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sabato 27 gennaio 2018

Dal tesoro inesauribile della Siria cristiana (2° parte)

 traduzione della prima epigrafe in greco: "noi preghiamo per/ringraziamo il nostro santissimo vescovo Alessandro" e per un'altra persona, di cui non resta chiaro il ruolo, che potrebbe chiamarsi EVANGELOS (ma non è detto che si tratti di un nome proprio) e a cui potrebbe essere riferito l'aggettivo EULABOUS espresso in genitivo e che potrebbe essere reso con "timorato di Dio"
Una seconda epigrafe in greco recita "La nobilissima Domnia (figlia) del beato Teodotos commissionò il lavoro a mosaico". Si tratta pertanto della matrona che finanziò i lavori di rivestimento a mosaico del pavimento del santuario. In fondo viene riportato anche l'anno di realizzazione (437-438 dC).
L’opera presenta motivi ornamentali vegetali e floreali e pavoni, simbolo di immortalità con un motivo decorativo a forma quadrangolare con fiori e uccelli (pavoni, colombe, papere e pappagalli). Seguendo un’impostazione simmetrica, molti uccelli si accostano al pavone. Secondo la concezione biblica, c’è anche un animale ritto sulle zampe sorvegliato da cervi e rappresentato sotto un albero. Stando alle indiscrezioni dell’agenzia di stampa Sputnik, la superficie totale del mosaico avrebbe un’ampiezza di 50 mq.


Gli Occidentali dividono nuovamente la Siria....  Il primo a farlo fu Settimio Severo, che la scisse in Celesiria e Siria Fenicia. Successivamente si ebbe la divisione tra Syria Prima e Syria Secunda, un po’ come accade anche oggi. Nel IV secolo d.C., nella stessa zona in cui ora gli Stati Uniti creano il loro protettorato curdo, venne distaccata dalla Siria la regione dell’Euphratesia. Il nome originario della città di Hama era Epiphania, mentre a Khanasir, durante il V secolo d.C., operarono importanti Vescovi. 



Le città siriane in epoca romana.
Lungo il fiume Oronte e a ovest della steppa siriana si sviluppa un insieme di città molto note durante l’epoca romana e protobizantina: da sud verso nord incontriamo Emesa – Homs, Arethousa – Restan, Epiphania – Hama, Larissa – Sheizar e Apamea – Qala'at al-Madiq. Sono tutte di fondazione ellenistica tranne Homs – Emesa, sede di un principato autonomo fino a una data imprecisata del I secolo d.C. Il gruppo di città che abbiamo individuato è delimitato a nord da Ierapolis, a sud da Palmira e ad est dall’Eufrate.

Il territorio di Epiphania – Hama rivestiva una certa importanza. Agli albori dell’Impero vennero qui arruolate varie truppe ausiliarie composte da arcieri a cavallo: la Vaia I Hamiorum sag., la cohors I Hamiorum sag. e la cohors II Hamiorum sag.

Avvicendamenti nelle divisioni della Siria
Nel 194 d.C., dopo il tentativo di usurpazione di Pescennio Nigro, la provincia della Siria venne divisa in due da Settimio Severo per impedire ai suoi potenti governatori di disporre di un esercito eccessivamente imponente. Nacquero così le province di Celesiria e Siria Fenicia. La capitale della prima fu all’inizio Laodicea e in seguito Antiochia; altre città importanti della Celesiria erano Calcide, Apamea, Epiphania e Aretusa. 
Tiro divenne invece capitale della Siria Fenicia, una provincia che comprendeva anche Emesa, Palmira e Damasco. 
Nel IV sec. d.C., probabilmente in un periodo compreso tra il 314 e il 324, l’Euphratesia (o Augusta Euphratensis), collocata lungo il corso dell’Eufrate e nella regione della Commagene, venne divisa dalla Celesiria e assunse come capitale la città di Ierapolis – Membij (così avviene anche oggi, con gli Americani che scindono dalla Siria le regioni a nord dell’Eufrate, creando un autonomo “cantone” curdo). Allo stesso modo, in un’epoca di grande instabilità e con dubbie modalità, la Siria venne divisa in Prima Fenicia (o Paralian), con capitale Tiro, e Seconda Fenicia (detta anche Fenicia Libanese o Libanesia), con capitale Emesa.
Tali scissioni e spartizioni si conclusero verso la fine del IV secolo. Più o meno nello stesso periodo ciò che restava della Celesiria venne ulteriormente diviso in Syria Prima, sempre con Antiochia come centro principale, e Syria Secunda (o Siria Salutare), con capitale Apamea. Queste scissioni vennero sancite da un documento noto come Notitia Dignitatum.
La città di Anasartha (o Onosartha Anasartha), corrispondente all’attuale Κhanaser, disponeva già dalla metà del V secolo di importanti vescovi. Il vescovo Maras, ad esempio, partecipò sia al Sinodo di Antiochia del 444 sia a quello di Calcedonia del 451. Nel 458 Ciro firmò l’enciclica della Syria Prima. Ritroviamo riferimenti ad Anasartha, questa volta nominata Theodoropolis, nella cosiddetta Notitia Antiochena del 570.

