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martedì 9 aprile 2019

UN RACCONTO SUL GENOCIDIO ARMENO: Hagob e l'uomo del deserto

Questa storia è stata scritta nel 1995 in arabo, tradotta in armeno e pubblicata in diversi giornali e riviste in Siria, Libano e Stati Uniti. Venti anni dopo, l'autore, un medico di Aleppo che vive oggi in Canada, ha deciso di tradurla in francese per il 100° anniversario del genocidio armeno.

(traduzione di Gb.P.  OraproSiria)

di SAMIR ANTAKI
Hagob è un vecchio amico, anche se ha qualche anno più di me, forse ha l'età di mio padre o anche più vecchio, ma non importa perché dopo i quarant'anni noi abbiamo tutti la stessa età, soprattutto se abbiamo le stesse idee e principi.
Hagob viene a trovarmi in ambulatorio una volta all'anno per l'esame annuale di controllo agli occhi, in più egli accompagna i propri figli e nipoti e chiunque dei suoi amici più stretti che dicano "il mio occhio" non ci mette molto a portarmeli, poichè è molto orgoglioso del suo medico e della sua amicizia. Fortunatamente, molte delle sue visite hanno avuto buon esito.
Eravamo così vicini l'uno all'altro che lui veniva sempre in mio aiuto quando avevo problemi con i miei strumenti in ambulatorio o in ospedale, e lui era sempre lì quando la mia macchina si guastava o quando avevo problemi di elettricità, o qualsiasi altro problema. Ci siamo aiutati a vicenda, ciascuno nel proprio campo.
Hagob non aveva una grande istruzione perché non aveva avuto la possibilità di andare a scuola, ma sebbene fosse incolto aveva un'intelligenza e una sapienza senza pari; inoltre aveva tanto buon senso e una logica tali da rendere geloso un laureato ...
Hagob era arrivato ad Aleppo nel 1915 con i sopravvissuti ai massacri barbari e disumani perpetrati contro il suo popolo, gli Armeni, e contro i Siro-Caldei, i Greci e altre minoranze cristiane da parte degli Ottomani. Lui di appena tre anni, sua madre e sua sorella maggiore di due anni, facevano parte del gruppo di sopravvissuti che riuscirono a raggiungere Aleppo dopo una lunga e dolorosa marcia forzata attraverso il deserto e le steppe della Siria, che durò settimane; mentre per strada morirono suo padre, suo fratello maggiore e i suoi tre zii.
Al loro arrivo ad Aleppo furono alloggiati, come la maggior parte dei rifugiati, in accampamenti di fortuna, con baracche di legno e tetto in tela cerata, senza servizi igienici. Sua madre, che in casa era regina, per sovvenire ai loro bisogni fu costretta a lavorare come baby sitter e cuoca in casa di una ricca famiglia Aleppina.
Ella riuscì grazie al suo coraggio e determinazione a prendersi cura dei suoi due figli e migliorare la qualità della loro vita. All'età di dieci anni, sua madre gli trovò un lavoro in un laboratorio meccanico dove egli lavorava giorno e notte in condizioni difficili per un misero salario. Finì per acquisire una grande esperienza e una destrezza senza pari, tanto che il suo padrone lo promosse capo del laboratorio.
Un bel giorno quando aveva appena diciassette anni, sua madre gli disse: figlio mio, è tempo che tu abbia il tuo negozio; hai sofferto abbastanza, meriti di diventare il capo di te stesso. Affittarono, con i pochi soldi messi da parte, una piccola baracca nel quartiere di Meidan. Hagob riuscì a trovare utensili usati ma in buone condizioni e ad un ottimo prezzo e iniziò da solo. Dopo anni di fatica e privazioni e grazie alla sua perizia, al suo coraggio, alla sua onestà, perseveranza e diligenza, Hagob divenne il proprietario di diverse officine meccaniche. Si sposò, acquistò una bella casa, e la cosa più importante di tutte è che divenne padre di quattro figli che hanno avuto successo, tra cui un medico, un ingegnere, un musicista, senza dimenticare il maggiore che ha lavorato con lui e che ha modernizzato i laboratori introducendo nuove tecniche e strumenti. E il mio amico Hagob è molto orgoglioso di tutto questo.
Un bel giorno di primavera Hagob venne a trovarmi in ambulatorio e, per delicatezza, si sistemò con gli altri pazienti nella sala d'aspetto. Quando arrivò il suo turno, vidi entrare nel mio ufficio Hagob con un beduino un po' più giovane di lui, vestito in modo tradizionale con la sua djellaba, la sua abaya e la testa coperta da quella grande sciarpa tipica nera e bianca. Inoltre aveva tatuati il mento e il dorso della mano. Dopo il "Salam Alyakom" di rigore e i convenevoli, Hagob mi presentò il signore che lo accompagnava, dicendo: ti presento mio fratello Hajj Mohammad Al Rmeylan. Strinsi calorosamente la mano del signore, poi, rivolgendomi a Hagob, dissi: è quel Hajj Mohammad che gestisce i terreni agricoli che hai in Jezireh e che tu consideri come un fratello? Mi ha risposto: ma no, giuro che è mio fratello, figlio di mio ​​padre e di mia madre. Gli dissi, mentre invitavo il signore a sedersi sulla poltrona per l'esame: vediamo dunque, basta scherzi Hagob. Ma proprio quando fu faccia a faccia con me mi accorsi che aveva gli stessi occhi di Hagob e il naso così tipico di molti Armeni. Lì per lì non capivo più niente, allora ho chiesto a Hagob di sedersi e raccontarmi tutto.
Bene, dal momento che insisti, dottore, ecco la mia storia: "Quando avevo quarant'anni, mia madre, che era invecchiata ed era molto malata, mi ha chiamato al suo capezzale per confidarmi un grande segreto. Mi disse: trentasette anni fa, quando fummo espulsi dalla Turchia e durante la marcia della vergogna attraverso il deserto siriano, sotto un sole infuocato durante il giorno e il freddo del deserto di notte, avevamo per nutrirci solo delle erbe e radici di piante così rare in quell' angolo di mondo e appena qualche goccia d'acqua sporca per saziare la nostra sete. Uno di quei giorni, ci strapparono tuo padre e uno dei soldati lo decapitò ridendone con i suoi amici, un altro spinse tuo fratello maggiore Hovsep e tuo zio Dikran in un burrone, come fecero con molti altri. Ai soldati piaceva inventare ogni giorno un nuovo metodo di tortura, al punto che sventravano le donne in gravidanza con baionette per gettare poi il feto in aria divertendosi a sparargli, questo è quello che è successo alla povera Syranouche nostra vicina. Mentre per lo stupro, non parliamone, era cosa normale. Che scene di orrore, figlio mio! Tu, che all'epoca avevi tre anni, hai urlato notte e giorno come un animale braccato ogni volta che uno di questi criminali mi si avvicinava per picchiarmi con un calcio o un bastone, per farmi alzare e continuare a camminare con Wannès tuo fratellino, di appena tre mesi, tra le braccia.
Un giorno le forze mi lasciarono, il latte nel mio seno divenne pochissimo, Wannès non aveva la forza di reagire, bruciava di febbre, gli occhi sbarrati: sentivo che stava per morire. Mi sedetti per terra pregando e implorando Dio e il cielo, piangendo con le poche lacrime che mi erano rimaste. All'improvviso tre beduini fecero la loro apparizione, uno di loro mi diede una borraccia e disse: bevi, sembri inaridita, poi ha dato un sorso a te e tua sorella Azniv. Poi tirò fuori dalla sua borsa un pezzo di pane che mi offrì, dicendo: che disgrazia! Come osano fare ciò che è contro i libri di Dio. Poi mi chiese: dov'è il tuo uomo? Risposi: l'hanno decapitato. Rimasero in silenzio. Alzandosi, mi disse: vieni con noi con i tuoi figli, sarai al sicuro nella mia casa, mia moglie Fatme si prenderà cura di voi mentre recuperate un po' di forza. Non aveva finito la frase, che uno dei soldati che aveva osservato la scena si avvicinò e impose ai tre beduini di andarsene rapidamente, puntando il fucile contro di loro. Non appena si voltò, lasciai Wannès per terra e dissi: almeno portate il mio neonato con voi, se ha la possibilità di vivere è meglio, se no offritegli una decente sepoltura. Il beduino mi disse: lascialo a terra e alzati per seguire gli altri; i soldati non se ne accorgeranno, e appena te ne sarai andata lo prenderemo e ti promettiamo di fare del nostro meglio. Poi urlò ad alta voce mentre ci eravamo già allontanati: 'siamo della tribù dei Rmeilan, ricordati di questo nome, povera donna.'
