Intervista di
Rodolfo Casadei
Tempi,
28 novembre 2016
Parla
della sua regione e la sua arcidiocesi (o arcieparchia), che si
estende da nord a sud dalla città di Qamishli, al confine con la
Turchia, fino alla derelitta Der Ezzor non lontano dal confine con
l’Iraq occupato dall’Isis, e verso ovest fino a Raqqa compresa,
la capitale del califfato di al-Baghdadi.
Stiamo parlando
dell’angolo nord-est della Siria, quello incuneato fra Turchia e
Iraq. In Europa questa regione è chiamata la Mesopotamia siriana,
nel mondo arabofono è nota come la Jazira, parola che significa
“isola”: si tratta dei territori compresi fra l’alto corso dei
due fiumi che poi entrano in Iraq, il Tigri e l’Eufrate. Gran parte
dell’area è fertilissima e rappresentava in tempo di pace il
granaio della Siria. Nella parte di questa regione coincidente col
governatorato di Hassaké, prima della guerra i cristiani erano
numerosi, circa 200 mila pari al 15 per cento di tutti gli abitanti.
Appartenenti principalmente a sei chiese diverse: siro cattolici,
siro ortodossi, armeni apostolici, armeni cattolici, caldei e assiri
orientali. Sia nell’agricoltura sia nell’industria,
rappresentavano l’élite sociale: secondo i dati di monsignor Hindo
detenevano il 60 per cento del Pil prodotto nel governatorato di
Hassaké. Ora la loro presenza è dimezzata, molti sono fuggiti per
non restare coinvolti nei sanguinosi combattimenti iniziati nel 2011
e che oggi vedono scontrarsi soprattutto le Forze democratiche
siriane (Fds), composte dai miliziani curdi dell’Ypg e da milizie
locali beduine, e l’Isis, che ha da queste parti la sua roccaforte
siriana. Le principali città sono in parte sotto controllo dei
governativi di Damasco, in parte sotto quello dei curdi dell’Ypg o
dell’Isis.
Monsignor
Hindo spiega qual è stato il ruolo delle Chiese nel momento in cui
l’episodio siriano della cosiddetta Primavera araba stava
tracimando dalle proteste di piazza alla guerra civile. «Nella
nostra regione i cristiani sono sempre stati considerati i mediatori
dei conflitti. Quando sono cominciate le tensioni, siamo stati
chiamati ad appianare le divergenze politiche sorte all’interno
delle tribù beduine e della componente curda. Nei primi tempi ci
siamo riusciti, come succedeva spesso in passato, ma in seguito
abbiamo perso completamente il controllo della situazione».
Tu
paghi, io combatto
Del
ruolo delle tribù beduine nella guerra civile siriana parlano solo
gli specialisti, letti e consultati da pochi, ma si tratta di uno dei
fattori decisivi del conflitto. I beduini, fra nomadi e
sedentarizzati, rappresentano il 12-15 per cento della popolazione
siriana. Alcune tribù sono fedelissime del governo centrale, altre
sono legate all’Arabia Saudita, ma in generale i beduini non
nutrono sentimenti di appartenenza a un paese oppure a un altro: si
legano ad altri solo per il vantaggio della propria tribù.
«I
beduini non hanno patria, sono devoti solo alle loro gerarchie
tribali, e anche se sono tutti musulmani sunniti non sono molto
religiosi: in Europa li definireste dei credenti non praticanti. In
Siria il governo, che negli anni Sessanta ha tolto le terre ai loro
capi per darle alle famiglie povere, nei decenni successivi ha
cercato di ingraziarseli con politiche assistenziali. Gli anni
precedenti il 2011 sono stati caratterizzati da grandi siccità nelle
regioni semidesertiche della Siria che loro abitano, e ciò li ha
resi disponibili ad aderire alla ribellione. In quegli anni molti di
loro si sono trasferiti in città a Damasco, ad Aleppo e a Daraa, e
lì sono stati il nerbo delle proteste. All’inizio hanno aderito in
massa al Free Syrian Army (Fsa) filo-occidentale, che però pagava
solo 10 mila lire siriane al mese (che nel 2012 equivalevano a 185
dollari), ma quando è apparsa Jabhat al-Nusra (l’equivalente
siriano di Al Qaeda), sono passati in massa con lei soprattutto
perché pagava il doppio! Quindi è arrivata l’Isis, che noi
chiamiamo Daesh, e di nuovo molti beduini, parliamo di migliaia di
combattenti, hanno cambiato bandiera, perché loro pagavano mille
dollari a persona! Una famiglia con sei figli maschi poteva incassare
6 mila dollari al mese, una somma enorme per loro. In quel periodo i
beduini hanno cominciato a vestirsi e a comportarsi come pretendeva
lo Stato islamico. Poi gli americani, i russi e i curdi hanno
cominciato a bombardare e attaccare il Daesh, i suoi pozzi
petroliferi e le autobotti con cui il petrolio veniva trasportato al
confine. Le loro risorse sono svanite, e adesso i combattenti locali
sono pagati solo 200 dollari. Un po’ per questo, e un po’ perché
hanno visto che l’Isis era attaccata da tutti e perdeva terreno, i
beduini che combattevano per loro sono passati in massa dalla parte
dei curdi».
