Solo la pace ci rende tutti vincitori
New York – Abbandonare gli indugi, escludere ogni opzione militare, avviare immediatamente un negoziato: è quanto ha chiesto per la Siria Mons. Francis A. Chullikatt, Osservatore Permanente della Santa Sede all’Onu, nel corso del dibattito aperto del Consiglio di Sicurezza sul Medio Oriente.
Il Nunzio Apostolico ha deplorato il “persistente rifiuto” delle fazioni belligeranti in Siria a negoziare la fine della guerra civile del paese, che dura ormai da 28 mesi, invitando la comunità internazionale ad agire in fretta per fermare il conflitto.
“Non ci può essere alcuna soluzione militare al conflitto siriano”, ha rimarcato nel suo discorso, pervenuto all’Agenzia Fides. “Indipendentemente da questo – ha denunciato con chiarezza il Nunzio – le parti in conflitto manifestano la determinazione, con totale impunità, a spargere ancora più sangue, a fornire ancora più armi e a distruggere altre vite”, prima di accettare dei negoziati.
Mons. Chullikatt ha accusato “le influenze esterne e i gruppi estremisti” che intendono continuare una guerra devastante. E il coinvolgimento di attori estranei al paese, ha detto, è visto come “una opportunità per profitti politici o ideologici, piuttosto che come un disastro terribile che sta inghiottendo la Siria”. “La guerra – ha ribadito – non può mai più essere considerata un mezzo per risolvere i conflitti. Eppure la guerra, quando si verifica, si può vincere solo attraverso la pace; e la pace si vince attraverso i negoziati, il dialogo e la riconciliazione” .
Ricordato il grave bilancio della vittime che si avvicina ai 100mila morti, dall’inizio delle ostilità, l’Arcivescovo ha ricordato “la difficile situazione dei rifugiati siriani”, nel paese e in altre nazioni confinanti: circa 6,8 milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Esprimendo la sollecitudine della Santa Sede per i cristiani della Siria, che “affrontano sfide per la loro sopravvivenza”, Mons. Chullikatt ha citato l’omicidio di p. Padre Francois Murad, i sequestri di altri cristiani, tra cui vescovi e sacerdoti, e la distruzione di oltre 60 chiese e istituti cristiani.
L’intervento si è concluso invitando tutti a “desistere dall’ostacolare una soluzione negoziata”.
“La pace in Siria ci rende tutti vincitori”, ha ricordato.
http://www.fides.org/it/news/53240-ASIA_SIRIA_La_Santa_Sede_all_Onu_non_puo_esserci_soluzione_militare_in_Siria_urge_avviare_negoziati#.UfFgZ21H7wo
La libertà religiosa è un dovere e una responsabilità
Traduzione dell’intervento pronunciato il 6 marzo a Ginevra dall’arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite e delle Istituzioni Internazionali a Ginevra, alla 22ª Sessione Ordinaria del Consiglio dei Diritti dell’Uomo sulle minoranze religiose.
Signor Presidente,
Nel mondo attuale, a motivo della loro fede o credo, persone appartenenti a minoranze religiose subiscono diversi gradi di abuso, che vanno dalle aggressioni fisiche al rapimento per ottenere un riscatto, dalla detenzione arbitraria e gli ostacoli alla richiesta di registrazione, fino alla stigmatizzazione. La tutela efficace dei diritti umani delle persone appartenenti alle minoranze religiose è assente o viene affrontata in modo inadeguato, perfino dalle Nazioni Unite e nei sistemi internazionali. Di recente, tale preoccupante situazione ha richiamato l’attenzione di alcuni governi e segmenti della società civile. Pertanto, la consapevolezza di questo grave problema si è accentuata. D’altro canto, però, la discriminazione diffusa che colpisce le minoranze religiose persiste e addirittura aumenta.
Il Relatore speciale sulla libertà di religione o di credo ha giustamente incentrato il suo Rapporto sulle numerose violazioni dei diritti umani perpetrate nei confronti di persone appartenenti a minoranze religiose. Talvolta gli Stati sono coinvolti direttamente attraverso l’indifferenza nei confronti di alcuni loro cittadini o per la volontà politica di emarginare, sopprimere o perfino eliminare le comunità che hanno un’identità diversa, a prescindere da quanto tempo sono storicamente radicate nel loro paese. In alcune circostanze, anche gli attori non statali svolgono un ruolo attivo e perfino violento, attaccando le minoranze religiose. L’esauriente descrizione della varietà di violazioni riportate fornisce un quadro realistico dell’oppressione subita oggi dalle minoranze religiose e dovrebbe servire da appello all’azione.