Notizie tratte dal sito https://dimpenews.com/
UNO SPECIALE RINGRAZIAMENTO AL SIGNOR ALFREDO LONGO PER LA TRADUZIONE DAL GRECO

venerdì 26 gennaio 2018

Dal tesoro inesauribile della Siria cristiana (1° parte)

.... emergono le testimonianze commoventi della presenza della Chiesa primitiva in questa terra martoriata di cui giustamente i cristiani locali rivendicano essere i primi legittimi abitanti, ostinati nel restare nonostante i progetti di pulizia etnica ed eliminazione programmata della presenza cristiana nella regione.









Ad Aqrabat (Uqayribat), a 85 km a est di Hama, durante un’opera di sminamento sono venuti alla luce un mosaico di 8 m. di lunghezza e 7 m. di larghezza, appartenente al pavimento di una chiesa e alcune epigrafi in greco del V secolo in cui si fa riferimento ad un vescovo Alessandro e ad una nobile Domna, … figlia … di Teodoto..., probabilmente il mecenate dell’opera musiva, che si presenta in condizioni relativamente buone.
Altri due mosaici situati a livello inferiore di terreno, testimoniano l'importanza del luogo di culto, probabile basilica bizantina che aumentò di dimensioni nei secoli VI e VII.

Gli archeologi hanno iniziato gli scavi, che proseguiranno per alcuni giorni, per mettere in sicurezza il mosaico, che verrà poi trasferito al museo di Hama. Solo il pavimento della chiesa è stato preservato.

martedì 23 gennaio 2018

Dalle famiglie di Damasco nel pianto, una preghiera:

"Vorrei fare una richiesta speciale che esce dal mio cuore e dalla mia anima a tutti i miei amici e parenti di pregare per mia nipote, la figlia di mia sorella, Christine Horani perché il Signore la guarisca e possa riprendersi dal suo terribile danno. È stata orribilmente ferita alle gambe da missili esplosivi e bombe che hanno preso di mira la regione di Bab Touma in Damasco, in Siria mentre stava uscendo dalla sua scuola.
Chiedo anche preghiere per il suo caro amico Pascal Al Khalil, anche lui ferito con lei e chiedo la misericordia di Dio sull'anima benedetta della sua altra amica Rita Al Eid che è stata uccisa ieri, anch'essa una martire di questa orribile tragedia".
Berjo Alkouri


Christine ha perso il piede e in queste ore è in sala operatoria per salvarla dall'amputazione delle gambe .
Ieri sono morti 9 giovani e 21 feriti per il bombardamento lanciato dai 'ribelli moderati' sul quartiere cristiano di Bab Touma all'ora dell'uscita dalla scuola.
Altre notizie dal Nunzio Zenari qui:

Nunzio a Damasco: colpi di mortaio sulla città vecchia, ancora vittime fra i cristiani

http://www.asianews.it/notizie-it/Nunzio-a-Damasco:-colpi-di-mortaio-sulla-citt%C3%A0-vecchia,-ancora-vittime-fra-i-cristiani-42902.html

sabato 20 gennaio 2018

Incontro con don Simon, salesiano in Siria

«Davvero con questa guerra ci siamo avvicinati di più e ci siamo veramente sentiti una famiglia. Abbiamo pianto insieme. Abbiamo avuto paura insieme. Abbiamo vissuto la gioia insieme.  I ragazzi ci dicevano: “Qui all'oratorio ci sentiamo in paradiso”»

Carissimo Simo, puoi presentarti? 
Sono Simo Zakerian, salesiano sacerdote, sono siriano di origine armena, nato il 2 luglio 1978 a Kamishli, nord est della Siria, al confine con la Turchia. I miei genitori sono della Chiesa Armena Apostolica (Ortodossa). In casa parliamo armeno e arabo. Ho conosciuto i salesiani quando avevo 12 anni nell'oratorio salesiano di Kamishli e sono cresciuto in quell'oratorio. 
Mi piaceva giocare a calcio e i salesiani mi hanno dato la possibilità di giocare e incontrare degli amici. Così piano piano la casa salesiana è diventata casa mia. 
La vita dei salesiani mi affascinava e suscitava dentro di me tante domande: chi glielo fa fare? Perché sono qui tra noi a servirci? Quanto guadagnano? Perché? 
Dopo lunga esperienza come ragazzo e giovane nell'oratorio e con i salesiani ho deciso di fare l'esperienza dell'aspirantato e del prenoviziato a Damasco. 
Nel 2001 ho cominciato il noviziato in Libano e ho fatto la prima professione a settembre 2002. 
Dopo il tirocinio e la filosofia sono andato a Torino, alla Crocetta, per studiare Teologia. Sono stato ordinato sacerdote nel rito Armeno Cattolico l'11 settembre 2011 a Kamishli. 
La mia prima obbedienza dopo l'ordinazione mi chiedeva di andare all'oratorio di Aleppo. E ho passato 5 anni in quella città, dal 2010 fino al 2015. Di questi, 4 anni di guerra feroce! Dopo Aleppo ho avuto un'altra obbedienza per Damasco, e sono stato due anni come direttore della comunità. Attualmente ho incominciato il mio servizio di direttore ad Alessandria d'Egitto. Sono anche delegato per la Pastorale Giovanile nell'Ispettoria Medio Oriente. 