Hagop continuò il suo racconto singhiozzando, sia lui che Hajj Muhammad: quel giorno mia madre mi ha detto: "Perché io abbia il cuore e la coscienza tranquilla prima di lasciare questa terra, sebbene io sia certa che il mio neonato Wannes è morto, ti prego di andare nel deserto per trovare la tribù di Rmeilan nella regione in cui furono uccisi tuo padre e tuo fratello, che è distante due giorni di cammino da Tall Abyad; se mai la trovassi, chiedi dei tre Beduini che ho incontrato e cerca le tracce di tuo fratello Wannès. Perché se è vivo, deve essere tra di loro. Per riconoscerlo lui ha una lunga cicatrice sul suo dorso che va dalla spalla destra al fianco sinistro, perché è stato ferito dalla punta della spada, quando avendolo tra le mie braccia ho cercato di interpormi tra il soldato e tuo padre.". Così lasciai Aleppo lo stesso giorno per andare nel nord-est della Siria alla ricerca di mio fratello. Dopo due settimane di intense ricerche, sono riuscito a trovare Wannès vivo. Non posso descriverti, dottore, le scene di giubilo che hanno accompagnato questo ritrovarci, e quello che mi ha sorpreso di più è stata la grande somiglianza tra noi due. Bisognava vedere le facce delle sue due mogli e dei suoi dieci figli, non potevano credere ai loro occhi. Hanno sgozzato diverse pecore in onore di questa riunione e hanno invitato quasi tutto il loro popolo a una festa più che regale. 
A quel punto Hajj Mohammad parlò, dicendo: quando avevo vent'anni, chiesi a mio padre, Sheikh Machaal, della cicatrice sulla mia schiena. Forse ero un ragazzo turbolento e mi sono fatto male quando sono caduto su una roccia affilata mentre giocavo? Mio padre mi ha detto "beh no, tu sei nato così, tu l'avevi già il giorno in cui ti strappato dalla morte". Poi mi ha raccontato tutta la storia e tutti gli abusi perpetrati contro i miei genitori e la mia comunità da quei selvaggi e tutte le sofferenze patite da mia madre, e mi diceva che non sapeva nemmeno se fosse arrivata ad Aleppo o fosse morta sulla strada. Lo Sceikh Mashaal si riprese e poi mi disse: dal momento che non abbiamo più avuto notizie dei tuoi genitori, ora sei nostro figlio, e sai che ti amiamo altrettanto se non più degli altri. Devi sposarti secondo le leggi di Dio e del suo Profeta. Così mi sono sposato, sono andato con mio padre in pellegrinaggio alla Mecca, e ogni volta che facevo le mie cinque preghiere quotidiane imploravo Allah e il suo Profeta di salvare mia madre e i miei fratelli se fossero ancora vivi, o di concedere loro la pace eterna e il paradiso, se non fossero più di questo mondo.
Armeni nel deserto siriano nel 1917
Hagob intervenne allora, dicendo: Sai, dottore, ci sono molti bambini Armeni che sono nella stessa situazione di mio fratello e che sono stati salvati da morte certa dalle tribù nel deserto siriano. Quale coraggio, quale nobiltà. Continuò: fortunatamente noi Armeni e gli altri sopravvissuti a questi massacri, siamo stati ben accolti in Siria, il che ci ha permesso di risorgere dalle nostre ceneri e dimostrare ciò di cui siamo capaci! Allora sono intervenuto per dire: in effetti, gli Armeni sono un vanto per la Siria, con una quantità di pittori, scultori, musicisti, medici, avvocati, ingegneri, scrittori, tecnici, gioielleri, meccanici, commercianti, industriali e uomini d'affari che hanno contribuito all'elevazione della Siria, e la Siria è fiera di considerarli come cittadini a pieno titolo.
I due fratelli replicarono in coro: e noi siamo orgogliosi di essere Siriani.  E così, ci siamo ritrovati dopo tutti questi anni di lontananza. Ma sfortunatamente, proseguì Hagob, quando sono tornato con mio fratello Mohammad ad Aleppo per presentarlo con orgoglio a mia madre, lei era già morta e sepolta. Ci siamo precipitati nel cimitero armeno, dove lei riposa in pace su questa terra dell'accogliente Siria, per raccoglierci sulla sua tomba. Abbiamo pregato insieme, io in armeno, lui in Arabo e a squarciagola, nella speranza che le nostre preghiere potessero raggiungere il grande deserto della Siria dove sono caduti padri, fratelli e zii. Mentre pregavamo, singhiozzavamo come bambini, mentre le nostre preghiere salivano come una sinfonia armeno-araba, islamo-cristiana verso il cielo, verso il solo e unico Dio.
In seguito, continuò Hajj Mohammad, ci facemmo visita vicendevolmente, le nostre mogli e i nostri figli approfondirono la loro conoscenza, ed era meraviglioso ritrovare la mia famiglia e le mie radici. Ma ciò che mi ha maggiormente addolorato è stato che le circostanze non mi hanno permesso di baciare le mani di quella santa donna che mi ha portato in braccio per notti e giorni mentre camminava sulle rotte dell'esodo prima che la morte strappasse via mio padre ...
Appena finita la frase, la mia segretaria aprì la porta dello studio medico per informarsi sul motivo di questa lunga consulta: "Dottore, non ha ancora completato l'esame di Mohammad? in dieci anni da quando lavoro con lei questa è la prima volta che impiega tanto tempo con un paziente. È da più di un'ora che è nel suo studio e i pazienti nella sala d'attesa stanno diventando impazienti, e sono più di una quindicina!"
Io le ho risposto: non ho ancora iniziato la visita; sono solo all'anamnesi, i suoi sintomi, i suoi antecedenti, la sua storia familiare, le sue abitudini, le sue allergie ... e la ragione principale della sua visita. Lei ha ribadito: Ma quali sono questi sintomi così importanti, che c'è voluto così tanto tempo per elencarli? Le ho risposto: egli si lamenta delle atrocità che alcuni popoli si permettono di commettere su altri popoli perché la loro religione, il loro colore o le loro idee non li soddisfano. Si lamenta della scomparsa dell'amore da certi cuori, che permette loro di torturare, uccidere e deportare intere popolazioni. Si lamenta della secchezza dei suoi occhi per aver versato tante lacrime su una santa donna che camminava e camminava a piedi scalzi per giorni e giorni in fuga dalla barbarie della gente. Si lamenta della spada che ha tagliato la gola di suo padre per la sola ragione che egli era Armeno e per la cicatrice che questa spada ha lasciato sulla propria schiena, che resterà per sempre a riprova di questo GENOCIDIO.
Mi rivolsi di nuovo a Hajj Mohammad mentre versava le lacrime che gli erano rimaste e dissi: È di questo che ti lamenti? Ho tolto il fazzoletto dalla tasca e mi sono asciugato anch'io la faccia e gli occhi e ho detto alla segretaria: dammi ancora qualche minuto per terminare la visita, ti prometto che non ci vorrà molto, e scusami con i malati nella sala d'attesa per questo ritardo, dicendo loro che c'è un intero popolo che attende ancora delle scuse, ormai da ottant'anni!
Sono già passati più di venti anni dalla pubblicazione di questa storia. Abbiamo commemorato il centenario di questo GENOCIDIO, il primo del ventesimo secolo, che ha causato la morte di oltre due milioni di Armeni, di Assiro-Caldei, di Siriaci, di Greci e altre minoranze cristiane; e c'è ancora un paese che nega che i suoi antenati lo abbiano perpetrato.
Dr. S.A.

