Avvenire, 4 giugno 2016
di Giorgio Paolucci
Un oratorio a prova di bomba. L’immagine non sembri irriverente né spropositata né troppo ottimistica, perché è quello che accade in questi giorni ad Aleppo e che si propone davvero come sfida alla logica umana.
Trecentocinquanta bambini dai 3 ai 15 anni, aderendo all’invito dei frati minori che curano la parrocchia latina di San Francesco, tornano a essere protagonisti di un oratorio estivo in un contesto totalmente sfavorevole, devastato e devastante. Si gioca, si canta, si prega, si diventa amici, mentre tutto intorno si combatte, con il boato delle esplosioni a fare da sottofondo.
È una luce nel buio della città martire della guerra siriana, definita dall’Onu la più sanguinosa dopo il secondo conflitto mondiale: 250mila morti, milioni e milioni e milioni di sfollati. Sembra incredibile, eppure accade: un’oasi di pace abitata da trecentocinquanta bambini e ragazzi, cento in più dell’anno scorso, più della metà dei piccoli cristiani rimasti ad Aleppo. Cattolici, ortodossi, armeni, melchiti, tra i quali l’esperienza dell’unità prevale sulla differenza delle antiche screziature confessionali, nel segno della «gioia del Vangelo» e di quell’«ecumenismo del sangue» più volte evocato da papa Francesco proprio in riferimento alla situazione dei cristiani nel Vicino Oriente.
Quest’anno, poi, c’è una novità che riguarda direttamente il nostro Paese:l’Associazione Pro Terra Sancta, che opera al servizio della Custodia di Terra Santa affidata ai francescani dal 1217, ha proposto alle parrocchie italiane di avviare dei gemellaggi perché i piccoli siriani sperimentino la vicinanza dei loro coetanei italiani, e questi ultimi possano conoscere da vicino come si vive laggiù, con l’ausilio di un libretto che documenta la pratica delle opere di misericordia corporale, filo conduttore di questo anno giubilare (i dettagli dell’iniziativa ).
Migliaia di bambini italiani che frequentano il "Grest" – come viene chiamato in molte nostre città l’oratorio estivo – possono leggere e vedere cosa significa concretamente dar da mangiare agli affamati, visitare gli ammalati, vestire gli ignudi, seppellire i morti. Ad Aleppo, con la sua gente. E i piccoli siriani, molti dei quali sono nati in guerra e porteranno per sempre negli occhi e nella mente il macabro ricordo del quotidiano crepitare delle armi e l’urlo straziante delle vittime, potranno trarre conforto ricevendo piccole-grandi testimonianze di amicizia: disegni, poesie, lettere provenienti dagli oratori del nostro Paese.
«Abbiamo bisogno di questa comunione con voi», fa sapere da Aleppo padre Firas Lutfi, responsabile dell’oratorio estivo. E Ibrahim Alsabagh, il parroco, racconta che «in una Aleppo semidistrutta la gioia di stare insieme riesce a prendere il sopravvento» dentro una esperienza di vita e di amicizia nel nome di Gesù.
È una certezza generatrice di gesti che lasciano a bocca aperta. Come la preghiera recitata ogni giorno all’oratorio di Aleppo per chiedere la conversione dei cuori dei jihadisti che, poco lontano, lanciano ordigni mortali e predicano l’odio.
O come la decisione di trasformare il residuato di una bomba caduta sulla chiesa in un vaso riempito di fiori che durante la celebrazione della messa, al momento dell’offertorio, viene portato all’altare in segno di ringraziamento. Per testimoniare che uno strumento di male può diventare strumento di bene. In quella stessa chiesa, in dicembre, era stata aperta la porta santa della misericordia, l’unica vera medicina per curare il tumore dell’odio reciproco.
Non a caso, «Misericordiosi come il Padre nostro» è il tema che guida le otto settimane dell’oratorio estivo: sanno a Chi guardare, questi nostri fratelli che non cedono alla logica della violenza e ripongono tutta la loro fiducia in un amore capace di un perdono umanamente inconcepibile.
«Non riusciranno ad avere la nostra paura – dice padre Firas da Aleppo –. Perché ogni giorno vogliamo sfidare le bombe e la morte con la nostra gioia di vivere».
Di quella stessa gioia di vivere hanno bisogno i nostri figli, qui in Italia. E ne abbiamo bisogno – tanto bisogno – noi uomini e donne d’Occidente, troppo spesso incapaci di uno sguardo positivo sull’esistenza, succubi come siamo di uno scetticismo che sembra avere dimenticato il fascino di una Bellezza disarmata e disarmante, perciò ultimamente vincente. Per questo possiamo dire che oggi, davvero, da Aleppo arriva una buona notizia.
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/paolucci-luce-bambina-aleppo.aspx
«La soluzione dei problemi non verrà dalle mani dell’uomo, ma per intervento divino»
TEMPI.it , 6 giugno 2016
di
Rodolfo Casadei
Di cosa
sono fatti questi preti che restano sul posto, al servizio di un
popolo sempre più piccolo? Questi vescovi che continuano a vigilare
sul gregge anche se il pascolo è quasi diserbato e sopra ci piovono
razzi e bombe?
