Traduci

martedì 9 luglio 2019

Da Damasco ad Aleppo, l'impegno dei frati della Custodia di Terra Santa per ricostruire la "casa" Siria

Il 10 luglio 1860 vennero massacrati in odium fidei 8 frati francescani (sette spagnoli e un austriaco) nel quartiere cristiano di Bab-Touma,  dove vivevano dividendo con i poveri il loro pane. Il martirio dei francescani di Damasco è uno dei tanti episodi di sangue che hanno costellato la storia della presenza cristiana in Medio Oriente

di Daniele Rocchi
S.I.R.  6 luglio 2019

Ci vantiamo anche nelle tribolazioni,  sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude”, cita san Paolo, la lettera ai Romani, padre  Raimondo Girgis, superiore del Memoriale di San Paolo a Damasco, per raccontare come i siriani stanno vivendo la guerra che dura oramai da oltre 8 anni. E non poteva essere altrimenti visto che siamo a pochi metri dalla grotta dove, secondo la tradizione, Saulo di Tarso ribattezzato poi Paolo, fariseo e cittadino romano, folgorato, cadde da cavallo e si convertì passando così da persecutore della prima chiesa di Gerusalemme e delle prime comunità cristiane della Palestina, ad apostolo della resurrezione di Cristo fuori dalla Terra Santa, fino a Roma, dove fu decapitato.
Risultati immagini per Locus Traditionalis Conversionis Sancti Pauli Apostoli.
Locus Traditionalis Conversionis
Sancti Pauli Apostoli.

Siamo a Tabbaleh, una zona popolare della capitale siriana”, dice il francescano mentre mostra il convento voluto da Papa Paolo VI per accogliere i pellegrini sulla via di san Paolo. “Prima della guerra, ricorda,arrivavano in Siria centinaia di migliaia di pellegrini. Molti sostavano qui ma ora è tutto cambiato. Al posto dei pellegrini accogliamo famiglie sfollate, povere e persone malate con i loro familiari che vengono a Damasco per curarsi. Non facciamo distinzioni di fede e di etnia”. La guerra ha cambiato drammaticamente il volto della Siria e i francescani si sono fatti trovare pronti, fedeli alla loro missione, la stessa da 800 anni in Terra Santa, il cui simbolo è il Crocifisso di san Damiano: “Francesco va e ripara la mia casa”.

La tribolazione.  Per padre Raimondo, per padre  Bahjat Elia Karakach, guardiano del vicino convento della Conversione di San Paolo e per padre  Ibrahim Alsabagh, parroco latino di Aleppo, tutti francescani della Custodia di Terra Santa, oggi la “casa” si chiama Siria. Così per tutti i loro confratelli. “Ma non sono solo i muri delle case che devono essere riparati” si affretta a dire padre Raimondo “vanno rinsaldati anche i cuori e gli animi della gente. Vorremmo fermare la guerra dove ancora si combatte (a Idlib, ndr.), vorremmo poter vivere le nostre vite senza dover contare sugli aiuti esterni. Purtroppo versiamo in una grave crisi economica resa ancora più dura dall’embargo Usa e Ue. Difficile rialzare la testa in questa situazione, ci vorranno decenni”.

La gente è stanca, sconfortata e disillusa conferma il francescano, vicario apostolico latino di Aleppo, mons. George Abou Khazen, molti dicono di aver sbagliato a rimanere qui.
Soffriamo la mancanza di medicine, di gas da cucina, di benzina e di gasolio a causa delle sanzioni”. La tribolazione dei siriani ha il volto degli sfollati, dei profughi, degli amputati, dei bambini traumatizzati dalle bombe, dei senza lavoro, degli anziani rimasti soli, delle famiglie spezzate, delle donne abusate. “Per questo motivo – ribadisce padre Raimondo – i siriani hanno bisogno di gesti concreti di ricostruzione che infondono certezze in vista di tempi migliori. Da soli non riusciremo mai a ricostruire il nostro Paese. Serve  l’aiuto internazionale”.

La pazienza e la virtù provata.  “La fede è stata il motivo della resistenza di tanti siriani in questi anni di guerra” dice mons. Abou Khazen. "Noi cristiani eravamo pronti a perdere tutto, i beni materiali e la vita. Ma non  avremmo  mai rinunciato alla nostra fede.
E anche per gli altri credenti mi sento di dire lo stesso. La tribolazione produce pazienza, scrive san Paolo, e così sta accadendo. La chiesa ha dato un bel segno: nessun prete, nessun parroco, nessun religioso o religiosa, nessun vescovo, ha lasciato la Siria. Siamo rimasti qui con la gente, e questa vicinanza ha infuso coraggio.  Abbiamo visto molte conversioni, ci sono stati tanti cristiani che, provati in questo tempo di difficoltà hanno riscoperto la fede e si sono riavvicinati.  Ad Aleppo abbiamo anche celebrato un sinodo interrituale delle sei chiese cattoliche (latina, maronita, caldea, melkita, armena, siro-cattolica), ispirato ai discepoli di Emmaus e durato oltre un anno. Il Sinodo ha ribadito la nostra missione: essere promotori di pace e di unità nel Paese”.

Tutte le chiese cristiane durante la guerra e ancora oggi” dichiara padre Elia, rimasto illeso il 18 novembre del 2016 nello scoppio di un razzo che ha distrutto la cupola della sua chiesa “hanno offerto aiuto materiale e morale dando testimonianza di unità, mostrando il volto di Dio accogliendo tutti senza distinzione”.

La speranza.  Dalle parrocchie di Damasco a quella di Aleppo è lunga la lista di programmi di solidarietà messi in piedi dalla Custodia di Terra Santa, con l'aiuto della sua ong Ats (Associazione di Terra Santa) e di altri benefattori, tra i quali la  Conferenza episcopale italiana. Progetti che infondono speranza concreta ai siriani, musulmani e cristiani, che possono tornare a credere in una nuova vita.