Le
divisioni tra i curdi
E
così cominciamo a proiettare un po’ di luce sul mistero delle
Forze Democratiche Siriane (Fds), coalizione di combattenti curdi
dell’Ypg e di milizie arabe. Le milizie arabe altro non sono che le
varie tribù beduine che hanno cambiato bandiera e sono passate coi
curdi. Anche su questi ultimi Hindo fornisce informazioni molto
interessanti: «Non tutti i curdi stanno dalla parte dell’Ypg e del
suo braccio politico, il Pyd, che ha come obiettivo l’indipendenza
di un vasto territorio sotto il nome di Rojava. I curdi rappresentano
forse il 30 per cento degli abitanti della regione, e di questi solo
la metà o poco più appoggia la linea politica del Pyd, che ha la
stessa ideologia laicista del Pkk di Abdullah Ocalan in Turchia.
Molti giovani curdi sono fuggiti nel Kurdistan iracheno per non
essere costretti a combattere prima con l’Ypg e poi con le Fds.
Fino a un anno fa, quando appunto sono nate le Fds, c’era un
accordo di non belligeranza fra i curdi dell’Ypg e le forze
governative. Damasco ha pure fornito segretamente armi e risorse ai
curdi, ai quali è stato permesso di controllare gran parte dei
territori del nord-est. La cosa è cambiata quando gli americani
hanno sponsorizzato la nascita delle Fds e hanno cominciato ad
armarle e finanziarle con larghezza. Allora i rapporti con le forze
governative si sono logorati, e in alcune località, come nella città
di Hassaké, ci sono stati aspri scontri, in particolare nel
quartiere cristiano delle sei chiese, che adesso è zeppo di
check-point. Sono stati otto giorni molto sanguinosi».
Milizie
cristiane
Facciamo
presente al nostro interlocutore che nel nord-est della Siria i
cristiani appaiono divisi politicamente e militarmente: la milizia
Sootoro appoggia le forze governative (esercito e Ndf, le milizie
popolari di quartiere), la quasi omonima milizia Sutoro sta dalla
parte delle Fds. «È vero, c’è questa divisione, ma i cristiani
filo-curdi in realtà sono poco numerosi: credo 300 famiglie in
tutto, dai cui ranghi provengono gli armati di Sutoro. Si tratta di
elementi ideologicamente di estrema sinistra o di nazionalisti etnici
assiri e siriaci. Sono pochi anche i cristiani coinvolti in Sootoro.
La grande maggioranza di noi o sostiene il governo, o critica il
governo ma resta leale al presidente Assad. I Sutoro cercano di farsi
valere all’interno delle Fds: recentemente la componente curda ha
deciso di requisire tutte le case dei cristiani che sono emigrati a
causa della guerra, ma Sutoro ha protestato e ha ottenuto che le case
siano affidate alla loro competenza. Stanno cacciando i nuovi
residenti, spesso arabi a cui i cristiani avevano venduto o affittato
la casa prima di andarsene, e mettono dentro persone che scelgono
loro».
Monsignor
Hindo classifica se stesso fra coloro che criticano il governo ma
riconoscono l’autorità del presidente Assad: «Il 28 giugno scorso
ho incontrato il presidente e gliel’ho detto di persona, poi ho
scritto una lettera in quattro punti perché restasse agli atti: il
governo deve cambiare il suo modo di agire, il partito dominante, il
Baath, continua a comportarsi come se vivessimo in tempi normali, e
non in tempo di guerra. Nomina le persone sbagliate nei posti
sbagliati, seguendo logiche partitocratiche, settarie, di clan, di
fazione. Per il 95 per cento, le persone competenti, oneste e
intelligenti che ci sono nel partito vengono tenute ai margini e non
vengono promosse alle responsabilità che meriterebbero. Il risultato
è l’incancrenimento della corruzione amministrativa. L’ho detto
anche al governatore militare di Hassaké: “Lei ha tutti i poteri,
lei può sradicare la corruzione”. Mi ha chiesto cos’è che
vogliamo noi cristiani. Gli ho risposto: “Per noi stessi non
vogliamo nulla, vogliamo la giustizia, la pace, la sicurezza
personale e comunitaria per tutto il popolo, e vogliamo che siano
colpiti coloro che rubano il denaro pubblico”».