Tuttavia, il Rapporto minimizza il fatto fondamentale che le minoranze vengono definite o dalla prospettiva di una “maggioranza” o da quella di altre “minoranze”. Inoltre, secondo il Rapporto, lo Stato dovrebbe agire con neutralità nel riconoscere i gruppi religiosi. Di fatto, il Rapporto definisce le singole persone titolari del diritto di libertà di religione e considera l’obiettivo della tutela della libertà di religione volto ad «assicurare la sopravvivenza e lo sviluppo continuo dell’identità culturale, religiosa e sociale delle minoranze coinvolte» (cfr. Comitato per i Diritti dell’Uomo, Commento generale n. 23 [1994] sui diritti delle minoranze [articolo 27], § 9). Esso indica la tutela individuale della libertà di religione come la via per ottenere la protezione delle comunità religiose, processo che non si traduce automaticamente nella loro tutela. Di fatto, lo stesso Rapporto mostra molto bene che la maggior parte delle violazioni della libertà religiosa avviene a livello dei gruppi religiosi.
Mentre lo Stato dovrebbe applicare l’universalità dei diritti umani mantenendo un equilibrio tra libertà e uguaglianza, spesso si identifica con la “comunità dominante” in un modo che, purtroppo, relega le minoranze a uno status di second’ordine, creando così problemi per la libertà religiosa degli individui.
Le libertà e i diritti individuali possono essere conciliati e armonizzati con quelli della comunità che desidera preservare la propria identità e integrità. Non c’è un processo dialettico opposto, ma una necessaria complementarietà. La persona non deve diventare prigioniera della comunità, né la comunità deve diventare vulnerabile solo per l’affermazione della libertà individuale. Il Relatore speciale giustamente osserva che, enfatizzando una comprensione troppo ristretta dell’uguaglianza, potremmo perdere la diversità e la specificità della libertà.
Il riconoscimento legale di una minoranza è il punto di partenza per la necessaria armonia tra la libertà individuale e quella di gruppo. Adottando un tale approccio realistico alla questione, la coesistenza delle comunità viene facilitata in un clima di relativa tolleranza. Tuttavia, prima di poter cercare un tale approccio realistico, occorre garantire alle comunità religiose uno status legale, come esige il diritto umano innato di ogni persona, che precede lo Stato ed è vincolante per esso. Concordiamo dunque pienamente con la raccomandazione del Relatore speciale: «Ciò che lo Stato può e deve fare è creare condizioni favorevoli per le persone appartenenti a minoranze religiose, al fine di assicurare che possano prendere nelle proprie mani le loro questioni collegate alla fede, per preservare e sviluppare ulteriormente la vita e l’identità della loro comunità religiosa» (cfr. A/HRC/22/51. Sintesi). Solo rispettando questo equilibrio è possibile realizzare sia la pacifica coesistenza, sia il progresso di tutti i diritti umani.
Il ruolo dello Stato quale custode e attuatore della libertà di religione, non solo per gli individui, ma anche per le comunità religiose, indica che tale equilibrio è altamente politico. Lo Stato laico spesso non è neutrale nei confronti delle comunità religiose esistenti; nemmeno nelle democrazie occidentali, dove il liberalismo non porta tanto a una società neutrale, quanto a una società priva di una presenza pubblica della religione. Ma lo Stato può preservare un’identità religiosa a condizione che agisca con neutralità e giustizia verso tutti i gruppi religiosi nel suo territorio. Si potrebbe aggiungere che lo Stato deve monitorare le violazioni della libertà di coscienza e che il Relatore, a tale proposito, dovrebbe affrontare il tema dell’obiezione di coscienza quando per una persona diventa impossibile conformarsi alle norme sociali dominanti che sono in contrasto con dettami morali.
Signor Presidente,
Le religioni sono comunità fondate sulla fede o sul credo, e la loro libertà garantisce un contributo di valori morali senza il quale non sarebbe possibile la libertà di tutti. Il riconoscimento della libertà delle altre comunità religiose non riduce le proprie libertà. Al contrario, l’accettazione della libertà di religione di altre persone e gruppi è la pietra d’angolo del dialogo e della collaborazione. La libertà di religione autentica rifiuta la violenza e la coercizione e apre la via alla pace e al vero sviluppo umano attraverso il riconoscimento reciproco. L’esperienza del dialogo interreligioso nelle società occidentali, ormai diventata tradizione, dimostra il valore del mutuo riconoscimento della libertà religiosa.
La libertà di religione è anche un dovere, una responsabilità che si devono assumere sia gli individui sia i gruppi religiosi. Il riconoscimento della libertà religiosa degli individui e dei gruppi sociali implica che essi devono agire secondo gli stessi parametri della libertà di cui godono, e tale condizione giustifica la loro presenza, come attori importanti e autentici, nella pubblica piazza. L’eclissare il ruolo pubblico della religione crea una società ingiusta, poiché non permetterebbe di tener conto della vera natura della persona umana e soffocherebbe la crescita di una pace autentica e duratura per l’intera famiglia umana.
L'OSSERVATORE ROMANO 12 marzo 2013
L'OSSERVATORE ROMANO 12 marzo 2013