Da tre anni” racconta padre Raimondo “abbiamo attivato un programma di sostegno psicologico  per i bimbi traumatizzati dalla guerra. 12 volontari, due giorni a settimana, si occupano di 150 bambini, in larga maggioranza musulmani. Si tratta di piccoli che sono stati testimoni di efferatezze e violenza. Molti di loro abitano nei quartieri Est della città i più segnati dalla guerra. Il progetto punta a far rinascere in loro la gioia e la voglia di stare insieme. Da noi giocano, suonano strumenti musicali, disegnano. E' dai disegni che si percepisce tutto il loro disagio: armi, carri armati, aerei da guerra, bombe, sono i soggetti che ricorrono più spesso, come anche il colore rosso, quello del sangue.”

Un progetto analogo è stato lanciato ad Aleppo da padre  Firas Lufti  nel Terra Santa Center. Nella parrocchia di san Francesco di Aleppo, il parroco padre Ibrahim ha iniziato nel 2016  un progetto per ridare una casa  a chi l'aveva persa a causa della guerra. “Inizialmente” spiega “siamo intervenuti sulle abitazioni quasi totalmente distrutte, poi su quelle parzialmente danneggiate e infine su quelle lievemente colpite. Solo nel 2016, in piena guerra, abbiamo riparato 256 case. Fino ad oggi ne abbiamo restaurate oltre 1400. E l'opera continua grazie al contributo della Cei. I vescovi italiani ci hanno aiutato anche ad assistere la popolazione con  pacchi alimentari, medicine e visite, aiuto alle madri in attesa. Grazie alla generosità della Chiesa italiana abbiamo potuto sostenere tanti giovani desiderosi di avviare delle piccole imprese.
Non si tratta solo di dare pane ma di offrire vicinanza. La solidarietà diventa così un atto liturgico”.
La guerra ha prodotto nuove emergenze cui, avverte padre Ibrahim, “bisogna fare fronte. Penso ai militari in congedo, molti dei quali feriti e amputati che dopo otto anni di guerra si ritrovano con un nulla in mano perché impossibilitati fisicamente. Per loro abbiamo pensato ad un ufficio di assistenza legale. Penso alle giovani coppie che non riescono a sposarsi. Come regalo di nozze doniamo l’affitto per un anno di una casa, oppure un elettrodomestico, il restauro dell’abitazione. Non posso dimenticare – sorride padre Ibrahim – due sposi italiani che hanno donato le proprie fedi nuziali per aiutare una coppia di giovani siriani a sposarsi”.

La speranza poi non delude...”.  Al fronte di guerra in Siria i francescani rispondono con un “fronte di pace” fatto da tanti gesti e segni di solidarietà portati avanti da volontari e benefattori. “E' questa la speranza che non delude che rafforza il corpo e lo spirito, che aiuta a sprigionare vitalità e creatività” dice padre Elia.
Mi piace ricordare che san Paolo è venuto a Damasco come un terrorista, un persecutore. Poi qui ha conosciuto Dio. Speriamo che da Damasco il terrorismo, la cultura della guerra, del rifiuto dell' altro possano estinguersi per fare posto a una cultura di pace e di tolleranza”.

Come ricorda la Croce di san Damiano che mostra Cristo “ferito e forte” allo stesso tempo.  Come la Siria di oggi…

venerdì 5 luglio 2019

Card. Robert Sarah: Siamo costruttori di cattedrali

LETTURE PER L'ESTATE (1)
 cattedrale di Santa Maria a Tartus-Syria, 12° secolo

Riprendiamo dal sito Nuova Citeaux questa bella e fondamentale conferenza del Cardinale Sarah, certi che la lettura di questo testo sarà di conforto per i sacerdoti e per ciascuno di noi nel quotidiano cammino di fede e di testimonianza cristiana. 
Ringraziamo il sito La Nef che ha pubblicato l’originale reperibile a questo link: https://lanef.net/2019/06/20/soyons-des-batisseurs-de-cathedrale/  e Sr Maria Francesca Righi che lo ha tradotto dal francese.


