Hassakè – La disponibilità dell'Amministrazione Usa a trattare con il regime siriano di Bashar al Assad è una “opzione che si doveva imboccare già da tempo” e a questo punto rappresenta “una scelta obbligata, se davvero si vuole cercare una via d'uscita da questa tragedia iniziata quattro anni fa”. Così l'Arcivescovo Jacques Behnan Hindo, a capo dell'arcieparchia siro-cattolica di Hassakè-Nisibi, commenta con l'Agenzia Fides le dichiarazioni rilasciate dal Segretario di Stato Usa, John Kerry, il quale in un'intervista televisiva ha ammesso che gli Usa “alla fine” dovranno negoziare con Bashar al Assad per porre fine al conflitto in Siria entrato nel quinto anno. Secondo l'Arcivescovo siro-cattolico, tutto potrà dipendere dal modo con cui verrà prospettata la via negoziale da parte degli Usa e degli altri attori geopolitici.
“Prima di tutto - sottolinea Mons. Hindo - una proposta concreta di negoziato deve essere posta sul tavolo in tempi brevi. In caso contrario, vorrà dire che si sta prendendo solo tempo, credendo così di favorire l'ulteriore indebolimento dell'esercito siriano, che in realtà sta guadagnando terreno su tutti i vari fronti”.
Inoltre, a giudizio dell'Arcivescovo Hindo, eventuali trattative potranno partire “solo se si eviterà di porre pre-condizioni stupide e provocatorie all'interlocutore. In questo senso - aggiunge Mons. Hindo - non mi tranquillizzano le voci che prefigurano offensive militari nelle aree di conflitto autorizzate a non tenere in nessun conto i confini tra Stati sovrani. Non mi sembra un modo corretto di iniziare. Chi vuole il bene del popolo siriano e di quello iracheno, non può continuare a approfittare delle crisi per perseguire propri interessi geopolitici. E deve farla finita anche di accreditare l'esistenza di fantomatici 'ribelli moderati' . Perchè col passare del tempo tutte le fazioni armate contro Assad si sono omologate all'ideologia jihadista”.
http://www.fides.org/it/news/57216-ASIA_SIRIA_Gli_Usa_aprono_alle_trattative_con_Assad_L_Arcivescovo_Hindo_scelta_obbligata_no_a_condizioni_capestro#.VQcGHo6G92V
foto diffuse dagli jihadisti sulla distruzione delle statue , icone, pietre tombali e croci dalle chiese in Iraq |
Basta frottole
di Fulvio Scaglione
Avvenire, 24 settembre 2014
Dietro il fumo e la polvere delle bombe che aerei e navi Usa hanno scaricato ieri sulle zone della Siria controllate dall’Is, e sulla città di Raqqa che i seguaci del califfato considerano la propria "capitale", rischia di passare inosservata una svolta politica in potenza ancor più decisiva dell’intervento militare. Possiamo sintetizzarla così: Obama bombarda la Siria, ma non Assad. O anche: gli sciiti sono un po’ meno cattivi di prima. In tutto il Medio Oriente, cioè, la Casa Bianca sta mettendo la sordina alla parola d’ordine che per decenni ha sostenuto con intransigente fermezza: stare con i sunniti, e in particolare con i regni petroliferi del Golfo Persico, a tutti i costi. Senza se e senza ma.
Obama fa di necessità virtù. Il virus dell’Is va neutralizzato subito: rischia di infettare alleati fedeli come Giordania e Arabia Saudita, creare guai a Israele, spaccare in due l’Iraq. È l’emergenza, ora, a dettare le regole. Così gli Usa trovano un modo complicato, ma efficace (una comunicazione alla rappresentanza siriana all’Onu) per avvertire Assad dei raid senza riconoscergli alcun ruolo: segno che anche Washington, pur disprezzandolo, considera il dittatore siriano e sciita-alawita l’unico ostacolo al dilagare sul terreno dei terroristi sunniti.
Inoltre l’Iran, già "Stato canaglia", è ora un prezioso sostegno alla resistenza dei curdi, a loro volta stretti alleati degli Usa. Del Libano degli hezbollah sciiti, amici degli ayatollah e alleati di Assad, non si parla più. E persino nello Yemen, i guerriglieri sciiti, che così spesso Obama fece bombardare dai suoi droni, ora siedono nella capitale e trattano con il presidente Abdrabbuh Hadi (sunnita, anzi wahhabita tendenza Arabia Saudita), "inventato" in quel ruolo dagli Usa nel 2012.
C’è un’ulteriore considerazione. George Bush fece i suoi clamorosi errori, ma anche Obama non ha scherzato. Sposare la causa sunnita in modo tanto acritico è costato caro a lui e carissimo a tanti civili innocenti. Nello Yemen, dove gli Usa hanno gestito la guerra agli sciiti e il cambio di regime, si nasconde la cellula di al-Qaeda più feroce e pericolosa del mondo. La briglia troppo sciolta lasciata ad Arabia Saudita e Qatar, oltre a ciclopiche brutte figure (Obama sponsor della democrazia che "benedice" la sanguinosa repressione saudita in Bahrein…), ha contribuito a far crescere l’Is, nei suoi passi iniziali finanziata proprio dai signori del Golfo.
Ancora: in Egitto ha dovuto pensarci Abdel Fattah al-Sisi, con i modi più che spicci del militare, a bloccare i Fratelli Musulmani e la slavina che poteva travolgere il Sinai. In Libia i wahhabiti della Tripolitania, come al solito finanziati dall’Arabia Saudita, sono riusciti a spaccare il Paese in due. Per non parlare dell’Iraq, dove il terrorismo sunnita ha fatto strage per un decennio. Conclusione: Barack Obama, premio Nobel per la pace 2009, con queste incursioni in Siria è arrivato al settimo Paese a maggioranza islamica (Pakistan, Afghanistan, Yemen, Somalia, Libia, Iraq e appunto Siria) bombardato.
