AVVENIRE martedì 17 ottobre 2012 - di Lucia Capuzzi
È possibile costruire la pace in Siria?
Una cosa è certa: non è possibile andare avanti così. Abbiamo visto che con le armi non arriviamo a niente. È giunto il momento di trovare un’altra strategia. Mussalaha funziona: lo abbiamo visto a livello locale. Attraverso il dialogo e la riconciliazione si riescono a ricomporre i conflitti nei villaggi. Sarebbe ora di riproporre la medesima strategia a livello nazionale.
L’escalation di violenza si fa di giorno in giorno più feroce...
Spesso, media e analisti parlano di guerra civile siriana. Nel mio Paese, in realtà, non c’è un conflitto, c’è il caos. Perché non ci sono due parti in lotta, ma una serie di gruppi con interessi diversi e spesso contrapposti. L’opposizione non è movimento unico. Ai dissidenti si uniscono spesso bande armate che approfittano della situazione confusa per regolare vecchi conti, saccheggiare villaggi, attuare vendette. A farne le spese sono i civili, intrappolati nei combattimenti. I cristiani, che sono le vittime più fragili in quanto minoranza, stanno affrontando indicibili sofferenze.
Può fare qualche esempio?
Una degli ultimi casi è avvenuto a in un sobborgo di Damasco. Gruppi armati si sono presentati e hanno intimato alla popolazione – quasi tutta cristiana – il pagamento di 25mila dollari al mese. Una cifra enorme per chi sta perdendo tutto a causa degli scontri.
Che cosa sta facendo la Chiesa per assistere la popolazione?
La Chiesa cerca di stare il più possibile accanto alla gente. A tutti, cristiani e musulmani, ribelli e filo-governativi. La Chiesa non propende per nessuna parte politica ma cerca di difendere la popolazione dagli abusi. Per questo, pur con pochi mezzi, distribuiamo cibo e aiuti, accogliamo gli sfollati interni, che sono tantissimi. E promuoviamo il dialogo. Con la violenza non si mette fine alla violenza. Noi siriani dobbiamo spezzare questo circolo vizioso.
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Il soffio della speranza
Mons. Jeanbart (Aleppo) sulla visita della delegazione inviata da Benedetto XVI
SIR 17 ottobre 2012Eccellenza, che significato assume l’arrivo di una delegazione apostolica di alto profilo in Siria, in questo momento?“Si tratta di una bellissima notizia che ci procura gioia e consolazione. Ma il suo significato non è solo pastorale ma anche sociale e politico. I componenti della delegazione, infatti, potranno rendersi conto di quanto veramente sta accadendo in Siria e che i media non riportano sempre correttamente. Le forze armate del Governo si sono macchiate certamente di abusi, violenze e di comportamenti dittatoriali, non tanto quanto i ribelli e i terroristi appartenenti a movimenti fondamentalisti. Sono più numerosi i combattenti stranieri che quelli siriani dell’esercito siriano libero. Sono centinaia i gruppi combattenti mercenari arrivati dall’estero”.
Può essere un’occasione utile anche per portare avanti una “missione di pace”?
“È quello che tutti speriamo. L’auspicio è che la delegazione del Papa, di alto profilo visti i nomi che la compongono, possa incoraggiare governo e opposizione ad accettare il dialogo arrivando anche a un compromesso. Sarebbe importante per porre fine alle violenze. Solo cinque giorni fa il nostro arcivescovado è stato bombardato dai ribelli con razzi katiuscia. Io e il mio vicario generale ci siamo salvati per miracolo, mentre un mio sacerdote è rimasto gravemente ferito e ora si trova in Libano per le cure del caso. La paura cresce ogni giorno di più. Non credo sia questo il modo di liberare un Paese, per me è terrorismo”.
Qualcosa però sembra muoversi: il governo siriano sarebbe pronto a valutare l’eventualità di una tregua militare per la festa del sacrificio, che inizia il 26 ottobre. Cosa ne pensa?
“Una cosa molto importante, purché non sia l’occasione per l’opposizione di riorganizzarsi e armarsi. L’intenzione del governo di valutare un simile atto è positiva. Spero si faccia. La situazione è delicata, mi auguro che l’opposizione possa rendersi conto di questo e trovare un accordo”.
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