Conferenza del Cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, 
Parigi Chiesa di Saint-François-Xavier, 25 maggio 2019.
   Cari amici,
Permettetemi innanzitutto di ringraziare l’Arcivescovo Michel Aupetit, Arcivescovo di Parigi, e il parroco di Saint François-Xavier, Padre Lefèvre-Pontalis per il loro cordiale benvenuto.
 Devo presentarvi il mio ultimo libro: La sera si avvicina e già il giorno declina. In esso analizzo la profonda crisi in Occidente, crisi di fede, crisi della Chiesa, crisi sacerdotale, crisi di identità, crisi del significato dell’uomo e della vita umana, il crollo spirituale e le sue conseguenze.
Vorrei questa sera, ripetere le profonde convinzioni che vivono in me mettendole in prospettiva con la commovente visita che ho fatto ieri.
 Qualche ora fa ero alla cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Entrando in questa chiesa sventrata, contemplando le sue volte crollate, non potei fare a meno di vederla come un simbolo della situazione della civiltà occidentale e della Chiesa in Europa. Sì, oggi da tutte le parti la Chiesa sembra bruciare. Sembra devastata da un incendio molto più distruttivo di quello della cattedrale di Notre-Dame. Cos’è questo fuoco? Bisogna avere il coraggio di dargli il suo nome. Perché, «dare male il nome alle cose, significa aumentare la sfortuna del mondo».
Questo fuoco, questo incendio che devasta la Chiesa soprattutto in Europa, è la confusione intellettuale, dottrinale e morale; è la vigliaccheria che non fa annunciare la verità su Dio e sull’uomo; che non fa difendere e trasmettere valori morali ed etici della tradizione cristiana; è la perdita della fede, dello spirito di fede, la perdita del senso dell’oggettività della fede e quindi la perdita del senso di Dio.
Come scriveva Giovanni Paolo II in Evangelium Vitae: «Nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la «cultura della vita» e la «cultura della morte», …occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall’uomo contemporaneo: l’eclissi del senso di Dio e dell’uomo, tipica del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi tentacoli pervasivi non manca talvolta di mettere alla prova le stesse comunità cristiane… e questo produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di Dio».
Cari amici, la cattedrale di Notre-Dame aveva una freccia che era come un dito teso verso il cielo. Questa freccia sembrava orientarsi a Dio. Nel cuore di Parigi, sembrava dire a tutti il ​​significato ultimo di tutta la vita.
  Questa freccia simboleggiava l’unica ragion d’essere della Chiesa: guidarci verso Dio, orientarci verso di Lui. Una Chiesa che non è orientata verso Dio è una Chiesa che muore e crolla. La guglia, la freccia della cattedrale di Parigi è crollata: non è un caso! Nostra Signora di Parigi simboleggia tutto l’Occidente. A forza di allontanarsi da Dio, l’Occidente sta collassando.
 Simbolizza la grande tentazione dei cristiani in Occidente: a forza di non essere più rivolti a Dio, a forza di rivolgersi a se stessi, muoiono.
 Sono convinto che questa civiltà stia vivendo una crisi mortale. Come ai tempi della caduta di Roma, le élite di oggi si preoccupano solo di aumentare il lusso della loro vita quotidiana e i popoli sono anestetizzati da divertimenti sempre più volgari.
  Come vescovo, ho il dovere di avvertire l’Occidente! Il fuoco della barbarie vi minaccia! E chi sono i barbari? I barbari sono coloro che odiano la natura umana, i barbari sono coloro che disprezzano il significato del sacro, i barbari sono coloro che disprezzano e manipolano la vita e vogliono «aumentare l’uomo»! Quando un paese è pronto a lasciare morire un uomo di fame e sete in uno stato di grande debolezza e dipendenza, cammina sulla via della barbarie! Il mondo intero guardava la Francia esitare a dare da mangiare a Vincent Lambert, uno dei suoi figli più deboli. Miei cari amici, come potrebbe il vostro paese dopo questo dare lezioni di civiltà al mondo? 

  Quando un paese arroga a sé il diritto alla vita e alla morte sui più piccoli e più deboli, quando un paese uccide i bambini non nati nel seno delle loro madri, marcia verso la barbarie! L’Occidente è accecato dalla sua sete di ricchezza! Il fascino del denaro che il liberalismo diffonde nei cuori addormenta i popoli! Nel frattempo, continua la silenziosa tragedia dell’aborto e dell’eutanasia. Nel frattempo, la pornografia e l’ideologia del gender mutilano e distruggono bambini e adolescenti. Siamo abituati alla barbarie, non ci sorprende neanche più!

  La civiltà occidentale è in profonda decadenza e in rovina, nonostante i suoi fantastici successi scientifici e tecnologici e l’apparenza di prosperità! Come la cattedrale di Notre-Dame: vacilla. Ha perso la sua ragione d’essere: mostrare Dio e condurre a Dio. Senza la freccia che incorona l’edificio, le volte crollano.
  Voglio sollevare un grido di allarme che è anche un grido di amore e compassione per l’Europa e l’Occidente: un Occidente che nega la sua fede, la sua storia, le sue radici cristiane è condannato al disprezzo e alla morte! Non è più come una bella cattedrale basata sulla fede, ma piuttosto come una rovina che non ha più senso! Perdendo il senso di Dio, abbiamo minato le fondamenta di tutta la civiltà umana. Una cattedrale proclama per la sua architettura verticale che siamo fatti per Dio. Al contrario, l’uomo separato da Dio è ridotto alla sua sola dimensione orizzontale.
  Se Dio perde il suo carattere centrale e il suo primato, l’uomo perde il suo giusto posto, non trova più il suo posto nella creazione, nelle relazioni con gli altri. Il moderno rifiuto di Dio ci fa entrare in un nuovo totalitarismo: quello del relativismo che non ammette nessuna legge se non quella del profitto. Dobbiamo spezzare le catene che questa nuova ideologia totalitaria vuole imporci!
  Se l’uomo si rifiuta e si taglia fuori da Dio, sembra un fiume immenso e maestoso, ma tagliato fuori dalla sua fonte, prima o poi si seccherà e scomparirà. Se l’uomo nega Dio e lo rifiuta, sembra un albero gigantesco che non ha radici: morirà senza indugio. Nicolas Berdiaeff ha ragione nel dire: «Se Dio non c’è, nemmeno l’uomo c’è, questo è ciò che la nostra era sta scoprendo sperimentalmente. La natura del socialismo è messa a nudo e smascherata, i suoi ultimi limiti sono evidenti; allo stesso modo è messo a nudo ed evidente il fatto che l’irreligione e la neutralità religiosa non esistono, che la religione del Dio vivente è solo opposta alla religione del diavolo, che alla religione di Cristo è solo opposta la religione dell’Anticristo; il regno dell’umanesimo neutro che voleva stabilirsi nella sfera di mezzo, tra il paradiso e l’inferno, si decompone, e allora si scopre l’abisso superiore e inferiore. Al Dio-Uomo si oppone, non l’uomo del Regno neutro e medio, ma l’uomo-dio, l’uomo che si è messo al posto di Dio. I poli opposti dell’essere e del nulla vengono scoperti».