domenica 7 aprile 2019

L'annuale colletta per la Terra Santa, per sostenere i fratelli che lì vivono e testimoniano la fede nel Cristo morto e risorto

Pubblichiamo il testo della lettera inviata lo scorso 6 marzo, mercoledì delle Ceneri, ai vescovi di tutti il mondo dal cardinale Leonardo Sandri e dall’arcivescovo Cyril Vasil’, rispettivamente prefetto e segretario della Congregazione per le Chiese orientali, in occasione dell’annuale colletta per la Terra Santa.
Il cammino quaresimale invita ciascuno di noi a riandare ai luoghi e agli avvenimenti che hanno cambiato il corso della storia dell’umanità e l’esistenza personale di ognuno di noi: sono i luoghi e gli avvenimenti che ci trasmettono la memoria viva di tutto ciò che il Figlio di Dio incarnato ha detto, compiuto e sofferto per la nostra redenzione.
Centro di tutto l’anno liturgico è la Settimana Santa che inizia a Betfage, con l’entrata di Gesù a Gerusalemme. Lo seguiamo a Betania e assistiamo all’unzione col profumo di nardo, profezia della Sua passione, morte e resurrezione. Nel Cenacolo Egli offre se stesso per noi, nel pane e nel vino, e ci lava i piedi, insegnandoci l’umile servizio come comandamento nuovo dell’amore. Viviamo nel Getsemani il suo arresto e lo seguiamo da lontano con tutta la nostra fragilità, come Pietro che lo rinnega. Sotto la croce, con Maria e il discepolo amato siamo presenti alla sua morte, contemplando il suo costato trafitto. Deposto infine in quel sepolcro, presso il quale il mattino di Pasqua si reca Maria Maddalena, risorge e con la sua luce accarezza i nostri occhi e i nostri cuori, invitandoci a guardare dentro la storia del mondo e quella personale di ciascuno di noi.
Rivivendo i misteri della nostra salvezza, pensiamo con maggiore intensità ai fratelli e sorelle che vivono e testimoniano la fede nel Cristo morto e risorto in Terra Santa, esprimendo loro anche la solidarietà nella carità. Nella sua prima Udienza generale il 27 marzo 2013, Papa Francesco ha ricordato ai pellegrini: «Vivere la Settimana Santa seguendo Gesù vuol dire imparare ad uscire da noi stessi [...] per andare incontro agli altri, per andare verso le periferie dell’esistenza, muoverci per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle».
Quest’anno, in occasione della Colletta pro Terra Sancta, assieme all’invito di Papa Francesco vogliamo riascoltare anche san Paolo VI, che volle recarsi in Terra Santa agli inizi di gennaio del 1964, primo Successore dell’Apostolo Pietro a compiere questo pellegrinaggio. Nell’Esortazione Apostolica Nobis in animo, con la quale nel 1974 istituì la Colletta, afferma: «La Chiesa di Gerusalemme [...] occupa un posto di predilezione nella sollecitudine della Santa Sede e nelle preoccupazioni di tutto il mondo cristiano, mentre l’interesse per i Luoghi Santi, ed in particolare per la città di Gerusalemme, emerge anche nei più alti consessi delle Nazioni e nelle maggiori Organizzazioni internazionali [...]. Tale attenzione è oggi maggiormente richiesta dai gravi problemi di ordine religioso, politico e sociale ivi esistenti [...]».
Ancora oggi il Medio oriente assiste ad un processo che ha lacerato i rapporti tra i popoli della regione, creando una situazione di ingiustizia tale che sperare la pace diventa quasi temerario. A Bari, lo scorso 7 luglio, all’inizio della preghiera del Santo Padre con i Capi delle Chiese orientali del Medio oriente, sono risuonate queste parole: «Su questa splendida regione si è addensata, specialmente negli ultimi anni, una fitta coltre di tenebre: guerra, violenza e distruzione, occupazioni e forme di fondamentalismo, migrazioni forzate e abbandono, il tutto nel silenzio di tanti e con la complicità di molti. Il Medio oriente è divenuto terra di gente che lascia la propria terra. E c’è il rischio che la presenza di nostri fratelli e sorelle nella fede sia cancellata, deturpando il volto stesso della regione, perché un Medio oriente senza cristiani non sarebbe Medio oriente».
La Chiesa, come ricorda san Paolo VInella Nobis in animo, da tempo non è rimasta a guardare: «Dalla seconda metà del secolo scorso vi fu un importante aumento di opere pastorali, sociali, caritative, culturali, a beneficio della popolazione locale senza distinzioni e delle comunità ecclesiali in Terra Santa [...]. Affinché la presenza cristiana bimillenaria nella sua origine e nella sua permanenza in Palestina, possa sopravvivere ed anzi consolidare la propria presenza in maniera attiva ed operare al servizio delle altre comunità con cui deve convivere, è necessario che i cristiani di tutto il mondo si mostrino generosi, facendo affluire alla Chiesa di Gerusalemme la carità delle loro preghiere, il calore della loro comprensione ed il segno tangibile della loro solidarietà».
Nell’ultimo periodo, assistiamo con speranza ad una certa ripresa dei pellegrinaggi, toccando con mano la gioia della fede di tanti fedeli che giungono in Terra Santa sempre più numerosi dalla Cina, dall’India, dall’Indonesia, dalle Filippine e dallo Sri-Lanka: come non pensare al compimento della profezia evangelica «verranno da Oriente e da Occidente, dal Settentrione e dal Mezzogiorno e siederanno a mensa nel Regno di Dio»? Tale vitalità apostolica è un segno grande per le comunità locali, e interpella quelle dell’Occidente talora tentate di scoraggiamento e rassegnazione nel vivere e testimoniare la fede nel quotidiano.
A lei, ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli, che si adoperano per la buona riuscita della Colletta, in fedeltà ad un’opera che la Chiesa richiede di compiere a tutti i suoi figli secondo le modalità note, ho la gioia di trasmettere la viva riconoscenza del Santo Padre Francesco. E mentre invoco copiose benedizioni divine su questa Diocesi, porgo il più fraterno saluto nel Signore Gesù.

mercoledì 3 aprile 2019

Pellegrinaggio di OraproSiria in Libano

Nei prossimi giorni, ci recheremo per un breve pellegrinaggio in Libano per implorare a Nostra Signora di Harissa, di cui è in corso l'Anno Giubilare, e a San Charbel, il santo monaco maronita guaritore, le grazie di guarigione, di consolazione e di sostegno che in tanti ci hanno raccomandato, oltre alla grande grazia che non ci stanchiamo di domandare della pace in Siria.
Per prepararci, riportiamo una bella riflessione di fra Ielpo che illumina il significato del Pellegrinaggio, certi che sarà un aiuto a noi e a tutti coloro che si recano a pregare presso un Luogo Santo.
A tutti i nostri amici assicuriamo la nostra preghiera sotto il manto di Maria e di san Charbel.

«Fu visto e vide»

di fra Francesco Ielpo ofm |  marzo-aprile 2019

La conversione non nasce dalla paura di un castigo o da uno sforzo morale. Avviene quando ci scopriamo amati gratuitamente dallo sguardo misericordioso di Gesù su di noi.


L'incontro di Zaccheo con Gesù a Gerico in un'icona moderna.
Il pellegrinaggio in genere – e quello in Terra Santa in particolare – ha sempre avuto una forte connotazione penitenziale.
Ci si metteva in cammino per espiare le proprie colpe e in alcuni casi poteva essere persino sostitutivo della pena carceraria per chi aveva commesso dei reati. L’idea di penitenza, intesa come sofferenza, privazioni e disagi, era implicita nelle motivazioni di molti pellegrini medievali. Le difficoltà del viaggio, le tribolazioni sopportate, nonché i pericoli, costituivano un mezzo per espiare i propri peccati.

Ricordo che quando fui nominato Commissario di Terra Santa mi recai a Roma per un corso di formazione specifico. Un giorno, prendendo l’ascensore del grande collegio internazionale francescano dell’Antonianum, mi trovai in cabina con un frate a me sconosciuto che guardandomi dall’alto della sua statura mi domandò: «E tu chi sei?». Dopo aver risposto con il mio nome, il motivo per cui mi trovavo a Roma e l’incarico che mi era appena stato affidato, il frate con aria molto seria aggiunse: «Questa è l’ultima occasione che Dio ti dà per convertirti». Sinceramente spero che non sia l’ultima occasione, ma rimane pur vero che la Terra Santa costituisce una grande opportunità di conversione.

Oggi, forse, questo aspetto del pellegrinaggio rischia di passare in secondo piano. Si parte per la Terra Santa con il desiderio di vedere i luoghi e di ripercorrere la geografia sacra senza affrontare, in tutta onestà, grandi sacrifici o penitenze. Ma è possibile, tra le tante comodità che le moderne forme di viaggio consentono, recuperare la dimensione fondamentale del pellegrinaggio come «cammino di conversione»? A partire dalla mia personale esperienza intravedo una positiva risposta nella figura di Zaccheo.

Nel venire a sapere che Gesù passava da Gerico, quest’uomo basso di statura e peccatore pubblico, desiderando vedere Gesù si ingegna per superare le difficoltà oggettive e sale su una pianta di sicomoro.

Voleva vedere Gesù, ma, come ricorda sant’Agostino, «fu visto e vide; ma se non fosse stato veduto, non avrebbe visto».

Nell’esperienza giudaica tre volte all’anno tutti gli ebrei maschi dovevano compiere la «salita a Gerusalemme» (’aliyah) «non solo per vedere Dio, ma anche per essere visti dal Signore» (F. Manns, Terra Santa sacramento della fede, Edizioni Terra Santa 2015). In Terra Santa, ancora oggi, si può fare l’esperienza «graziosa» di uno sguardo amorevole che si posa sulla nostra vita.

Qualche anno fa, a causa dell’annullamento di un precedente viaggio in un Paese esotico, un uomo si era iscritto all’ultimo momento a un pellegrinaggio organizzato dal Commissariato, perché desideroso di visitare luoghi mediorientali. Erano quarant’anni che non metteva piede in una chiesa, dal giorno delle nozze, e aveva vissuto, pur comportandosi bene e in maniera onesta, come se Dio non esistesse.

Dopo qualche giorno di cammino si avvicinò chiedendomi un colloquio personale. Non sapeva perché, ma luogo dopo luogo, santuario dopo santuario, cresceva in lui un desiderio grande di comunicarsi e mi confidava che non poteva farlo perché convinto di non potersi confessare né ricevere l’assoluzione.

Nello scoprire che poteva ricevere il perdono di Dio non riuscì a trattenere la commozione e le lacrime. Lo stesso avvenne il giorno seguente durante la santa Messa al memoriale di san Pietro a Cafarnao, dove ricevette la comunione. Nel luogo dove Gesù aveva promesso il pane vero, quello disceso dal Cielo che dà la vita eterna, quell’uomo si è sentito dire, al pari di Zaccheo, «oggi devo fermarmi a casa tua» (Luca 19, 5) e lo ha accolto pieno di gioia nell’Eucaristia. La conversione non nasce dalla paura di un castigo né da uno sforzo morale. Il cambiamento del nostro cuore avviene sempre quando ci scopriamo amati gratuitamente, quando lo sguardo misericordioso di Gesù si posa sulla nostra vita... Allora, e solo allora, la conversione, cioè il cambiamento di vita («Ecco Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto»), ne scaturisce come conseguenza.

