Il 16 aprile su questo Blog abbiamo ripreso la riflessione di Padre Samir Khalil Samir pubblicata su Asia News. Continuiamo il confronto sulla Primavera Araba attraverso questo interessante articolo
Primavera Araba: modelli, conseguenze, attualità
di
Amer Al Sabaileh
utti ci chiediamo perché la rivolta popolare
egiziana e tunisina sono state non violente, a differenza di quella libica e
ora di quella siriana, così segnate da atti di violenza efferata e da
distruzioni. In realtà, per poter rispondere a questa domanda, bisogna guardare
ai modelli della “rivoluzione” dal punto di vista delle potenze internazionali,
cioè il blocco dei Paesi amici degli USA (Egitto, Marocco, Giordania, Arabia
Saudita e paesi del Golfo) e il blocco dei Paesi definiti dai primi come “poteri
del male” (Iran, Siria, Hezballah libanese).
Dopo la rivolta
egiziana, sembrava che gli USA si liberassero dei loro vecchi amici. I paesi alleati degli Stati Uniti, in
particolare l’Arabia Saudita e il Qatar, hanno capito che poteva verificarsi
anche il rovesciamento del loro regime. Si sono verificati, infatti, tentativi
di rivolta nell’est dell’Arabia, soffocati immediatamente con la forza. Poi,
davanti agli occhi di tutto il mondo, che assiste passivamente, i Sauditi hanno
mandato le loro truppe in Bahrain per opprimere il grande movimento popolare del
Paese. Come si può allora credere alla sincerità delle affermazioni di questi
regimi che si ergono ora a sostenitori delle rivendicazioni del popolo siriano
alla libertà e alla democrazia?
Oggi non si può parlare, nel caso della Siria,
di una sollevazione popolare contro un regime dittatoriale corrotto, come è
stato in Tunisia prima e in Egitto poi. L’impressione che si ricava dalle poche
immagini che giungono dalla Siria è piuttosto di una situazione di caos e di
violenza organizzata da bande armate che vogliono destabilizzare il Paese, confermata
dal fatto che questa violenza si dirige soprattutto contro la popolazione
civile. La rivolta siriana infatti non appare simile ai modelli precedenti, ma
sembra piuttosto creata dall’esterno, così che non è possibile parlare di una
rivoluzione popolare come quella che ci mostravano le immagini di piazza Tahrir
in Egitto.
Non difendo sicuramente il regime siriano,
tant’è vero che in Siria ci sarebbero stati tutti gli elementi per giustificare
una rivolta popolare: tuttavia si ritiene che la crisi siriana attuale non
presenti i caratteri di una lotta per i diritti umani e la libertà. Inoltre la
pressione esercitata fin da subito sul regime siriano sarebbe stata sufficiente
per permettere un transito verso una fase di maggiore democrazia nel Paese: in
realtà non c’è la volontà di cogliere i segnali positivi che vengono dal regime
siriano in vista di una soluzione, ma anzi si vuole spingere la Siria nel caos
e nella violenza con il rischio di trascinare nella catastrofe anche i paesi
confinanti (Libano, Giordania, Iraq e Turchia). Le forze usate per questo piano
di destabilizzazione della Siria sono quelle dell’islam radicale, salafita, già
utilizzate in Afganistan, al tempo della guerra contro i Russi, poi in Iraq e
anche in Libia nella recente guerra fatta passare come guerra di liberazione
dal regime di Gheddafi. L’utilizzo di queste forze è veramente rischioso perché
si è già visto come poi siano difficilmente gestibili.
Chi utilizza queste forze per i propri
interessi (storicamente l’Arabia Saudita e attualmente anche il Qatar), lo fa soprattutto
per dare stabilità al proprio regime, in quanto gli elementi principali per
fare scoppiare una rivoluzione esistono manifestamente anche nei Paesi “moderati”
che hanno in comune tre fattori: (1) sono amici dichiarati di Israele e
dell’America, (2) esiste al loro interno un legame molto stretto tra business e
potere e (3) vi svolgono un ruolo particolare le mogli dei dittatori, implicate
pesantemente nella corruzione nel campo della finanza.
“La rivoluzione”: dagli amici dell’America ai suoi nemici
Il regime siriano, pur destinato a finire
perché basato sulla paura e sull’assenza di un vero dialogo politico, non
presenta nessuna delle tre costanti dette prima: di conseguenza una rivolta
avrebbe richiesto tempi lunghi di maturazione. Allora, per far precipitare la
situazione, si è ideata la guerra libica, che non appartiene al modello della
primavera araba ma che ha determinato subito l’intervento militare della NATO e
dei paesi arabi alleati, quali Giordania e Qatar. Intervento facile, perché la
Libia non ha importanza dal punto di vista geopolitico: è in gran parte deserto
e procura vantaggi enormi (è un mare di petrolio). Mentre l’attenzione della
gente è concentrata sulla Libia, viene creata la figura del cugino di Baschār
El-Asad, l’uomo che coniuga business e autorità: è il cugino corrotto che ha in
mano la finanza del Paese, prima sconosciuto al mondo arabo ora improvvisamente
noto. Poi iniziano gli scontri armati nella località di Dara‘a, causati
all’inizio da un fatto forse non rilevante: l’incapacità del governatore di
risolvere un problema locale legato a una crisi momentanea.