  Rifiutare a Dio l’opportunità di entrare in tutti gli aspetti della vita umana significa condannare l’uomo alla solitudine. Egli non è più che un individuo isolato, senza origine o destino. Si ritrova condannato a vagare per il mondo come un barbaro nomade, non sapendo di essere il figlio ed erede di un Padre che lo ha creato per amore e lo chiama a condividere la sua felicità eterna. Solo, vagando in un campo di rovine, questo è ciò che l’uomo moderno è diventato, questo è quello che ho vissuto ieri mentre visitavo la cattedrale in rovina.
  La crisi spirituale che descrivo riguarda il mondo intero. Ma ha la sua fonte in Europa. Il rifiuto di Dio nasce nelle coscienze occidentali. Il collasso spirituale ha quindi caratteristiche propriamente occidentali. Vorrei menzionare in particolare il rifiuto della paternità. Abbiamo convinto i nostri contemporanei che per essere liberi, non si deve dipendere da nessuno. C’è in questo un tragico errore.
  Gli occidentali sono persuasi che ricevere sia contrario alla dignità della persona umana. Ora l’uomo civile è fondamentalmente un erede, riceve una storia, una cultura, un nome, una famiglia, una lingua, una religione, una fede, una tradizione, una patria. Questo è ciò che lo distingue dal barbaro. Rifiutarsi di unirsi a una rete di dipendenza, eredità e filiazione ci condanna ad entrare nella giungla della competizione da un’economia abbandonata a se stessa. I costruttori di Notre Dame avevano profondamente inscritto in loro quel senso di dipendenza e trasmissione. Hanno lavorato per decenni e secoli, per i loro discendenti, spesso senza mai vedere se stessi completare il loro lavoro. Sapevano di essere eredi e volevano trasmettere l’eredità. Poiché l’uomo moderno si rifiuta di accettarsi come erede, si condanna all’inferno della globalizzazione liberale in cui gli interessi individuali si scontrano senza altra legge diversa da quella del profitto a qualsiasi prezzo.
  Ma nel mio libro ho voluto ricordare agli occidentali che la vera ragione di questo rifiuto di ereditare, questo rifiuto della paternità è fondamentalmente il rifiuto di Dio. Distinguo profondamente nei cuori occidentali un profondo rifiuto della paternità creatrice di Dio.
  Eppure riceviamo da Dio la nostra natura di uomo e donna. Dio ha creato l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio, lo ha creato, uomo e donna, li ha creati (Gn 1,27). Ora, questo diventa insopportabile per le menti moderne. L’ideologia del genere è quindi il rifiuto di ricevere da Dio una natura sessuata. Alcuni in Occidente arrivano al punto di ribellarsi, ribellarsi e combattere contro Dio. Si contrappongono frontalmente al loro Creatore e Padre. Quindi si mutilano orribilmente e inutilmente per cambiare sesso. Ma fondamentalmente non cambiano nulla nella loro struttura di uomo e donna.   Di fatto, materializzano e rendono più radicali la loro opposizione e la loro rivolta contro Dio. La legge naturale è violentemente respinta e combattuta dalla filosofia e dallo spirito moderni. Ora, San Giovanni definisce il peccato come: Ogni uomo che commette il peccato combatte contro Dio; perché il peccato è la lotta contro Dio (1 Gv 3, 4). Questa negazione è il culmine del rifiuto di Dio, la proclamazione della libertà illimitata come valore assoluto e la giustificazione del peccato. Troviamo un perfetto esempio di questo nell’ideologia del genere. L’Occidente si rifiuta di ricevere, accetta solo ciò che costruisce da solo. Il transumanesimo è l’ultimo avatar di questo movimento. Anche la natura umana, perché è un dono di Dio, diventa insopportabile per l’uomo dell’Occidente.
(la lettura del documento continua dalla pagina 4, sul sito a questo link
https://www.vitanostra-nuovaciteaux.it/wp-content/uploads/Sarah_Siamo_costruttori_di_cattedrali_IT.pdf  )

martedì 2 luglio 2019

Ghouta: dopo gli anni di guerra, la lunga ricostruzione dei frutteti di Damasco


Afp Le Point
traduzione dal francese di Marinella Correggia

Sul suo terreno a Ghouta Est, vicino a Damasco, Radwan Hazaa si appresta a seminare centinaia di semi di melograno nella speranza di compensare la perdita di oltre 3.000 alberi, vittime dei colpi d’artiglieria e della mancanza di acqua, negli anni di guerra.

Nel villaggio di Dier al-Asafir, Hazaa si avvale al tempo stesso del ritorno di una situazione di calma e di un inverno molto piovoso che ha gonfiato con generosità fiumi e falde freatiche.
Prima dello scoppio del conflitto siriano nel 2011, Ghouta Est era il frutteto della capitale Damasco. Ma quest’area agricola, famosa per i suoi campi, i suoi frutteti e le sue aziende agricole ha subito le ricadute di anni di combattimenti e di assedio.

I piedi nell’acqua, Radwan sta lavorando alla costruzione di un nuovo canale di irrigazione vicino al pozzo che ha fatto scavare alcune settimane fa e da dove l’acqua ora sgorga.

Quando ho visto la mia terra bruciata, mi sono inginocchiato piangendo, e ho capito che avrei dovuto rifare tutto da zero”, ricorda questo agricoltore fuggito da Ghouta nel 2012 per farvi ritorno l’anno scorso.
Risultati immagini per la Ghouta orientale, ancien grenier alimentaire de la capitale Damas,
La regione, ex roccaforte della ribellione contro il presidente Bashar al-Assad, è stata riconquistata dai governativi nell’aprile 2018, con l’aiuto di Mosca, al termine di una vasta offensiva. In seguito ad accordi di resa negoziati dai russi, decine di migliaia di combattenti e civili sono stati evacuati verso altre aree.