Ancora oggi possiamo recuperare nel pellegrinaggio il «cammino di conversione» di cui tutti abbiamo bisogno, senza necessariamente indossare l’abito del penitente e affrontare particolari disagi. Partiamo, dunque, con il desiderio di vedere, ma anche di essere visti dal Signore. Docili allo Spirito scopriremo che Gesù ci guarda, ci parla e ci ama attraverso i Luoghi Santi, nella Parola, nella preghiera, negli incontri con le «pietre vive» e attraverso il volto di coloro che camminano con noi.

http://www.terrasanta.net/tsx/lang/it/p11479/Fu-visto-e-vide

martedì 2 aprile 2019

Quando gli americani definirono Daesh un "vantaggio strategico": la Guerra delle Ombre in Siria


di Ian Hamel

  trad. Gb.P. OraproSiria

Gli Stati Uniti e l'Europa non hanno sempre considerato Daesh un nemico. Al contrario, l'hanno ampiamente finanziato e armato, dice il giornalista indipendente Maxime Chaix ne "La guerra dell'ombra in Siria" , frutto di cinque anni di ricerche.
Maxime Chaix, traduttore di diversi libri del canadese Peter Dale Scott, autore di «The American War Machine»), non è affatto un complottista. A partire da fonti aperte, egli racconta che gli americani e i sauditi, nella loro ossessione di voler abbattere rapidamente Bashar al-Assad, hanno ampiamente aiutato i jihadisti in Siria già dal 2011. Per ingannare l'opinione pubblica, hanno battezzato «ribelli moderati» il Fronte al-Nusra, il ramo siriano di al-Qaeda. Daesh nacque nel 2013 da una scissione del Fronte al-Nusra. Fu solo molto più tardi, consci di aver favorito un mostro, che gli Occidentali dichiararono guerra allo Stato islamico, proclamato da Abu Bakr al-Baghdadi.
L'11 febbraio 2015, l'ex comandante della NATO, il generale Wesley Clark, spiega tranquillamente alla CNN, e quindi a milioni di telespettatori, che «Daesh [è stato] creato attraverso il finanziamento dei nostri amici e alleati [in Medio Oriente], perché ti diranno che se vuoi uomini che combattano Hezbollah [sciita] fino alla morte, non pubblicherai un manifesto di reclutamento del genere ... "Unisciti ai nostri ranghi, costruiremo un mondo migliore", preferirai piuttosto sostenere [in segreto] questi fanatici religiosi, questi fondamentalisti [sunniti]».
Un miliardo di dollari all'anno
Nell'ottobre 2011, Barack Obama autorizza David Petraeus, il direttore della CIA, a lanciare una guerra segreta in Siria, chiamata Timber Sycamore , coinvolgendo altri quindici servizi speciali, tra cui servizi europei, in particolare inglesi e francesi. «Nel corso degli anni, questa campagna è cresciuta a tal punto che il Washington Post l'ha descritta nel giugno 2015 come "una delle più grandi operazioni clandestine" nella storia della CIA, con un finanziamento quasi pari a un miliardo di dollari l'anno» scrive Maxime Chaix, le cui informazioni sono tutte corroborate da una moltitudine di note a piè di pagina.
Un'enorme rete di rifornimenti di armi destinate ai ribelli viene così creata da David Petraeus e poi dal suo successore a capo della CIA, John Brennan, "in coordinamento con i loro alleati turchi, petromonarchie, europei e israeliani". Il che fa affermare a Christopher Davidson, che ha condotto ricerche su Timber Sycamore , nel suo libro "Shadow Wars", che «Daesh non era considerato un nemico dall'ufficio di Obama e dai suoi principali partner, ma come un turbolento "vantaggio strategico"».
Al Qaeda ha fatto «un buon lavoro»
«La guerra dell'ombra in Siria» non risparmia neanche le grandi potenze europee. Il libro riporta che i servizi britannici dalla loro base militare a Cipro controllano i movimenti delle truppe siriane e ne informano i ribelli. Quanto a Laurent Fabius, allora Ministro degli Affari Esteri, non esita a dichiarare che il Fronte Al-Nusra fa «un buon lavoro». E si tratta del ramo di al-Qaeda nel Levante! La scissione tra Al-Nusra e Daesh ha avuto luogo nella primavera del 2013. Il fronte di Al-Nusra è stato ribattezzato Jabbat Fateh al-Sham nel luglio 2016, e Hayat Tahrir al-Sham nel gennaio 2017.
Nel dicembre 2015, il deputato di LR Alain Marsaud, ex giudice antiterrorismo, intervistato in questo libro, ricorda di aver avuto «l'opportunità di mostrare all'Assemblea Nazionale le foto di combattenti di Al-Nusra in possesso di fucili d'assalto francesi». Quanto al deputato socialista Gerard Bapt, riconosce che gli aiuti francesi ai ribelli in questo paese «e più in generale il sostegno occidentale a loro favore, sono continuati anche dopo gli attentati contro Charlie Hebdo e l'Hyper Kosher, benchè rivendicati da al-Qaeda».
«La guerra delle ombre in Siria» è tanto più intrigante perché il suo autore non risparmia il regime siriano. Ricorda che Bashar al-Assad ha anch'egli un'innegabile responsabilità nella crescita dell'islamismo in Medio Oriente «specialmente dopo l'invasione dell'Iraq condotta dagli Stati Uniti nel 2003». Maxime Chaix ricorda anche che in un'altra epoca la CIA ha subappaltato ai suoi partner siriani la detenzione extragiudiziale e la tortura dei sospetti jihadisti dopo averli rapiti illegalmente.

(*) Maxime Chaix, «La guerre de l’ombre en Syrie. Cia, pétrodollars et djihad» , Eric Bonnier Editions, febbraio 2019.

domenica 31 marzo 2019

Padre Frans, ucciso cinque anni fa in Siria, potrebbe essere beatificato

Gesuita e siriano, padre Ziad Hilal pubblica un libro sulla sua vita durante questi otto anni di guerra: Homs, l'ostinata speranza (1).
In questo libro, che concorre al premio di L' Œuvre d’Orient , rende omaggio alle numerose vittime siriane, così come a padre Frans Van der Lugt, assassinato a Homs il 7 aprile 2014.




di Anne-Bénédicte Hoffner 
La Croix ,  27/03/2019 
trad: OraproSiria

La Croix: Perché intitolare il suo libro dedicato alla vita di tutti i giorni durante la guerra in Siria, sulla speranza?
Padre Ziad Hilal: Se noi stessi non abbiamo potuto vederne il frutto, speriamo che il lavoro che abbiamo già avviato sull'educazione alla pace e alla riconciliazione, alla purificazione della memoria, permetta alle nuove generazioni di vivere cose belle. Era già la preghiera del salmista: "Mostra la tua opera ai tuoi servi, il tuo splendore sia sui loro figli!  Conferma l'opera delle nostre mani "(Sal 89). È fondamentale mettere questa speranza per la Siria al centro di ciò che stiamo facendo.

Come scrivere di questo orribile conflitto che sconvolge il suo paese da otto lunghi anni?
ZH: Ognuno dei trenta capitoli racconta una storia che ho vissuto con altri. Tutto il mio lavoro per questo libro è cercare di rintracciare ciò che la stampa non può mostrare, per descrivere ciò che noi - gesuiti, cristiani, musulmani siriani di Homs - abbiamo vissuto durante l'assedio della città e durante la guerra .
Descrivo la realtà: le nostre sofferenze, le nostre gioie, il nostro isolamento, come mangiavamo, il modo in cui cercavamo l'acqua, l'energia elettrica, e anche come noi cerchiamo fin dall'inizio della guerra di rispondere sia all'emergenza umanitaria che all'immenso bisogno di educazione. Mostro il ruolo e la forza della Chiesa, le Chiese cristiane, per aiutare il popolo siriano. Non vogliamo che la nuova generazione sia una generazione di guerra ma una generazione di pace: per questo, ora dobbiamo combattere il fondamentalismo religioso e l'incitamento all'odio.

Il 7 aprile, saranno passati cinque anni da quando il vostro confratello, il gesuita Frans Van der Lugt, fu assassinato nel giardino della comunità di Homs. Che ruolo ha giocato durante questa crisi?
ZH: Padre Frans era profondamente un uomo di pace e riconciliazione. È grazie a lui che la nostra casa ha ospitato famiglie cristiane e musulmane, illustrando l'unità del paese. Riuscì a trasformarlo in una sorta di oasi fiorita in un mondo di violenza e distruzione.
Come sacerdote e psicoanalista, ha ascoltato le persone come persone, con la preoccupazione di aiutarle a superare i traumi della guerra. Quando fu assassinato, ci furono reazioni da parte di tutta la società civile siriana. È molto raro che musulmani, cattolici e cristiani ortodossi si trovino attorno alla stessa figura: questo è stato il suo caso. È un martire non solo cristiano ma siriano!

In che modo la Compagnia di Gesù celebrerà la sua eredità?
ZH: All'inizio di aprile, una piccola delegazione tra cui il Padre Generale, padre Arturo Sosa, il suo assistente generale che era il nostro provinciale in Siria quando il padre Frans fu assassinato, e il postulatore della sua causa di beatificazione, Don Pascual Cebollada se recherà a Homs. Secondo le regole della Chiesa, è necessario attendere cinque anni dopo la morte di una persona prima di presentare la sua causa: è ora di iniziare.
Da parte mia, io sarò in Germania con i rifugiati siriani di tutte le religioni che desiderano anch'essi rendere omaggio al padre Frans. Vogliono organizzare un'escursione di due giorni nella natura, come quelle che il padre Frans aveva l'abitudine di organizzare con loro per scoprire il paese e favorire l'unità fra le comunità. Celebreremo anche la Messa, in comunione con i nostri fratelli di Homs.

Come ha accolto la notizia della caduta dello Stato islamico a Baghouz, nel nord della Siria? È questa la fine del conflitto?
ZH: Siamo un po' più tranquilli dopo la sconfitta di Daech: il gruppo di fanatici che voleva imporre il suo modo di vivere, di vestirsi, di mangiare a tutta la popolazione siriana ha provocato il caos. Dividere il mondo in credenti e infedeli, questo è il metodo di Daech, ed è anche il nostro incubo in Siria.
Ma sappiamo anche che la sconfitta militare non fa sparire questa idea nelle menti delle persone. Le persone che ne facevano parte, così come quelle che sono vicine ad Al Qaeda, continuano a pensare che quelli che non la pensano come loro non meritano di vivere. Il lavoro rimane immenso!
Per quanto riguarda padre Paolo Dall'Oglio e gli altri ostaggi, non ho notizie e questo mi preoccupa. Ora la faccenda è nelle mani di curdi e americani.