Com'era la tua famiglia? 
La mia famiglia è numerosa, eravamo undici a vivere nella stessa casa. La nonna, papà, mamma, sei sorelle, mio fratello ed il sottoscritto. La mamma è mancata nel 2003 e la nonna nel 2004. Eravamo una famiglia molto semplice e tranquilla. Attualmente tutti sono sposati, eccetto due. Dopo la guerra in Siria sono partiti con i loro figli per l'Europa: Olanda e Svezia. A Kamishli sono rimasti il mio papà e una mia sorella. 

Com'è nata la tua vocazione? 
Il sacerdote nel nostro paese stava un po' lontano dalla gente, soprattutto dai ragazzi e dai giovani, ma quando andavo a partecipare alla santa Messa nella nostra chiesa armena ortodossa, a otto anni, dicevo a me stesso: un giorno sarò sull'altare per alzare il calice e cantare così come fa il sacerdote armeno. Poi ho conosciuto i salesiani e mi ha sorpreso il modo in cui stavano in mezzo a noi, e come ci trattavano con amorevolezza e con tanta simpatia. Erano due salesiani italiani missionari. Mi sono innamorato di don Bosco. La preghiera e il discernimento hanno fatto il resto. 

Qual è la realtà politica e sociale della Siria, oggi? 
Non c'è stata nessuna primavera in Siria! I ribelli, che sono in maggioranza fondamentalisti, hanno distrutto il nostro paese. Sono arrivate persone da più di 80 nazioni per combattere contro l'esercito siriano, che è l'esercito ufficiale del paese. Erano tutti appoggiati dai paesi del golfo arabo e dai paesi attorno a noi. 
Prima in Siria si viveva molto bene, in tutti i sensi: sicurezza, convivenza, sociale, economia, apertura al mondo. Ci hanno fatto ritornare più di 50 anni indietro. 
Attualmente la situazione nel paese sta andando verso il miglioramento, la violenza sta diminuendo, torna la sicurezza. Sembra che la Russia e gli USA si stiano mettendo d'accordo per far finire questa situazione critica nel paese. 

Come vivono i giovani? 
La situazione giovanile è molto difficile. Moltissimi giovani hanno lasciato la patria e sono partiti per tutto il mondo, soprattutto per l'Europa e il Canada. L'uomo siriano è distrutto “dentro”, piccoli e grandi, hanno conflitti interni, hanno sofferto tantissimo, con tante paure e lo spietato convivere con la morte ogni giorno. La situazione economica è molto pesante. Si sopravvive per miracolo. Un dollaro nel 2010 faceva 50 lire siriane, oggi fa 500 lire siriane e quindi tutto aumenta in modo pazzesco, mentre i salari sono sempre gli stessi. 

Che cosa succederà ora? 
Penso che il futuro della Siria sarà bello e luminoso, però ci vuole un po' di tempo. Sono sicuro che appena finisce il conflitto internazionale e poi quello nazionale, i Siriani potranno ricostruire di nuovo la Siria. E soprattutto ricostruire l'uomo siriano dal di dentro, l'uomo della riconciliazione, dell'accoglienza e della pace. 

Quali sono le esperienze più belle che hai fatto? 
Soprattutto esperienze di fede e di speranza. Ho imparato tantissimo dai collaboratori laici (cooperatori, catechisti, animatori, volontari...). Mi hanno insegnato che cosa vuol dire essere forti nel Signore, che cosa vuol dire venire a servire durante la guerra e nel pericolo di morte. Sì, ci hanno insegnato tantissimo! 
Io personalmente non so come abbiamo fatto a continuare le nostre attività mentre la morte ci circondava da tutte le parti. Veramente non ho una risposta umana. Ho una risposta di fede, sì. Sia noi sia gli animatori e i ragazzi e i giovani avevamo fiducia in Dio. Nella sua presenza tra noi in quelle situazioni terribili. Mentre fuori si sentivano boati e suoni di armi e bombe, continuavamo a giocare, a studiare, a pregare. 
Tra le esperienze più profonde c'è anche quella della morte. La morte dei nostri oratoriani ci ha fatto pensare tantissimo e ci ha fatto riflettere sulla vita e sulla fede in Dio e in Gesù, che è la vita e la Risurrezione. Ciò che mi ha fatto commuovere è che i nostri ragazzi e i giovani animatori hanno vissuto quei momenti di dolore con una fede forte nel Risorto, nonostante la sofferenza e il pianto. Inoltre la guerra e la sofferenza ci hanno aiutato ad essere più essenziali e soprattutto hanno irrobustito lo spirito di famiglia tra noi. Con questa guerra ci siamo avvicinati di più e ci siamo sentiti veramente famiglia. Abbiamo pianto insieme. Abbiamo avuto paura insieme. Abbiamo vissuto la gioia insieme. 
I ragazzi ci dicevano: «Qui all'oratorio ci sentiamo in paradiso». E fuori infuriava la guerra. In oratorio si viveva la gioia del cuore che scaturiva da Dio. Dall'Eucaristia e dalle Confessioni. 