Come
si vive a Raqqa
Monsignor
Hindo ne ha anche per le Nazioni Unite: «Da tempo il governo pratica
la politica dell’amnistia e della riconciliazione per chi depone le
armi e firma l’impegno a non praticare più la lotta armata. In
alcuni casi si è provveduto a trasportare nelle zone controllate
dalla ribellione chi voleva continuare a combattere, per poi
dichiarare la cessazione delle ostilità in quartieri, villaggi e
città dove restano molti ex combattenti che riprendono la loro vita
normale. È la strada giusta, è l’unico modo per ricomporre il
tessuto della società siriana strappato dalla guerra. Abbiamo una
serie di esperienze positive a Homs, Mouadamiya, Daraya, Qudssaya.
Quando invece si mettono di mezzo le Nazioni Unite, quando l’Onu
entra nelle trattative, le cose si complicano e spesso i negoziati
falliscono. Perché? Perché quando vedono rappresentanti degli enti
internazionali, i ribelli si sentono molto importanti e alzano il
prezzo della resa. Si sentono spalleggiati da autorità di livello
mondiale, e allora si irrigidiscono. Dove le trattative si svolgono
esclusivamente fra siriani, spesso si arriva a una soluzione
negoziata, dove si mette in mezzo l’Onu, le trattative stentano. In
parte questo sta succedendo anche ad Aleppo».
L’arcidiocesi
di monsignor Hindo si estende fino a Raqqa, ed è una vera sorpresa
venire a sapere da lui che nella capitale del califfato vive più di
qualche cristiano: «Le sole famiglie siro cattoliche sono 15. Escono
di casa solo per andare al lavoro, hanno molta paura a farsi vedere
in giro. Ma non si lamentano dell’amministrazione: l’Isis fa
rispettare tutte le leggi, non solo quelle di ispirazione religiosa,
e dopo che hanno pagato la tassa di sottomissione coranica, la jizya,
i cristiani sono trattati come gli altri cittadini. Lo Stato islamico
ha fissato il prezzo di tutti i servizi, e fa rispettare
rigorosamente le norme: se qualcuno non paga a un cristiano la
riparazione effettuata presso la sua officina meccanica, il cristiano
va a protestare dallo sceicco e quello rapidamente costringe il
cliente a saldare il conto alla cifra fissata. Per i sacramenti,
battesimi e matrimoni soprattutto, vengono da noi ad Hassaké:
celebriamo il rito e festeggiamo insieme, poi loro tornano a Raqqa.
Chi è in regola col pagamento della jizya non ha problemi e può
viaggiare».
L’ombelico
di Dio
Il
vescovo non è mai stato a Raqqa da quando è scoppiata la guerra, e
forse è meglio così, sentendo quel che dice quando parla della sua
fede cristiana: «Io non credo in un Dio unico, credo in un Dio
trino. Perché un Dio unico che ama se stesso sarebbe un Dio
narcisista. Non credo in un Dio potente, perché sono creatura debole
come debole è tutta la creazione. E non credo in un Dio eterno che
eternamente ruota attorno al suo ombelico, perché sarebbe
un’eternità vuota. Credo che Dio lo abbiamo conosciuto in Cristo
quando è salito sulla croce e ci ha rivelato l’amore di Dio. Dio
ha amato tanto il mondo da mandare Suo figlio, e Suo figlio si è
fatto sacrificio per noi per aprire al mondo la strada della
resurrezione e ci ha inviato il Suo Spirito vivificante. Credo in un
Dio che ha una storia, che ha un presente e un futuro, in quanto
verrà. Un Dio che non soffre non è un Dio che ama, Dio si è fatto
uomo per soffrire e per amarci. Non possiamo conoscere Dio che a
partire dal sacrificio di Suo figlio. La Chiesa ci aiuta a diventare
uno in Cristo, e quando saremo uno in Lui e con Lui, saremo anche uno
con il Padre».