(1Homs, l’espérance obstinée. Avec François-Xavier Maigre, préface de Mgr Pascal Gollnisch. Bayard, 301 p., 17,90 €


https://www.la-croix.com/Religion/Catholicisme/Monde/Le-pere-Frans-assassine-cinq-ans-Syrie-pourrait-etre-beatifie-2019-03-27-1201011628

giovedì 28 marzo 2019

Sui terroristi che ancora infestano la Siria e sui Curdi che continuano a tradire il popolo siriano.


L’autunno scorso, durante il mio soggiorno a Latakia ho incontrato tante persone e tutte avevano in comune un’urgenza incredibile di raccontare e di essere ascoltate da me che tornavo da lontano. Storie dure di sofferenze, di spaventi, di sgomento, di perdite strazianti, di vuoti incolmabili. Aprivo la porta al mio o alla mia ospite e, dopo un abbraccio silenzioso e talvolta ancora prima di andare a sederci, iniziava la narrazione incontenibile degli anni trascorsi dentro questa guerra spietata. Altre volte, occorreva una tazza di caffè e un ‘’ci sei mancata’’ o ‘’ sei tornata per restare, vero?’’ o qualche altra frase di preambolo o un cenno di pianto subito placato o una risata complice per una qualunque sciocchezza o un attimo di raccoglimento come per riunire le forze e dare il via alle storie che avevano bisogno di essere confidate. Storie personali o familiari difficili, dolorose, malinconiche, tragiche e in qualche caso con risvolti un po’ tragicomici. Come la vita. Vorrei scrivere di tutti questi incontri, ma ancora non ci riesco. È difficile staccarmi dalla moltitudine di gesti, sensazioni, emozioni, fremiti e silenzi, talvolta più intensi delle parole, in cui mi sento immersa. Ma posso dire che tutte le storie individuali, uniche, che ho ascoltato hanno tratti comuni come l’ammissione, talvolta espressa con energia e talvolta sussurrata con difficoltà, del terrore provato quando i terroristi si trovavano a pochi chilometri da Latakia, il sollievo palpabile per il pericolo scongiurato e l’ira, invece quasi urlata da tutte e da tutti per essere stati traditi dai Curdi favoreggiatori di Israele e dell’America. Tratti comuni che ho ritrovato nel breve scritto che segue - di Lilly Martin Sahiounie, una signora statunitense che vive a in Siria da quasi trent’anni - così come la solitudine che opprime tutti. Tremo, mentre scrivo queste parole, perché mi riportano verso la sensazione tristissima che provavo costantemente nel constatare quanto si sentissero traditi, inascoltati e soli. Ignorati dal mondo. Lo capivo non per il biasimo, raramente e sommessamente espresso, ma per la gioia grata verso chi per il solo fatto di tornare da quel mondo lontano attestava la loro esistenza, il loro travaglio, ma sopra ogni cosa la loro dignità. Dedico queste righe a tutte le persone che ho incontrato a Latakia e a quelle che non ho potuto incontrare. E dico alla cara Lilly che dopo il nostro lungo abbraccio mi ha ingiunto: ‘’Prima parlo io, poi mi racconterai di te’’: alla prossima volta, per ascoltarti parlare più a lungo, ma intanto continua a offrirci le tue preziose testimonianze.
   Maria Antonietta Carta



Aggiornamento dalla Siria, 27 marzo 2019.  Di Lilly Martin Sahiounie

I media di tutto il mondo sono pieni di articoli che gridano: “L’ISIS È SCONFITTO". Devo ammettere che per quanto mi concerne, l’Isis non è mai stata la preoccupazione principale, poiché nella regione in cui vivo non è mai arrivata e quindi non ho mai sofferto direttamente per causa loro. I video con teste mozzate erano sempre un evento "lontano" e non vi ho prestato un’attenzione eccessiva. 
La mia casa è stata distrutta nel 2014 e i miei vicini sono stati massacrati, rapiti e violentati. Tre chiese bruciate, fabbriche, aziende e case saccheggiate e poi distrutte. Niente di tutto ciò è stato fatto dall’ISIS nella mia zona. Qui, da 2011 fino al 2019, tutte le distruzioni e i crimini sono stati rigorosamente perpetrati dall'Esercito Siriano Libero e dai loro affiliati di Al Qaeda: Jabhat al Nusra e il resto delle milizie appoggiate dagli Stati Uniti. 
È vero che alcuni di quei terroristi alla fine si sono uniti all'ISIS, ma mentre stavano uccidendo qui non erano ISIS. Cosa rappresenta un nome? Talvolta non tanto. I LAKERS o i CELTICS sono nomi diversi, eppure sono tutti giocatori di basket indipendentemente dall'uniforme che indossano. Lo stesso può dirsi dei terroristi: sono tutti tagliati nella stessa stoffa. Ho sofferto e i miei vicini, amici e parenti hanno sofferto durante otto anni di guerra, eppure non siamo stati colpiti dall’ISIS. I media a livello globale stanno sbandierando il fatto che ISIS è finito. OK, buono a sapersi, ma quando ci sbarazzeremo dei terroristi che ancora detengono il controllo di terre siriane? Dove sono i media e le proteste dei governi per Idlib controllata da terroristi assetati di sangue, che detengono due milioni di civili come ostaggi? Nessuno ne parla. Dov'è la protesta globale per i terroristi sponsorizzati dagli Stati Uniti e l'SDF, che detengono una gran parte del territorio nord-orientale della Siria? Quelli dell'SDF hanno stuprato, mutilato, ucciso e scacciato dalle loro case migliaia di persone, mentre marciavano incoraggiati dal sostegno dell'esercito degli Stati Uniti e mentre facevano pulizia etnica contro tutti i Siriani che non sono nati Curdi.  Immaginate i bianchi degli Stati Uniti che, marciando attraverso l'Alabama, costringano tutti gli abitanti neri a lasciare le loro case. Questa è la situazione in Siria. Ma non importa a nessuno perché sono gli USA a sostenere i criminali terroristi della SDF. 
In conclusione: è una buona cosa che ISIS non conservi più territori siriani, ma non possiamo dimenticare le due zone controllate da altri terroristi: Idlib e la regione nord-orientale. E voglio dire che non esiste nessun Kurdistan. I Curdi siriani sono cittadini siriani e hanno gli stessi diritti dei vicini di casa che loro hanno stuprato, mutilato e ucciso. La Siria non sarà divisa. Dato che alla SDF non piace vivere in pace e nel rispetto di tutti i diritti per tutti, anche nel rispetto del diritto di proprietà per chi non è Curdo, forse è giunto il momento che lo "Zio Donald Trump" li trasferisca negli Stati Uniti dove potranno ritagliarsi una Patria tutta per sé.
  Trad. Maria Antonietta Carta

martedì 26 marzo 2019

Daesh. I figli e le spose del nemico

di Marina Corradi

Ha un viso giovane, ma già provato da tutta la morte passata sotto ai suoi occhi neri. Nesrin Abdullah è la portavoce delle unità combattenti curde femminili. È un ufficiale e come tante compagne ha aspramente combattuto, eppure quando incontra, nelle terre appena riconquistate al Daesh-Isis, un inviato del 'Corsera', per prima cosa non parla della vittoria, ma del destino di duemila bambini. I lettori di 'Avvenire' già sanno che anche questa storia minore e straziante (ne abbiamo cominciato a dare conto nella primavera di un anno fa con il reportage di Federica Zoja: «Spose del Daesh, le nuove perseguitate»), si sta scrivendo sotto i troppo rari titoli concessi in Occidente a una guerra poco vista e ancor meno raccontata.
E ora Nasrin dice di duemila figli delle donne del Daesh, giovani madri che li hanno educati nel mito della guerra santa per il Califfato, e che continueranno a farlo, anche se con Baghuz l’ultima roccaforte degli jihadisti è caduta. Bambini di magari cinque anni, già addestrati a sacrificarsi in attentati suicidi. Bambini, però. E Nesrin Abdullah si domanda che cosa l’esercito curdo potrà fare ora di loro, e come sarà possibile separare da madri che educano nell’odio i figli piccolissimi. Duemila figli di ceceni, turchi, tunisini, francesi, e anche italiani, raccolti con le mamme tra le rovine di Baghuz. Che ne faremo, si chiede la donna soldato Abdullah, aggiungendo con angoscia: «Per noi, è come vedere un serpente crescere nel ventre di una madre ». Immagine tremenda, ma comprensibile nella ferocia della guerra siriana. La bandiera del Daesh è stata ammainata, però cellule scampate, come in una metastasi, potrebbero riorganizzarsi.
E quei duemila bambini cresceranno rapidamente. Non si capisce, dalle parole della militare curda, se prevalga verso i figli del nemico il timore, o un’apprensione anche materna: che sarà di loro, adesso? Di loro, e delle giovanissime madri, spesso adolescenti, indottrinate alla guerra santa dai loro uomini. Che forse ora sono morti o, comunque, si sono dileguati. Ma la guerra continua: i figli sono educati al sacrificio della vita. (Chissà, nel plagio, quanta violenza devono usare su se stesse queste madri, per insinuare l’idea della morte in un figlio che hanno messo al mondo e allattato, in un figlio che amano). In un regime dittatoriale, la risposta alla domanda di Nesrin Abdullah sarebbe semplice. In un regime dittatoriale i figli del nemico, sottratti alle madri, verrebbero rinchiusi in qualche istituto di rieducazione intensiva, dove accumulerebbero odio su odio.
Ma la giovane curda sembra porsi in un’altra prospettiva, se si chiede come separare i figli dalle madri, e che fare di queste donne giovanissime. Che l’Europa ci aiuti, dice al giornalista italiano. Come immaginando che l’Occidente offra asilo e rieducazione a bambini e madri, che accolga in sé il nido del nemico e riporti queste giovani vite nell’orbita della pace.
Che grande prova, pensi, sarebbe per un’Europa stanca, e avvilita in orizzonti ristretti. Ma, temi, ci vorrebbe un altro respiro, un altro coraggio, un’altra certezza di ciò che siamo e vogliamo essere. Che fine faranno dunque i bambini del Daesh e le loro madri ragazzine? Nelle rovine ancora fumanti del Califfato nero dubitiamo che siano considerati la prima emergenza dalle potenze interessate al destino della Siria. Forse solo perché sotto la tuta mimetica di quell’ufficiale c’è una donna, questo dramma almeno per un momento torna a emergere chiaro.
Perché gli uomini, nella storia, si sono sempre preoccupati di vincere le guerre, di annientare i nemici, di issare nuove bandiere sulle terre conquistate. Ma ci sono, dietro a una guerra intestina e feroce come quella siriana, altre guerre, che non si vincono con le armi, e sono le più ardue. Sono la ricomposizione delle lacerazioni nella popolazione, e dell’ansia di vendetta; la cura degli orfani, l’educazione della nuova generazione, l’unità da ritrovare. Una vittoria militare si raggiunge bombardando, piegando, annientando. Molto maggiore è la umana fatica per ricominciare, per tessere la pace. Uccidere è un attimo, tornare a far vivere richiede anni di pazienza e fiducia nel prossimo.
Per questo i duemila piccoli figli del Daesh sono una domanda grave non solo per i curdi e la regione siriana, ma anche per l’Occidente, del Califfato nero il grande nemico. Come recuperarli dall’odio in cui sono stati allattati? E che vittoria sarebbe, già impegnarsi in una tale impresa; vittoria senza schianti di bombe, né carri armati che sfilano trionfanti. Un’altra, sommessa vittoria. Non è cosa per eserciti. Per padri, invece, e madri, per uomini e donne miti e tenaci, che non issano bandiere su campi di battaglia annichiliti nel fuoco e nella polvere.

