di Daniele
Rocchi, 27 giugno 2017
“Siamo
in un periodo di cambiamenti epocali. Non sappiamo come sarà il
Medio Oriente del futuro. In Terra Santa la situazione è bloccata,
non ci sono negoziati in corso ma solo la politica dei fatti compiuti
sul terreno. Da una parte, Israele che si sente il più forte e,
dall’altra, i palestinesi, deboli e divisi. L’Isis fisicamente
non è presente in Terra Santa, lo è invece la sua ideologia
estremista. Cresce l’estremismo anche tra gli ebrei e cresce la
preoccupazione tra le minoranze, soprattutto tra i cristiani”. Ad
un anno dalla sua nomina, 24 giugno 2016, ad amministratore
apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista
Pizzaballa,
già custode di Terra Santa, traccia un bilancio del suo mandato
allargando lo sguardo a tutto il Medio Oriente e lanciando un appello
a oltre 200 giornalisti cattolici riuniti nei giorni scorsi in un
meeting nazionale a Grottammare
“Il
Medio Oriente – dice mons. Pizzaballa – non sarà più lo stesso.
Ci vorranno generazioni per ricostruire le infrastrutture ma
soprattutto un tessuto sociale stabile e solido. La guerra in Siria e
in Iraq ha fatto saltare tutto, compresi i rapporti tra le diverse
comunità. Città come Aleppo, in Siria, i villaggi cristiani della
Piani di Ninive, un tempo occupati da Isis, sono in larga parte
distrutti. A Betlemme, nel 2016, sono emigrate circa 130 famiglie
cristiane, 500 persone, tutte con figli in cerca di un futuro
migliore”.
Mons.
Pizzaballa, qual è oggi il tratto più distintivo delle comunità
cristiane mediorientali?
La
grande testimonianza. È vero, molti sono partiti, ma chi è
rimasto testimonia la sua fede non nel chiuso della propria casa ma
aiutando anziani, bambini, disabili, rifugiati, incontrandosi per
pregare. Sono rimasto colpito dai giovani cristiani di Aleppo, che a
sprezzo del pericolo distribuivano acqua a chi aveva bisogno, ricordo
famiglie cristiane di villaggi siriani controllati da Al Nusra, che,
ben sapendo che nell’islam l’alcool è bandito, nascondevano il
vino per la messa nelle case per poter celebrare la messa. E come non
citare il grande impegno dei cristiani di Giordania e Libano
nell’accoglienza dei rifugiati di Siria e Iraq. In Israele oggi
vivono 125mila cristiani, 11mila abitano a Gerusalemme, in Palestina
appena 40mila. Questi sono i numeri. Tuttavia sono convinto che
il
cristianesimo in Medio Oriente non sparirà. La nostra forza non è
nei numeri ma nella testimonianza.
Da un
anno è amministratore apostolico del Patriarcato Latino di
Gerusalemme, quale bilancio può tracciare e quanto pensa potrà
durare ancora il suo incarico?
È stato
un anno molto difficile.
Stiamo
vivendo un tempo di transizione ed è impensabile credere che le
crisi epocali che stanno segnando il Medio Oriente non tocchino anche
la Chiesa. Non c’è una Chiesa in tutto il Medio Oriente che sia in
ordine.
E non
parlo solo di quelle cattoliche. Per quanto mi riguarda i problemi
del Patriarcato latino sono di due generi: di vita ecclesiastica
interna e di tipo economico, debiti tanto per essere chiari. In
questo primo anno ho lavorato molto con i preti incontrandoli, uno ad
uno, nelle loro case, per capire e ascoltare. Nei giorni scorsi due
terzi dei sacerdoti sono stati spostati, vescovi inclusi. Ora, dopo
un anno, le tensioni si sono sciolte. La sfida è andare
avanti in questa direzione e pagare i debiti. Nessuno ci darà i
soldi pertanto dovremo vendere alcuni “asset”. Ne verremo a capo
certamente. Quanto durerà il mio incarico? Non ne ho idea.
La figura di amministratore non può durare in eterno. Ho fatto un
anno, forse ne prevedo un altro. Il mio compito è preparare le
condizioni perché il futuro Patriarca possa operare in un contesto
interno di serenità.
La
stessa serenità che manca a tutta la Terra Santa a causa del
conflitto ancora aperto, per non parlare del muro di separazione,
dell’occupazione militare, delle colonie. La tanto auspicata
soluzione “Due popoli, due Stati” è forse tramontata?
Per
quanto riguarda il negoziato siamo molto lontani da questo obiettivo.
Come cristiani dobbiamo tenere viva l’attenzione sulla necessità
del dialogo. Tecnicamente la Soluzione “due popoli due stati” è
molto complicata, ma non vedo alternative possibili.
Il
muro è una ferita profonda nella storia, nella geografia e nella
vita del Paese.
Oggi non
se ne parla più anche nell’opinione pubblica. Sembra quasi
digerito. Ma non dobbiamo continuare a fingere che la ferita non ci
sia. Il nostro compito è quello di parlarne, in maniera chiara e
rispettosa, non faziosa. Le colonie e i confini sono un problema,
insieme allo status di Gerusalemme. La versione definitiva dei
confini tra i due Stati e la rimozione (o meno) delle colonie è uno
degli argomenti più dolorosi della crisi poiché influisce sulla
vita dei territori in modo pesante soprattutto sui palestinesi.
Qualunque Governo farà molta fatica a cambiare la situazione sul
territorio anche per i costi, umani, sociali, economici. Tutto ciò
rende lontana una prospettiva futura stabile.
Gerusalemme:
la Città Santa sta subendo una progressiva ebraicizzazione. Si
tratta di un nodo difficile da sciogliere che non può vedere i
cristiani fare solo da testimoni…
Il
futuro di Gerusalemme viene deciso oggi: chi compra decide.
