di Maria Antonietta Carta
Latakia
non è stata devastata né dalle bombe né dai barbari che dal 2011
infestano la Siria. Le sono piovuti addosso soltanto pochi missili
provenienti dalle belle montagne vicine, violate dai terroristi, e
dal mare quando a scagliarli sono stati, in una notte di pochi mesi
fa, aerei israeliani.
Latakia,
prima della guerra, era una città mediterranea un po' indolente,
anche se stravolta in alcuni decenni per il repentino aumento della
popolazione e una indecente speculazione edilizia. Gli embarghi
assassini che da oltre trent'anni periodicamente colpiscono la Siria
per non essersi assoggettata ai diktat della politica imperiale e la
paralisi del suo porto in seguito alla guerra Iran-Iraq, quando
cessarono i traffici commerciali verso i paesi del Golfo, l'hanno
impoverita negli anni ottanta del secolo scorso. Tuttavia era dolce
anche d'inverno, tollerante, chiara, solare, abbracciata quasi
interamente dalle acque del Mare Bianco, come gli Arabi chiamano il
Mar Mediterraneo. E negli ultimi anni stava iniziando a conoscere
uno sviluppo almeno in parte più armonioso.
Latakia
non è stata ridotta in macerie dai bombardamenti, eppure essa
racconta tutto l'orrore, la ferocia, l'insensatezza, la desolazione,
l'impietosità della guerra.
Arrivando
in un tardo mattino dello scorso ottobre, mi è apparsa affranta,
schiacciata, annichilita. Chiusa in se stessa come i balconi che
tende, ormai sudice e sbrindellate, hanno preso ad occultare da sette
anni facendola sembrare un luogo di abbandono apocalittico.
In
vaste aree della città, soprattutto il centro commerciale, più
frequentato e popoloso, e le affollate periferie popolari, i
marciapiedi sono divelti, le vie si riempiono di pozzanghere
fangose anche dopo una pioggerellina, per l'incuria nella
manutenzione della rete di canalizzazione delle acque piovane
dovuta, come tanti altri disagi, a una severa economia di guerra. I
muri degli edifici sono erosi ed ingrigiti per il terribile
inquinamento causato da una moltitudine di generatori di corrente
invecchiati, che rumoreggiano ovunque nei frequenti black-out, e dal
traffico convulso, per il repentino all'aumento della popolazione con
i rifugiati interni dalle zone di guerra.
La
povertà e l'indigenza si leggono nei volti smunti e nelle membra
gracili di tanti bimbi e adolescenti malnutriti a causa dei prezzi
esorbitanti dei prodotti alimentari, dovuti ad una inflazione ormai
incontrollata (immaginate che voi per comprare un chilo di carne
doveste spendere un sesto di uno stipendio di 1200 euro), nella
mendicità dilagante di vecchi e bambini, nella penuria o pessima
qualità di farmaci salvavita. Le
sanzioni criminali inflitte dall'Occidente, nonostante tutti gli
sforzi del governo e della collettività, provocano danni
irrimediabili per le cure delle malattie infantili, del cancro etc, e
contribuiscono ad far lievitare costantemente
i prezzi e ad aumentare la corruzione e i traffici illegali ai danni
soprattutto dei cittadini poveri, cioè della stragrande maggioranza.
La sofferenza e lo scoramento traspare dallo sguardo degli adulti o
nella prostrazione che si indovina osservando i soldati che da anni
affrontano l'insensata efferatezza sanguinaria di un conflitto non
cercato.
La
guerra ha artigliato tutti indiscriminatamente. Non esiste famiglia
che non abbia avuto lutti, perdite di vite giovani, lacerazioni. Ciò
che colpisce maggiormente è il senso di solitudine, di abbandono che
le persone provano perché sentono che il mondo resta indifferente
alla loro tragedia e l'urgenza di raccontare, di essere ascoltate,
confortate, comprese, accompagnate.
Eppure,
nonostante tutto, a Latakia la bellezza e la dolcezza non sono morte.
Le
ho incontrate nella gioia insperata e accogliente delle persone ritrovate dopo una lunga assenza, nell'abbandono confidente con cui mi
hanno raccontato le loro pene, nell'abbraccio caloroso di nuovi
incontri, nell'arte che continua a vivere indomita, nella forza
generosa di chi si prodiga per i più deboli e nella compostezza di
chi ha perso tutto ma non la dignità.