Chi sono i tuoi “clienti” quotidiani? 
Giovani, ragazzi e famiglie. Durante l'inverno: catechismo, associazioni, gruppi sportivi, formazione catechisti e animatori, messa domenicale, aiuti alla gente. D'estate, quotidianamente, attività estive con centinaia di ragazzi e giovani. Ogni giorno tanti incontri di accompagnamento spirituale e di incoraggiamento. 

Trovi difficoltà? 
Sì, la difficoltà più seria è quando hai davanti dei giovani che ti chiedono degli aiuti per risolvere alcuni problemi, e tu non puoi fare nulla. Non puoi cambiare niente, soprattutto quando si perde un membro della famiglia. Oppure trovare dei motivi seri per aiutare e incoraggiare i nostri giovani a rimanere nel paese e non lasciare la patria. Poi le gravi difficoltà economiche delle famiglie e dei giovani.

http://biesseonline.sdb.org/mobile/asp/Articolo.asp?Testo=/2018/201801007.htm

mercoledì 17 gennaio 2018

Ancora missili su Aleppo













 La situazione della sicurezza in Aleppo da qualche settimana è molto peggiorata, con alcune granate che ogni giorno arrivano a colpire le zone centrali della città.
Ieri, 16 ottobre, i missili dei miliziani jihadisti ancora stanziati alla periferia occidentale della città hanno raggiunto un asilo, uccidendo l'autista della scuola, un' impiegata della struttura, 2 bambini, e molti altri piccoli sono rimasti feriti. Si alternano nella popolazione speranza di ripresa e avvilimento per una minaccia che non ancora finisce.


Per i pochi cristiani rimasti è il momento della prova della fede: eppure in tanti si rafforza come nell' amico cristiano che oggi ci scrive : Si miei cari, l'ora della vera pace non è ancora arrivata ! ma non dobbiamo perdere la speranza, i nostri nemici si fanno sentire ogni tanto per dirci che sono presenti e pronti per attaccare anche se l' esercito governativo resta in guardia. Gioco politico sporco!
Noi preghiamo, ci pare l'unica arma potente che ci può liberare da questi ribelli pagati bene per farci vivere nel terrore.
Aspettiamo la piena liberazione, intanto sappiate che la vita continua, riprende il suo corso con progressi giornalieri e tanta volontà di vivere. Il Signore non ci abbandona, e noi non ci lasciamo togliere la speranza”. S.A.O. 

domenica 14 gennaio 2018

Verso la beatificazione dei 19 martiri di Algeria

19 religiosi e religiose cattolici hanno dato la loro vita in Algeria negli anni '90, tra cui sette monaci trappisti dell'abbazia Nostra Signora di Atlas di Tibhirine.
Benchè molto lungo, pubblichiamo quasi interamente il ricchissimo testo di padre Ivo Dujardin, prezioso documento per comprendere il cammino spirituale in cui maturò la loro offerta, il rapporto con l'Islam ed il messaggio di questi 'uomini di Dio'.
"Ognuno dei martiri algerini", riferisce il postulatore della causa di beatificazione padre Georgeon, "è stato un testimone genuino dell'amore di Cristo, del dialogo e dell'apertura agli altri, dell'amicizia e della lealtà verso il popolo algerino. Con immensa fede in Gesù Cristo e nel suo Vangelo. Non hanno dato la vita per un'idea, per una causa, ma per Cristo".



Nel giardino di Tibhirine : il dialogo della vita.
  Dopo alcune settimane di attesa angosciosa e di timore misto a speranza, arrivò la terribile notizia che i sette trappisti francesi del monastero algerino di Tibhirine, sequestrati nella notte dal 26 al 27 marzo 1996, erano stati crudelmente uccisi il 21 maggio. Qualche giorno dopo, lo sconvolgente testamento di fra Christian, il priore, era consegnato alla stampa dalla famiglia e diffuso in tutto il mondo. Non lasciò nessuno nell’indifferenza, neppure i musulmani.
In questo tentativo di lettura della vita e della morte dei monaci di Tibhirine, lascerò largamente la parola agli stessi fratelli, citandoli e anche approfittando degli autori che hanno riflettuto su Tibhirine e che possono aiutarci ad entrare nel mistero della loro Pasqua e del suo significato per la Chiesa e per il mondo di oggi.
Si tratta quindi di un florilegio, come è espresso dal titolo. Il film “Uomini di Dio” ha avuto un grande successo, ma da solo non spiega tutto. È necessario, da una parte, aver letto e meditato almeno alcuni testi per capire meglio il film e, d’altra parte, per completare il suo contenuto e il suo messaggio.
Una prima parte situa i sette fratelli di Tibhirine nel gruppo dei 19 religiosi che hanno dato la vita in Algeria dal 1994 al 1996. Una seconda parte vuole tratteggiare il tipo di dialogo interreligioso, come è stato praticato e vissuto a Tibhirine. La terza parte accenna alle condizioni basilari per tale dialogo: si tratta di due condizioni fondamentali anche per tutti quelli che nella loro vita vogliono lasciarsi ispirare da Tibhirine.

