Viaggio
negli ospedali cattolici di Damasco e Aleppo
di
Daniele Rocchi
Sir,
13
giugno 2019
Un
crocifisso insanguinato, privo di arti, coronato da proiettili e
bossoli sparati durante la guerra. Che non è ancora finita.
Impossibile
non guardarlo mentre si passa nel lungo corridoio che dalla cappella
porta ai padiglioni dell’antico (1905) ospedale cattolico di Saint
Louis di Aleppo
(60 posti letto), città martire siriana, gestito dalle suore di San
Giuseppe dell’Apparizione. Un’immagine che meglio di ogni parola
descrive quanto avviene in questo nosocomio e in altri due, quello
italiano e l’altro francese – sempre dedicato a Saint Louis –
di Damasco, gestiti rispettivamente dalle suore salesiane e dalle
Figlie di san Paolo. Veri e propri “ospedali da campo”, per dirla
con Papa Francesco, che fanno parte del progetto “Ospedali
aperti”,
avviato in Siria nel 2017, per iniziativa del nunzio apostolico,
card. Mario Zenari, con l’apporto sul campo di Avsi. Lo scopo è
uno solo: offrire cure gratuite ai più poveri e ai più vulnerabili.
Bombardati, danneggiati, vessati dalle sanzioni di Usa e Ue, ma
sempre aperti e pronti a curare.
Dal
novembre 2017 ad oggi i tre nosocomi hanno erogato 22.779 servizi
medici gratuiti con moderne attrezzature sanitarie. E adesso, per la
fine del 2020 si punta a quota 50 mila. “Poche
gocce nell’oceano”,
verrebbe da dire, guardando la drammatica situazione sanitaria della
Siria, dove a causa della guerra più della metà degli ospedali
pubblici e dei centri di prima assistenza sono chiusi o parzialmente
agibili e dove quasi due terzi del personale sanitario ha lasciato il
Paese. Ma poi camminando nelle corsie di questi ospedali ci si
accorge che non è così.
Tre
gocce. Una
di queste gocce è Ibrahim.
Oggi balla, salta, solleva le gambe, muove la caviglia. E sorride. Il
tempo di risistemarsi i capelli impomatati e poi torna a sedersi a
terra sui cuscini. Quel giorno, di due anni fa, nella zona di Ghouta,
alle porte di Damasco, quando un razzo gli fece crollare la casa
addosso provocandogli fratture scomposte alla gamba, sembra oramai
solo un brutto ricordo. “Sono
stato lunghi mesi fermo, non potevo camminare e lavorare
– ti racconta mentre si carezza la gamba operata piena di cicatrici
– non
avevo soldi nemmeno per comprare una caramella a mio figlio.
Se
oggi posso tornare a sognare un futuro per me e per la mia famiglia è
anche grazie a chi mi ha permesso di curarmi e ai medici
dell’ospedale francese di Damasco”.
Un’altra
goccia è Evangelina
Strambouli,
anziana signora di origini greche, cristiana ortodossa. All’ospedale
cattolico di Aleppo le hanno salvato la vita due volte. Non ha più
nessuno, il marito è morto, ed è vegliata ogni giorno dal suo
vicino di casa musulmano dal nome che è tutto un programma, Fadi,
ovvero “Angelo”. E poi c’è Ahmed che
dal suo letto non cessa mai di ringraziare i medici che lo hanno
curato invocando su di loro la benedizione di Allah, seguito a ruota
dal figlio, Imaad. Vengono da Hama, nella Siria centrale. Senza le
cure nell’ospedale cattolico di Aleppo, dice “sarei
già morto. Non ho parole per ringraziarvi”.
Il
primario dell’ospedale aleppino, George Theodory, risponde a tutti
con un sorriso. Ma poi non nasconde le difficoltà che ci sono nel
portare avanti questa missione. “Dei
141 ospedali e centri clinici attivi ad Aleppo prima della guerra ne
sono rimasti funzionanti solo 44. I pazienti sono tanti e l’embargo
Usa e Ue li costringe a lunghe attese per avere esami diagnostici. I
nostri macchinari hanno bisogno di manutenzione e di pezzi di
ricambio che non arrivano. Ma grazie al progetto del nunzio Zenari
ora possiamo disporre di nuove apparecchiature, molte delle quali
donate dalla Conferenza episcopale italiana. Cerchiamo di curare al
meglio con ciò che abbiamo”.
Il
sogno dei siriani. Ibrahim,
Evangelina e Ahmed sono solo alcune delle migliaia di siriani che
hanno ricevuto cure gratuite nell’ambito del progetto “Ospedali
aperti”. I loro sogni sono quelli di tutti i siriani: “vedere
la fine della guerra, tornare a condurre una vita serena con un
lavoro e una casa”.