Il
ghigno gelido della guerra non è riuscito a paralizzare Latakia.
Come non c'è riuscito ad Aleppo, a Damasco, Homs, Hama e in tanti
altri luoghi della Siria.
Latakia,
come il resto della Siria, resiste. Nonostante i potentissimi e
implacabili nemici.
In
un parco che si affaccia sul mare, Al Batarni Park, ogni
sabato prende vita un mercato, Suq al Dayaa, di prodotti agricoli
biologici coltivati soprattutto da donne in piccoli orti dei villaggi
circostanti, e creazioni artigianali di locali ma anche di rifugiati
interni che provengono da Raqqa, Deir al Zor, Abu Kamal. Il mercato
esisteva già prima della guerra. A dargli inizio è stata tra altri
Zeina, che amante della natura incontaminata, gentile, fervida, un
po' bizzarra e sempre sorridente, fa pensare a un folletto dei
boschi. Con l'esplodere del conflitto, Al Batarni e il suq sono
diventati anche un luogo di riunione e di solidarietà tra abitanti
autoctoni e chi è giunto in città fuggendo la distruzione della
guerra. E Zeina, di professione farmacista, ha dato in affitto la sua
farmacia per occuparsi a tempo pieno dei derelitti.
Ho
conosciuto Samir, di padre siriano e madre cubana, prima della
guerra. Aveva 18 anni ed era arrivato poco tempo prima a Latakia da
Raqqa, dove aveva frequentato il liceo e suo padre faceva il medico.
Avevano la casa a Tell Abiad, sua madre si prodigava per i malati e
gli indigenti del luogo ed era molto amata. Sono stati i concittadini
sunniti ad avvisare la sua famiglia, quando corse il rischio di
essere perseguitata dai terroristi, essendo il padre alawita e la
madre cristiana, e aiutarla a fuggire. La fuga da Tell Abiad ad
Aleppo durò tre giorni. E infine Samir riuscì a riabbracciarli a
Latakia. Mi ero molto affezionata a questo ragazzo gentile. Adesso di
anni ne ha 26 ed ha trascorso il tempo della guerra soccorrendo
poveri e ammalati. É garbato, pieno di calore umano e divertente
come 10 anni fa, ma quando abbassa le difese traspare una grande
sofferenza. '' La guerra in un modo o nell'altro è stata sempre
presente nella mia esistenza come in quella di questa terra – mi
dice in un momento di abbandono – Palestina, Iraq e adesso Siria''.
Gli ho suggerito di scrivere le sue esperienze. ''Se dovessi
raccontare tutte le cose orribili che ho visto e che vedo, potrei
scrivere un libro al giorno'', mi ha detto.
Samir
e Zeina dispensano cure e affetto a bambini e adolescenti disagiati,
sperduti, che la guerra ha ferito. Portano anche gioia e coraggio
dentro l'ospedale oncologico, facendo i clown e dispensando colori e
amore.
In
Al Batrani, i bambini si incontrano, giocano, disegnano, fanno
musica. E vi si allestiscono dei tavoli con i doni dei locali,
abbigliamento ed altro, a cui ognuno attinge secondo necessità. Il
tutto avviene con grande rispetto e delicatezza: niente fotografie
dei bisognosi mentre ricevono gli aiuti e discrezione sui donatori,
come è costume da queste parti.
Zeina
e Samir, sempre sorridenti e rispettosi, coadiuvati da volontari si
occupano di tutto.
L'ambiente,
tra bancarelle colorate del suq, spezie odorose e alberi frondosi
risulta accogliente. Riposante. Alcuni rifugiati di Abu Kamal mi
raccontano delle persecuzioni che gli sono state inflitte dai
terroristi e dei loro attuali disagi, ma con grande misura e pudore.
Senza sfoggio di autocommiserazione. Avevano una casa, un lavoro, una
vita normale, e sono dovuti fuggire con soltanto gli abiti addosso.
Saputo che sono italiana, una donna mi dice sorridendo: ''abitiamo in
un luogo molto umile, ma se vieni a trovarci ti farò la pizza''. E
quando racconto di essere stata diverse volte ad Abu Kamal prima della
guerra, un uomo mi invita: ''Quando finisce la guerra sarai ospite a
casa nostra.''