Basterebbe molto meno per dedurre che qualcosa non funziona. L’attuale correzione di rotta, quindi, va seguita con attenzione. Può essere solo tattica, ed esaurirsi una volta finita l’emergenza Is. Ma può avere anche un valore strategico e metter fine, o almeno limitare, il "doppio standard" che tanti danni e lutti ha portato al Medio Oriente. Quella bizzarra filosofia politica per cui il dittatore amico mio va coccolato mentre quello amico di altri abbattuto; l’estremismo dei miei amici difeso e quello altrui combattuto; e la democrazia è un valore in casa dei nemici, mentre per gli alleati è un optional. Gli sprovveduti chiamano questo realismo, mentre è irreale credere che i popoli coinvolti non si rendano conto della truffa.
Se così fosse, si andrebbe incontro anche all’appello di papa Francesco che, di ritorno dalla Corea, disse: «Dove c’è un’aggressione ingiusta, è lecito fermare l’aggressore... Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra: fermarlo». Perché poi la pace, quella fatta per durare e per cambiare le cose, va costruita con ben altri mezzi. E senza raccontare o raccontarsi disastrose frottole. Perché, come disse di seguito il Papa, «… dobbiamo avere memoria, pure, eh? Quante volte sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una guerra di conquista!». E i popoli, forse più di noi, hanno la memoria lunga.
Obama fa di necessità virtù. Il virus dell’Is va neutralizzato subito: rischia di infettare alleati fedeli come Giordania e Arabia Saudita, creare guai a Israele, spaccare in due l’Iraq. È l’emergenza, ora, a dettare le regole. Così gli Usa trovano un modo complicato, ma efficace (una comunicazione alla rappresentanza siriana all’Onu) per avvertire Assad dei raid senza riconoscergli alcun ruolo: segno che anche Washington, pur disprezzandolo, considera il dittatore siriano e sciita-alawita l’unico ostacolo al dilagare sul terreno dei terroristi sunniti.
Inoltre l’Iran, già "Stato canaglia", è ora un prezioso sostegno alla resistenza dei curdi, a loro volta stretti alleati degli Usa. Del Libano degli hezbollah sciiti, amici degli ayatollah e alleati di Assad, non si parla più. E persino nello Yemen, i guerriglieri sciiti, che così spesso Obama fece bombardare dai suoi droni, ora siedono nella capitale e trattano con il presidente Abdrabbuh Hadi (sunnita, anzi wahhabita tendenza Arabia Saudita), "inventato" in quel ruolo dagli Usa nel 2012.
C’è un’ulteriore considerazione. George Bush fece i suoi clamorosi errori, ma anche Obama non ha scherzato. Sposare la causa sunnita in modo tanto acritico è costato caro a lui e carissimo a tanti civili innocenti. Nello Yemen, dove gli Usa hanno gestito la guerra agli sciiti e il cambio di regime, si nasconde la cellula di al-Qaeda più feroce e pericolosa del mondo. La briglia troppo sciolta lasciata ad Arabia Saudita e Qatar, oltre a ciclopiche brutte figure (Obama sponsor della democrazia che "benedice" la sanguinosa repressione saudita in Bahrein…), ha contribuito a far crescere l’Is, nei suoi passi iniziali finanziata proprio dai signori del Golfo.
Ancora: in Egitto ha dovuto pensarci Abdel Fattah al-Sisi, con i modi più che spicci del militare, a bloccare i Fratelli Musulmani e la slavina che poteva travolgere il Sinai. In Libia i wahhabiti della Tripolitania, come al solito finanziati dall’Arabia Saudita, sono riusciti a spaccare il Paese in due. Per non parlare dell’Iraq, dove il terrorismo sunnita ha fatto strage per un decennio. Conclusione: Barack Obama, premio Nobel per la pace 2009, con queste incursioni in Siria è arrivato al settimo Paese a maggioranza islamica (Pakistan, Afghanistan, Yemen, Somalia, Libia, Iraq e appunto Siria) bombardato.
Basterebbe molto meno per dedurre che qualcosa non funziona. L’attuale correzione di rotta, quindi, va seguita con attenzione. Può essere solo tattica, ed esaurirsi una volta finita l’emergenza Is. Ma può avere anche un valore strategico e metter fine, o almeno limitare, il "doppio standard" che tanti danni e lutti ha portato al Medio Oriente. Quella bizzarra filosofia politica per cui il dittatore amico mio va coccolato mentre quello amico di altri abbattuto; l’estremismo dei miei amici difeso e quello altrui combattuto; e la democrazia è un valore in casa dei nemici, mentre per gli alleati è un optional. Gli sprovveduti chiamano questo realismo, mentre è irreale credere che i popoli coinvolti non si rendano conto della truffa.
Se così fosse, si andrebbe incontro anche all’appello di papa Francesco che, di ritorno dalla Corea, disse: «Dove c’è un’aggressione ingiusta, è lecito fermare l’aggressore... Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra: fermarlo». Perché poi la pace, quella fatta per durare e per cambiare le cose, va costruita con ben altri mezzi. E senza raccontare o raccontarsi disastrose frottole. Perché, come disse di seguito il Papa, «… dobbiamo avere memoria, pure, eh? Quante volte sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una guerra di conquista!». E i popoli, forse più di noi, hanno la memoria lunga.