Dopo la fine dei combattimenti, “ho preso in prestito una piccola somma di denaro e mi sono rimesso a piantare, oltre ad allevare due vacche e alcune galline”, prosegue l’uomo, kefia rossa e bianca sulla spalla.
Come numerosi altri agricoltori della regione, egli ha perso gran parte del suo patrimonio di melograni, albicocchi e noci. Oggi punta sull’abbondanza di acqua per ridare vita alle sue terre. “Non ho mai visto piogge così abbondanti”, si rallegra. In passato, “dovevamo scavare fino a 150 metri per estrarre acqua. Quest’anno già a 40 metri ne abbiamo trovata in abbondanza”.

Perdite irrimediabili

Le piogge, proseguite fino in maggio, hanno alimentato il fiume Barada, che bagna Ghouta Est. Una benedizione anche per gli allevatori, fra i quali Bassam al-Laz, che ha colto l’occasione per rivitalizzare il suo allevamento. “E’ il primo anno che le vacche si nutrono direttamente dell’erba dei prati al posto del fieno che compravo”, dice l’allevatore cinquantenne.

Ghouta Est era nota “per l’abbondanza della produzione agricola e animale”, racconta, spingendo due vacche verso un grande recipiente metallico pieno di acqua. Uova, ortaggi, frutta, lebneh (una preparazione tradizionale a base di yogurt), bastavano per nutrire tutta la capitale, dice l’uomo con fierezza. Il suo volto, segnato dagli anni di guerra, si rasserena mentre guarda l’acqua tirata su dal pozzo, i germogli verdi che spuntano e gli alberelli disseminati sul suo terreno. Confessa di provare una “gioia sconfinata” ma non può che piangere le “perdite irrimediabili” dovute al conflitto. “Abbiamo perso ulivi vecchi di oltre 500 anni”.

Il “polmone di Damasco”

E, malgrado le promesse di questa primavera, sembra ancora lunga la strada per tornare agli anni dell’abbondanza.
Il sindaco Ahmad al-Hassan, nella sede del comune di Deir al-Asafir, ascolta le necessità degli agricoltori. Promette loro che “le terre torneranno a essere quelle di prima”, e prende nota delle necessità in materia di input e attrezzature.
Le persone erano depresse e tristi malgrado la fine del conflitto, ma le piogge abbondanti hanno indotto tanti a riprendere i loro affari”, commenta il sindaco, che descrive Ghouta come “il polmone di Damasco”.

La regione, che occupa una superficie di 10.400 ettari, per metà terre coltivate, ha perso l’80% degli alberi durante la guerra, secondo il direttore del dipartimento agricolo, Mohamad Medieddine.

Bruciati, inariditi, gli alberi sono anche serviti come combustibile per le case degli abitanti assediati e infreddoliti negli anni del blocco. “In certe località, per esempio Mliha, non c’è più nemmeno un albero in piedi”, si rammarica Medieddine.

Sotto un cielo di piombo, sulla strada che collega Deir al-Asafir alla periferia di Jaramana, il responsabile dice di rimpiangere l’epoca in cui l’abbondante fogliame degli alberi attenuava i raggi cocenti. Per chilometri, “gli alberi ombreggiavano questa strada (…). Ormai sembra un deserto”.
Secondo il funzionario, la regione avrà bisogno di “dieci anni” per tornare verde. E di “almeno cinque anni perché gli alberi tornino a dare frutti”.

sabato 29 giugno 2019

Aleppo: con Binan ed Elia tra i bambini invisibili e i figli dell’Isis


di Daniele Rocchi
S.I.R.  29 giugno 2019

Donne anziane in strada che vendono pezzi di pane per sopravvivere, bambini e ragazzi che giocano tra cumuli di macerie non ancora rimosse. Auto e motorini che si muovono a suon di clacson fra la gente ferma davanti a improvvisate bancarelle e piccoli negozi dove si vende di tutto. La periferia orientale di Aleppo si presenta così dopo cinque anni di guerra (2012- 2017). In questa area si erano arroccati i jihadisti filo Al Qaeda di Al Nusra per contendere la città, capitale economica della Siria, all’esercito regolare del presidente Assad e ai suoi alleati russi e iraniani. Oggi la linea di fronte si è spostata di circa 20 chilometri, in piena campagna, dove si muovono ancora alcune milizie armate ribelli. “Fino a meno di sei mesi fa qui in queste strade non c’era vita. Le conseguenze ancora si vedono, manca acqua e anche l’energia elettrica. Si va avanti con i generatori” dice un negoziante. Ma ora qualcosa sembra muoversi, le famiglie provano a tornare. La gente pare più tranquilla, salvo ripiombare nel terrore, soprattutto di notte, quando razzi e bombe tornano a far sentire il loro frastuono.
L’incontro con Binan e Elia è qui, in mezzo a queste strade polverose che portano ancora i segni della guerra.
Binan Kayyali, psicologa e psicoterapeuta, Elia Kajmini, regista e autore teatrale, musulmana lei e cristiano lui, sono i due coordinatori del progetto “Un nome e un futuro”, voluto dal vicario apostolico latino di Aleppo, mons. George Abou Khazen, dal padre francescano Firas Lutfi e dal Muftì di Aleppo, Mahmoud Akam. L’obiettivo? “Aiutare innanzitutto i bambini nati da donne vittime di stupri e abusi spesso perpetrati dai ribelli jihadisti, molti dei quali stranieri, durante l’assedio di Aleppo”.
L’Unicef stima che in tutta la Siria ci siano circa 29 mila bambini figli di foreign fighters, molti sotto i 12 anni. “Si tratta di bambini e ragazzi guardati con diffidenza, tacciati di essere figli dell’Isis o figli del peccato, e per questo abbandonati dalle proprie famiglie. Così anche le loro madri. Discriminati ed emarginati hanno bisogno di tutto, acqua, medicine, istruzione, supporto psicologico e soprattutto di un nome e di un futuro”. Già, un nome e un futuro, come recita lo slogan del progetto.
Avere un nome significa esistere se non lo hai non esisti, sei invisibile, esposto a violenze e abusi quotidiani. Se non esisti non hai un futuro” spiega Binan mentre indica una vecchia palazzina cadente crivellata di colpi. Su un balconcino campeggia un piccolo striscione con la scritta “Care center” sormontata da un logo con la sigla “Fcc” (Fcc, Franciscan care center). Due rampe di scale, invase da liquami, umidità ovunque, una porta che apre su un piccolo appartamento completamente rinnovato, imbiancato, luci al neon che amplificano gli spazi angusti. Un bianco che stride con l’esterno. E tanti sorrisi, quello degli operatori che qui prestano la loro opera, dei bambini che vengono assistiti e delle loro madri che li attendono fuori le aule. In una stanza un nutrito gruppo di donne, giovani e meno giovani, segue corsi di prima alfabetizzazione e di lingua inglese. Moltissime donne di Aleppo Est sono analfabete – spiega Elia – con questo progetto insegniamo loro a leggere e scrivere. Alla fine del corso riceveranno un attestato di frequenza”.