I fratelli di Tibhirine nel gruppo dei diciannove testimoni dell’Algeria e con una loro vocazione particolare
  Nel gruppo dei 19 religiosi che hanno dato la vita in Algeria fra il 1994 e il 1996, tutti erano francesi, tranne due suore spagnole e un Padre Bianco belga.
Nell’ordine cronologico della loro morte c’erano: un fratello Marista, una Piccola Sorella dell’Assunzione, due suore spagnole Agostiniane Missionarie, quattro Missionari d’Africa (Padri Bianchi) fra cui un belga, due suore di Nostra Signora degli Apostoli, una Piccola Sorella del Sacro Cuore, sette monaci Trappisti e da ultimo un domenicano, Monsignor Pierre Claverie, vescovo di Orano.
In tutto il gruppo i monaci trappisti occupano un posto speciale. Non certo perché il loro amore o il anche il dono della loro vita siano stati straordinari nel senso che siano stati i più grandi di tutti: non si tratta di questo! Ma perché le situazioni concrete, le circostanze in cui questo dono si è compiuto sono state molto particolari. Bisogna senz’altro evitare di mettere troppo in risalto queste “sette vite per Dio e per l’Algeria”. Sì, sarebbe un vero peccato monopolizzare questa grazia a favore dei sette. Il cammino degli altri dodici non si differenzia per nulla da quello dei fratelli di Tibhirine. Tutti hanno fatto lo stesso discernimento personale: tutti – ognuno nella fedeltà alla propria vocazione – hanno dato la loro vita per Dio e per l’Algeria.
Tutti hanno scelto non di restare, ma piuttosto di non partire. Preferisco formulare così la loro scelta. La distinzione può essere sottile, ma non è senza importanza. Hanno scelto l’amore, così come era stato definito da fra Christophe in alcuni versi: tutti hanno amato fino al segno supremo.
Ama fino a quando il fuoco si estingue
fino all’estremo
occorre benedire
offrire l’azione di grazie
e vincere mediante la lode.
Fino all’estremo
bisogna servire
fare la verità
e vincere mediante l’amicizia
Per guadagnare il cuore dell’uomo bisogna AMARE 

Questo non toglie che il cammino di questa comunità monastica - senza compiti pastorali individuali, in un luogo abbastanza deserto, lontano da ogni città, circondato soltanto da alcuni contadini - sia stato speciale.
Era un gruppo di monaci fra altri due gruppi in conflitto, con i quali essi hanno avuto contatti diretti e regolari: da una parte l’esercito algerino nella pianura e dall’altra il GIA nella montagna.
Se gli altri religiosi hanno ricevuto un avvertimento globale, che era stato formulato per tutti gli stranieri alla fine del 1993, i monaci hanno ricevuto proprio a casa loro una visita-avvertimento durante la notte di Natale del 1993
Tutti erano ben coscienti del rischio che correvano per le loro vite. I monaci, però, hanno ricevuto un avvertimento consegnato direttamente alla porta del monastero con una parola d’ordine: “Signor Christian”.
Dietro questo cammino speciale io presumo e sospetto una vocazione speciale, supplementare, la vocazione cioè di “rendere visibile esteriormente”, direi di “spiegare” quello che è stato il fuoco interiore di tutti gli altri in Algeria, sia che vi siano morti o che siano rimasti in vita, come per esempio i fratelli Amedée e Jean-Pierre, scampati al sequestro. I sette hanno scritto in chiare lettere, attraverso un cammino documentato, quella che è stata la storia “interiore” degli altri dodici, come se in questa maniera il Signore avesse voluto garantire per le generazioni future una “tradizione” scritta da un fuoco interno che abitava questa presenza cristiana e missionaria in Algeria.
Non si potrebbe dire che Tibhirine, pur restando fedele in una maniera creativa al carisma monastico cistercense, è divenuto un simbolo, una “parabola” della presenza missionaria multiforme sparsa in tutto il mondo, sia in situazioni di pericolo, sia in situazioni più pacifiche?
Oggi, a fatti avvenuti e dopo un film che ha già raggiunto milioni di persone di ogni tipo e religione, si può affermare senza troppi rischi di sbagliarsi: mediante la loro vita e la loro morte, i fratelli e il cammino che hanno fatto hanno ricevuto la vocazione di essere una ‘parola’, ‘parola universale, un messaggio per un mondo in cerca di una pace interculturale e interreligiosa.
Il film esteriorizza dunque l’impegno missionario in Algeria e ovunque nel mondo. Il film è una parola per tutto il mondo nelle sue diversità di culture e di religioni in questo momento storico importante.