Se
compreranno i musulmani ci saranno musulmani, se comprano gli ebrei
ci saranno ebrei, difficile che ci saranno cristiani. Non abbiamo le
possibilità e le risorse per competere in questo contesto. A suo
tempo come Custodia ci spendemmo molto per edificare 80 appartamenti,
permessi, burocrazia lenta, ostacoli di ogni tipo. Oggi con un
decreto se ne costruiscono 8.000. Ma è fuori discussione che il
carattere di Gerusalemme è universale. La città deve
garantire costituzionalmente libertà di accesso, di movimento, di
azione, di espressione a tutte le comunità, a prescindere dai loro
numeri.
Gerusalemme,
città aperta?
Certamente.
Non spetta alla Chiesa, alla Santa Sede, stabilire i confini. Su
questo devono mettersi d’accordo le parti in lotta. Noi abbiamo il
dovere di dire i criteri per definire l’assetto futuro della città.
I criteri sono che tutti
hanno uguale cittadinanza.
Ciò
significa avere tutti gli stessi diritti. Quando si parla del futuro
di Gerusalemme i riferimenti sono solo a ebrei e musulmani, i
cristiani non sono tenuti molto presenti. Vero anche che negli ultimi
15-20 anni non ricordo un solo discorso della Chiesa cattolica su
Gerusalemme. Protestanti e ortodossi sono molto più presenti
di noi nel dibattere la questione della Città Santa. Sarebbe
importante invece dire una parola a riguardo.
Che
impatto avrebbe sulla situazione l’eventuale scelta di Trump di
trasferire l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme?
Sarebbe
come mettere un cerino dentro una tanica di benzina.
Prima
invocava il tema della cittadinanza come uno dei criteri per definire
gli assetti futuri di Gerusalemme. Per quale motivo?
È la
sfida del futuro. La comunità internazionale deve prestare molta
attenzione a questo tema soprattutto adesso, preoccupandosi non solo
del business della ricostruzione del Medio Oriente ma anche di far sì
che si ricostruiscano Legislazioni e Costituzioni.
Il
diritto di cittadinanza è determinante, per
questo, credo che gli aiuti debbano essere condizionati al suo
rispetto: tutti i cittadini sono uguali.
Non
si creino riserve indiane per cristiani, sunniti, sciiti, yazidi,
curdi e via dicendo. Il modello di convivenza in Medio Oriente,
basato su identità tra fede e comunità, oggi è fallito. La
convivenza deve basarsi su altre prospettive. Il tema è la
cittadinanza e non la laicità positiva che non esiste in Medio
Oriente.
Cittadini,
curdi, yazidi, cristiani, sunniti, sciti, turcomanni, tutti con gli
stessi diritti, libertà di coscienza in primis. Ricostruire il Medio
Oriente senza inquadrare questi aspetti sarebbe un fallimento e
l’anticamera delle crisi future. Su questo noi cristiani dobbiamo
lavorare e insistere. La presenza cristiana obbliga tutte le società
in Medio Oriente, e le relative maggioranze islamiche, a interrogarsi
su questo aspetto da una prospettiva diversa che non è quella
musulmana.
Come
sono invece i rapporti tra la Chiesa e Israele?
Ci sono
due aspetti da considerare: quello del negoziato tra Stato di Israele
e Santa Sede e quello della vita ordinaria della Chiesa locale.
Circa il
concordato che definirà dal punto di vista legale il futuro della
Chiesa in Israele, esso è in dirittura d’arrivo. La firma potrebbe
arrivare entro quest’anno. Poi bisognerà interpretare l’accordo.
Per
quel che riguarda la vita ordinaria della Chiesa locale non c’è
alcun atteggiamento di Israele. Praticamente non esistiamo. Guardiamo
alle scuole: si concedono contributi agli istituti privati meno che a
quelli cristiani e, comunque sia, sempre in misura minore che in
passato. Come cristiani dobbiamo essere più presenti nel territorio,
non possiamo solo lamentarci.
Compito
della Chiesa è costruire relazioni sempre più positive con Israele
per far capire che siamo una realtà del territorio con cui devono
fare i conti. Purtroppo molto spesso le scelte che vengono fatte non
ci tengono in nessuna considerazione.
Da tempo
i pellegrinaggi sono in calo, complici anche le tensioni in Medio
Oriente che allungano ombre sulla sicurezza dei fedeli. Cosa fare per
rilanciarli?
La Terra
Santa è sicura. I pellegrinaggi sono un sostegno ai cristiani locali
perché portano lavoro. Sarebbe utile che i
vescovi italiani prendessero a cuore il pellegrinaggio in Terra Santa
magari lanciando una sorta di campagna nazionale come accadde nel
2000.
Oltre al
pellegrinaggio quale altro strumento può rivelarsi utile per
sostenere la Terra Santa e i suoi cristiani?
La
comunicazione. Ai giornalisti dico: continuate a parlare di
Gerusalemme e della Terra Santa, non solo attraverso la lente del
conflitto e delle tensioni ma raccontando le cose belle che ci sono.
Venite in Terra Santa.
Non
c’è evangelizzazione senza comunicazione. E l’evangelizzazione
non può prescindere da Gerusalemme.
Non si
può parlare di Cristo senza parlare dei Luoghi dove ha vissuto e
dove la sua comunità ne custodisce la memoria. Mostrate che in ogni
situazione, anche la peggiore, c’è sempre una luce, per quanto
piccola, da cui ripartire.
Raccontate
le occasioni di incontro, di dialogo, che in un contesto così
drammatico dimostrano che non è tutto odio, rancore, guerra e armi.