Nizar
Ali Badr, è uno scultore fiero delle sue origini ''ugaritiche''.
L'amore per il proprio Paese è sconfinato e non potrebbe mai
abbandonarlo, dice. Oltre a scolpire, narra storie con sassolini e
ciottoli raccolti alle pendici del Jebel Aqra. Il monte Saphon dei
testi di Ugarit. Dove Baal, dio della tempesta, aveva edificato un
sontuoso palazzo, e l'imperatore Aureliano era salito per sacrificare
agli dei quando il monte si chiamava Casius.
Con
le pietre raccolte tra la spiaggia mediterranea e il monte che per
millenni fu considerato sacro, Nizar racconta il dolore, la fatica
del vivere, la sopraffazione, l'abbandono, la violenza della guerra,
le odissee dentro fragili barche, ma anche l'amore, la gioia, la
danza e la fascinazione per la natura e i suoi doni. Con il semplice
uso di quei sassolini, inventa racconti pervasi di compassione, di
intensa tenerezza, e di comunione con un mondo naturale ''antico'' di
cui sembra percepire ogni respiro. Come nelle epopee ugaritiche. Come
in Omero che canta l'Aurora dalle rosee dita.
Fino
a qualche tempo fa le sue creazioni erano quasi sempre effimere come
i sogni che svaniscono all'alba. Talvolta, duravano il tempo
necessario per una fotografia, perché la colla adatta a legare le
pietre non si trova in Siria (leggi embargo) o è troppo costosa
(leggi mercato nero).
Sono andata a trovarlo. Abita in una periferia tanto desolata che arrivandoci si è presi dallo sconforto. Ma dopo una ripida e difficile serie di rampe di scale sbrecciate in un alto caseggiato, si raggiunge la terrazza ed ecco un mondo straordinario abitato da sculture e da ciottoli riuniti a formare racconti intensamente, poeticamente evocativi. Sorridendo, mi ha confidato di aver scoperto una colla di cui però non svelerà mai il segreto. ''Non ti chiederò la sua composizione, ma certo mi piacerebbe sapere come ci sei arrivato'' lo provoco ridendo. ''Mi ha insegnato il Monte'' risponde serio. Il monte Saphon, che svetta solenne all'orizzonte nel sole al tramonto, sembra dominare la terrazza affollata delle sue pietre e ciottoli. Ed io, che per lunghi anni ho cercato storie straordinarie nelle montagne di Latakia e conosco bene i legami profondi di chi le abita con quell'universo, non mi meraviglio.
Sono andata a trovarlo. Abita in una periferia tanto desolata che arrivandoci si è presi dallo sconforto. Ma dopo una ripida e difficile serie di rampe di scale sbrecciate in un alto caseggiato, si raggiunge la terrazza ed ecco un mondo straordinario abitato da sculture e da ciottoli riuniti a formare racconti intensamente, poeticamente evocativi. Sorridendo, mi ha confidato di aver scoperto una colla di cui però non svelerà mai il segreto. ''Non ti chiederò la sua composizione, ma certo mi piacerebbe sapere come ci sei arrivato'' lo provoco ridendo. ''Mi ha insegnato il Monte'' risponde serio. Il monte Saphon, che svetta solenne all'orizzonte nel sole al tramonto, sembra dominare la terrazza affollata delle sue pietre e ciottoli. Ed io, che per lunghi anni ho cercato storie straordinarie nelle montagne di Latakia e conosco bene i legami profondi di chi le abita con quell'universo, non mi meraviglio.
Nizar
ha i polsi ricoperti da molteplici braccialetti di ciottoli ''Pesano
un chilo'' mi dice, accostando le due braccia, e mostrandomi le mani
che non possono toccarsi aggiunge:
''Così non posso prendere soldi dai corruttori''.
Le
inique e ingiuste sanzioni europee colpiscono anche gli artisti che
hanno scelto di restare in Siria, ed essi vivono spesso in povertà o
quasi, data la disastrosa situazione economica interna. A Nizar Ali
Badr, noto ed apprezzato all'estero, è stato negato il visto per
recarsi in Portogallo, dove si svolgeva una mostra personale e un
film dedicato alla sua opera.
Con
i ciottoli crea anche immagini terribili di torture e prevaricazioni,
di ecatombi per i bombardamenti, di gente in fuga dalla guerra e di
profughi sperduti in mezzo al mare.