Il dialogo interreligioso a Tibhirine
   Il « Ribât es Salâm »
  Sì, c’è stato a Tibhirine un dialogo fra cristiani e musulmani, ma un dialogo di un genere diverso da quello che si svolgeva ad alto livello. Avveniva soprattutto negli incontri del Ribât es Salâm, « il legame della Pace », a cui partecipavano alcuni monaci. Era un gruppo islamo-cristiano i cui membri si incontravano due volte all’anno, ma le cui condivisioni non avvenivano a livello teologico. Veniva condiviso il vissuto dei sei mesi trascorsi su di un tema comune alle due tradizioni religiose, scelto nella riunione precedente.
Christian era il cofondatore di questo Ribât-es-Salâm. Il sequestro dei monaci avvenne proprio durante uno di questi incontri.
Nel 1989, in una comunicazione data nel corso delle Giornate di Roma, Christian spiegava così il senso di questo Ribât : 
«Sì, possiamo veramente aspettarci qualcosa di nuovo ogni volta che facciamo lo sforzo di decifrare i ‘segni’ di Dio negli ‘orizzonti’ dei mondi e dei cuori, mettendoci semplicemente in ascolto e anche alla scuola dell’altro, in questo caso, musulmano. È proprio questo l’obiettivo del nostro Ribât che, fin dagli inizi dieci anni fa (marzo 1979), si era riconosciuto nell’intuizione di Max Thurian, così vicina a quella dei nostri amici di Medea: «È importante che la Chiesa assicuri a fianco dell’Islam una presenza fraterna di uomini e di donne che condividono il più possibile la vita dei musulmani, nel silenzio, la preghiera e l’amicizia. Solo così, a poco a poco, si preparerà ciò che Dio vuole a proposito delle relazioni della Chiesa e dell’Islam».

Raymond Mengus e il dialogo interreligioso
  Il carisma dei fratelli di Tibhirine si è situato al livello della gente semplice. Lascio la parola al teologo di Strasburgo Raymond Mengus. Nel suo libro « Le signe sur la montagne », che descrive la continuazione della comunità dell’ Atlas di Algeria nella piccola comunità che vive oggi in Marocco, lo esprime in modo molto chiaro: 
«Il culmine delle relazioni fra le religioni si chiama ‘dialogo’. La causa sembra chiara; bisogna mirare ai più alti gradini del dialogo: è là che devono salire specialisti, responsabili e fedeli.
Ma in mancanza e in attesa di ciò, si potrà curare di più le relazioni che si generano attraverso dati elementari, che si chiamano: rapporti di vicinanza, attenzione alle persone, aiuto reciproco, conversazione ordinaria, contatti che avvengono per strada.
Sono realtà umili, alla portata di ogni uomo e donna di buona volontà. A volte potranno essere abbellite con il bel nome di ‘dialogo della vita’, considerato come un anticipo, nella speranza di meritare qualcosa di più nel futuro.
E se questo tipo di dialogo meritasse già ora pienamente il suo nome? Se fosse una vetta, invece di una preparazione? La vetta, cioè il luogo dove si vede in maniera più giusta, dove tutto si decide, nel modo migliore, della portata dei testi come della loro virtù esistenziale, della credibilità degli argomenti e della purezza delle intenzioni.
Perché, in fin dei conti, il confronto intellettuale delle nostre idee religiose potrebbe essere solo dogmatico, nel senso peggiorativo del termine, se si fermasse a se stesso e si compiacesse solo di se stesso. Mostrami piuttosto la tua umanità (e io ti mostrerò il mio Dio).
Evidentemente le tue rappresentazioni di Dio mi interessano, ma quello che importa ancora di più è ciò che esse producono e costruiscono in te.
Per andare ancora oltre: non saremo giudicati sulle nostre idee e meno ancora sulle nostre appartenenze. La prima e l’ultima parola dipendono da ben altro. Noi saremo giudicati sull’amore. E dall’amore ".

In un altro brano l’autore cita anche questa riflessione, tratta dalla corrispondenza di Louis Massignon (1883-1962): 
"Quello che sarebbe necessario fare, è andare da solo come ha fatto Foucauld, ma non nel deserto, ma in un villaggio dove si potrà pian piano, con le relazioni di aiuto reciproco quotidiano, agire sulle donne e sui bambini. È nella vita quotidiana e semplice che si può raggiungere in maniera profonda una società: non è nelle chiacchiere intellettuali degli uomini, dove tutti, una volta fuori, riprendono le loro posizioni di ripiego. Non credo, però, che nessun Ordine religioso tolleri che uno dei suoi membri si dia a questo tipo di azione, e dove trovare una vocazione per questo tipo di vita se non in Ordini religiosi? Ciò che serve in sostanza è dare l’esempio di una vita semplice, accettando il momento presente e le reazioni degli eventi inattesi in un certo spirito. Tutto il resto è letteratura per congressi di missiologia" .

Charles de Foucauld e fra Christian meditano il mistero della Visitazione di Maria a Elisabetta 
  Partendo dalla condivisione della vita, il Beato Charles de Foucauld, il fratello universale, ha riconosciuto nel mistero della Visitazione di Maria ad Elisabetta nel Vangelo di Luca (Lc 1,39-56) il simbolo della sua vocazione nel Maghreb. Ha dedicato a questo mistero tutte le sue fraternità, quando ancora non ne esisteva neppure una! In una meditazione su questo passaggio, lascia la parola a Gesù:
Appena incarnato, ho chiesto a mia M(adre) di portarmi nella casa dove nascerà Giovanni, per santificarla prima della nascita [...]
... A tutte coloro che mi possiedono e vivono nascoste, che mi possiedono ma non hanno ricevuto la missione di predicare, dico loro di santificare le anime, portandomi tra loro in silenzio; alle anime di silenzio, di vita nascosta, che vivono lontano dal mondo in solitudine, dico: “Tutte, tutte, lavorate per la santificazione del mondo, lavorate come mia Madre, senza parole, in silenzio; Andate a stabilire i vostri pii ritiri in mezzo a quelli che mi ignorano; portatemi in mezzo a loro stabilendo un altare, un tabernacolo, e portate loro il Vangelo, non con la predicazione della bocca, ma con la predicazione dell'esempio; santificate il mondo, portatemi al mondo, anime pie, anime nascoste, e silenziose, come Maria mi ha portato a Giovanni ... 
  Partendo da questa ispirazione, il Beato Charles de Foucauld, il fratello universale, ha già dedicato tutte le sue future fraternità alla Vergine Maria nel mistero della sua Visitazione... e non ne esisteva ancora nessuna! Fra parentesi, fra Christian ha cominciato a scrivere il suo testamento il 1° dicembre, anniversario della morte dell’eremita di Tamanrasset.
Non meraviglierà nessuno che la figura dell’eremita di Tamanrasset sia stata fonte di ispirazione per la comunità di Tibhirine. Questo era particolarmente vero per il priore. Prima di prendere la decisione di impegnarsi in modo definitivo nella comunità di Tibhirine, egli aveva fatto un viaggio di 1500 km a sud e, a 80 km da Tamanrasset, era salito sull’Assekrem, per fare durante più di un mese un cammino di discernimento, prima di prendere la decisione definitiva. Il fatto di iniziare a scrivere il suo testamento il 1° dicembre 1993, anniversario della morte di Charles de Foucauld, non è stato certo un caso. Anche per fra Christian "il mistero della Visitazione è una festa quasi patronale della comunità, fin dalle sue origini". E' tornato più volte su questo argomento.
Anche lui, in questa pagina del Vangelo, si identifica con Maria che porta Gesù nella casa di Elisabetta. Ma lo esprime con il suo accento personale. Per Charles de Foucauld, Maria "porta" Gesù da Elisabetta, mentre Christian si identifica con Maria, come colei che "riceve" da Elisabetta una parola inaspettata. Il priore di Tibhirine vuole essere aperto alla parola che “l’altro”, il musulmano, può dire a lui e alla Chiesa.
Christian immagina di essere nella situazione di Maria durante la sua visita a Elisabetta. Egli sa che Maria porta un mistero vivente, una buona notizia vivente, ma non sa come fare per annunciare questo mistero, che è anche il mistero di Dio. 
Noi siamo quindi invitati a essere costantemente in uno stato di Visitazione, come Maria con Elisabetta, per magnificare il Signore per quello che ha fatto "nell’altra"... e in me”. (Quando Christian usa "l'altra" in questi passaggi, si tratta del musulmano).   

Tra gli altri, ecco un testo [Ritiro alle Piccole Sorelle di Gesù, registrato nel novembre 1990] :
  “E noi siamo arrivati ​​un po' come Maria... Prima di tutto per rendere servizio..., perché è stata la sua prima ambizione, ma anche per portare questa buona notizia (ricevuta dall'angelo al momento dell'Annunciazione) ... E come comportarci per dirla?... E sappiamo che quelli che siamo venuti "ad incontrare" sono un po' come Elisabetta, sono portatori di un “messaggio”  che viene da Dio ... E la nostra Chiesa non ci dice, non sa qual è il legame esatto tra il Vangelo che portiamo e questo “ messaggio”che fa vivere l’altro. Insomma, la mia Chiesa non mi dice qual è il legame tra Cristo e l’Islam. E io vado verso i musulmani senza sapere qual è il legame...
Questo è ciò che Christian vuol dire quando descrive la sua presenza come "una presenza di Visitazione", una presenza come quella di Maria durante la visita a sua cugina Elisabetta.

Fra Christian conversa con degli amici musulmani 
  Fra Christian ci ha lasciato dei begli esempi di questa “presenza di Visitazione”, che ha potuto vivere nei contatti con qualche amico musulmano.  
Da quando, un giorno, mi ha chiesto inaspettatamente di insegnargli a pregare, M. ha preso l'abitudine di venire a parlare con me. Abbiamo così una lunga storia di condivisione spirituale. Spesso è stato necessario tagliar corto con lui, quando gli ospiti diventavano troppo numerosi e assorbenti. Un giorno ha trovato la formula per richiamarmi all’ordine:È parecchio che non abbiamo scavato il nostro pozzo!”. La usiamo quando sentiamo il bisogno di scambiare in profondità. Una volta, a titolo di scherzo, gli ho chiesto: “E in fondo al nostro pozzo che cosa troveremo? Acqua musulmana o acqua cristiana?”. Mi ha guardato, un po’ sorridente e un po’mortificato: “Ti poni ancora questa domanda? Sai, in fondo a questo pozzo, ciò che si trova è l'acqua di Dio” .

L’ambiente di vita della comunità: presenza e comunione. 
  Nel 1995 l'Unione dei Superiori Maggiori d'Algeria (USMDA) invitava tutte le comunità a riflettere insieme sul tema e sulla domanda: "Come, nella situazione attuale, stiamo raggiungendo il carisma del nostro Ordine?  La prima espressione con cui i fratelli di Tibhirine cercano di dire e spiegare il loro carisma è "Presenza".
Garantire una presenza, non missionaria apostolica, ma contemplativa e orante in ambiente musulmano, grazie ad una comunità stabile, unita e fraterna, laboriosa (con gli associati).
Una presenza discreta, misteriosa, separata dal mondo e in comunione con le persone, umilmente attenta ai bisogni materiali e spirituali di chi ci circonda .

É interessante rileggere ciò che fra Christian aveva detto durante le giornate di Roma nel settembre del 1989, sei anni prima, in particolare quello che aveva detto nella sua introduzione, una specie di 'carta d'identità' della comunità. Già il titolo è molto significativo: i fratelli si consideravano "oranti in mezzo ad altri oranti". La preghiera era il livello più profondo della loro convivenza.
   «Le poche riflessioni che tenterò di balbettare qui hanno senso solo a partire da quel luogo in cui ci sforziamo, giorno dopo giorno, dal 1934, di vivere in società. Parlerò quindi come testimone, ma il testimone che parlerà è anzitutto una comunità, anche se, di fatto, mi è stato concesso dai miei fratelli, nell’ambito di funzioni diverse, di trovarmi in prima fila nell’incontro e nella condivisione. Nulla potrebbe spiegarsi al di fuori di una presenza comunitaria costante e della fedeltà di ciascuno all’umile realtà quotidiana, dalla porta al giardino, dalla cucina alla lectio e alla liturgia delle ore.
Il dialogo che è così venuto a costituirsi ha le sue modalità, caratterizzate essenzialmente dal fatto che noi non ne assumiamo mai l’iniziativa. Mi piace qualificarlo come esistenziale. È il frutto di un lungo “vivere insieme” e di preoccupazioni condivise, a volte molto concrete. Questo significa che raramente è di ordine strettamente teologico. Abbiamo piuttosto la tendenza a fuggire le diatribe di questo genere: le considero limitate.
Dialogo esistenziale quindi, cioè concernente il materiale e lo spirituale nello stesso tempo, il quotidiano e l’eterno, a dimostrazione di quanto sia vero che l’uomo o la donna che ci sollecitano possono essere accolti solo nella loro realtà concreta e misteriosa di figli di Dio “creati prima in Cristo” (Ef 2,10). Cesseremmo di essere cristiani – e anche semplicemente uomini – se dovessimo mutilare l’altro della dimensione nascosta per incontrarlo solamente “da uomo a uomo”, cioè in una umanità depurata da qualsiasi riferimento a Dio, da ogni relazione personale e perciò unica con il Totalmente-Altro, privata di qualsiasi sbocco su un aldilà sconosciuto .

  La parola chiave dei monaci di Tibhirine è proprio "presenza". Una presenza che era accoglienza, nella fede di essere accolti anch’essi dai propri vicini. Presenza che era anche attiva e prendeva delle iniziative: "oranti in mezzo ad altri oranti", che rendono disponibile un locale nel monastero per una moschea. Presenza in un'associazione in cui fra Christophe condivide con alcuni musulmani il lavoro e i prodotti dell’orto. Presenza nel dispensario, dove fra Luc a volte ha 150 consultazioni al giorno: i malati dei dintorni o di un po' più lontano, i feriti dell'esercito così come del GIA, il gruppo terrorista. Presenza di fra Paul, l'idraulico, che lascia immediatamente il suo lavoro quando un vicino chiede di dargli una mano. "Presenza" degli altri fratelli in moltissimi altri modi.
Abbiamo caratterizzato questo "vivere ‘l’incontro con l'altro’ nella vita di tutti i giorni "come" il cammino privilegiato del dialogo islamo-cristiano". Ecco, in una sola frase, il dialogo interreligioso a Tibhirine: "il dialogo della vita", inter-culturalità e inter-religiosità in pratica.
Per raggiungere il macrocosmo si prepara il terreno mediante tanti contatti a livello teologico e politico. Come comunità pilota, i fratelli di Tibhirine lo praticavano nel microcosmo della loro umile comunità, nascosta in Algeria. Dopo aver condiviso sei mesi di vita nella comunità dell'Atlante in Marocco, un giornalista belga annota: "Il dialogo della vita, ecco il nome più adatto per il dialogo interreligioso come è stato vissuto a Tibhirine ".