sabato 23 marzo 2019

Riflessioni quaresimali dai cristiani nelle catacombe siriane


Riflessioni di padre Hanna Jallouf, consegnate al S.I.R., che accompagneranno il cammino quaresimale verso la Pasqua.  Padre Hanna Jallouf è il parroco latino di Knayeh, villaggio siriano non distante proprio da Idlib. Francescano siriano della Custodia di Terra Santa, padre Hanna, 66 anni, è rimasto con il suo confratello Louai Bsharat a prendersi cura della sparuta comunità cristiana locale. Tutti i preti e i sacerdoti che c’erano sono fuggiti dopo che molte chiese e luoghi di culto sono stati distrutti o bruciati. Lo stesso parroco fu rapito, nell’ottobre 2014, con altri suoi parrocchiani da un gruppo islamista e poi rilasciato. “Come agnelli in mezzo ai lupi”, dice ricordando le parole del Vangelo.

1  Mercoledì delle Ceneri
 La Quaresima è un tempo di grazia durante il quale prepararsi alla Pasqua. Un tempo privilegiato per guardarsi dentro e rifare i conti con noi stessi davanti al Signore. Così come un bravo contadino che fa i suoi conti alla fine dell’anno per vedere come è andato il raccolto.
 Questo tempo è basato su quattro colonne: digiuno, preghiera, carità e pentimento.
 Ma spesso siamo soliti ricordare solo la carità e dimenticare il digiuno, la preghiera e il pentimento. Il nostro essere ha bisogno di uscire dal quotidiano di tanto in tanto, per rinnovarsi e per riscoprire il suo valore. Ma non si può fare questo passo se non seguiamo le quattro colonne della Quaresima.
La Chiesa ha semplificato il digiuno affinché ogni cristiano scelga il modo di passare questo periodo, per arrivare alla Pasqua del Signore. Cerchiamo di scoprire questa strada grazie alla parola del Signore che ci viene offerta ogni Domenica nell’Eucarestia.
 Da noi, qui in Siria, tanti cristiani ancora osservano la vecchia forma del digiuno, cioè prendere un pasto al giorno. Senza carne, senza pesce, senza grassi, senza latte e formaggi. Solo erbe e cereali conditi con olio. Essi praticano tante forme di pietà religiosa per arrivare alla festa di Pasqua rinnovati umanamente e spiritualmente.
 Cerchiamo, dunque, di vivere questo tempo per riscoprire la nostra fede e la nostra dignità cristiana”.

2  Guardiamo al deserto di Gesù
 Il deserto è il luogo della prova secondo la Bibbia, in cui il popolo di Dio ha imparato a fidarsi del Signore. Il deserto è anche il luogo dei grandi prodigi di Dio, dove Egli ha unito a sé il suo popolo.
 Gesù fa l’esperienza del deserto, spinto dallo Spirito Santo, perché possa il deserto porre le basi della sua missione di salvezza e mostrare che il maligno va sconfitto attraverso la piena fedeltà al Padre e la totale donazione ai fratelli. In tale modo Cristo inaugura il cammino, che ogni uomo deve compiere, per tornare al Padre.
 Quaranta anni, quaranta giorni, sono un tempo di purificazione e di rinnovo per riscoprire la nostra dignità umana. Un tempo per rigettare tutta la polvere che è stata accumulata durante il nostro cammino verso il Signore.
 Gesù esce vittorioso da questa prova, è perciò è modello e speranza anche per le molte tentazioni che la vita di ogni uomo incontra.
 In questo tempo particolare orientiamo il nostro cuore alla sobrietà, all’essenziale, al primato di Dio e alla sua parola, alla ricerca di ciò che realmente è necessario, guardando al nostro modello Gesù che nel deserto ha orientato il suo cuore.

3  All'improvviso una schiarita e si intravede la destinazione
 La Quaresima che abbiamo iniziato è un cammino diretto verso un avvenire di luce. Quando camminiamo per una strada, nel fondo di una valle, sotto il cielo piovoso, ci capita di non vedere più la mèta della nostra direzione. All’improvviso una cima, una schiarita: di nuovo riusciamo ad intravedere la destinazione. Abbiamo ritrovato l’orientamento. Ritorna il coraggio ed è possibile riprendere il cammino.
 Impegnati nel quotidiano della vita, abbiamo riconosciuto mediante la fede, che la vita può condurci a Dio, ma a volte le difficoltà ci sovrastano, ci sentiamo disperati.
 Allora ecco la trasfigurazione illumina la nostra via e la nostra vita. La trasfigurazione non è uno spettacolo a cui si è invitati ad assistere, ma una esperienza mistica che non si coglie con gli occhi della carne, dei sensi, ma con lo sguardo della fede. Mosè ed Elia sono lì a rassegnare le loro dimissioni e per di più ad accettare lo sfocio conclusivo del disegno di Dio, che si apre nel paese di Canaan, ma si chiude nel mondo della Resurrezione. Gesù si trasfigura, per dirci che in Lui sono compiute tutte le profezie e le leggi, e la sua resurrezione illumina la nostra strada nel mondo.
 Lo scandalo della croce diventa, trono e mèta di salvezza.
 Nella mia parrocchia, durante la Quaresima, prima di iniziare la Via Crucis, con la benedizione si recitano i salmi penitenziali. Si conclude la messa della reliquia della Santa Croce, in cui si dice: “La grazia del Signore sia sempre con voi. Il ricordo della Sua passione rimanga nei vostri cuori e il segno della Sua Croce vi protegga da ogni male, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen”.

4  Quaresima: liberare il mondo dal potere del terrorismo
 Le letture di questa domenica ci parlano della necessità di convertirsi per non perire e portare frutti di bene nel mondo. Questi frutti hanno all’origine la chiamata divina, che ci chiede di cambiare il nostro cuore e di aprirlo al suo messaggio di salvezza per essere, nel luogo in cui Egli ci manda, suoi messaggeri. L’esempio ci viene da Mosè, il quale conduceva una vita tranquilla, quando Dio entra nella sua esistenza e gli affida una missione “impossibile”: Liberare Israele.
 Mosè, davanti al roveto che non si consuma, è il simbolo dell’uomo davanti alla trascendenza di Dio, e il simbolo dell’accettazione umile della chiamata divina a compiere una missione.
Davanti a questa visione, Mosè deve restare scalzo; il terreno su cui cammina è sacro, è in presenza del Santo del santi. E tale presenza richiede purezza, incontaminazione.
 Nulla di ciò che può condurre alla morte può esserci in chi è chiamato da Dio, altrimenti la sua missione rischia di fallire, di diventare vana. Tale purezza è essenziale per fare trasparire Dio; perché in ogni opera condotta nel nome di Dio, è lui che deve essere riconosciuto e non l’uomo.
 Anche noi oggi come cristiani, siamo chiamati ad una grande missione “impossibile”, liberare il mondo dal potere del male, dal potere del terrorismo, che aumenta giorno dopo giorno.
 La strada inizia da noi stessi, cioè ritornare all’origine della nostra credenza in Cristo Gesù unico Salvatore, combattere il male con il bene e non con le armi, combattere il male con il buon esempio.
Un giorno, un integralista musulmano, parlando con lui, mi disse: “Voi cristiani, vero che non avete portato armi contro di noi, ma ci avete ucciso con il vostro amore e con la vostra carità”.