Nei disegni dei bimbi che si
radunano nel Parco Batarni figurano carri armati, aerei e altre
macchine che uccidono, tende di chi ha perso la casa, insiemi di
linee che sembrano indicare storie di vita cancellate o che si ha
timore di rievocare.
Ho visitato anche la mostra di un affermato scultore e pittore, Fouad Dahadouh. Sono le sue ultime opere. Pitture nel tempo della guerra. Quadri popolati di figure femminili che vegliano morti o feriti, donne afflitte ma solidali e forti, che fanno pensare al risveglio. Alla vita che si rinnova e rigenera. E rovine che però non sono mai completamente scure, abbuiate, desolate. E mi viene in mente che nei disegni dei bambini, nella sublime semplicità di Nizar Ali Badr, nei quadri di Fouad Dahadouh. negli incontri con Zeina che sembra un folletto e con Samir che balla quando la sua ambascia è troppo acuta, come negli uomini e donne con cui mi sono commossa e ho sofferto ascoltando le loro vicende travagliate ma anche riso sorseggiando caffè, ho visto l'essenza del popolo siriano: la loro empatia con la vita in tutte le sue forme, la forza interiore, lo stoicismo nelle avversità. É come se capissero che la furia oscura della guerra non riesce a estinguere la chiarità. Ecco perché la Siria non può morire.
Ho visitato anche la mostra di un affermato scultore e pittore, Fouad Dahadouh. Sono le sue ultime opere. Pitture nel tempo della guerra. Quadri popolati di figure femminili che vegliano morti o feriti, donne afflitte ma solidali e forti, che fanno pensare al risveglio. Alla vita che si rinnova e rigenera. E rovine che però non sono mai completamente scure, abbuiate, desolate. E mi viene in mente che nei disegni dei bambini, nella sublime semplicità di Nizar Ali Badr, nei quadri di Fouad Dahadouh. negli incontri con Zeina che sembra un folletto e con Samir che balla quando la sua ambascia è troppo acuta, come negli uomini e donne con cui mi sono commossa e ho sofferto ascoltando le loro vicende travagliate ma anche riso sorseggiando caffè, ho visto l'essenza del popolo siriano: la loro empatia con la vita in tutte le sue forme, la forza interiore, lo stoicismo nelle avversità. É come se capissero che la furia oscura della guerra non riesce a estinguere la chiarità. Ecco perché la Siria non può morire.
Potrei
chiudere qui, con questo pensiero positivo, in queste giornate di
feste natalizie e di attesa del nuovo anno che arriva, ma non posso.
A Latakia ho visto anche bambini che non vanno al Suq al Dayaa, che
non disegnano sotto i rami frondosi del Parco Al Batrani. Bambini che
non vanno a scuola perché la scuola è lontana e inaccessibile,
tanti bambini che ho visto faticare al mercato e nella pescheria
vicino a casa, bambini che vendono fiori, accendini, gomme americane
nelle strade, bambini che chiedono l'elemosina e saranno maltrattati
da chi li sfrutta se non rimediano dei soldi. Bambini che sarebbero
abusati sessualmente, come qualcuno mi confida titubante, e bambini
che hanno assistito a troppa violenza, soprattutto quelli provenienti
dalle città della Jazira, e sono diventati violenti. Bambini senza
la fortuna di genitori che pur nella povertà e nella sofferenza
sanno essere amorevoli. Bambini che non vanno neppure bene nei post
su Facebook come immagine di una Siria che vuol rinascere dalle
ceneri.
Tutti
questi bambini che hanno imparato presto le asprezze dell'esistenza e
potrebbero diventare forti se solo venissero accolti e difesi, sono
invece troppo spesso ignorati e lasciati soli o in balia di chi li
crocifigge. L'ultima
sera prima della mia partenza, con Samir abbiamo immaginato dei
luoghi in cui essi possano sempre recarsi sentendosi amati, compresi
e protetti, per superare i terribili traumi della guerra e tornare ad
essere davvero bambini.
Questa è una grande sfida che bisogna affrontare a Latakia e in tutta la Siria, senza perdere tempo. Senza attendere la fine della guerra.
Questa è una grande sfida che bisogna affrontare a Latakia e in tutta la Siria, senza perdere tempo. Senza attendere la fine della guerra.