Il parlamentare siriano Fares Shehabi ha twittato le fotografie di quattro bambini rapiti dai terroristi Idlib dal quartiere di Zirbeh; rapimenti di giovani da parte dei jihadisti di Idlib erano iniziati alcune settimane fa, erano giovani accusati di voler aderire al processo di riconciliazione. I rapimenti sono aumentati negli ultimi 10 giorni e si sono espansi in villaggi della provincia di Aleppo, e in campi di sfollati vicino al confine con la Turchia. I bambini vengono rapiti da questi campi: da una stessa famiglia, sono stati prelevati 3 bambini. Il timore è che i bimbi verranno utilizzati per inscenare il prossimo false flag con immagini di bambini 'gasati dalle armi chimiche di Assad'...
Piccole Note, 28 agosto 2018
John Bolton quattro giorni fa ammoniva il suo omologo russo: se Assad userà armi chimiche, gli Stati Uniti risponderanno attaccando la Siria.
Ancora le armi chimiche…
Un monito che arrivava alla vigilia della battaglia di Idlib, ultima area della Siria (insieme al cantone curdo di Afrin) in mano alle forze anti-Assad, che Damasco vuol riportare sotto il suo controllo. Monito strano, ché non c’è alcuna ragione per cui Assad debba usare armi chimiche, stante che è l’unico modo per attirarsi contro le bombe degli Stati Uniti. Peraltro proprio ora che ha tutta la forza per portare a compimento quanto si propone, dato che può scagliare contro Idlib tutto il potenziale militare, ormai libero da altre incombenze,
Il 25 agosto i russi hanno risposto allarmati al Consigliere per la sicurezza Usa. Il portavoce del ministero della Difesa russo, Igor Konashenkov, ha dichiarato che il gruppo jihadista Hayat Tahrir al-Sham (al Qaeda) sta “preparando un’altra provocazione attraverso l’uso di armi chimiche contro la popolazione civile della provincia di Idlib da attribuirsi alle forze governative siriane”. E ha specificato che sono stati portati “otto barili di cloro” nel villaggio di Jisr al-Shughur per “mettere in scena” l’attacco. Inoltre ha specificato che ad aiutare i miliziani jihadisti sarebbe “la compagnia militare britannica Oliva”, che avrebbe inviato in loco personale addestrato allo scopo.
Di navi da guerra e allarmi
A seguito delle accuse incrociate per la Siria, e per il mondo, è scattato l’allarme rosso. Un incrociatore Usa armato di missili tomahawk si sta dirigendo verso la Siria. Mossa alla quale i russi hanno risposto inviando precipitosamente al largo delle coste siriane una vera e propria flotta, mentre Damasco ha diramato l’allerta generale. Ciò avviene mentre Teheran e Damasco siglano un accordo di cooperazione militare, che ha come conseguenza diretta che le milizie iraniane dislocate in Siria vi resteranno. Uno sviluppo del tutto indigesto a Tel Aviv, stante che da tempo Israele chiede il ritiro di tali milizie dal Paese confinante.
Insomma, improvvisamente la Siria è tornata nel mirino dell’Occidente. Cosa inattesa anche perché a metà agosto Trump aveva tagliato i fondi ai ribelli siriani, cosa che sembrava confermare le sue dichiarazioni sul disimpegno Usa dalla regione. Tutto ribaltato? Vedremo se l’allarme, che è reale, resterà tale o è preludio a una tempesta settembrina. Da notare che Idlib è controllata da milizie legate ad al Qaeda, alle quali si sono sottomesse le bande minori presenti nell’area.
Sono quelli delle Torri gemelle e di altre stragi consumate in terre d’Occidente. E l’Occidente si appresta a difenderli “dall’aggressore siriano”.
Siria: piano B
Se qualcosa non vi quadra potete stare tranquilli: non è uno scherzo di cattivo gusto. È la follia neocon, che fa il paio con quella dei sanguinari terroristi che controllano Idlib.
Ciò avviene mentre si appresta, come scritto, la battaglia finale per Idlib, inevitabile dal momento che ad oggi la Turchia ha respinto ogni tentativo di risoluzione diplomatica della crisi. A quanto pare quanti hanno elaborato il regime-change siriano non si rassegnano.
Fallito il piano A resta il piano B: fare della Siria una nazione preda di una destabilizzazione permanente, ché tale sarebbe il destino del Paese se una regione restasse sotto il controllo del Terrore. E pur di non far evaporare anche questa seconda opzione sono pronti a rischiare una possibile escalation Usa-Russia, perché tale è la sfida lanciata da Bolton, che piuttosto che a Damasco, come avrebbe dovuto, si è rivolto al suo omologo moscovita.
Vedremo gli sviluppi. Oggi registriamo che l’Agenzia stampa ufficiale turca, Anadolu, non cita minimamente la criticità che pure interessa non poco Ankara. Segno che, nel segreto, fervono trattative. Speriamo.
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martedì 28 agosto 2018
Idlib: la posta in gioco
mercoledì 22 agosto 2018
Siria, storie di ricostruzione. Ad Azeir, il solare solidale delle Monache Trappiste per il futuro di tutti
Storie
siriane 2018 (4)
raccolte
da Marinella Correggia
Dalle
torce nelle mani dei bambini sfollati a Jibreen ai semafori nelle
strade di Aleppo; dalle luci installate nel giardino del museo
archeologico di Damasco ai pannelli spuntati sui tetti dei palazzi
rimasti in piedi a Kafarbatna nella Ghouta orientale: il futuro della
Siria si presenta solare. Almeno nel senso dell'energia fotovoltaica
e termica.
E
le monache trappiste di Azeir, un villaggio a metà strada fra Homs e
Tartous, hanno avviato un progetto pilota di notevoli dimensioni
(1700
pannelli,
pari
a 40 kw per il pozzo e 40 Kw per lavoro e vita quotidiana di potenza
installata),
all'insegna, come vedremo, dell'autonomia energetica solidale.
Ecco in questo video
Ecco in questo video
su un pianoro in collina, file e file di pannelli solari recentemente installati nei pressi del monastero da tecnici siriani.
La
superiora, suor Marta, racconta dal monastero siriano questa storia che
incrocia tecnologia e volontà, doni di materiali dall'estero e
lavoro di tecnici e operai siriani. Ma prima, una premessa di
contesto.
Le
verità di parte, la volontà di vita, la ricostruzione dell'umano
«Di
questa guerra in Siria si sono fatte conoscere approfonditamente
tutte le atrocità, le violenze, le distruzioni, come è giusto che
sia. Anche se purtroppo, come abbiamo detto in altre occasioni, la
“verità” viene presentata sempre con una faccia sola- cosa che
non è MAI vera- e guarda caso la faccia presentata è quella che più
conviene agli interessi esterni al paese, interessi che muovono ogni
pedina, come su una tragica scacchiera…. Ciò di cui invece si
parla pochissimo è tutta la forza di resistenza, la volontà di vita
dei siriani, il quotidiano che faticosamente continua, e non solo per
fatalismo…E tutto il lavoro di ricostruzione, nel campo materiale
ma anche ricostruzione “dell’umano”.
Il
nostro progetto sull’energia rinnovabile - suggerito, per essere
onesti, dalla disponibilità di questo grosso dono- viene soprattutto
dal desiderio di costruire per il futuro, più ancora che dalla
necessità di far fronte alle difficoltà dell’immediato.
Prima
di tutto, da ormai tre anni a questa parte, cioè da quando il
conflitto ha cominciato poco a poco a prendere una svolta più decisa
verso la messa in sicurezza di ampi territori, il numero degli ospiti
che accogliamo al monastero, pur con le nostra strutture limitate,
aumenta ogni mese.
Persone
che vengono da città e villaggi più vicini, come Homs e Tartous, ma
anche da Damasco, da Aleppo…Ospiti del monastero che cercano un
luogo di silenzio, di preghiera, di pace, per ritrovare se stessi
davanti a Dio.
Quindi
abbiamo bisogno di luce, acqua, di poter coltivare la terra…sempre
più. E poi ci sembra importante fare progetti per il futuro: tutti
hanno bisogno di lavoro, gli uomini, i giovani, ma anche tante donne
rimaste sole a portare il peso dei figli e sovente anche dei
familiari più anziani. Ma come creare un lavoro che abbia un
rendimento, se il costo dell’elettricità azzera ogni guadagno?