Sono due i Care center dei francescani che fanno capo al progetto “Un nome e un futuro”. I numeri sono di tutto rispetto: circa 500 persone seguite, 200 disabili e 300 ragazze madri. Un lavoro continuo, sette giorni su sette, per oltre otto ore al giorno, condotto da 15 operatori specializzati. Numeri che crescono man mano che nei due centri affluiscono “tanti orfani ‘invisibili’ trovati a vagabondare per i palazzi distrutti di Aleppo. I cosiddetti figli dell’Isis – dicono Binan e Elia – non sono nemmeno iscritti all’anagrafe. Praticamente ‘non esistono’. In gran parte si tratta di bambini e ragazzi molto aggressivi, poco propensi a relazionarsi con gli altri. Per questo motivo puntiamo alla socializzazione e all’inserimento scolastico grazie alla collaborazione con il ministero dell’Istruzione siriano.
Stare in una classe vuol dire avere un nome, studiare rende possibile un futuro. Ad oggi almeno venti di questi bambini sono stati iscritti nelle scuole pubbliche”.
L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi e scarpe
Nei due centri giungono anche numerosi ragazzi che non hanno potuto frequentare la scuola durante gli anni della guerra. “Cerchiamo di far recuperare le lezioni perse con un doposcuola in vista del loro reinserimento scolastico” dice Binan. Oggi è giorno di logoterapia e fisioterapia. Su un materassino Mahmoud, poco più di tre anni, fa fisioterapia. “È nato con difficoltà motorie sotto l’occupazione di Al Nusra e nel frastuono dei bombardamenti dell’esercito – dice Binan – del padre nessuna notizia. La madre non poteva uscire se non con il permesso di uno degli uomini della famiglia. La disabilità qui è uno stigma sociale. Suo figlio, costretto in casa, non ha potuto ricevere le cure adeguate”. In una saletta vicina le logoterapiste sono impegnate con due bambini. “Non parlano, sono traumatizzati dalla guerra – aggiunge la psicologa – uno dei due non riesce nemmeno a guardare la sua insegnante. La ascolta con il viso rivolto al muro. Sono bambini con un basso grado di concentrazione. Ogni minimo rumore li impaurisce. Sono gli esiti dei traumi vissuti sotto le bombe”. Ma ci sono due cose che, in prospettiva, spaventano la psicologa: la propensione al suicidio di giovani e bambini rimasti amputati durante i bombardamenti e la tendenza dei ragazzi a giocare in strada usando armi vere che vengono facilmente reperite nei quartieri della città. Hanno una familiarità con le armi al punto da riconoscerle dallo sparo che producono. La guerra sta provocando casi clinici e patologie che non si trovano sui libri scientifici. Non c’è bambino ad Aleppo che non abbia bisogno di aiuto e sostegno psicologico”.
Il lavoro di Binan e di Elia non si esaurisce  nei due centri ma prosegue nel Terra Santa College di Aleppo, guidato da padre Firas. Qui è attivo il centro “Arte e Psicologia” (Art and Psychology) dove tantissimi bambini e ragazzi vengono per frequentare corsi di teatro, di musica, di disegno, e praticare attività manuali e sportive. Lo sforzo di Elia e Binan, insieme a padre Firas, è arrivare anche alle famiglie di questi ragazzi. Il College è dotato di tante strutture, campi di calcio, di basket, piscina, palestre, laboratori, frutto della generosità della Chiesa italiana, di organismi come Misereor e di Ats, l’ong della Custodia di Terra Santa, in prima fila nel reperire fondi per alimentare la missione dei francescani.
L'immagine può contenere: 7 persone, persone che sorridono, folla e spazio al chiuso
Uno dei prossimi obiettivi, afferma Elia, “sarà aprire 10 centri in diverse zone povere della città. Assistere i bambini e le loro famiglie è il modo migliore per recuperare aree e zone della città altrimenti destinate a morire”. 
Aleppo oggi è un grande terreno reso arido dalla guerra – dice Binan – ma va irrigato e reso fertile piantando dei semi molto resistenti. Sono i semi della solidarietà, della vicinanza, della riscoperta dei rapporti interpersonali, del rispetto dei diritti e della dignità di ogni persona.
Sono semi che crediamo possano ricostruire la società siriana e per questo portare alla pace e alla riconciliazione”.
Riedificare case si può e si deve, ma vanno prima ricostruite le vite dei loro abitanti”.
Resta solo il tempo di un breve saluto interrotto dal piccolo Mahmoud che ha terminato la sua fisioterapia. Si lamenta perché non vuole salire in braccio alla madre. Binan sorride. La prima volta che aveva visto Mahmoud entrare al centro era in braccio alla mamma. Ora vuole camminare da solo. La madre lo mette a terra e lo prende per mano. Sono i primi semi che germogliano.
https://www.agensir.it/mondo/2019/06/29/siria-con-binan-ed-elia-tra-i-bambini-invisibili-e-i-figli-dellisis/

giovedì 27 giugno 2019

Si parla di 400 miliardi per ricostruire la Siria, ma quanto per ricostruire le vite?

