di don Salvatore Lazzara
Uno studio della Fondazione internazionale “Thomson Reuters”, sulla primavera araba, conferma il fallimento della stessa dopo aver analizzato i 22 Stati membri della Lega araba. Il rinnovamento si è trasformato in catastrofe culturale con grandi implicazioni di emergenza umanitaria nei paesi dove sono ancora in atto scontri armati, per mano dei mercenari travestiti da “liberatori di regime”.
La prova più evidente è rappresentata dalla campagna propagandata in Kuwait: con 2.500 dollari si può adottare un jihadista. E’ questo il tariffario presentato nella campagne di raccolta fondi (nella foto 1), a favore dei movimenti jihadisti che combattono in territorio siriano. Le campagne assumono spesso contorni grotteschi, con talloncini dorati o argentati a seconda se si è contribuito ad acquistare 50 proiettili da cecchino (o 500 da fucile) oppure 8 proiettili da mortaio.
Pochi mesi fa una campagna è riuscita perfino – a detta dei suoi organizzatori – a formare un’intera brigata di 12.000 uomini armati da mandare a combattere in Siria. L’emergere di queste fonti di finanziamento private e sconnesse dai giochi diplomatici imbastiti dai governi coinvolti nel conflitto è un fenomeno crescente, e che potrebbe tramutarsi in un ulteriore ostacolo per la pace nel martoriato paese mediorientale.
Secondo gli analisti, che osservano con crescente preoccupazione il fenomeno, esso sta creando delle dinamiche autonome e indipendenti dai progressi della diplomazia. Dai dati forniti dalle grandi agenzie internazionali di valutazione, emerge con preoccupazione un altro dato allarmante di cui nessuno parla: dopo la caduta di Mubarak, l’Egitto è diventato il Paese peggiore per la sopravvivenza delle donne nel mondo arabo; l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein, sprofonda sempre di più a causa dei continui attentati, in condizioni sempre più arretrate; l’Arabia Saudita sta attraversando un momento di involuzione culturale a causa dei rigurgiti fondamentalisti; non va meglio in Tunisia che con Ben Ali, era stata indicata come esempio di Islam moderno e laicista. Dagli ultimi eventi, sembra apparire sempre più integralista.
Dentro lo scenario presentato, si muovono i piccoli ma potenti stati come il Kuwait, governato da una monarchia parlamentare. In quella regione mediorientale l’azione di controllo della polizia non è capillare e opprimente come nelle altre monarchie assolute del Golfo. Questo dà maggiore spazio di manovra ai gruppi integralisti che desiderano sponsorizzare la jihad internazionale. Nessuna sorpresa per chi, correttamente, riteneva che le Primavere arabe non fossero vere Rivolte popolari, bensì golpe mascherati, che l’Occidente con straordinaria insipienza ha incoraggiato e sostenuto. Oggi quei Paesi, a cominiciare dall’ Egitto e dalla Tunisia, sono più arretrati e più instabili di prima. Sono guidati da governi (?) autoritari non dissimili e sovente addirittura più oppressivi di quelli di Mubarak e Ben Ali. La Libia, di cui nessuno parla, è dilaniata da guerre tribali; la Siria come stiamo approfondendo, sprofonda in una guerra civile sanguinosa, finanziata dai fondamentalisti religiosi, che rischia di durare per molti anni, in Iraq ogni scintilla provoca stragi e destabilizzazioni politiche.
Chi sono gli organizzatori di queste campagne destabilizzanti e di conseguenza quali gruppi sostengono e finanziano? Spesso i donatori fanno capo a un singolo “sheikh”, un capo religioso locale che ha contatti propri in Siria. Altre volte sono gruppi legati perfino a rappresentanti del parlamento, dove la minoranza salafita ha una sua piccola delegazione. I soldi vengono trasferiti attraverso travel-check, trasferimenti bancari o perfino valigie zeppe di contanti che vengono fatte pervenire direttamente nel paese. I gruppi che ricevono questi fondi e li usano sono spesso piccole unità appartenenti a quella galassia di brigate– normalmente indipendenti l’una dall’altra – che combattono il regime di Bashar al-Assad.
Il più delle volte per accedere a questi fondi tali unità – spesso formate da stranieri – devono dimostrare le loro credenziali religiose di salafiti e dichiarare la loro ferma intenzione di portare avanti un conflitto di tipo settario contro gli “eretici sciiti” e alauiti (la setta musulmana di cui fa parte il clan Assad). I gruppi di donatori kuwaitiani, dal canto loro, li incitano sui social media ad uccidere quanti più “miscredenti” possibili. Altre volte a ricevere questi fondi sono però gruppi più grandi e organizzati come l’Isis (al-Qaeda in Iraq e nel Levante) e Jihbat al-Nusra, direttamente collegati alla rete di al-Qaeda e diventati col tempo i gruppi meglio equipaggiati e più efficaci dell’opposizione siriana.
Spesso, come accade per le “adozioni a distanza”, i mujahidin, grati dell’aiuto ricevuto, mandano ai propri sostenitori dei video di ringraziamento (potete vederlo qui sotto), dove mostrano orgogliosamente le armi acquistate con i loro denari.
La presenza di ingenti canali di finanziamento privato permetterebbe infatti ai gruppi più oltranzisti di continuare a combattere rifiutando ogni intesa diplomatica raggiunta a livello internazionale. E in parte questo si sta già avverando, con la frantumazione dell’opposizione armata e il progressivo isolamento della sua componente più laica.
Domanda: qualcuno ammetterà mai le proprie colpe? E, soprattutto, nelle grandi cancellerie dei Paesi occidentali – a cominciare ovviamente dagli Stati Uniti – qualcuno avrà capito la lezione? Dodici anni di clamorosi errori strategici sono trascorsi invano?
DonSa
Un jihadista adottato con 2.550 dollari, in preghiera. |
Le fonti del post sono tratte dall’articolo di Eugenio Dacrema www.linkiesta.it
http://www.papaboys.org/siria-finanzia-col-tuo-denaro-la-jihad/