In realtà la decisione di far cadere il
regime siriano era già stata presa da tempo, negli anni novanta, ma l’astuzia politica
di Asad padre era riuscita sempre a contrastare questo progetto. Anche la
guerra nel sud del Libano e poi la guerra di Gaza avevano l’obiettivo di
colpire la Siria.
Dopo la prima fase della crisi siriana,
quando i media non avevano ancora attaccato Baschār, si comincia a fare il nome
del fratello, Maher, descrivendolo come un pericoloso assassino. Mentre Baschar
è riformista ma debole, il fratello è autoritario e sanguinario. Infine si fa
comparire la figura di Asma, la moglie corrotta di Baschār El Asad.
Progressivamente si creano cioè le tre costanti secondo il modello descritto
sopra. D’altronde l’America sa di non potere intervenire militarmente in Siria
per non mettere a rischio la sicurezza di Israele e allora cerca di indebolire
il regime, come fece a suo tempo con Saddam in Iraq, creando punti di
instabilità e di conflitto in varie direzioni. Gli integralisti islamici
utilizzati come strumento di destabilizzazione della Siria sono gli stessi
creati in Libia con l’avallo delle potenze occidentali.
Credo
che nessuno possa immaginare le disastrose conseguenze che la caduta della
Siria potrebbe originare, ben peggiori dello scenario iracheno. Il pericolo è
legato agli strumenti utilizzati per rovesciare il regime, già introdotto in
Libia: le forze radicali (salafite) sponsorizzate dal Qatar. Il Qatar ha
manifestato di essere lo sponsor ufficiale di tutti i gruppi radicali
inaugurando la moschea più grande della regione, sotto il nome del fondatore
del wahabismo Mohammad Bin Abd al Wahab, e inoltre con l’istituzione di un
ufficio di rappresentanza per i Taliban a Doha, la capitale del Qatar. Anche i fratelli musulmani
ora dichiarano che con l’America si può trattare, con questa nuova America che
difende i diritti degli stati alla libertà e alla democrazia. Gli americani, ad
esempio, favoriscono il ritorno di Hamas in Giordania: ma di un Hamas nuovo,
pragmatico, politico. Questo spiega perché certi Paesi debbano servirsi ora,
per realizzare i loro piani, di forze islamiche estremiste, prima messe al
bando e combattute con tutti i mezzi. E spiega il ruolo ambiguo
giocato dal Qatar in Libia, e il suo sforzo attuale per avere lo stesso ruolo
in Siria. L’esportazione di questi gruppi sarebbe controllabile dopo? Temo che
la risposta sia assolutamente negativa: dunque dobbiamo temere già da ora le
conseguenze catastrofiche di questa politica.
Il
ruolo del Qatar nell’appoggio ai Fratelli musulmani dovunque in Medio Oriente
ormai è chiaro. A dire il vero, pare che il progetto di islamizzare i paesi
arabi abbia avuto il consenso americano con la supervisione del Qatar. Questo è
ormai confermato dalla generosità del Qatar nell’offrire tutti i mezzi
possibili per attuare il progetto dei “Fratelli musulmani”, dal sostegno
economico a quello dei media (Al Jazeera). Anche Hamas ha abbandonato la Siria,
preferendo l’alleanza con il Qatar, il quale l’ha accolto a braccia aperte
trovando un’altra carta vincente da giocare. Recentemente, il Qatar è riuscito
a far ritornare i leader di Hamas in Giordania da cui erano stati espulsi nel
1999. Ciò solleva molte domande riguardanti il futuro di questo movimento e il
futuro della Giordania.
La
Nuova Hamas è definita una Hamas politicamente più matura, addomesticata,
pronta ad adottare la resistenza popolare. In realtà il suo ritorno rappresenta
l’inserimento degli interessi di molti giocatori. Per i “Fratelli Musulmani”
sarebbe la forza necessaria per poter arrivare al potere. La presenza di Hamas
come forza politica darà ai “Fratelli Musulmani” quello che ancora gli è
necessario: la popolarità per ottenere un numero maggiore di consensi. La
popolarità di Hamas è concentrata e fortemente presente nei campi profughi
palestinesi in Giordania.
L’alleanza
tra Qatar, Hamas e “Fratelli Musulmani” oggi corrisponde al desiderio americano-israeliano
di mettere fine alla questione palestinese. In realtà, l’ingovernabilità
siriana potrebbe portare a un caos regionale, con prezzi da pagare altissimi. Giocare
alla trasformazione della regione è un fatto gravissimo: la Giordania è il
paese cruciale della zona, è il garante della stabilità e una qualsiasi
imprudenza volta a cambiare la sua faccia potrebbe generare risultati
catastrofici.