Un paese dissanguato: più di 400.000 morti, 13 milioni di sfollati e rifugiati, 2,1 milioni di bambini rimasti fuori dalla scuola e una scuola su tre distrutta. La vita "ordinaria" in Siria? Ecco a cosa assomiglia.
di Diane Antakli , Presidente dell'ONG 'Baroudeurs de l'Espoir'
20 giugno 2019
trad. Gb.P. per OraproSiria
8 anni di guerra, 8 anni di un quotidiano senza prospettiva del futuro, 8 anni di tristezza, disperazione. 8 anni di un'infanzia, di un'adolescenza, di una giovinezza che essi non hanno vissuto; un trauma che pesa sulla vita quotidiana di tutti. La cifra di 400 miliardi di dollari è stata ipotizzata per sperare di ricostruire un giorno la Siria. Ma quanto, per ricostruire le vite?

Ecco la mia cronaca di una settimana "ordinaria" vissuta di recente ad Aleppo con le squadre sul campo, con la nostra ONG 'Baroudeurs de l'Espoir' (Avventurieri della speranza).
Lunedì mattina manca un bambino all'appello. Aya, 5 anni, non è venuta a scuola. Il giorno prima, un ordigno è caduto sul suo edificio, uccidendo e ferendo gravemente i membri di una famiglia nell'appartamento sopra il suo. La paura si diffonde, i suoi genitori chiamano le insegnanti per dire loro che Aya non riesce a uscire dalla sua casa, paralizzata dalla paura. Una macchina viene immediatamente inviata a prenderla e cercare di farle vivere una normale giornata di scuola.
Martedì sera. Una cena è organizzata nel parco giochi. La musica è in pieno svolgimento. Al termine di una canzone, rimbomba tutt'altra musica, quella di bombe, mortai e colpi di fuoco missilistico, e l'aviazione che risponde. Poi la musica riprende, i telefoni squillano. Le famiglie sono preoccupate, il viaggio non è sicuro. Riusciranno a tornare tutti a casa?
Mercoledì. Lo scuolabus ha deciso di cambiare il tragitto, per motivi di sicurezza.
Giovedi. Si esita a cancellare una competizione sportiva che riunisce centinaia di adolescenti: un missile è caduto la settimana prima sulla casa di uno dei responsabili dell'evento, molto vicino al luogo della manifestazione. È lui però che vuole mantenere la competizione. Egli si rifiuta di cedere alla paura.
On parle de 400 milliards pour reconstruire la Syrie, mais combien pour reconstruire les
Venerdì sera. Sono nel piccolo giardino del cortile della scuola, un'esplosione mi fa sobbalzare. Qualche minuto dopo, il suono delle ambulanze molto vicino. Ma ci si abitua, davvero?
Sabato. Una bomba di mortaio cade a poche decine di metri dalla competizione sportiva per gli adolescenti. Quel giorno, il proiettile cade in una sabbiera, limitando gli impatti.
Domenica. Non scordiamolo. Le armi non si prendono un giorno libero.
Ad Aleppo come in tutte le città della Siria, come in tutte le città del mondo, i giovani desiderano vivere, uscire, amare, ascoltare la musica e godersi il silenzio, respirare, sognare. I loro sogni sono immensi, la loro sete di vita infinita. Non dimenticateli. Non dimenticateli perché loro stanno in piedi, non arresi.

lunedì 24 giugno 2019

Homs, germogli di speranza tra le macerie...


di Daniele Rocchi
S.I.R.  24 giugno 2019

Tra i quartieri distrutti di Homs la casa dei Gesuiti, nella parte vecchia della città, appare come un’oasi di pace. In fondo, dicono da queste parti, lo è sempre stata. Qui, durante i combattimenti tra l’esercito siriano regolare e le milizie dell’Esercito libero siriano e dei jihadisti di al Nusra, in un assedio durato anni, hanno trovato rifugio e ospitalità centinaia di persone di ogni fede e etnia, che avevano perso tutto a causa della guerra. È qui, nel quartiere di Bustan al-Diwan, che incontravano ogni volta padre Frans van der Lugt, gesuita olandese che ha pagato con la vita il suo impegno per i più poveri e vulnerabili.  
Un uomo di riconciliazione, un pastore con l’odore delle pecore – come ricorda spesso Papa Francesco – che non ha mai voluto abbandonare il suo gregge, fino alla fine. Forti le sue denunce contro la mancanza di cibo, medicinali e aiuti per la popolazione assediata. Il 7 aprile di cinque anni fa il gesuita fu freddato nel suo convento da un uomo con una maschera, dopo essersi rifiutato di seguirlo. Oggi riposa nello stesso piccolo cortile dove incontrava i suoi poveri che non lo hanno dimenticato. In tanti ogni giorno vengono a pregare sulla sua tomba.