Padre Hanna,  parroco latino di Knayeh-Siria

mercoledì 20 marzo 2019

Il futuro della Siria senza l'Occidente

Siria: di Nizar Ali Badr
Questo articolo non è scritto da un «diabolico» commentatore russo putiniano o da un «fanatico propagandista» iraniano o da un «fiancheggiatore» degli Hezbollah o da un «acritico» baathista siriano - come magari potrebbe sembrare a un ipotetico lettore abituato ad abbeverarsi alle fonti dell’informazione mainstream che continuano a propinare la lettura degli accadimenti secondo una visione del mondo diremmo… parziale? - No. È di un giornalista e scrittore francese, attento e profondo conoscitore della questione mediorientale nel nostro tempo. 
Perciò, mi è sembrato che meritasse di essere tradotto e proposto alla vostra attenzione e riflessione. Devo dire però che io, a differenza dell’autore dell’articolo, non sono altrettanto ottimista sia sulla ‘’collaborazione’’ delle YPG sia sulle buone intenzioni della Turchia da una parte e sulla volontà di ritirarsi degli USA dall’altra.
 Richard Labévière è giornalista e consulente internazionale oltre che autore di quindici libri, tra cui: Les Dollars de la terreur - Les Etats-Unis et les islamistes (Grasset, 1998), e La Tuerie d'Ehden ou la malédiction des Arabes chrétiens (Fayard, 2009), [sul conflitto inter-cristiano, tra i falangisti alleati con Israele e gli Arabi cristiani che rivendicavano la loro piena appartenenza al mondo arabo. Trent'anni dopo, il generale Aoun e Sleiman Frangieh incarnano il futuro degli Arabi cristiani, e la loro lotta rappresenta una negazione del cosiddetto «Scontro di civiltà» tra l'Occidente e l'Oriente]. 
 Labévière ha appena pubblicato un libro sulla Siria, coautore Talal el Atrache, dal titolo: Quand la Syrie s'éveillera, ed. Perrin: dalla nascita del nazionalismo arabo e dalla creazione di Israele alle conseguenze della caduta di Baghdad nel 2003. Gli autori raccontano anche come l'assassinio del Primo ministro libanese Rafic Hariri abbia favorito un tentativo di rovesciare il governo siriano e di come la «guerra globale al terrorismo» abbia contribuito al caos globale. Essi inoltre sostengono che, nonostante questi anni bui, la Siria «è tornata ad essere innegabilmente il Paese chiave del Medio Oriente».
  Maria Antonietta Carta

IL FUTURO DELLA SIRIA SENZA L'OCCIDENTE

di Richard Labévière 

 Ci sono crisi difficili da comprendere a causa delle loro radici profonde, delle loro ramificazioni complesse, delle evoluzioni imprevedibili e delle analisi spesso deliranti. È così per i il conflitto arabo-israeliano, le guerre balcaniche o i genocidi ruandesi: tutti eventi diventati totemici e oggetto di culti irrazionali. Sotto questa angolazione teologico-politica, la Siria occupa un posto speciale perché al tempo stesso risveglia tre demoni insubordinabili: quello delle scorie coloniali e risentimenti del mandato francese della Società delle Nazioni (SDN); quello dell'antisovietismo durante la Guerra Fredda; e quello del buon Curdo, maronita, Kosovaro, Bosniaco, Cabilo, Tuareg o Papuano…

I TRE DEMONI
 Il primo demone resta profondamente radicato nella memoria della nostra diplomazia, che continua a ripete gli stessi errori commessi durante la rivolta del Gebel druso (1). Proclamando in perfetta sintonia con David Cameron e Barack Obama, dall’estate 2011, che «Assad deve lasciare il potere», Nicolas Sarkozy e Alain Juppé prendevano la decisione assolutamente incomprensibile di chiudere l'ambasciata di Francia a Damasco, nel marzo 2012. Figuriamoci se si dovessero chiudere tutte le cancellerie situate in Paesi con cui la Francia avesse delle divergenze! È quando una relazione bilaterale diventa tesa che i diplomatici possono, in linea di principio dare la piena misura della loro competenza; per non parlare dei servizi speciali che sono lì proprio per esplorare le possibilità di dialogo.
 Il secondo demone, ancora più grottesco, risveglia i numerosi cliché polimorfi e permanenti dell’anti-comunismo mondiale nato dopo la rivoluzione sovietica del 1917; e che la caduta del muro di Berlino ha ravvivato attraverso molteplici personaggi sempre pronti a dipingere la Russia come male assoluto, subdolo e vendicativo. In questa prospettiva, Putin può essere solo la reincarnazione di Ivan il Terribile o di Felix Dzerzhinsky, fondatore della Ceka, antesignana del KGB e FSB. Per chiarire trucchi, programmi e dichiarazioni, si dovrebbe leggere o rileggere con grande attenzione l’opera di Guy Mettan (2): Russie – Occident, une guerre de mille ans. In quest’ottica, il capo della diplomazia francese Jean-Yves Le Chouchen non perde mai l'occasione di ricordare che, insieme al terrorismo, la Russia rimane il primo Paese che minaccia la Francia! E quando si ha l'ardire di chiedere più specificamente come e perché, i piccoli marchesi del Quai d'Orsay sollevano lo sguardo verso il cielo, indignati con chi ha osato rivolgergli una domanda del genere.
 Cugino del primo demone coloniale, l'ultimo moltiplica le iniziative per scongiurare la pretesa di poter accedere all'autodeterminazione nazionale e ai suoi principi di indipendenza e sovranità. Fa scontrare i Cabili contro gli Arabi, i maroniti contro i musulmani, i Kosovari e i Bosniaci contro i Serbi, i Tuareg contro i Pirogue e così via. In conformità alla locuzione latina divide et impera, cerca di sfruttare le minoranze etniche e religiose. Proprio come David Ben-Gurion aveva raccomandato di fare contro i Popoli arabi affinché regredissero allo stadio di tribù primitive per il massimo beneficio del giovane Stato di Israele.
 Questa volontà di frammentazione tribale fu persino teorizzata da un funzionario del Ministero degli Affari Esteri israeliano - Oded Yinon - nel febbraio 1982. Secondo il diligente funzionario, l'interesse di Tel Aviv consisterebbe nel promuovere la creazione, all’interno del mondo arabo, di micro-Stati antagonisti troppo deboli e troppo divisi per opporglisi efficacemente: «La disgregazione della Siria e dell'Iraq in regioni individuate in base a criteri etnici o religiosi deve essere, a lungo termine, obiettivo prioritario per Israele. Il primo passo è la distruzione del potere militare di questi Stati (...). Ricco di petrolio e tormentato dalle lotte intestine, l'Iraq è nella linea di fuoco israeliana. La sua dissoluzione sarebbe più importante per noi di quella della Siria, perché è quello che rappresenta, a breve termine, la minaccia più seria per Israele».
 In questa prospettiva, i Curdi sono stati innalzati a eroi nella lotta contro Dae'sh e altre fazioni terroristiche, mentre le spie israeliane armavano e informavano gli stessi gruppi terroristici, evacuando e curando i loro feriti, in particolare sulle alture del Golan e nel nord del Libano!