Forse le imprese più grandi riescono ad essere competitive, anche
con la guerra, ma per le piccole imprese è molto difficile. Noi
abbiamo bisogno come monastero di crearci un lavoro per vivere, e
così tante donne dei nostri villaggi. Non potremo fare moltissimo,
ma almeno dare lavoro a qualche famiglia sì…e se si incomincia,
altri saranno incoraggiati a fare lo stesso, a cercare soluzioni
possibili e creative…Questa è stata l’idea che ci ha mosso.»
Un
progetto pilota di fronte alla penuria di guerra
Continua
la superiora: «Un'azienda
internazionale offriva gratuitamente pannelli nuovi in grande
quantità, di ottima qualità ma non di nuova generazione. Era stato
indetto una specie di “bando di concorso”. Un nostro amico in
Italia presentò un progetto per l'autosufficienza del monastero e
per l’aiuto a qualche realtà locale. All'epoca
la
nostra zona era già stata messa in sicurezza, ma ciò non significa
che non si soffrissero le condizioni della guerra: in particolare
l’elettricità, se eravamo fortunate, veniva per una/due ore al
giorno…a volte meno…Quindi i disagi erano tanti,
e oltretutto il costo elevato dell'elettricità ci impediva di
avviare in modo deciso le nostre attività (ad esempio con le candele
e i biscotti) e ancor più di coinvolgere la gente del villaggio,
soprattutto le donne del villaggio che chiedono lavoro. L'elettricità
dal sole ci avrebbe permesso anche di pagare meno i costi per
l'irrigazione - relativi alla pompa del pozzo -, e di pensare
all'avvenire in generale».
Il
progetto viene accettato. Inizia l'impegno per risolvere i problemi
burocratici relativi all'importazione, soprattutto a causa delle
sanzioni occidentali alla Siria. Alla fine, con l’aiuto delle
autorità civili e portuali, arrivano tre container di pannelli.
Alcuni benefattori dall’Italia aiutano il monastero per le spese di
trasporto.
Giovani
ingegneri siriani molto preparati
A
quel punto, prosegue suor Marta, «ci
siamo rivolte per l'installazione a diversi professionisti,
scegliendo alla fine una ditta di Damasco. Va detto che il settore
delle rinnovabili prende sempre più piede qui in Siria».
Il lavoro ha visto la preparazione del terreno da parte di operai
locali e il controllo e la direzione degli ingegneri di Damasco: «Ci
siamo trovate benissimo, hanno lavorato in modo eccellente, con
attenzione e precisione. Sono tutti giovani ingegneri molto
preparati, e questo per loro è diventato un po' un progetto
esemplare, una pubblicità per un settore che si sta sviluppando. E'
difficile che qualcuno abbia la possibilità di investire in
un'attività di queste dimensioni».
Appunto.
La decisione di accettare il dono dei pannelli non è stata presa con
disinvoltura: «I
pannelli di ultima generazione producono tre volte più energia, a
parità di superficie, rispetto a quelli che ci venivano offerti.
Quindi il costo dell'installazione poteva essere un deterrente. Ma al
tempo stesso, gli ingegneri che abbiamo consultato, in Italia e qui -
e soprattutto quelli di qui, che conoscono la situazione-, ci hanno
spiegato che si trattava di un'occasione unica, poiché, a causa
delle sanzioni , in Siria si possono trovare solo pannelli in
silicone, o comunque di bassa qualità- che dopo poco tempo si
opacizzano e perdono in efficienza. Quelli che ci hanno offerto sono
invece in vetro, di ottima qualità, di lunga durata e di resa
perfetta: per studiare il progetto, gli ingegneri hanno realizzato
un'installazione di prova, con otto pannelli, misurandone la
produzione di energia nelle varie situazioni. Hanno potuto così
constatare che la resa dichiarata corrisponde perfettamente a quella
effettiva. Questo ha permesso uno studio davvero attento di consumi e
alternanze fra parti dell’impianto supportate da batterie e parti a
sola energia diurna. Dunque, il progetto era reso vantaggioso
dall'efficienza e dalla durata prevista dei pannelli, oltre
naturalmente alla loro gratuità».
Fiat
lux! per il monastero....
Gli
effetti sono chiari come il sole: «Da
un mesetto abbiamo elettricità continua, il pozzo (che
rappresentava uno dei consumi più alti in termini di energia)
si
è reso indipendente già
da prima. In
casa abbiamo energia sufficiente giorno e notte grazie alle batterie.
Questa situazione ci permette finalmente di pensare anche ad attività
lavorative per noi e il villaggio».
...e
presto per il pozzo del villaggio e per l'ospedale di
Talkalakh
Lo
stock di pannelli solari era decisamente superiore alle necessità
del monastero: «Così
abbiamo intenzione di fornire elettricità al pozzo del villaggio
cristiano, il nostro villaggio; e di donare una parte significatica
di pannelli all'ospedale di Talkalakh,
il capoluogo della nostra regione nella provincia di Homs. E' una
zona mista, con sunniti, alauiti e cristiani, e l'ospedale è quello
dei poveri, serve proprio tutti (anche noi) in modo gratuito. Ma ha
risentito delle restrizioni della guerra. Il fotovoltaico darebbe
energia a una sala operatoria, al pronto soccorso e alle incubatrici,
insomma una certa autonomia».
Le
trappiste sottolineano la bravura, il coraggio, la volontà di chi è
rimasto in Siria e magari si è laureato durante gli orribili anni di
guerra: «La
nuova generazione di ingegneri rivela una grande precisione nel
lavoro. Chi è rimasto ha professionalità e voglia di fare, con
materiali nuovi e tecniche nuove. Naturalmente fra i problemi ci sono
le sanzioni. Ad esempio i nostri ingegneri che hanno contatti con
l'Italia, per aggiornarsi, hanno avuto problemi di visto; ed è
complicato portare il materiale. Comunque il settore è in piena
espansione. A Damasco si susseguono le fiere di settore, dove si
presentano i materiali e progetti più innovativi.»
Decisamente
la ripresa va avanti.
D'accordo,
pannelli e batterie sono stati regalati. Ma il monastero delle
trappiste ha affrontato spese ingenti per il trasporto e
l'installazione, da parte di tecnici e maestranze interamente
siriani.
Per
rifornire il pozzo del villaggio, il progetto è pronto e «con
l'aiuto del vescovo latino padre
George
Abou Khazen
e di alcune organizzazioni abbiamo trovato quasi metà della cifra
necessaria».
Metà…
Anche
per l'ospedale, dice Marta, «il
progetto è pronto e stiamo prendendo contatti: regaliamo tutta
l'attrezzatura ma non possiamo coprire le spese di installazione.
Pensiamo di coinvolgere il Ministero Siriano della Salute, proponendo
la nostra offerta di pannelli, ma se ci arrivassero fondi...»
...sarebbero
di grande aiuto. Al monastero, al villaggio. Alla Siria.
Per
contribuire al finanziamento di questo grande progetto di 'solare
solidale' si possono effettuare versamenti qui:
https://www.nostrasignoradellapace.it/donations/donazione-per-i-progetti-in-siria/
venerdì 17 agosto 2018
Le donne della Siria e la loro resistenza quotidiana
Storie siriane 2018 (3)
raccolte da Marinella Correggia
ordine.laprovincia.it/ 5 agosto 2018
Samarcanda,
la canzone di Roberto Vecchioni, sembra ispirata dalla storia che Om
Ahmad sta
raccontando. Robusta, foulard a fiori in testa e abito nero, seduta
sui cuscini che fungono da divano nello spoglio appartamento
affittato nel quartiere Masaken Barzeh, spiega che lei, il marito
meccanico e i loro tre figli maschi vivevano a Douma, l’area più
tradizionalista della regione Ghouta orientale. «Oltre
cinque anni fa, mentre diverse formazioni di musallahin
-
gruppi
armati islamisti, ndr –
stavano arrivando a controllare l’area, chiudemmo casa e arrivammo
qui a Damasco, dove avevamo conoscenze».
Guarda
il suo secondogenito Rabee, sedici anni, in carrozzella.
«Un
giorno di tre anni fa, lui e mio marito erano nel garage…. che fu
centrato da uno dei missili che colpivano Damasco partendo proprio
dall’area che ci eravamo lasciati alle spalle».
Letale: il padre di Rabee morì nell’esplosione, e al ragazzo
dovettero amputare le gambe maciullate. Tirano avanti con aiuti
pubblici e privati. Rabee va a infilarsi le gambe. Con le protesi
cammina, ma solo aiutato dal girello: l’amputazione è avvenuta al
di sopra delle articolazioni. Ahmed mostra sul cellulare la loro casa
a Douma («ci
hanno detto che adesso è distrutta»),
mentre sua madre dice: «Ho
un unico desiderio ormai: che mio figlio possa avere le protesi
migliori».
E’ probabilmente il sogno di 30.000 amputati di guerra, in Siria.
Ma
le donne rimaste a Douma
come hanno vissuto gli ultimi mesi di scontri acerrimi fra esercito
siriano da una parte e la galassia islamista dall’altra? Dove
vivono adesso, visto che così tanti palazzi bombardati sono
inabitabili? La nostra visita insieme a Sulaf
Maki,
giovane siro-sudanese studentessa di cinema impegnata in interviste
tutte al femminile in giro per il paese, è stata troppo breve per
convincere a parlare almeno una di quelle figure oscure incrociate
per strada sotto un sole cocente davvero inadatto alla loro mise:
cappotti neri e volto, testa, collo, spalle, talvolta anche gli occhi
coperti da stoffe ugualmente nere. Nemmeno le poche infermiere di un
ospedale hanno voluto parlare, forse intimorite dalla macchina da
presa. Forse molti mariti e figli di queste figure mute combattevano
insieme agli islamisti. Ma adesso il governo ricontrolla l’area e
nessuno lo ammetterebbe. Chi è rimasto ha accettato di deporre le
armi nella cosiddetta riconciliazione. Nondimeno, differenze e
diffidenze rimarranno a lungo.
Samar
è fra quei 150.000-200.000 abitanti (sul milione e mezzo
dell’anteguerra) a non essersi mai mossi dalla Ghouta orientale,
ampia area agricola. Vive nella cittadina di Kafarbatna ed è moglie
di un agricoltore i cui terreni hanno continuato a produrre
ortofrutta e legumi durante la guerra, pur pagando pesanti tangenti
in natura ai gruppi armati. Samar ricorda i rischi degli ultimi mesi
di guerra: «Ecco,
lì, quell’edificio distrutto proprio dall’altra parte della
strada, era occupato dai
musallahin,
l’aviazione lo ha bombardato. Quel giorno ci siamo rifugiati in
cantina, ma non abbiamo voluto andare via».
I gruppi islamisti che lei chiama «terroristi
occupanti»
lasciavano a stecchetto la popolazione: «Una
volta che sono andati via, si è scoperto che avevano i magazzini
pieni degli aiuti alimentari e medici arrivati da fuori Ghouta».
Ora nell’area e nei campi degli sfollati si susseguono racconti
così, opposti a quelli di chi denunciava un assedio affamante e
bombardamenti indiscriminati da parte del governo siriano. Ma in
guerra la narrazione è polarizzata.
Per
la video intervista, Samar ha indossato il niqab,
che lascia vedere solo gli occhi. Impossibile non confrontarla con la
donna dietro la telecamera: Sulaf, che sopra i pantaloni e la casacca
di maglina lunga porta il velo hijab
a coprire testa e collo, «ma
sono del tutto laica, lo faccio solo perché mia madre mi ci obbliga,
finché non sarò economicamente indipendente, poi basta…». Disapprova sia le donne murate di Ghouta sia quelle ragazze che a
Damasco mettono il velo su magliette iper-aderenti con biancheria
imbottita e fuseaux. E sgrana gli occhi a una scena che dal bus
intravvede su un marciapiede della capitale: un’ombra alta e
imponete in nero totale, con guanti pure neri e due strette feritoie
nel niqab.
Cosa avrà mai risposto all’uomo male in arnese che le chiedeva non
si sa che?
Portano
l’hijab
e lunghi soprabiti neri anche donne che nemmeno fanno il ramadan
(il
digiuno religioso dall’alba al tramonto, un mese all’anno). Come
Sarah
el Hawi, panettiera
nel quartiere damasceno di Jaramana; con la
famiglia
ha lasciato anni fa l’area di Deir Ezzor per sfuggire all’arrivo
di gruppi islamisti. O come donne appartenenti a gruppi politici
progressisti: Rabab
Sweid
del Fronte popolare per la liberazione della Palestinavive e milita
nel quartiere Rock Eddin sulle alture intorno a Damasco, insieme a
cinquemila palestinesi fuggiti negli anni dal campo di Yarmouk, a
lungo controllato prima da islamisti e poi da cellule dello Stato
islamico. Ma «mi
pare indiscreto parlarle dei suoi abiti; forse le servono a essere
accettata, in una comunità tradizionale»
fa notare la giovane economista agraria Dima
Hasan
che nel tempo libero fa volontariato presso gli sfollati.
Ventinovenne, capelli corvini e abbigliamento tranquillo privo di
eccessi, Dima abita
da sola a Damasco, in un seminterrato nel quartiere Bab Tuma,
popolato da molti cristiani: «Sono
nata e cresciuta nella regione di Tartous, in un villaggio sul mare;
i miei primi e in fondo unici contatti con gli islamisti sono stati i
missili lanciati da Ghouta e Jobar, la capitale ne è stata
bersagliata dal 2012 a pochi mesi fa.»
La
guerra ha coinvolto in modo ben più pesante Hayat
Awad,
madre di un soldato di leva ucciso anni fa a Deraa. A Homs dove vive,
percorre il quartiere Khalidia distrutto dagli scontri,
impolverandosi la camicia e i pantaloni neri del suo lutto
prolungato, e arriva nella via Share el Zon, dove la famiglia
Jabour è
tornata a casa. Erano partiti nel febbraio 2012 «perché
questo palazzo è proprio all’angolo con la cosiddetta via della
morte, una specie di linea di confine. Ecco là la carcassa di un
carro armato fatto esplodere due giorni dopo la nostra fuga, siamo
miracolati»
spiegano Norma
e
sua figlia Victoria.
I Jabour, per anni sfollati dai nonni in campagna, dal 2016 stanno
ricostruendo la parte superiore della casa, accampati intanto a
pianterreno. Il tetto per fortuna è a posto. Ricordano come
all’improvviso si ruppe la convivenza fra loro, cristiani, e i
vicini musulmani. «La
nostra casa fu poi occupata dai musallahin,
da qui sparavano contro l’esercito».
Ma adesso sono ottimisti. Victoria studia farmacia, «la
Siria era e tornerà a essere una grande produttrice di medicinali
con un buon servizio sanitario».
La
forza delle donne rimaste tenacemente in Siria è anche quella di
Naham,
studentessa ora reclutata in un ospedale pediatrico perché «almeno
il 30% dei medici del paese è andato all’estero e chi è rimasto
deve fare per tutti».
O di Bushra
Jawed,
irachena
di Nassirya. Da sola, nel 2007, lasciò l’Iraq preso fra l’incudine
dell’occupazione statunitense e il martello del crescente
terrorismo al qaedista. Come altre centinaia di migliaia di iracheni
trovò asilo nell’allora tranquilla Damasco, nel quartiere Jaramana
dove aprì un ristorantino. Dopo il 2011, «questo
quartiere è stato bersagliato dai missili dei terroristi, ne ho
vista morire di gente»,
dice senza scomporsi mentre nella via stretta un’autobotte
rifornisce d’acqua il serbatoio del palazzo.
Il cammino verso la normalità è ancora lungo.
Il cammino verso la normalità è ancora lungo.
martedì 14 agosto 2018
Preghiera per la Siria, nostro amato paese
Signore Gesù Cristo, tu
che sei apparso al tuo discepolo Paolo nel cielo di Damasco, come sei
apparso in questa casa al tuo discepolo Anania, e hai donato loro il
tuo amore, la tua forza e la tua pace, per la loro intercessione ci
chiediamo di custodire la Siria, nostra patria, da ogni male.
Ti supplichiamo, per
intercessione di tua Madre, la Vergine Maria, la cui preghiera non è
mai respinta, di fare dono, a noi e a tutti i fratelli e le sorelle
di Siria, della grazia di una vera appartenenza a questa nostra
patria preziosa, così da essere sempre cittadini onesti, sinceri e
integri, per potere svolgere il nostro ruolo attivo nella costruzione
di questo nostro paese, che tu ha preso proprio come punto di
diffusione su tutta la terra della tua luce e del tuo amore.
Possa esso rimanere terra
di pace e amore, di fratellanza e di stabilità, e faro per tutto il
mondo.
AUGURIAMO BUONA FESTA DELLA ASSUNZIONE DI MARIA AL CIELO A TUTTI GLI AMICI DI ORA PRO SIRIA!
Prayer for our beloved country Syria
Lord Jesus Christ, who appeared to Paul
your apostle in the sky of Damascus, and appeared in this house to
your disciple Ananias. Just as you gave them your love, power and
peace, so we ask you, through their intercession to save our homeland
Syria from every evil.
We beseech you, through the
intercession of your mother, the Virgin Mary, tu whom you never
refused grace, to give us and to all our brothers and sisters of Syria,
the gift of affiliation to our precious homeland so that we would be
always righteous, honest, and pious citizens, and so that we would
play our part effectively in building this homeland which you made
the starting point for your light and love to the whole world.
May it remains the land of peace, love,
brotherhood and stability, that it would be a lighthouse to the
entire world.
Amen!
(Prayer posted on the door of the chapel of St.Ananias in the old city of Damascus)
giovedì 9 agosto 2018
La devozione sincera e visibile dei Siriani alla Vergine Maria
di
Nadine Zelhof - Aleteia- maggio 2018
Traduzione:
Gb.P.
Maggio
non è un mese come gli altri nelle chiese Orientali. La devozione a
Maria è più visibile del solito sia nella preghiera che nella vita
quotidiana. In Siria, tutte le sere di maggio, alle ore 17,45, si
sentono le campane delle chiese cattoliche di Damasco, Aleppo, Homs e
in molte altre città, chiamare alla preghiera mariana. Nelle chiese,
gli altari sono adornati con tovaglie bianche e blu e con fiori
naturali rinnovati ogni giorno. Le icone di Maria sono rivestite di
blu. La fragranza di molte varietà di fiori si diffonde nei santuari
decorati con mazzi di gelsomino, rosa damascena e persino gladioli.
Si tratta di abbellire la casa e offrire ciò che è più bello alla
Vergine Maria. Nelle parrocchie, la preghiera mariana inizia con la
meditazione del Rosario. Segue l'acclamazione della Vergine Maria con
molte canzoni che le sono dedicate. Qui, Maria è il modello della
fede e i fedeli accorrono numerosi a mettersi nelle sue dolci mani.
Padre Raafat, pastore della Chiesa di Nostra Signora di Damasco, lo
conferma: "La Vergine è la madre di Dio. Lei è per noi uomini
più che un'amica, una che ci comprende e comprende la nostra
situazione umana, i nostri mali e i nostri problemi. Le nostre lotte
tra il bene e il male. Lei è la luce nell'oscurità di questo mondo.
In Lei, Dio ha scelto di mettere in moto un nuovo mondo, siamo tutti
suoi figli. Così Lei veglia su di noi, come fa ogni madre ".
Padre
George, della Chiesa di San Cirillo, aggiunge: "In tutte le
preghiere e le messe, la Vergine Maria ha un posto speciale,
specialmente nel rito bizantino, adottato dalle chiese cattoliche
orientali. Ella trasmette immediatamente le nostre preghiere a
Cristo. E sant' Efrem lo espresse bene nell'anno 373, quando disse:
"Il giorno in cui Maria accettò la volontà di Dio, Ella
divenne il Cielo che porta Dio. In lei si sono compiute tutte le
parole dei profeti e dei giusti. Lei è la vite che ha portato il
grappolo. ". A maggio, in Siria, l'afflusso nei santuari
mariani è considerevole. Molti siti di pellegrinaggio attestano
l'antica devozione alla Vergine del popolo siriano.
Molte cattedrali
e chiese sono intitolate alla Vergine Madre di Dio, come la Madonna
di Soufanieh a Damasco o di Sednaya, santuario nella regione di
Damasco... Camminando
nella città vecchia di Damasco, il passante troverà molte piccole
cappellette dedicate a Maria nei vicoli o all'ingresso delle case.
"La
nostra arma per l'unione delle famiglie"
A
riprova dell'importanza della Vergine Maria per i cristiani
orientali, è frequente vedere un rosario attaccato allo specchietto
retrovisore delle macchine o all'ingresso di un appartamento. Molte
madri orientali, credenti, recitano il rosario in gruppi. Pregando il
Rosario, con la sua semplicità e profondità, i cristiani di Damasco
non intendono altro che contemplare con Maria il volto di Cristo.
Padre Raafat lo dice ogni giorno nei suoi sermoni: "Chi meglio
di Maria può trasmettere le nostre preghiere a Dio?”. Certamente,
il rosario è una preghiera ripetitiva. Ma è anche molto popolare.
Come padre Amer, parroco della Chiesa siro cattolica di Fatima,
sottolinea: "Tutte le azioni ripetute diventano tradizionali. In
tutte le liturgie, anche per la Messa, bisogna fare attenzione a non
cadere nella routine, e questo è il compito del parroco, dei fedeli,
dei parrocchiani, della loro spiritualità, del coro, e di tutto il
fervore che si crea durante la preghiera". Nella preghiera del
rosario c'è una resistenza e una perseveranza che danno tutta la
forza ai fedeli. "Il rosario è un'arma potente per ottenere la
pace, è menzionato in tutti i messaggi di Nostra Signora di Fatima",
insiste padre Amer, "quindi tanto più in Siria dove i cristiani
hanno sofferto per il terrorismo islamico radicale da più di sette
anni. È la nostra arma per l'unione delle famiglie, di ogni famiglia
siriana che rifiuta lo sradicamento, che vuole rimanere in questo
paese, culla di civiltà e luogo di nascita del cristianesimo. È il
nostro combustibile spirituale per poter trasformare la nostra anima
e il nostro corpo, per cambiare il corso della vita degli uomini, la
vita di ogni famiglia che vuol mettere Dio al centro della sua casa".
Maria
ci protegge
In
Siria si incontrano molte Myriam, Mariam, Maria, Madonna, Marie,
Mariana, Marla e molti altri, tanti nomi con una sola origine: il
nome di Maria, madre e santa. Ella rappresenta tutta la maternità,
l'amore e l'affetto di cui gli uomini hanno tanto bisogno. Piena di
purezza, diventa madre generando alla fede i figli di Dio. È
situata in una dimensione che va anche oltre la santità poiché Ella
è la più vicina a Dio. Lei veglia sui suoi figli. Li protegge, e
dove la Vergine è di casa il diavolo non entra. Ed è in questo
spirito che sempre più donne, di qualsiasi età, scelgono di
indossare il vestito di Maria nel mese di maggio. Appena la persona
interessata lo decide, prenota il suo abito presso la parrocchia alla
quale appartiene e l'affitta per un periodo determinato, oppure lo fa
confezionare da un sarto. È un abito color celeste, chiaro come il
blu del cielo, questo cielo puro e santo lontano dalle tentazioni del
mondo terrestre, con una corda bianca in vita, che simboleggia le
colombe della pace. Prima di essere indossato, l'abito deve ricevere
la benedizione del sacerdote. Marine, 2 mesi, è come un angelo in
questo minuscolo vestito, confezionato della sua taglia. Lo indossa
affinchè le grazie di Maria la riparino e la proteggano da ogni
male. Proprio come Julie, ragazzina di 6 anni. Durante la gravidanza,
le rispettive madri videro la Vergine in sogno e le promisero che da
allora avrebbero fatto loro indossare il vestito ogni maggio fino a
raggiungere la maggiore età. Maria divenne la loro patrona, la loro
protettrice. Per quanto riguarda Nisrine, una signora di
cinquant'anni, ha promesso di indossare questo abito per cinque anni
per proteggere se stessa e i propri figli, proteggere il suo paese:
"La Vergine Maria è la madre di tutti noi, è un onore
indossare questo vestito azzurro per essere a sua immagine. È un
voto che ho fatto da quando ho recuperato da una lunga malattia. Ella
intercede per noi e, come dice la tradizione, il Figlio non rifiuta
nulla a sua madre. E contrariamente a quello che si potrebbe pensare,
con questo vestito non ho alcun problema. Lo indosso quando esco,
quando vado a fare shopping, quando vado a lavorare: io vivo la mia
vita normalmente e in più recito il rosario. E nonostante tutti
questi anni di guerra, cosiddetta confessionale, ho percepito molta
simpatia e comprensione da parte dei miei colleghi di lavoro, sia
musulmani che cristiani. Io vengo dalla regione di Hassakeh del nord
della Siria, e lì c'erano anche musulmane che hanno fatto questo
voto e indossavano "l'abito di Mariam", come lo chiamano
loro. Perché bisogna sapere che Maria occupa un posto di rilievo
nell'Islam, un'intera sura è dedicata a lei (la Surat di Maryam),
perché Maria è il modello perfetto del credente con una serena
accettazione del decreto divino, una delle principali virtù di un
buon musulmano".
Due
passi più in là, all'uscita della chiesa, compaiono due ragazze di
13 anni, Maya e Farah, con lo stesso vestito per aver compiuto il
loro voto. Per una era il successo del suo esame di ammissione al
collegio, e per l'altra, di aver guarito sua nonna paterna. "Abbiamo
visto la nostra amica che indossava il vestito azzurro l'anno scorso
e abbiamo parlato molto con lei; lei ci ha spiegato quanto le fosse
piaciuta questa esperienza, quindi abbiamo voluto fare lo stesso
anche noi quest'anno. In effetti, proviamo un sentimento molto
speciale, una soddisfazione difficile da descrivere, una sorta di
serenità, una pace interiore e molto meno stress e paura,
specialmente con tutte le sofferenze e le lacerazioni che il Paese
sta vivendo. Abbiamo intenzione di rifarlo negli anni a venire. I
giovani della nostra età adorano imitare il loro idolo, i vestiti,
la pettinatura, i tatuaggi; e noi abbiamo scelto il nostro "idolo",
abbiamo voluto assomigliare a nostra madre, alla Vergine Maria ".
Per tutte queste diverse "marie", la Vergine è il loro
riferimento, il loro modello. Per Maha, una madre di 45 anni che ha
perso il figlio al fronte, Maria è la madre, sottomessa e paziente:
"Ha un posto intermediario tra il Cielo e la terra. Lei ci
capisce perché ha dato la vita, lei è di carne. Ha vissuto il parto
e la sofferenza, come noi umani. Tutti conoscono la relazione tra
madri e figli nelle famiglie orientali. Molto di più quando la loro
madre è la Vergine Maria. Quindi se dimentichiamo di pregarla,
perdiamo la nostra identità di figli. Inoltre, Ella ha sofferto,
come madre, ha accettato di perdere Cristo, suo figlio, accettando la
volontà di Dio. Indossare questo vestito mi dà forza e serenità.
Mi sento molto più vicina a mio figlio, là dove Gesù e Maria
vegliano su di lui. "
Più
di sette anni di guerra. Una guerra sanguinosa e assassina, con bombe
che non hanno risparmiato il quartiere cristiano di città come
Damasco, Aleppo, Homs e tante altre. E, nonostante tutto ciò,
l'affluenza dei fedeli alle varie cerimonie religiose è cresciuta
costantemente. Molti erano convinti che Dio non li avrebbe
abbandonati. Ha solo testato la loro capacità di sopportare la
sofferenza. Ha messo alla prova la loro fede.
https://fr.aleteia.org/2018/05/23/la-devotion-sincere-et-visible-des-syriens-a-la-vierge-marie/
lunedì 6 agosto 2018
Consiglio dei patriarchi cattolici d’Oriente: I cristiani d’Oriente oggi, timori e speranze (Testo completo)
«In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; sconvolti, ma non disperati» (2Cor 4,8). È il titolo dell’undicesima lettera pastorale del Consiglio dei patriarchi cattolici d’Oriente (CPCO), pubblicata il 20 maggio 2018, elaborata durante la riunione tenutasi dal 9 all’11 agosto 2017 nei pressi di Beirut, in Libano. In quell’occasione i patriarchi cattolici d’Oriente hanno riflettuto sulla situazione umana, sociale e politica dei paesi del Medio Oriente, poiché «nessun paese arabo conosce la pace o la stabilità» a causa di guerre, terrorismo, povertà, emigrazione dei cristiani.
La lettera si rivolge ai fedeli delle Chiese cattoliche d’Oriente, ma anche ai concittadini delle altre religioni, ai governanti e ai leader occidentali
dal sito del Patriarcato latino di Gerusalemme
La lettera si rivolge ai fedeli delle Chiese cattoliche d’Oriente, ma anche ai concittadini delle altre religioni, ai governanti e ai leader occidentali
dal sito del Patriarcato latino di Gerusalemme
Introduzione
Ai nostri fratelli vescovi, preti, diaconi, religiosi e religiose e a tutti i nostri diletti fedeli, in tutte le nostre eparchie, in Oriente e nei paesi di emigrazione, «grazie a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!» (1Cor 1,3).
1. Vi scriviamo questa lettera nella festa di Pentecoste, dopo aver celebrato la Pasqua gloriosa di nostro Signore Gesù Cristo e la sua vittoria sulla morte e sul male. Abbiamo bisogno, infatti, di contemplare Cristo risorto e di chiedere allo Spirito Santo di colmarci della sua forza e di rinnovare la nostra fede, in questo tempo nel quale ci vediamo sommersi dal male della guerra e della morte in tutta la regione.
In molti dei nostri paesi vediamo morte e distruzione, a causa di una politica mondiale, economica e strategica, mirante a creare un «nuovo Medio Oriente».
Tutti, cristiani e musulmani, veniamo uccisi o costretti a emigrare, in Iraq, Siria, Palestina e Libia. Nessun paese arabo conosce la pace o la stabilità.
Oggi molti parlano della nostra estinzione o della riduzione drammatica del numero dei nostri fedeli. Noi continuiamo a credere in Dio, Signore della storia, che veglia su di noi e sulla sua Chiesa in Oriente. Continuiamo a credere nel Cristo risorto e nella sua vittoria sul male. In Oriente resteranno sempre dei cristiani che proclameranno il Vangelo di Gesù Cristo, testimoni della sua risurrezione, anche se rimarremo solo un piccolo gruppo. Resteremo «sale, luce e lievito» (cf. Mt 5,13.14; 13,33), come ci ha detto il Signore Gesù Cristo, il quale ci aveva anche preannunciato: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio; io ho vinto il mondo!… Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 16,33; 14,27).
2. Fratelli e sorelle, vi inviamo questa lettera, dopo il nostro incontro annuale alla residenza patriarcale di Dimane (Libano), dal 9 all’11 agosto 2017, dove siamo stati ospiti del nostro fratello, il patriarca card. Bechara Boutros Raï. La indirizziamo a voi, nostri fedeli, ai nostri paesi, a tutti i nostri concittadini cristiani, musulmani e drusi, ai nostri governi e anche ai responsabili politici in Occidente, che hanno deciso di creare un nuovo Medio Oriente e pensano di avere il diritto di decidere dei nostri destini, grazie alle loro potenze materiali o militari.
In questa lettera rivolgiamo tre messaggi: il primo ai nostri fedeli; il secondo ai nostri concittadini e ai governanti dei nostri paesi; il terzo a coloro che in Occidente decidono della politica del Medio Oriente e a Israele
Capitolo 1: Messaggio ai nostri fedeli
Tempi difficili
3. Sappiamo che è difficile rivolgere una parola ai nostri fedeli che hanno subito molteplici prove, hanno pianto la morte dei loro cari e vicini o sono stati dispersi nel mondo. Davanti a tanta sofferenza, la parola più eloquente è il silenzio. Silenzio anche davanti al mistero di Dio e del suo amore per tutte le sue creature, un mistero che noi non riusciamo a comprendere, con tutto il male che ci invade.
Silenzio e rispetto di fronte alle prove subite dai nostri fedeli; insieme a loro facciamo nostro il grido del salmista: «Fino a quando, Signore?». «Signore, Dio, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato» (Sal 6,4; 80,15-16a).
Silenzio, preghiera, e abbandono e sottomissione alla volontà di Dio. Ringraziamo al tempo stesso Dio per ogni cosa, per la sua Provvidenza che veglia sulla Chiesa d’Oriente, su ogni persona che è in mezzo a noi e sul mondo intero.
Circondati dal sangue e dalla distruzione, dispersi nel mondo, noi meditiamo le parole di Cristo, il quale ci ha preannunciato difficoltà e persecuzioni: «Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio» (Gv 16,2). E ancora: «… e sarete condotti davanti a governatori e re, per causa mia» (Mt 10,18). Ma ci ha detto anche che lo Spirito sarà con noi: «Quando vi porteranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire, perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,11-12).
Questa è la nostra situazione, come quella del salmista che afferma: «Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello» (Sal 44,23; cf. anche Rm 8,36) e come quella di Paolo, che scrive: «Ogni giorno io vado incontro alla morte» (1Cor 15,31). Ma l’apostolo ci rivolge anche una parola di incoraggiamento: «In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati» (2Cor 4,8). Ispirati da queste parole della Scrittura, noi definiamo i nostri comportamenti umani, nelle nostre Chiese e nei nostri paesi. E in mezzo alle difficoltà, sempre con il salmista, rinnoviamo la nostra fede: «Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice» (Sal 116,10).
Noi crediamo, pur sapendo che è difficile credere mentre siamo sommersi dalle tenebre e dalle ingiustizie di questo mondo.
Vediamo la terra piena di miserie. Vediamo la crudeltà degli uomini, gli uni verso gli altri e verso di noi. Sperimentiamo un tempo di morte e di martirio. Davanti a tutto questo, noi guardiamo la bontà di Dio, gli chiediamo la forza e la capacità di accogliere la sua grazia. Gli chiediamo di accompagnarci nell’ora del martirio quando giungerà. Gli chiediamo di accompagnarci, se restiamo nelle nostre case, se le nostre Chiese sono distrutte e se siamo dispersi nel mondo. Gli chiediamo la forza di restare saldi nella nostra fede e nella nostra fiducia nella sua bontà. Nonostante la morte che ci minaccia, noi crediamo che Dio non cessi d’inviarci nei nostri paesi o nel mondo portando dentro di noi una briciola della sua bontà divina, della sua forza e del suo amore per tutto il mondo.
Emigrazione
4. In alcuni dei nostri paesi assistiamo all’emigrazione forzata di nostri fedeli a causa delle prove disumane che hanno conosciuto. Ringraziamo i paesi, le Chiese, le organizzazioni assistenziali internazionali che hanno accolto i nostri fedeli e hanno offerto loro l’aiuto necessario per assicurare loro una vita umana degna. Ma ripetiamo a tutti, soprattutto ai politici, che il miglior aiuto da dare ai nostri fedeli è quello di permettere loro di restare a casa loro, nei loro paesi, di non suscitare disordini politici e le varie forme di violenza che li costringono a emigrare.
C’è anche un’emigrazione di cristiani in altri paesi, nei quali la situazione è relativamente tranquilla, ma che ugualmente risentono del clima di guerra e d’instabilità politica generale nella regione. Noi ripetiamo a tutti i nostri fedeli l’importanza della presenza cristiana in Oriente e della presenza di ognuno e ognuna di voi nei vostri paesi dove Dio vi ha chiamati e vi ha inviati. In tempi difficili, i vostri paesi e le vostre Chiese hanno bisogno di voi. Vi diciamo di resistere per quanto potete alla tentazione dell’emigrazione e di continuare a vivere la vostra missione nei vostri paesi e nelle vostre Chiese. L’avvenire delle nostre Chiese e della presenza cristiana in generale nella regione dipende anche dalla vostra decisione di partire o di accettare la volontà di Dio restando là dove vi ha chiamati.
I nostri martiri
5. Dai nostri morti, dai nostri martiri e dalla crudeltà degli uomini nei nostri confronti noi impariamo due cose. Anzitutto restiamo dei messaggeri portatori di vita nei nostri paesi e nelle nostre società. In secondo luogo, se la morte è una realtà, per il credente anche la vita è una realtà ed essa finirà per trionfare sulla morte. La vita piena, la «vita in abbondanza» (Gv 10,10) che Cristo è venuto a offrirci e ci permette di comunicare agli altri. Nelle molteplici difficoltà, i nostri corpi vengono uccisi, ma il messaggio rimane. Noi restiamo portatori di un messaggio, qui e sulle strade del mondo. Qui contribuiamo alla costruzione delle nostre società, e sulle strade del mondo, là dove giungiamo, portiamo il Vangelo di Gesù Cristo.
Noi non disperiamo, non fuggiamo lontano da un mondo nel quale regna la morte. Anche coloro che uccidono hanno bisogno di sale e di luce, per riuscire ad aprire gli occhi e uscire dalla loro cecità e dalla loro disumanità. Noi non fuggiamo davanti a coloro che uccidono nelle nostre società o nel mondo. Cerchiamo piuttosto di ricondurli alla vita, perché uccidendoci uccidono sé stessi. La missione delle nostre Chiese, e di tutti i nostri fedeli, è una missione difficile, sanguinosa. Essa consiste nel rendere la vita a una generazione di morti, nel rendere la bontà di Dio a coloro che se ne sono privati, nel rendere la vista a coloro che l’hanno perduta e sono diventati incapaci di vedere l’amore di Dio e dei figli di Dio.
Che cosa ci dicono i nostri martiri?
6. I nostri martiri dicono a noi cristiani una parola di verità. Dio ha voluto che noi ricevessimo in questo XXI secolo il battesimo del sangue.
I nostri martiri ci dicono di rinnovare il nostro amore gli uni verso gli altri, anche se siamo ancora separati da strutture esterne che si sono formate nel corso dei secoli. Anche se continuano le nostre differenze nel modo di comprendere ed esprimere la fede nell’unico Signore Gesù Cristo. Un solo amore nelle nostre Chiese, una sola voce per il povero, per l’oppresso e per la pace, uno stesso impegno nelle nostre società, nelle quali il Signore ci ha posti e ci ha mandati per costruirle e per avviarvi una nuova fase della nostra storia. Il nostro contributo alle nostre società consiste nel rendervi più presente Dio e nell’introdurvi più amore e pace.
I nostri martiri hanno dato la loro vita per Gesù Cristo e per la vita delle nostre Chiese e dei nostri paesi. Perciò le nostre Chiese elevano insieme la loro lode all’unico Signore Gesù Cristo e avanzano verso una maggiore unità fra di noi e nelle nostre società. Essendo state battezzate nel sangue dei nostri martiri, le nostre Chiese hanno il dovere di rinnovarsi per diventare fonte di vita per tutti.
I nostri martiri ci dicono di rinnovare la nostra preghiera, affinché sia al tempo stesso culto reso a Dio e amore del prossimo, amore delle persone più vicine e anche di quelle più lontane, amore di tutte le nostre comunità e di tutte le nostre società. La nostra preghiera non resterà fra le mura delle nostre Chiese, ma si estenderà a tutte le nostre relazioni reciproche e alle nostre società. La nostra preghiera si estenderà a tutti i bisogni materiali e spirituali di tutti. Questo implica anche un rinnovamento delle nostre tradizioni, delle nostre liturgie e delle nostre devozioni, affinché diventino un nutrimento che trasforma la nostra vita quotidiana e ci aiuta ad assolvere la nostra missione nel mondo.
Il sangue dei nostri martiri è un seme per un rinnovamento delle nostre Chiese, dei nostri fedeli, dei nostri sacerdoti, vescovi e patriarchi. Anche se la strada aperta dal sangue dei nostri martiri è lunga e difficile, noi la percorriamo. Camminiamo insieme a loro, con lo sguardo fisso al cielo, ricordandoci della nostra vera vocazione, come cristiani e come esseri umani creati a immagine di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Anche la strada della perfezione è lunga e difficile. Perciò, mentre avanziamo sulla strada della perfezione, i nostri martiri ci dicono anche di saperci preparare al battesimo del sangue.
Ai loro persecutori, ai loro assassini vicini o lontani, a viso scoperto o nascosto, i nostri martiri dicono: anche per voi noi abbiamo dato la nostra vita, affinché anche voi possiate vedere Dio e i figli di Dio, vedere Dio in ogni essere umano, sia che appartenga alla vostra religione, sia a un’altra. Aprite i vostri occhi e i vostri cuori alla vita. Ritrovate la vostra libertà, non restate contemporaneamente assassini e vittime del vostro male. Non restate persecutori dei vostri fratelli e schiavi del male che c’è in voi.
Il sangue dei nostri martiri annuncia una vita nuova, la nascita di un uomo arabo nuovo, cristiano, musulmano e druso. Essi sono morti per la gloria di Dio e sono diventati una benedizione per le loro Chiese e le loro società arabe. Il numero dei cristiani diminuisce, ma il sangue dei martiri è seme di vita e di grazia. Il numero dei cristiani diminuisce, ma la grazia sovrabbonda.
In mezzo alle difficoltà e alla morte, noi ricordiamo sempre la bontà e la misericordia di Dio. Lo ricordiamo a coloro che ci uccidono, perché anch’essi, nonostante tutto il male che c’è in loro, hanno qualcosa della bontà di Dio. Anch’essi possono amare. Dio non ha creato l’uomo per la morte, per la sua morte o per quella degli altri. Lo ha creato per essere fratello e sorella di tutti e di tutte, quali che siano e a qualunque religione appartengano. Creati a sua immagine, noi siamo in grado di vivere e di amare come lui.
Capitolo 2: Che cosa diciamo ai nostri concittadini e ai nostri governanti?
La nostra realtà
7. La nostra realtà è caratterizzata da un lato da prosperità, ricchezza, grandi edifici e una parvenza di pace, con molto benessere, molta religione, molta scienza e molto denaro; dall’altro da molta povertà e, in alcuni dei nostri paesi, molti senzatetto. Nel campo della religione, per molti i nostri metodi di educazione religiosa sono un terreno fertile per l’estremismo o il confessionalismo chiuso e settario. Sul terreno, come nelle anime, domina una situazione di guerra e di sedizione. In alcuni dei nostri regimi politici si ha paura della libertà delle persone. I nostri paesi sono in cammino verso una stabilità non ancora realizzata. Dall’esterno e dall’interno ci sono state imposte delle guerre. E il nostro futuro rimane ignoto.
I nostri capi politici
8. Ringraziamo i nostri capi politici per i loro sforzi a servizio dei nostri popoli. Ma ricordiamo loro anche ciò che abbiamo detto sopra. La strada che ci separa dalla «città virtuosa» resta ancora lunga. Continuiamo a soffrire per la povertà, la corruzione, la limitazione delle libertà, il confessionalismo e le guerre. Tutto questo dovrebbe essere già stato superato.
Siamo pienamente consapevoli delle difficoltà e della complessità della situazione. Ma nonostante le difficoltà e la complessità, il male e la corruzione devono cessare. E questo è possibile. Il governo è un servizio reso alla comunità ed esige uno sforzo per migliorare le sue condizioni di vita. Il suo scopo è quello di assicurare a ogni cittadino una vita degna e libera, a livello sia materiale, sia spirituale, sia sul piano delle libertà. Siamo in grado di raggiungere tutto questo. Ma ne siamo ancora molto lontani.
Distacco e bene comune
9. I veri capi sono disinteressati. Sono servitori, cercano il bene delle persone e delle comunità. Paolo dice di se stesso: «Io non cerco il mio interesse, ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1Cor 10,33). Con le sue parole, egli esortava i suoi fedeli a «imitare Dio». È bene e anche necessario che i capi politici ascoltino questa parola: non cercare il loro interesse personale, ma quello degli altri. È necessario che chi governa cerchi l’interesse del popolo dal quale ha ricevuto il mandato di governarlo. L’autorità è un servizio per l’edificazione della comunità.
Noi diciamo alle nostre autorità: ascoltate la voce dei poveri. Un buon governante è quello che sradica la povertà. Nelle nostre società vi sono grandi fortune; ci sono anche le conoscenze e la capacità organizzativa. Nelle nostre società, nelle quali si trovano tante risorse e ricchezze, la povertà è un segno della noncuranza o dell’incapacità dell’autorità. La povertà esiste quando un fratello non vede il proprio fratello. Essa è la conseguenza inevitabile di un governante che cerca il proprio interesse e non quello della comunità.
Perché nei nostri paesi ricchi di risorse esiste ancora la povertà? Dipende da una nostra mancanza di «umanità»? Dipende dall’egoismo e dall’incapacità dei nostri ricchi o dei nostri capi politici di uscire dal loro ego per pensare agli altri?
O forse la religione, nonostante la sua onnipresenza, è in realtà assente? Infatti tutto l’Oriente, cristiano o musulmano o druso, è religioso, o diciamo piuttosto saldamente legato alla sua comunità religiosa. La religione è presente, ma spesso Dio non è presente. Può capitare, infatti, che nonostante la fedeltà alle pratiche rituali religiose Dio sia assente. Si è religiosi, si va in chiesa o in moschea, ma si trascura il povero che è creatura e figlio di Dio. Le elemosine sono certamente frequenti. Alcuni costruiscono anche una chiesa o una moschea. I nostri paesi e le nostre società, dove esistono molte ricchezze e molti poveri al tempo stesso, hanno bisogno di ben più di questo. Non hanno bisogno solo di elemosine, ma di giustizia sociale, di un’economia giusta che assicuri la dignità umana a ognuno.
La povertà nei nostri paesi ricorda a tutti coloro che hanno grandi patrimoni, ai governanti, ai responsabili dell’economia, che i nostri paesi hanno bisogno di qualcosa che va al di là dell’«elemosina». Hanno bisogno di sistemi e di piani economici in grado di distribuire e organizzare le ricchezze della nazione, e anche degli individui, affinché nessun abitante resti nel bisogno. La religione è molto presente, ma dobbiamo rendere presente Dio stesso, Dio misericordioso, il quale ci dice di aver dato a tutti la stessa dignità umana. Questo esige una migliore comprensione della religione. Questo esige capi che sappiano essere servitori, che lavorino per gli altri e assicurino una vita degna a ogni cittadino. E nessuno dica che le cose sono difficili e complicate. I responsabili facciano piuttosto uno sforzo per vedere e riconoscere che esistono intenzioni francamente cattive e mancanza di buona volontà per realizzare la giustizia sociale.
Questa questione della povertà riguarda anche le nostre Chiese, ossia tutti noi, in primo luogo pastori, vescovi, preti, religiosi e religiose. Infatti noi possiamo attivarci per reclamare e realizzare una migliore giustizia sociale. E possiamo anche dare l’esempio nel nostro modo di possedere e usare le ricchezze di questo mondo. I poveri presenti nelle nostre società ci invitano tutti, responsabili religiosi e politici, a fare un esame di coscienza sul nostro atteggiamento verso il denaro e sulla nostra azione o noncuranza di fronte al grido del povero.
La libertà
10. Ascoltate la voce degli oppressi che sono stati privati della loro libertà. «Amate la giustizia, voi giudici della terra» (Sap 1,1). Le autorità politiche hanno il dovere di formare un governo forte e garantire a tutti la sicurezza e la tranquillità. Ma non è permesso al governo, qualunque sia il regime, di diventare dittatura e tirannia. Non è permesso di umiliare la persona umana o di ucciderla in forza della sua libertà, la quale ha certamente i suoi limiti, che sono il bene delle persone e delle comunità.
Il buon governante non teme la libertà e neppure l’opposizione. Al contrario, si basa su di esse e le prende come guida per assicurare meglio il bene comune.
È certamente difficile rispettare pienamente la libertà umana. Ma chi ha accettato di governare deve essere in grado di affrontare ogni difficoltà, senza cadere nelle ingiustizie. Deve sapere come trattare la libertà delle persone senza opprimerle. Un buon governante si dimostra tale proprio attraverso la sua capacità di trattare la libertà delle persone e dei gruppi, fra cui i partiti politici e tutti coloro che si oppongono a lui con le loro idee. Non ha diritto di gettare in prigione gli intellettuali e le persone libere del popolo per il solo fatto di appartenere all’opposizione. Anche nelle prigioni, deve essere rispettata la dignità della persona umana. Non si possono correggere le differenze di opinione attraverso l’annientamento della persona umana, soggetta unicamente a Dio e non alla tirannia di un dittatore.
Di fronte alla politica mondiale
11. Vogliamo dei leader politici indipendenti dalle pressioni e dai piani esterni. Sappiamo che esistono molte pressioni di ogni sorta, che costituiscono fardelli pesanti da portare, limitano la libertà dei governanti e vanno contro il bene dei loro popoli.
Perciò abbiamo bisogno di leader politici forti. Ed è nel popolo che essi troveranno la loro forza, ma solo se ne sapranno rispettare la libertà e la dignità. Sostenuti dal loro popolo, i capi possono far fronte a tutte le pressioni esterne mondiali e alle grandi potenze che pretendono di cambiare a loro piacimento il nostro Medio Oriente.
Abbiamo bisogno di leader che, sostenuti dal loro popolo, siano in grado di tener testa ai potenti di questo mondo e di trattare con loro alla pari; essi non temeranno alcuna minaccia militare o economica.
Un popolo rispettato dai suoi leader è la loro forza e la fonte della loro libertà di decisione di fronte a ogni aggressione dall’esterno e di fronte a ogni tentativo di distruzione o di sedizione e di guerre civili, come abbiamo visto e come vediamo ancora nei nostri diversi paesi.
La regione ha bisogno di leader che siano artefici di pace per il loro paese e per i paesi vicini. Essi rifiutano ogni incitamento alla guerra che proviene loro dall’esterno, nonché le alleanze contro il bene dei loro popoli o dei paesi vicini. Vogliamo capi liberi, con le mani pulite, che possano far uscire la regione dalle sue molteplici guerre e stabilirvi una pace stabile e definitiva.
Lo stato laico
12. Noi ci aspettiamo dai nostri capi che costruiscano uno stato laico, basato sull’uguaglianza di tutti i suoi cittadini, senza discriminazione sulla base della religione o di qualsiasi altra ragione. Uno stato nel quale ogni cittadino si senta a casa propria, uguale a tutti gli altri e con le stesse opportunità di vita, governo o lavoro, indipendentemente dalla sua religione. Tutti si sentiranno fratelli nella stessa patria, con gli stessi doveri e gli stessi diritti.
Lo stato laico separa religione e stato, ma rispetta tutte le religioni e le libertà. Si sforza di comprendere meglio la questione religiosa nei nostri paesi, con le sue componenti, cristianesimo, islam e comunità druse, senza lasciare che si trasformino in confessionalismo religioso o politico. Questo richiede due cose: anzitutto noi, cristiani e musulmani e drusi, dobbiamo imparare come vivere insieme, come creare insieme lo stato moderno; e in secondo luogo dobbiamo apprendere come formare le nostre generazioni attraverso una nuova educazione basata sugli stessi principi: rispetto reciproco, collaborazione e destino comune, nel paese nel quale Dio ci ha mandati.
Per questo vogliamo leader politici che abbiano il coraggio d’intraprendere una nuova educazione alla vita politica, alla formazione della persona umana e di un nuovo cittadino. Vogliamo un’autorità che formi persone che tendono al proprio perfezionamento e a quello dei loro fratelli e di tutta la patria. Cittadini e credenti che non sono chiusi in sé stessi, ma sono aperti e capaci di abbracciare tutti i loro fratelli e sorelle e il mondo intero.
I capi religiosi
13. Noi vogliamo capi religiosi che abbiano visioni nuove, capi religiosi cristiani, musulmani e drusi uniti dalla fede in Dio uno e unico, misericordioso, amico degli uomini. Capi che collaborino e si sforzino di formare dei credenti che si amano gli uni gli altri, quale che sia la rispettiva religione.
Condanniamo le guerre religiose del passato, le lasciamo alla storia e per esse chiediamo perdono a Dio. Gli chiediamo d’illuminarci per configurare insieme la nostra nuova storia e di darci la forza di camminare nella sua luce e nella sua misericordia, affinché la religione resti, a immagine di Dio stesso, una religione di amore e di misericordia per tutte le sue creature.
Nella nostra realtà quotidiana esistono dialogo e accettazione reciproca. Ma esiste anche il contrario. Continuano a esistere correnti religiose contrarie alla collaborazione e all’uguaglianza fra i credenti di religioni diverse. C’è un rifiuto dello stato laico e dell’uguaglianza dei cittadini. Nel cuore di molte persone si trovano ancora l’estremismo religioso e l’esclusione. Le nostre ferite in Iraq e in Siria sono ancora aperte. Gli attacchi contro le chiese in Egitto continuano a ripetersi. Esistono ancora fra noi fanatismi religiosi che separano i credenti in nome di Dio, che è uno e unico e ama tutte le sue creature indipendentemente dalla religione alla quale appartengono. Vi sono anche quelli che uccidono in nome di Dio.
Nei cuori di alcuni cristiani si è formata anche una reazione di carattere confessionale, che non è cristiana ed evidenzia un sentimento di disperazione e di rifiuto dell’altro.
Di fronte a queste realtà noi ci fermiamo, riflettiamo e ci facciamo un esame di coscienza per ridefinire insieme i nostri atteggiamenti e rinnovare la nostra fede in Dio, che è amore e misericordia. Rinnoviamo il nostro amore per Dio e gli uni per gli altri. Decidiamo di cambiare i vecchi comportamenti che dividono e li sostituiamo con l’amicizia e il rispetto reciproco.
Anche i capi religiosi sono «servitori» degli altri e non di loro stessi. Essi camminano e guidano i credenti nelle vie di Dio, ossia l’amore e la misericordia. Hanno la responsabilità della formazione di persone umane nuove, forti, misericordiose, amanti di ogni uomo, di ogni religione. Possono formare una generazione di credenti che danno la vita e non la morte; possono formare credenti sinceri, misericordiosi e non omicidi.
L’amore del capo religioso abbraccia certamente i credenti della sua comunità, ma si spinge oltre, perché l’amore non ha confini, è universale come l’amore che Dio ha per tutta la sua creazione. Il nostro Medio Oriente, saturo di sangue e di morte, ha bisogno di capi religiosi che lo guidino nelle vie della vita. Abbiamo bisogno anche di capi religiosi che abbiano il coraggio di resistere a tutte le forze di discriminazione e di morte, che ancora operano nelle nostre società, sia che provengano da noi stessi sia che provengano dall’esterno o da correnti che hanno un grande potere di distruzione.
Abbiamo bisogno di capi religiosi in grado di compatire le sofferenze di tutti, di portarle in loro stessi e di insegnare che le sofferenze non sono per la morte, ma sono una strada verso una vita nuova, sull’esempio della croce di nostro Signore Gesù Cristo, che fu un percorso dalla morte alla risurrezione. Tutta la vita umana ha un carattere pasquale; essa è un continuo passaggio da ogni forma di morte alla vita; è una continua vittoria sul peccato e sul male fino a giungere alla vita nuova.
I capi religiosi devono lasciare allo stato la sua indipendenza nel suo ambito. Devono insegnare e richiamare i grandi principi della morale. Attraverso il loro insegnamento devono sostenere lo stato in ogni azione giusta che conduce a una vita degna e tranquilla della comunità. Devono alzare la voce per difendere i poveri, gli oppressi. Devono andare in cerca di tutte le persone oppresse o bisognose per rendere loro giustizia e assicurare loro una vita degna. Devono difendere la libertà e insegnare al tempo stesso ai credenti come usare la loro libertà non per discriminare, non per arrecare pregiudizio alla società e opprimere, ma per costruire insieme.
Una nuova educazione
14. Quanto siamo venuti dicendo dimostra che abbiamo bisogno di una nuova educazione per formare un essere umano nuovo. La responsabilità tocca allo stato, come anche alla chiesa e alla moschea. Ogni capo religioso, in ogni religione, ne è responsabile. Abbiamo bisogno di una nuova educazione basata sulla misericordia e sull’amore, sull’uguaglianza e sulla pari dignità data da Dio a tutti.
Quando riusciremo a formare un uomo nuovo, formeremo anche un credente nuovo, capace di vedere Dio creatore, misericordioso e amico degli uomini. Così nascerà anche una nuova società basata sulla giustizia, sulla libertà e sulla collaborazione. Con un uomo nuovo nascerà uno stato nuovo per tutti i suoi cittadini, quale che sia la loro religione.
Un’educazione religiosa sana, per il cristiano e per il musulmano, ciascuno nella sua religione, rende possibile un progetto nazionale nuovo nel quale tutti e ciascuno sono ugualmente uomini e cittadini, tutti credenti e ciascuno fedele alla sua religione. Un progetto nazionale crea una patria per tutti e al di sopra di tutti. È uno slogan che sentiamo ripetere spesso, ma che finora non abbiamo saputo realizzare. L’unione e l’uguaglianza non sono ancora sufficientemente realizzate. Esistono ancora fra noi discriminazioni o privilegi tra i cittadini a motivo della religione o della libertà. Nei nostri paesi addirittura esistono ancora ingiustizie, delitti, torture in detenzione per chi rivendica la libertà. Dobbiamo ricordare i mali che ancora esistono, per non dimenticare che non abbiamo ancora raggiunto la perfezione. Abbiamo ancora molto lavoro da fare per educare, formare e purificare.
Chi educa? Chi forma l’uomo nuovo?
15. Siamo paesi «religiosi». La religione ci ha divisi in passato e in alcuni casi e luoghi continua tuttora a dividerci. Perciò, come abbiamo già detto, i leader religiosi hanno la responsabilità di lavorare alla nuova educazione. Infatti o assicuriamo una formazione sincera, che dica chiaramente a ogni uomo e donna che ogni credente, anche di una religione diversa, è suo fratello e sua sorella, e tutti i cittadini sono fratelli e sorelle, oppure continueremo a dire che non siamo tutti uguali e che «tu sei migliore di tuo fratello». Questa è stata l’educazione religiosa impartita fino a ora, ed è stata per ciò stesso un terreno fertile per le discordie, le guerre civili e l’oppressione di chi fosse per un aspetto o per l’altro diverso.
Abbiamo bisogno di una nuova educazione religiosa e civile che dica a ognuno: tu sei anzitutto una persona umana, creata da Dio, e ogni altra persona diversa da te è, come te, creatura di Dio. Per la creazione noi siamo tutti fratelli e sorelle. E in patria siamo tutti uguali.
Abbiamo bisogno di un’educazione religiosa che ricordi sempre il comandamento di Cristo: «Amatevi gli uni gli altri» (cf. Gv 13,34) senza limiti. