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bottega di ramai a Damasco- 1894 |
Di
Maria Antonietta Carta
Luoghi
incontrati per caso mi sfidano coi loro silenzi e con le loro
penombre che custodiscono storie. E io mi lascio attirare.
Sono le tre del
pomeriggio e la calura agostana avvolge Damasco, s’insinua nelle
pietre degli edifici, nell’asfalto, nelle foglie delle svettanti
palme del quartiere Abu Rummane e nell’acqua del fiume Barada. Le
mie gambe si trascinano nella città estenuata per il torrido
splendore del sole. Finalmente arrivo a un suq quasi deserto. Devo
trovare un regalo da spedire domani in Italia per l’anniversario di
nozze dei miei genitori, e ho pensato di donargli per l’occasione -
o imporgli? - un pezzetto del mio mondo lontano dal loro.
Ecco la
bottega di un ramaio, forse l’unica bottega di ramaio a
Damasco che non conosco, benché vi sia passata davanti molte volte.
Adesso sembra invitarmi a entrare. Ancora stordita dalla camminata
nell’abbacinante solleone, varco la soglia. La stanza è un tacito
vuoto buio e io mi smarrisco in quest’oscurità quieta, finché un rumore mi fa tornare alla realtà. Gli occhi
ancora ciechi non riescono a capire, ma immaginando il ramaio al
lavoro saluto voltandomi verso il rumore.
– La pace sia su
di te. – dico.
– Su di te sia
la pace. – risponde una voce. Poi torna il silenzio. Un silenzio
che giunge dalla corte assopita, dall’aria affaticata, da tutta la
città in attesa del soffio di brezza che la sera dell’oasi porta
sempre con sé. I miei occhi stanno tornando a vedere e la bottega,
che riceve soltanto una luce fioca dalla porta d’ingresso, mi
appare adesso velata di penombra. Riesco a scorgere il ramaio che
siede su uno sgabello basso in fondo alla stanza. Mi avvicino.
L’uomo, anziano, ma di un’età indefinibile, ha il capo chino su
un grande vassoio di rame che le sue mani, mani attente, preparano
per l’incisione. Solleva la testa e mi rivolge uno sguardo
distratto o forse indifferente o forse un poco infastidito. Non
sembra ciarliero. Strano! Gli artigiani damasceni sono di solito
loquaci e accoglienti. Neppure io mi sento di ottimo umore. Sono
stanca, disidratata, impolverata.
Poco a poco la
penombra fresca, che il tenue riverbero dei metalli rende ancora più
accogliente e riposante, mi ristora. Comincio a cercare tra
l’infinità di oggetti accatastati sul pavimento o appesi alle
pareti fino al soffitto: incensieri, bracieri, aspersori per l’acqua
di rose, caffettiere e boccali dalle forme soavi, piatti e vassoi
arabescati. Osservandone le decorazioni mi lascio prendere da uno dei
miei giochi preferiti: cercare simboli, scoprire linguaggi che
traducono fedi o speranze.
Ecco degli zig-zag
che disegnano l’acqua: principio di ogni cosa. Ecco la rosetta di
Astarte: fonte della vita divina, linfa della natura e della donna.
Ecco volute intrecciate: oceano primordiale, mare metafisico. Ecco la
pianta e la croce: sigilli universali. Ecco spirali: l’essenza
dell’Universo, labirinto del cosmo o dello spirito, principio e
fine, vita e morte. Ecco fiori di loto: porte che introducono
all’ignoto. E ancora e ancora segni arcaici mai completamente
svelati. Ecco il nome di Dio, tracciato con ricercate calligrafie che
diventano un solenne tributo all’insondabile. Potrei trovarmi in
una bottega di tanti secoli fa. Una di quelle botteghe di ex-voto che
prosperavano in prossimità degli antichi luoghi di culto. Non
finiranno mai di affascinarmi questi disegni forse nati con l’uomo
e che in questa parte della terra, spesso, sembrano essere, ancora,
inconsapevolmente chiari. Il ramaio inizia a incidere il vassoio.
Io seguito a vagare nella costellazione di simboli scolpiti nel rame,
commentando a voce alta. «Nemmeno mi sente.» penso, vedendolo
sempre intento al suo lavoro. Invece, a un tratto egli solleva la
testa e si mette a osservarmi. Adesso si alza, si avvicina, cerca tra
un mucchio di ciotole di rame. Cerca a lungo, senza impazienza finché
senza impazienza ne raccoglie una delicatamente, come se si trattasse
di un oggetto troppo fragile e infinitamente prezioso. Si volta e me
la mostra sollecitando la mia attenzione con lo sguardo. Senza dire
una parola. La ciotola nelle sue mani è una di quelle che si
adoperano negli hammam
per rovesciarsi addosso acqua fresca, quando il vapore cocente
diventa insopportabile e il corpo ansia un poco di refrigerio. Appena
comprende che sono attenta, la colpisce con il bulino e onde, onde
morbide di suoni limpidi, si spandono nella stanza muta, mi
avvolgono, mi conducono lontano. Lontano dai pensieri. Per un tempo
lunghissimo. Poi, svaniscono.
– È una ciotola
dei jinn. – mi confida il ramaio, nel nuovo silenzio.
– Ah! I jinn. –
dico io senza sorprendermi.
Da quando, anni
fa, cominciai a occuparmi di cultura popolare, addentrandomi nel mare
sconfinato delle fiabe e delle leggende siriane, l’anima di questa
regione del mondo sembra condurmi spesso, a mia insaputa, presso
quelli che mi diverto a chiamare i suoi archivi viventi. Nelle città,
nei villaggi, negli accampamenti dei nomadi, accanto a siti antichi e
presso le rive dell’Eufrate e dell’Oronte ho incontrato persone
che sembravano attendermi per raccontarmi storie.
– Nel mio
quartiere, quando ero bambino, c’erano il palazzo e l’hammam
del re dei jinn. Li hanno distrutti per fare case nuove. Non resta
quasi niente. Se l’Unesco l’avesse saputo, forse li avrebbe
protetti. – mi dice il ramaio, con la disarmante innocenza di un
bimbo ancora innocente. E la sua voce rivela il rimpianto per il
vecchio quartiere della sua infanzia.
– Io non ho
paura dei jinn – continua – neanche di notte quando i jinn
escono da sotto terra, si mettono a girare per casa e si arrabbiano
se li disturbi. Bene! Io mi alzo al buio tranquillamente. Entro in
bagno e in cucina senza temere. Gli hammam
e
tutti i luoghi in cui vi è dell’acqua sono affollati di jinn
durante la notte, quando gli uomini dormono. Lo sai? Succede anche
che, talvolta, mentre lavoro non trovo un utensile che un momento
prima avevo in mano. Non perdo tempo a cercarlo. Sarebbe inutile. So
che l’hanno preso loro. Evidentemente ne hanno bisogno. O vogliono
giocarci. So che lo rimetteranno al suo posto, quando vorranno
rendermelo.
Il ramaio ha
smesso di parlare e aspetta. Aspetta, lo so, che anch’io gli
confidi qualcosa.
– Capita anche a
me con una penna o un foglio di carta o un libro. Talvolta scompaiono
proprio quando ne ho bisogno. Erano davanti a me e d’improvviso
svaniti! Prima impazzivo a cercare. Poi ho imparato a fare come te:
mi prendo una tregua – gli dico, pensando divertita ai miei
invisibili e dispettosi folletti della distrazione. O
dell’immaginazione? Forse i jinn m’infastidiscono ma anche mi
aiutano, quando mi arriva un’idea che stavo aspettando di avere.
– Mi diresti un
racconto di jinn? – chiedo. Glielo chiedo con voce rispettosa
perché, da queste parti, i jinn, buoni e cattivi, sono davvero, per
fede, vivi e veri. Creature a cui si deve riguardo. Esseri che
bisogna lasciare tranquilli o temere. Arcani a cui bisogna
testimoniare lo stesso timore sacro che un tempo tutti gli uomini
dovevano avere per la Natura e per il mondo dell’immaginazione. Lo
stesso mondo nel quale forse, inconsapevoli, siamo tutti immersi?
– Sì. – mi
risponde indicandomi una seggiola e mettendo da parte il suo vassoio,
perché raccontare una storia significa oltrepassare una soglia,
iniziare un viaggio, celebrare un rito, e richiede dedicazione
assoluta.
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Banconota siriana del 1977 con l'immagine della moschea degli Omayyadi e l'effigie di un ramaio che incide con il bulino un grande vassoio di rame |
«Un re di un
regno antichissimo ha quattro figli: tre femmine e un maschio»
Il numero:
l'essenza di tutta la realtà, le Madri, penso,
lasciandomi attrarre dalla storia.
Il ramaio vede
svegliarsi la mia curiosità e i suoi occhi approvano.
– Va bene? –
mi chiede.
– Si, si, vai
avanti – dico, ed egli riprende il suo racconto.
«Per il figlio
del re, sorella mia, arriva il tempo del matrimonio. Gli trovano una
bellissima ragazza. Si preparano le nozze. La ragazza va all’hammam,
dove la massaggiano con unguenti, le colorano le dita e i capelli con
la henna, le mettono un abito bello.»
La rossa henna
la proteggerà dagli spiriti invidiosi.
«Si fanno le
nozze con una grande festa. Cento montoni arrostiti, dolci, datteri.»
A me tornano in
mente alcuni versi dell’Epopea di Gilgamesh, incisi in una
tavoletta cuneiforme nella Mesopotamia di 5.000 anni fa. ‘’E
t’innamorasti d’Ishullanu, giardiniere di tuo padre, che a sporte
ti portava i datteri,
e ogni giorno una splendida mensa t’imbandiva.’’
«Musica, giostre
di cavalieri, e danze. Gli sposi entrano in casa. Lui prende la
ragazza e la fa sua. Però, questo figlio del re del regno
antichissimo sogna una nuova vita. Si! Una nuova vita. Una vita in un
altro Paese. E appena arriva l’alba, lascia la casa del padre con
sua moglie per cercare un’altra terra. Viaggiano per molte Lune.
Cavalcano a lungo nella steppa cercando il luogo adatto.
Finché
un giorno Dio li fa giungere al posto giusto. Ci sono le palme e un
pozzo e un mare d’erba. L’oasi! Sia benedetto l’Altissimo! Il
figlio del re ferma il suo cavallo e dice:
– Ecco il
Paradiso! Questa sarà la nostra patria.
– Va bene, o mio
signore. – dice sua moglie.
Piantano la tenda.
Cenano. Si mettono a dormire nella loro casa.»
La casa di lana
bruna. La dimora dell’errante.
«Da questo
momento, il figlio del re vive una nuova vita. Ogni giorno si alza
all’alba e va a caccia nella steppa con il suo falcone. Torna al
tramonto. Presto, però, desidera conoscere altri luoghi. Ricomincia
il viaggio. Percorrono molte piste. Finché, un giorno, giungono a un
accampamento.»
– Che ne pensi,
sorella mia? Beviamo una tazza di tè? – mi chiede il ramaio.
– Beviamola,
fratello.
Il tè dolce e
denso ha il colore del sole al tramonto e odora di cannella. Lo
sorseggiamo in silenzio dai piccoli bicchieri di vetro così caldo
che brucia le dita, e intanto il mio sguardo vagabonda tra i metalli
scolpiti. I muezzin chiamano alla preghiera del vespro.
Allaaah
u-Akbar, Allaaaah u-Akbar!
Dio è il più
Grande, Dio è il più Grande!
La salmodia si
leva in volo dai minareti, aleggia nell’aria, ridiscende sulla
città. Le voci oranti sembrano arrivare da ogni parte. Per
rispondere al richiamo, il ramaio posa il bicchiere sopra un
minuscolo banchetto traballante, passa le mani, nel gesto di un
lavacro rituale, sul suo volto intenso di credente e rivolge i palmi
verso il cielo:
– Nel nome di
Dio Benevolo e Misericordioso.
– dice. Poi recita i sette versetti della fatiha. Il Padre Nostro
dell’Islam.
La lode spetta
a Dio il Signore dei mondi,
Il Benevolo, il
Misericordioso,
Re del giorno
del Giudizio.
Te solo
adoriamo. Te solo invochiamo a nostro soccorso.
Guida i nostri
passi verso il retto sentiero.
Il sentiero di
coloro verso i quali sei stato benevolo,
Che non hanno
meritato la tua ira, che non hanno deviato.
Amin.
Conclude. Così
sia.
Il canto dei
muezzin risale verso il cielo e si dissolve. Il tè è ormai tiepido.
– Dov’eravamo
rimasti?
–
Chiede il ramaio
– Il figlio del
re e sua moglie arrivano a un accampamento. – rispondo.
– Ah, sì, sì.
« Il figlio del
re e sua moglie arrivano a un accampamento. Sono accolti con tutti
gli onori dovuti agli ospiti. Gli porgono cibo e acqua. Quel giorno
l’accampamento è in festa. I cavalieri giostrano, le donne
danzano. Anche la moglie del figlio del re entra nella danza.»
La danza è il
teatro dei miti e dei misteri.
il viaggio
attraverso il labirinto
L’incessante
turbinio del mondo.
«Il figlio del re
dice a sua moglie: – Vado a caccia. Tu divertiti. Qui sarai al
sicuro. – È ancora giorno e la luce illumina ogni cosa, ma appena
egli si allontana, sull’accampamento discende una nube nera. È una
nube portata da un tornado. Una nube tenebrosa che abbuia e
sconquassa il mondo! Oh Dio! Che il Signore misericordioso ci
risparmi una simile sventura! Tutto accade in un istante. È giorno,
ma fa buio come di notte. Una notte di furia che annienta
l’accampamento. Tutto accade in un istante: giorno e notte insieme.
Poi, torna il sereno, ma ogni cosa è distrutta. Si! Ogni cosa è
distrutta. E la moglie del figlio del re non c’è più! È
scomparsa! Tutti la cercano. Invano. Torna anche il figlio del re e
vede quella devastazione. Vede i nomadi annichiliti, ma sua moglie
non c’è!
– Dov’è mia
moglie? – chiede.
– È venuto
l’uragano e l’ha portata via. – gli dicono.
– Come?!
Impossibile.
– Per Dio! È la
verità. Nessun essere vivente si è avvicinato al nostro
accampamento. – gli rispondono.
– Andrò a
cercarla. – dice il figlio del re. – La cercherò nelle quattro
regioni del mondo, se necessario.
Torniamo adesso
nel regno antico, e vediamo cosa vi accade.
Un giorno arriva
uno straniero, vede la sorella maggiore del figlio del re, gli piace,
la chiede in moglie, si fanno le nozze e la porta via. Il giorno dopo
arriva un altro straniero, s’innamora della seconda sorella, vuole
sposarla, si fanno le nozze e la porta via.
Il terzo giorno
passa da lì un altro straniero, vede la terza sorella, gli piace, la
chiede in moglie, si fanno le nozze e la porta via.»
Tre è il
numero magico delle fiabe e dei sentieri che conducono al mondo
invisibile.
«Adesso, torniamo
dal figlio del re che cerca sua moglie. Cammina e cammina, finché
arriva in un Paese sconosciuto. Cerca, cerca, e arriva in un
giardino. Nel mezzo del giardino c’è un palazzo. E chi vedono i
suoi occhi? La sorella maggiore!
– Cara sorella!
Che cosa fai qui?! – le chiede, sorpreso.
– Ho sposato il
re dei Venti. Questo è il suo regno. E tu, caro fratello? Cosa ti
porta da queste parti?
– Ho perso mia
moglie e la cerco. – dice il fratello. Mentre si scambiano queste
informazioni si ode un fragore che fa tremare la terra.
– Presto! Devi
nasconderti! Arriva mio marito, che mangia carne umana. – dice la
principessa al fratello, e lo nasconde in un armadio. Entrato in casa
il re dei Venti dice:
– Sento odore di
carne umana.
– Non c’è
nessuno. – dice sua moglie.
– Ti assicuro
che c’è una creatura umana. – dice il re dei Venti. La poverina
deve confessare:
– Signore, in
verità c’è mio fratello dentro l’armadio.
– Come! Il mio
caro cognato ci visita e tu lo nascondi?
– Avevo paura
che l’avresti mangiato.
– Fallo uscire.
– Il principe esce dal suo nascondiglio.
– Come mai da
queste parti? – gli chiede il re dei Venti.
– Ho perso mia
moglie, e la cerco.
– Raccontami la
tua storia. – dice il re dei Venti e il figlio del re racconta la
sua storia.
– Povero te! Da
ciò che mi hai detto deduco che ti attendono prove terribili. Il
rapitore di tua moglie è il Signore dalle tre gambe, il re dei jinn
infedeli, l’imperatore del Mondo – dice il re dei Venti.
– Lo cercherò
per liberarla. – dice il figlio del re.
– Sei pazzo?
Nessuna creatura umana può riuscirci. Nessuna creatura è più forte
di lui, ma se proprio sei deciso a continuare nella tua impresa ti
accompagno da mio fratello, che è il re dei Mari e anche tuo
cognato. – gli dice il re dei Venti. E lo porta in un Paese
sconosciuto. Lì, cammina e cammina il figlio del re arriva a un
giardino dove trova la seconda sorella, che gli chiede:
– Come mai da
queste parti, caro fratello?
– Hanno rapito
mia moglie e la cerco. – risponde. In quel momento, si sente un
muggito spaventoso!
– È mio marito!
Il re dei Mari, che mangia carne umana! – dice la principessa a suo
fratello e lo nasconde in un armadio. In verità, appena entra in
casa, il re dei Mari dice:
– Moglie! Sento
odore di carne umana.
– No. Ti sbagli.
Non c’è nessuno. – dice la principessa.
– Invece sì,
c’è un uomo.
– No.
– Sì. – e va
a finire che il re dei Mari trova il figlio del re, ma non lo mangia;
anzi, gli fa una grande accoglienza.
– Come potrei
nuocere al fratello di mia moglie! – dice.
– Cosa ti ha
portato da noi, caro? – gli chiede.
– L’imperatore
del Mondo ha preso mia moglie e devo liberarla. - dice il figlio del
re.
– Se il re dalle
tre gambe ha rapito tua moglie, nessuno può portargliela via, ma se
tu vuoi, ti accompagno da mio fratello, il re delle Aquile, che è
anche tuo cognato. Dopo averlo sentito, deciderai se continuare o no.
– Va bene. –
dice il figlio del re. E il re dei Mari lo conduce in un Paese
sconosciuto, dove trova un giardino che ha al centro un palazzo. Nel
giardino trova la terza sorella, che gli chiede:
– Caro fratello,
come mai da queste parti?
– L’imperatore
del Mondo ha preso la mia sposa e io cerco il suo regno per
liberarla. – risponde. In quel momento sopra di loro il cielo
comincia a tremare.
– Arriva mio
marito! Il re delle Aquile, che mangia carne umana. – gli dice la
sorella, e lo nasconde nell’armadio. Tutto accade come le altre due
volte.
– La tua è
un’impresa impossibile. Nessuno può vincere l’imperatore del
Mondo, però, se lo desideri, ti porto alle frontiere del suo regno.
Di più non posso. Ma devi fare attenzione! Appena trovi tua moglie,
fuggite senza mai fermarvi e senza mai voltarvi. – dice il re
delle Aquile.
– Va bene. –
dice il figlio del re. E il re delle Aquile lo porta ai confini del
mondo. Alla porta di una grotta.»
La porta che
introduce al regno nascosto. Il Paese delle ombre
«– Da qui si
passa nel regno del re dei jinn infedeli, l’imperatore del Mondo. –
dice il re delle Aquile. E se ne va. I figlio del re entra nella
grotta, cammina e cammina finché arriva a un luogo desolato. E cosa
vedono i suoi occhi? Un palazzo che sembra nascere dalle viscere
della terra! É' il palazzo in cui l’imperatore del Mondo ha
imprigionato la principessa. Entra e la trova legata con la testa in
giù. Devi sapere che l’imperatore del Mondo l’ha legata in
questo modo perché non vuole fare all’amore con lui. Il figlio del
re la libera e insieme corrono a rifugiarsi nel Paese del re delle
Aquile.
–Vedi che sono
riuscito? – dice il figlio del re a suo cognato.
– Correte senza
fermarvi e non dovete mai voltarvi. - lo avverte il re delle Aquile.
Corrono. Corrono a lungo. Corrono finché la paura di essere ripresi
non li fa voltare e l’imperatore del Mondo li raggiunge.
– Credevate di
farla franca, poveri stupidi? – dice. Poi afferra il figlio del
re, lo scaglia verso il cielo e gli porta via la moglie. Il corpo del
figlio del re ricade a terra in venti pezzi. Un domestico del palazzo
del re delle Aquile, passando di lì, vede i pezzi del corpo del
principe e informa la padrona. Lei chiede aiuto al marito, che le
dice:
– Portali e
bagnali alla sorgente della vita. – Nella sorgente della vita,
tutti i pezzi del corpo tornano a unirsi tra loro e il figlio del re
risuscita. Esce vivo dall’acqua. Vivo!
– Vado a
riprendere mia moglie. – dice il figlio del re.
– L’imperatore
del Mondo ti ucciderà, fratello! – lo avverte sua sorella.
– Sono pronto a
tentare l’impossibile. – le risponde.
Quando arriva nel
regno proibito, l’imperatore del Mondo è a caccia. Il figlio de re
libera sua moglie e insieme fuggono via. Questa volta corrono senza
mai voltarsi fino al regno del re dei Venti.
– Mi raccomando!
Correte senza mai fermarvi. – li avverte il re dei Venti. Essi
corrono, corrono finché, troppo stanchi, si fermano per riposare
all’ombra di un albero. E lì trovano ad aspettarli l’imperatore
del Mondo!
– Credevate
davvero di potervi salvare? – dice l’imperatore del Mondo, che
scaglia il figlio del re verso il cielo e si riprende la principessa.
Il corpo del figlio del re cade al suolo in venti pezzi. Un abitante
del palazzo, passando di lì, vede tutto e ne informa la padrona. Lei
chiede aiuto al marito e anche il re dei Venti consiglia di bagnarli
alla sorgente della vita. Il principe risuscita per la seconda volta.
Il re dei Venti gli dice:
– C’è una
sola maniera per riuscire nell’impresa. Potresti farcela, ma devi
trovare lo spirito dell’imperatore del Mondo. Fai cosi: dì a tua
moglie di essere cortese con lui e di farsi rivelare dove lo
nasconde. Appena saprete dove si trova, cercate di rubarglielo. –
Il figlio del re torna dalla moglie, le racconta tutto e lei, quella
sera stessa, dice all’imperatore del Mondo:
– Caro! Sarò
tua, ma a una condizione.
– Quale?
– Devi dirmi
dove si trova il tuo spirito.
– È qui –
dice l’imperatore del Mondo, mostrandole un armadietto. L’indomani,
appena l’imperatore del Mondo esce per andare a caccia, lei coglie
dei fiori e ne orna l’armadietto.
– Che cosa hai
fatto! – le chiede l’imperatore del Mondo, al suo ritorno,
vedendo quei fiori.
–Ti amo e voglio
prendermi cura del tuo spirito.
– Quanto sei
sciocca! Davvero credi che potrei lasciare indifeso il mio spirito?
Però, adesso so che mi ami e voglio rivelarti un segreto. Il mio
spirito è custodito da un maiale. Si trova nella sua pancia. Questo
maiale è quasi invulnerabile. Può morire soltanto se si colpisce un
neo che ha sulla faccia.»
Il neo! La
macchia oscura. Il segno del disfacimento.
«Informato dalla
moglie, il figlio del re trova il maiale, colpisce il neo con una
freccia, uccide il maiale, gli apre la pancia e trova una scatola.»
Nelle fiabe, le
scatole racchiudono prove difficili.
«Dentro la
scatola ne trova un’altra, e dentro la seconda un’altra ancora! E
un’altra e un’altra, fino a sette. Sette scatole una dentro
l’altra! Sorella, potresti mai indovinare cosa trova in fondo
all’ultima scatola? Un verme!»
Il verme,
l’infima degradazione. E il rinnovamento
«Il figlio del re
del regno antico lo prende, e cerca di schiacciarlo con le sue mani,
ma il verme non muore. Allora lo mette in tasca e torna al palazzo.
Torna anche l’imperatore del Mondo che sembra mezzo morto.
– Non sto bene.
– dice gettandosi sul letto.
– Vuoi una
tisana? – gli chiede la principessa.
– Voglio
soltanto dormire. – dice lui.
– Va bene caro.
– dice la principessa.
Il figlio del re
schiaccia ancora il verme, ma l’imperatore del Mondo non muore.
Allora, fugge con sua moglie. Corrono senza fermarsi e senza voltarsi
mai fino al regno del re dei Mari.
– Che cosa
succede? – chiede il re dei Mari, vedendoli arrivare. Il figlio del
re del regno antico racconta tutto.
– Stai attento a
non perdere il verme! L’imperatore del Mondo guarirebbe.
– Non lo
perderò. – dice il figlio del re, ma sua moglie, curiosa, per
osservarlo meglio prende il verme in mano. Questo le sfugge e si
getta nel mare. Appena il verme entra nell’acqua, l’imperatore
del Mondo si alza dal letto guarito, li raggiunge per la terza volta,
uccide e fa a pezzi il figlio del re, e gli porta via la moglie.
Intanto, un pesce trova il verme e lo mangia. Ma il re dei Mari pesca
il pesce che ha mangiato il verme. Il re dei Mari trova il verme
nella pancia del pesce e lo rende a suo cognato, che risuscitato
ancora una volta alla sorgente della vita torna al palazzo
dell’imperatore del Mondo per riprendersi la moglie.
– Dov’è il
mio spirito? – chiede l’imperatore del Mondo appena lo vede.
– Nella mia
mano. – dice il figlio del re.
– Rendimi lo
spirito e tieniti pure tua moglie. – gli dice l’imperatore del
Mondo.
– Va bene. –
concede il figlio del re, ma mentre glielo porge il verme cade a
terra! Il verme cade a terra poi entra in una gamba dell’imperatore
del Mondo. L’imperatore del Mondo muore. Il figlio del re e sua
moglie se ne vanno.»
Il ramaio ha
smesso di raccontare.
– Termina così?
– gli chiedo. Proprio come quando, da bambina, esortavo mia madre a
raccontarmi epiloghi più esaurienti, che preparassero il commiato
dalla fiaba; che mi riconducessero il più lentamente possibile alla
realtà.
– Si. – dice
il ramaio.
– Chi è
l’imperatore del Mondo secondo te?
– Mia cara,
chissà! Ognuno vede o crede quel che gli conviene. – conclude
riprendendo in mano il vassoio a cui lavorava quando sono entrata
nella bottega e che aveva messo da parte per raccontarmi la storia.
Lo osserva attentamente il suo vassoio, poi ricomincia a inciderlo.
Io riprendo a cercare il regalo per i miei genitori. Vedo un vassoio
con il bordo decorato da due anelli. Uno, dorato, è scolpito con
piccolissimi crescenti lunari che al loro interno hanno una minuscola
losanga con un punto e affiancata da due triangoli. L’altro,
argenteo, racchiude una miriade di piccolissime spirali. Dal centro
del vassoio nascono dodici grandi petali, color dell’oro e
dell’argento, che creano, alternandosi, due rosette a sei petali. I
petali argentati recano piccoli poligoni in rilievo che formano un
intricato labirinto. I petali d’oro, che racchiudono al loro
interno foglie e fiori minuscoli, sembrano giardini. Le due rosette
sono immerse in un campo di fiori di loto. È un oggetto troppo
esagerato, troppo complicato. Ne guardo altri molto più semplici.
Come piacciono a me. Li ammiro, ma torno al vassoio con le due
rosette gemelle che brillano come il sole e come la luna illuminata
dal sole. Lo compro. Il ramaio e io ci congediamo.
– Bkhatrak.
Col tuo permesso – lo saluto
– Maasalameh.
Addio. – mi risponde.
Prima di
allontanarmi, osservo ancora una volta le sue mani che scolpiscono il
metallo. Sta disegnando delle lettere alfabetiche: aleif…lam…lam…ha…
Allah: Dio in arabo. Forse, inciderà nel rame una formula
apotropaica. O forse una preghiera.
Tornando a casa,
passo davanti alla moschea Suleimanyeh, con le sue numerose cupole e
i sottili minareti svettanti. Il sole a Occidente é quasi nascosto
dal Jebel Qassium, che sovrasta la città e dove, secondo una
leggenda, Caino uccise Abele. Più in alto la luna appena nata quasi
si confonde con il cielo ancora azzurro, che però si sta preparando
ad accogliere il crepuscolo vespertino. Quanto è lontana questa luna
diafana come un bioccolo rotondo di nuvola leggera! É percettibile
appena nella luce del sole che se ne va, ma fra poco splendidamente
argentea essa adornerà la notte sopra Damasco. E, forse, fra qualche
respiro, il nero tornado che abbuia e sconquassa il mondo, e che in
questa sventurata regione si chiama guerra, tornerà per ingoiarsi
tutto questo. Poi tutto ricomincerà. Forse.