L'ALIBI DELLA LOTTA CONTRO IL TERRORE
 Certamente, questi poveri Curdi sono stati, più spesso che no, i cornuti della storia. Alla fine della prima guerra mondiale, inclusa nei vari trattati sulla gestione dello smantellamento dell'Impero ottomano, la promessa di uno Stato curdo indipendente fu sostenuta dalla totalità delle potenze occidentali. Ma la ripartizione - nella regola petrolifera dei nuovi Stati del Medio Oriente – rese la promessa perfettamente impossibile da mantenere, nonostante i Curdi abbiano continuato a rincorrere questa chimera molto utile.
 In effetti, Tel Aviv aveva capito molto rapidamente tutta la convenienza di questa «ingiustizia storica». Indipendentemente dai legami di parentela molto ipotetici tra il Popolo curdo e la «tredicesima tribù» di Israele, i servizi speciali ebraici si insediarono - a partire dagli anni '50 - nel Kurdistan iracheno con un duplice obiettivo: promuovere la frammentazione dell’Iraq in conformità al piano di Oded Yinon e destabilizzare il vicino Iran armando il PEJAK, la milizia kurda del Kurdistan Iraniano, nella regione di confine di Kermanshah.
 Ma il meglio sarebbe arrivato con la proclamazione del Califfato di Dae’sh, il 29 giugno 2014! Mentre favorivano i vari gruppi armati che cercavano di rovesciare il «regime di Bashar al-Assad», come continua a sostenere la stampa occidentale dall'estate del 2011, Tel Aviv, Washington, Londra, Parigi e le monarchie petrolifere del Golfo non cessavano di utilizzare la milizia curda per condurre la guerra contro il terrore! Una gran storia ...
 Durante la sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del settembre 2015, Vladimir Putin propose agli Occidentali di formare un'unica coalizione per combattere il terrorismo, ma essi opposero un rifiuto stizzito. Il motivo è evidente. Dall'agosto 2015, gli Stati Uniti avevano assunto il comando di una coalizione «anti-terroristica», ufficialmente incaricata di combattere Dae'sh. Quando il presidente russo fece il punto, bisognava riconoscere che questa armata aveva fallito completamente, anzi per meglio dire era servita a sostenere e armare le fazioni terroristiche che avrebbe dovuto combattere per indirizzarle contro l’Esercito governativo siriano e le autorità legali del Paese!
 Dall'autunno del 2015, l'esercito russo interviene in Siria su richiesta del governo siriano, mentre i servizi speciali americani, britannici e francesi (fuori da ogni principio di legalità internazionale) vi agivano dall'estate 2011! Molto prima di adornarsi con le penne di pavone della lotta contro il terrorismo, le potenze occidentali avevano già deciso di fare della Siria quello che avevano fatto dell'Iraq e della Libia: uno Stato-Nazione imploso, frammentato se non eliminato completamente dalla mappa e sostituito con un’accozzaglia di comunità, fazioni armate e gruppi mafiosi utili per una rinnovata tribalizzazione estesa all’intera Mezzaluna fertile.
 In questo contesto, - stiamo parlando del fatto che si cerca di distruggere la Siria e impiantare un regime al soldo degli Occidentali, di Israele e dei Paesi del Golfo - i Curdi sono diventati alleati di primo piano, a cui forze speciali americane, britanniche e francesi consegnano armi, sistemi di comunicazione, intelligence e supporto logistico in nome della sacrosanta lotta contro il terrorismo. Ma senza fare i conti con le buffonate di Donald Trump che non vuole vedere il suo Paese giocare ai gendarmi del mondo a fondo perduto. E l'inquilino imprevedibile della Casa Bianca annuncia – lo aveva esplicitamente scritto nel suo programma elettorale - il ritiro delle forze speciali statunitensi dalla Siria (3). Catastrofe per Londra e Parigi che si ritrovano da sole a interferire in Siria contro ogni legge internazionale!
 Con un'ingenuità da non credere, se non con sicura stupidità, Le Figaro del 3 gennaio riprende l'antifona, combinando contemporaneamente Fake News, propaganda e moralismo: «Come mantenere la pressione contro Dae'sh, stanare i jihadisti francesi e minacciare il regime quando lancia attacchi chimici senza il supporto degli Americani?» Sugli «attacchi chimici», consiglio vivamente di leggere e ascoltare le ultime interviste al diplomatico brasiliano José Bustani, che è stato il primo direttore generale dell'OPCW (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche), estromesso nel 2002 da Washington. I «giornalisti» di Le Figaro conoscono almeno il suo nome?
 E il quotidiano di Dassault continua: «Come difendere i valori democratici di fronte all’intensificarsi dell'autoritarismo e alla crescente influenza di potenze considerate destabilizzanti - Iran, Russia, Turchia - che in Medio Oriente si insinuano nel vuoto lasciato dalla partenza americana?» Chi pensa che Iran, Russia e Turchia siano «potenze destabilizzanti» mentre difendono logicamente i loro interessi nella regione? Certo, dalla fine della Guerra Fredda chi potrebbe decidere che i Paesi occidentali sono coinvolti in intrighi, se non in guerre «destabilizzanti?»
 Sotto forma di ode macroniana, la conclusione è ancora più patetica: «Da solo non poteva cambiare il sistema. L'Europa sarà in grado di trovare energia e risorse sufficienti per prendere in mano la sua difesa, trasformarsi in potenza e compensare l'indebolimento del legame transatlantico»? Europa: quante divisioni? Un'altra domanda è necessaria: quando i giornalisti parigini troveranno l'intelligenza e la forza per fare correttamente il loro lavoro?

LA SVOLTA DI ALEPPO
 In seguito all'appello dei Curdi delle Unità di protezione del popolo (YPG), che chiedevano a Damasco di andare a proteggerli dai Turchi di Manbij, il comando dell'esercito siriano ha annunciato il suo ingresso nella regione. Le forze governative siriane lo scorso venerdì 4 gennaio hanno formalizzato il loro ingresso in questa città cruciale del nord della Siria (con le località curde di Kobane e Hasakeh), finora sotto controllo curdo. La bandiera siriana è stata issata in città e l'esercito ha dichiarato di «garantire la sicurezza dei cittadini siriani e di tutte le altre persone presenti a Manbij».
 All'inizio della giornata, le milizie curde YPG hanno esortato le forze siriane a prendere posizione per evitare un'offensiva da parte dell'esercito turco. La milizia curda, che Ankara considera un movimento terroristico strettamente legato al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), assicura che i suoi membri hanno lasciato la città per combattere Dae'sh nell'est del Paese. Da parte sua, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha descritto l'annuncio dell'ingresso dell'esercito siriano a Manbij come «impatto psicologico». «Per il momento, la situazione non presenta uno sviluppo serio e concreto», ha riportato il quotidiano Hürriyet.
 Quest'ultima riconquista dell'esercito governativo siriano è una buona notizia per diverse ragioni: essendo coperta da Mosca, esclude la possibilità di un intervento turco; completa il ripristino della sovranità siriana su quasi tutto il suo territorio storico; infine, incoraggia i Curdi a riprendere i negoziati con il governo di Damasco, interrotti nel 2013.
 Altri tre avvenimenti importanti rafforzano Damasco: il primo ministro iracheno Adel Abdel Mahdi ha annunciato il 30 dicembre scorso, che alti funzionari della sicurezza a Baghdad avevano incontrato il presidente siriano Bashar al-Assad a Damasco. Il loro incontro ha portato ad un accordo di cooperazione militare nella lotta contro l'organizzazione Stato Islamico / Dae'sh con il ritiro delle truppe statunitensi dalla Siria. Gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno deciso di riaprire la loro ambasciata a Damasco, evento foriero di una possibile normalizzazione dei rapporti con gli altri Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, il primo dei quali Arabia Saudita. Infine, colloqui di pace in Siria con i presidenti di Russia, Iran e Turchia sono previsti per l'inizio del 2019. «È il nostro turno di ospitare il summit dei tre Paesi garanti con il presidente turco, quello iraniano e la Siria. Concordando che avrebbe avuto luogo intorno alla prima settimana dell'anno. Ciò dipenderà dall'ordine del giorno dei presidenti», dichiarava il viceministro degli Esteri russo Mikhail Bogdanov citando Interfax. Il vertice fa parte del processo di pace di Astana, che dal gennaio 2017 ha riunito rappresentanti di Damasco e una delegazione dell’opposizione, senza il coinvolgimento di Washington. È guidato da Russia, Iran e Turchia.
 Capitale per il futuro della Siria e del Medio Oriente, il vertice di Mosca si riunirà senza l'Occidente, secondo un formato predisposto durante la battaglia di Aleppo, vale a dire una base tripartita tra Russia, Turchia e Iran, potenze regionali «considerate destabilizzanti» dagli oracoli di Le Figaro. Non sorprende che questa evoluzione sia descritta in modo particolareggiato nel libro magistrale del diplomatico russo Maria Khodynskaya-Golenishcheva (4). Più intelligenti di quelli di tutto il mondo, i giornalisti parigini e i diplomatici francesi hanno davvero bisogno di leggere libri simili?
 Se gli avessero dato uno sguardo, avrebbero potuto anticipare più o meno quello che significa «La svolta di Aleppo» e quali soggetti avrebbero gestito la ricostruzione politica ed economica della Siria. Avrebbero anche capito come e perché la Francia si era estromessa dai giochi in Siria e nell’insieme della Regione, perdendo una dopo l’altra le sue posizioni tradizionali in Medio Oriente. Disastrosa per il nostro Paese, questa prevedibile evoluzione - che prochetmoyen-orient.ch cerca di spiegare da diversi anni – è arrivata persino a preoccupare il quotidiano Le Monde, lo stesso Le Monde che da Marzo 2011 alimenta una campagna anti-siriana assolutamente delirante.

 Fedele servitore della doxa fabiusiana - «I ragazzi di al-Nusra (al-Qaeda in Siria) fanno un buon lavoro» e «Bashar non ha il diritto di esistere» - Marc Sémo di Le Monde, guarda caso, ha appena scoperto - oh miracolo! - che «nel dossier siriano la Francia è ... isolata». Meglio tardi che mai, anche se almeno da quando gli sviluppi sul terreno contraddicevano appieno le sue analisi ideologiche, Le Monde avrebbe potuto non solo fare il mea culpa, ma provare a ritrovare l’essenza della sua attività, informando i suoi lettori invece di fargli il lavaggio del cervello con frasi moralistiche, ideologiche e false.
 Una cosa è certa: come recentemente hanno confermato diversi leader siriani di altissimo livello, la ricostruzione politica ed economica della Siria si farà senza la Francia. "Prima di vedere una compagnia francese tornare in Siria, le autorità di questo Paese faranno appello a qualsiasi altro partner, anche americano", si lamenta un alto diplomatico francese inviato nella regione, «Il governo di Damasco - in qualunque situazione - farà pagare caramente, molto caramente, al nostro Paese e per molto tempo la sua politica, dal 2011 la più anti-siriana tra i Paesi occidentali». Ancora una volta, il Quai d'Orsay avrà privilegiato non si sa quali interessi, ma non certo quelli della Francia eterna.

 Richard Labévière, 7 gennaio 2019
   Trad. Maria Antonietta Carta
1) La rivolta drusa del 1925-1927, più tardi chiamata Rivoluzione siriana o rivoluzione nazionale, in arabo (الثورة السورية الكبرى, alththawrat alssuriat alkubraa), è stata la più importante rivolta contro il potere francese in Siria. Scoppiò nel Gebel druso per poi propagarsi verso Damasco, il Golan, il Qalamun, Hama e nel Sud-Est del Libano. A capo dell’insurrezione, il capo druso Sultano al-Atrash.
2) Guy Mettan, Russie – Occident, une guerre de mille ans – La russophobie de Charlemagne à la crise ukrainienne. Editions des Syrtes, maggio 2015.
3) Siria: La saggia decisione di Donald Trump, prochetmoyen-orient.ch, 24 dicembre 2018.
4) Maria Khodynskaya-Golenishcheva : Alep, la guerre et la diplomatie. Editions Pierre-Guillaume de Roux, ottobre 2017.