È importante notare qui che molti di questi
islamisti sono stati scarcerati recentemente. Anche in Giordania ne sono stati
rilasciati recentemente 222. La Gran Bretagna ha appena deciso la liberazione
di uno dei più pericolosi salafiti e pretende che la Giordania lo accolga e
rispetti i suoi diritti. In poco tempo questi nemici di un tempo stanno
diventando tutti ricchi. Molti di loro entrano in politica e hanno rapporti con
Israele. La televisione israeliana, ad esempio, ha dato spazio su un suo canale
al rappresentante dei salafiti egiziani (il partito An-Nur). In Egitto gli
integralisti sono riusciti a emergere nelle elezioni, ottenendo i voti delle
masse povere e ignoranti alle quali danno soldi forniti dall’Arabia Saudita. È
noto che l’Arabia Saudita è storicamente quella che appoggia i salafiti mentre
il Qatar, attraverso l’emittente Al Jazeera, finanzia e sostiene i fratelli
musulmani. Se questi sono gli strumenti per attuare il piano, ci si deve
chiedere da dove essi entrano in Siria.
Non può essere l’Iraq a farli entrare, dal
momento che si è dichiarato contrario a una alleanza contro la Siria; la
Turchia ha minacciato l’ingresso di truppe turche sul suolo siriano per la
protezione dei civili ma poi ha desistito da questa sua intenzione, perché in
Turchia ci sono 17 milioni di alawiti che hanno immediatamente attaccato il
governo di Erdogan; tant’è vero che recentemente il ministro degli esteri
turco, in una sua visita in Iran, ha dichiarato che non può essere la Turchia a
tenere sotto controllo la Siria. In Libano ci sono stati scontri armati a
Tripoli, per opera di milizie finanziate dall’uomo politico libanese, Hariri,
con il denaro dell’Arabia Saudita ma l’esercito libanese ha bloccato queste
truppe al confine con la Siria. Non resta che la Giordania, nella quale vi sono
attualmente 43 mila libici con la scusa della necessità di ricevere le cure
mediche; ma di essi solo 15 mila sono negli ospedali. Perché questi libici si
trovano in Giordania? Probabilmente sono gli stessi che hanno fatto la guerra
in Libia e che sappiamo essere stati finanziati dal Qatar.
Il regime siriano dunque si trova a
combattere contro queste bande di salafiti, non contro il popolo siriano come
si vuole fare credere. Come mai questi combattenti sono muniti di armi
anti-missile di fabbricazione francese? Proprio questo modello di armi è stato
acquistato recentemente dal Qatar dalla Francia.
Questo gioco è estremamente pericoloso. La
lezione afgana dovrebbe avere insegnato che queste forze, una volta create, non
sono altrettanto facilmente eliminabili. La posizione della Giordania poi è
particolarmente delicata perché essa, non avendo risorse e ricchezze proprie, è
costretta a dipendere dagli aiuti che le vengono dall’esterno, rendendosi così
soggetta ai ricatti degli Stati più forti e ricchi.
Inoltre, sembra che la Giordania sia
progressivamente sottoposta a una pressione pesante che la sta mettendo in
ginocchio. Occorre essere molto attenti per non cadere nella trappola delle
falsificazione mediatica, creata da canali satellitari quali Al Jazeera e El
Arabiya e riprodotta fedelmente dai media occidentali che danno una visione
falsata della crisi siriana.
Tutto
questo rappresenta la contraddizione più forte oggi: i Paesi del Golfo, che non
hanno mai conosciuto la democrazia, chiamano altri Paesi ad adottare un
processo democratico volto a concedere più libertà ai popoli, mentre loro stessi
non hanno mai sperimentato neppure le elezioni.
Tutti i
sostenitori della pace devono almeno preoccuparsi per questo piano di
islamizzazione della zona medio-orientale in senso radicale. Il timore è che
questa regione venga frantumata in tanti staterelli confessionali, tanti
piccoli Stati deboli che giustificherebbero la presenza di Israele come Stato
ebraico e garantirebbero la sua sicurezza secondo un piano antico ma ancora
attuale, che rischia ora di vedere la sua realizzazione. Questo porterebbe a far
perdere al Medio Oriente quel carattere di incontro di civiltà, religioni e
culture che rappresenta una ricchezza che ha caratterizzato l’Impero Ottomano.
Qui mi sento
costretto a fare un appello ai tutti gli amici cristiani e alle Chiese perché
siano lucide e presenti nel decidere il futuro di questi popoli. Bisogna, in
tutti modi, salvare l’identità religiosa e il tessuto culturale dell’Oriente
perche non è ragionevole che il destino dei Paesi che rappresentano la culla
storica della civiltà come Giordania, Siria, Libano e Egitto venga deciso
dall’enorme ricchezza economica posseduta da alcuni piccoli stati privi di
qualsiasi cultura, storia, religione e umanità. Infine, è rilevante osservare l’ultima
fatwa rilasciata recentemente dal
Mufti dell’Arabia Saudita, in cui ha chiamato alla distruzione di tutte le
chiese in Arabia.
da IL Margine, 32, (2012) n° 4