Tre quarti degli abitanti di Aleppo se
ne sono andati, in fuga per la salvezza o falciati dai cecchini e
dalle esplosioni. Invece il 95 per cento del clero resiste lì dove
la guerra lo ha trovato quattro anni fa, e alcuni confratelli sono
giunti nel frattempo a dare manforte. Gli assenti sono quasi tutti
giustificati: sono stati rapiti o uccisi nel corso della guerra. Le
comunità si sono assottigliate, ma la vita comunitaria cristiana si
è intensificata grazie alla dedizione dei sacerdoti. Nessuno di loro
lascia mai la sua postazione, se non temporaneamente per poi tornare
a servire meglio la comunità.
....
....
Le
notizie dal fronte come sempre oscillano fra l’illusione e la
disperazione. Pare essere alle viste una grande offensiva delle Forze
democratiche siriane, cioè curdi e arabi armati e sostenuti dal
Pentagono, supportati dall’aviazione della coalizione a guida
statunitense, contro Raqqa, la capitale dell’Isis. Pare che i russi
abbiano concesso una tregua ai ribelli per incoraggiarli a staccarsi
da Jabhat al Nusra e che vogliano unirsi all’offensiva contro
Raqqa, ma gli americani hanno risposto “niet”.
Intanto i turchi ritornano all’attacco con la loro proposta di creare una zona di
non sorvolo e di protezione umanitaria all’interno del territorio
siriano, garantita dalla Nato: la questione dei profughi è un puro
pretesto, Erdogan vuole poter occupare fette di territorio siriano
con l’approvazione della comunità internazionale o almeno di arabi
e occidentali.
I
siriani come padre Ibrahim guardano con scetticismo a questi
sviluppi. Ma soprattutto con una certezza di fede che spiazza
l’interlocutore: «La soluzione dei nostri problemi non verrà
dalle mani degli uomini, ma per intervento divino. Abbiamo fiducia
nella preghiera nostra e vostra. Il futuro è avvolto nella nebbia,
tanti pensano di emigrare, noi restiamo per la forza della fede».
Finiti
i soldi ne arrivano altriLa parrocchia di san Francesco ad
Azizieh è diventata un centro di resistenza umana non solo per le
600 famiglie di parrocchiani latini rimaste in città, ma per tutte
le 12 mila famiglie cristiane ancora presenti e per i musulmani
sfollati nei quartieri a maggioranza cristiana a causa della guerra.
Che si tratti del pacco alimentare, delle sovvenzioni per l’acquisto
di medicinali o di carburante per i generatori, dell’accesso
all’acqua dei pozzi quando si interrompe l’erogazione di quella
della rete cittadina, dell’oratorio estivo, del catechismo, dei
gruppi di studio per gli alunni delle superiori e universitari, del
té delle cinque per le signore nel cortile della parrocchia, delle
visite ai malati, agli anziani, ai feriti e ai poveri («più del 90
per cento di tutti i nostri parrocchiani vive sotto la linea della
povertà», dice padre Ibrahim), la parrocchia latina è diventata
punto di riferimento per tantissimi aleppini in cerca di aiuto e di
calore umano nella città semideserta e impoverita. Per arrivare a
questo ci voleva il coraggio dei frati di restare, la capacità di
intrecciare rapporti coi donatori in Europa, le qualità pastorali
appropriate per una situazione limite come quella di una guerra che
va avanti per anni senza che se ne intraveda la conclusione
all’orizzonte.
Tutto
questo non poteva condensarsi senza una maturazione di fede. Questo è
ciò che il francescano spiega:
«Ad
Aleppo siamo circondati dal male, ne facciamo esperienza
quotidianamente e questo male ci spaventa. Ma proprio l’azione di
questo male per reazione produce in noi il bene. La nostra natura
spirituale, colpita dal male, genera il bene. Nel momento in cui ci
affidiamo a Dio, Lui agisce in noi attraverso il suo Spirito, ci dona
la carità, e la carità ci insegna cosa fare, ci spinge oltre i
nostri limiti, ci permette di affidarci alla Provvidenza. Faccio un
esempio: all’inizio io avevo molto paura di spendere il denaro che
mi era stato affidato, temevo di sbagliare, di restare senza, di non
poter affrontare emergenze future. Quando mi sono fidato della
Provvidenza, e ho svuotato le mie tasche del denaro che c’era, e ho
speso come un incosciente, allora ho fatto esperienza della
Provvidenza: abbiamo risposto ai bisogni, è arrivato altro denaro a
prendere il posto di quello che non avevamo più, e la cosa è andata
sempre crescendo. Quando leggo le cifre dei soldi che abbiamo
ricevuto e speso in questi mesi, mi spavento. Mi chiedo come abbiamo
fatto e come facciamo a continuare così. Mi rispondo: affidandoci
allo Spirito Santo. Questo fa sorgere in noi la carità, che è virtù
coraggiosa, e la carità rende presente il Regno di Dio qui e ora, in
mezzo all’inferno e al purgatorio della Aleppo di tutti i giorni:
famiglie rimaste senza casa, persone fatte a pezzi dalle bombe, gente
che impazzisce, gente che soffre per la povertà o per le ferite».
«Siamo riusciti a fare cose che gli enti istituzionali non
riuscivano più a fare, a intervenire tempestivamente laddove le Ong
ci mettevano mesi perché ponevano condizioni e avanzavano pretese
che si possono soddisfare soltanto avendo a disposizione molto tempo.
Ma nel frattempo tanti sarebbero morti, se noi non ci fossimo buttati
subito».
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http://www.tempi.it/carita-guerriera-vita-e-tragedie-quotidiane-ad-aleppo-raccontate-da-padre-ibrahim#.V1VuzNmLSM8