolo.

La preghiera al porto di Beirut:

Non dimentichiamo inoltre che il Papa si recherà al porto di Beirut per pregare:
Memoria e giustizia: la preghiera al porto
La preghiera silenziosa sul luogo dell'esplosione del porto è un punto di svolta morale: si tratta di stare di fronte al dolore, onorare le vittime, ringraziare i soccorritori e affidare a Dio la ricerca della verità e della giustizia. Il silenzio non elimina l'esigenza di rendere conto, ma la nobilita, rifiutando la rabbia sterile e invocando istituzioni che funzionino. Questo gesto tocca l'intera nazione: guarisce la memoria aprendo uno spazio di dignità, dove c'è compassione.

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Per una lettura più approfondita, segnaliamo il link al documento della Commissione Vaticana che approfondisce la teologia del dogma di Nicea:

https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_doc_20250403_1700-nicea_it.html