A raccogliere questi sogni sono un team di assistenti sociali, tra
loro Dhalia, Boshra, Shaza, Rama, Tala e Rima, guidate dal
coordinatore del progetto, George N. e dalla capo progetto Flavia C.
Sono loro per prime ad accogliere le persone che vengono a chiedere
assistenza medica e ad ascoltare i drammi della guerra, della
povertà. Ma anche i loro sogni, il primo su tutti: “guarire
e vedere il nostro Paese risorgere”.
E
sono sempre loro ad accompagnarle nel percorso di cura che non è
solo fisica ma anche morale e spirituale. La cosa più bella?
“Vedere la persona guarita e pronta a ripartire con nuova forza e
speranza”.
Come il piccolo Amer,
11 anni di Deir Ezzor, rimasto ustionato dopo un bombardamento,
impossibilitato a camminare e oggi sulla via della guarigione grazie
anche ai sacrifici della madre che per restare con lui a Damasco si
alza all’alba per vendere pagnotte di pane in strada. Non mancano i
ringraziamenti che a volte assumono le sembianze di piccoli dolci o
di profumi. “Il
loro grazie – dichiara
George
– è anche per tutti quei donatori, piccoli e grandi, che da ogni
parte del mondo contribuiscono al progetto. Senza di loro non
potremmo fare molto”.
Tra
disperazione speranza. Lo
sanno bene suor
Carol Tahhan,
salesiana, e suor
Fekria Mahfouz,
vincenziana, che dirigono rispettivamente l’ospedale
italiano
(55 posti letto) e quello
francese
della capitale siriana. Quest’ultimo con i suoi 101 posti letto è
il più grande dei tre nosocomi del progetto che ha da pochi giorni
avviato la sua seconda fase che pone tra i suoi obiettivi anche un
software gestionale per mettere in rete i tre ospedali e la
formazione tecnica con corsi di aggiornamento e training per il
personale sanitario. “Con
il progetto del card. Zenari abbiamo aumentato le prestazioni
mediche”
afferma suor Fekria mentre
scruta il display con le immagini delle 36 telecamere a circuito
chiuso messe a protezione del nosocomio colpito da 40 colpi di
mortaio (ben 4 volte nel gennaio 2018) durante gli ultimi anni. Nel
suo pc mostra anche le foto dei feriti e dei morti portati in
ospedale dopo un attacco, le fasi concitate nel pronto soccorso, le
cure, le operazioni di urgenza, “la disperazione per una vita persa
e la gioia per una salvata”.
“Oggi
– racconta
– la situazione è molto cambiata. Non si combatte più se non
nella zona di Idlib, ma c’è un’altra guerra che stiamo
fronteggiando e si chiama povertà. Nel Paese il salario minimo
mensile si aggira sui 50 dollari, circa 18 mila lire siriane
(government salary). Una miseria”.
Anche
la religiosa punta l’indice contro le sanzioni Usa e Ue che
di fatto, afferma, “hanno conseguenze pesanti sulla popolazione.
Elettricità, gas e benzina sono razionati. Problemi anche a livello
sanitario dove il divieto di transazioni con banche internazionali
impedisce a molte aziende farmaceutiche estere di commerciare con la
Siria provocando mancanza di medicinali e difficoltà nel reperire
forniture e macchinari sanitari. Nonostante tutto andiamo avanti, il
nostro carisma è quello di accogliere i poveri. La popolazione si
fida di noi, ha rispetto della nostra missione. Cerchiamo di
stare al loro fianco curando e dando conforto e ascolto”.
“Curare
la persona significa anche curare la sua famiglia – conferma
suor Carol, direttrice dell’Ospedale italiano.
“La
sofferenza accomuna tutti senza distinzione. Può diventare la malta
per cementare la ricostruzione del nostro Paese”.
“Le
prime medicine che somministriamo sono la fraternità e
l’accoglienza. Tutti vengono trattati con la dignità che meritano,
sono malati bisognosi di cure”
ribadisce il primario del nosocomio italiano, Joseph Fares,
specialista in chirurgia generale e laparoscopica, mentre compie il
suo giro tra le camere e i laboratori molti dotati di nuovi
macchinari donati dalla Cei grazie ai fondi dell’8×1000. “La
guerra lascia segni e ferite difficilmente rimarginabili. La
medicina più efficace è l’umanità. Trattare
le persone con umanità rispettando la loro dignità. Il bene è
contagioso, si trasmette e ricostruisce corpo e anima. Nei nostri
ospedali cattolici combattiamo la povertà e la guerra a colpi di
bisturi, medicine e tanto amore”. Se vinceremo questa guerra?
“Stiamo già vincendo. Ogni volta che un malato viene curato nel
corpo e nello spirito per noi è una vittoria”.
Come
ricorda il Crocifisso insanguinato di Aleppo…