Recuperare speranza. 
Padre Michel Daoud, “siro-libanese”, è uno dei quattro gesuiti che oggi abitano la casa portando avanti la missione pastorale che fu di padre Frans. “L’assedio è finito, non si spara più ma le macerie sparse ovunque – spiega – raccontano di una città che fatica a risollevarsi nonostante la voglia di rinascere. Cerchiamo di restituire un po’ di fiducia alle persone e forse questo può non piacere a qualcuno. Il nostro servizio è rivolto a tutti cristiani e musulmani, indistintamente”. Durante gli anni della guerra i gesuiti hanno assicurato acqua, cibo, energia elettrica, medicine, ma soprattutto una presenza umana costante. “Molta gente del quartiere e di altri limitrofi – ricorda padre Michel – veniva nella nostra casa a recuperare un po’ di fiducia e di speranza. I più giovani ritrovavano il piacere del gioco restando nel piccolo cortile. C’era chi ricaricava il cellulare per provare a chiamare i propri cari fuggiti all’assedio e chi invece riposava approfittando della quiete del convento. Neanche dopo il martirio di padre Frans la gente ha smesso di venire. Non ha paura e ha scelto la nostra casa come loro dimora, nella quale sentirsi al sicuro, questo per noi è motivo di grande speranza”.
Continuare a sperare per ricostruire l’uomo dalle macerie”.
È riposta in queste parole l’eredità di padre Frans che ora potrebbe avere un ulteriore riconoscimento. “Abbiamo iniziato, con la Curia generalizia, a raccogliere tutto il materiale necessario a istruire un giorno il processo per riconoscere il martirio – rivela padre Michel – nella speranza di arrivare alla causa di beatificazione”.
Oggi come allora.  La presenza dei gesuiti in questo quartiere nel cuore della città vecchia di Homs, dove ebbero inizio le prime manifestazioni di protesta contro il presidente Assad, si è rafforzata attraverso un impegno pastorale che passa per la cultura, la catechesi, l’arte, la carità, l’ascolto e la preghiera. Può accadere allora che in un cortile circondato da macerie e da palazzi crivellati dai proiettili possano ritrovarsi 800 persone a vedere un film, ascoltare un concerto di musica classica oppure, a piccoli gruppi, condividere versi e leggere poesie.
Nonostante la guerra, voluta dalle grandi potenze per i loro interessi, nei cuori delle persone c’è un desiderio di bene e di pace. La ricostruzione della Siria passa anche da qui. A che serve – è la domanda di padre Michel – costruire case se poi non abbiamo ricostruito l’uomo che le deve abitare e far rivivere? Questa è la sfida che ci attende”. Una sfida resa ancor più difficile dalla fuga all’estero di tante famiglie, molte delle quali giovani. Pochissime quelle che sono tornate. Siamo ben consapevoli – ammette il gesuita – che il destino della Siria non è tanto nelle nostre mani quanto in quello delle potenze che combattono sul nostro territorio. Ma restiamo per aiutare la gente a ricostruirsi una vita, a non perdere la speranza minacciata dalle sanzioni di Usa e Ue che ci costringono a una vita sempre più dura. Più dura delle macerie che ci circondano”.

L'immagine può contenere: spazio all'aperto
Le spalle degli anziani. 
Homs resta così stretta nella morsa della guerra. Nessuno, nemmeno sottovoce, osa parlare di dopoguerra. Qui si è più preoccupati di vivere il presente soprattutto quando si è anziani soli, privi dei parenti emigrati all’estero e senza una casa. Gli anziani sono tra i più poveri di questa città un tempo sacra al Dio Sole.
È un quadro desolante” racconta suor Valentina, una vita passata in Siria al servizio dei più poveri secondo il carisma delle suore del Sacro Cuore. La religiosa gestisce con una sua consorella una casa di ricovero per persone anziane, nella zona vecchia di Homs, voluta dalla locale chiesa evangelico-presbiteriana, guidata dal rev. Yousef Jabbour. “Quello degli anziani soli è un problema gravissimo e non solo a Homs – spiega la religiosa – la guerra, e adesso anche la povertà, hanno spinto molte famiglie a partire lasciando qui i loro anziani. Sono pochi, infatti, quelli che hanno voluto seguire la famiglia. Chi è rimasto è malato, non ha di che vivere dignitosamente, con la casa ridotta a un cumulo di macerie”.
Nella struttura sono ospitati 52 anziani di età compresa tra i 60 e i 90 anni ma altri 37 sono in lista di attesa per entrare. “Non tutti possono pagare ma la Provvidenza non ci fa mancare nulla” dice la religiosa mentre si affaccia ad un balcone. Di sotto alcuni bambini giocano. Li indica e con un sorriso dice: “sono il futuro della Siria. Molti sono nati durante la guerra non hanno conosciuto altro che macerie e violenza. La Siria deve poter ripartire da loro”.
  Ma intanto bisogna occuparsi dei “nonni” della casa che durante la battaglia di Homs è stata attaccata e saccheggiata più volte dai jihadisti. “Sono stati anni duri, non avevamo acqua e cibo, al buio per intere giornate, ma siamo rimaste accanto alla popolazione” ricorda suor Valentina. “Poi quando i combattimenti sono finiti abbiamo cominciato a ricostruire. I nostri ospiti vengono assistiti, curati e stimolati con attività anche manuali. Ci sono dei giovani che vengono a fare animazione due volte a settimana. Sono diventati i loro nipoti. Qualcuno chiede dei parenti lontani, i più fortunati ricevono qualche visita dai familiari che abitano nei villaggi vicini”.
Tutti sanno che non rivedranno mai la loro città ricostruita, nemmeno la loro casa. Ma sanno anche che non sono soli. Staremo con loro fino all’ultimo per restituire dignità alla loro vita”.
A Homs la solidarietà e la speranza camminano anche sulle spalle dei più anziani.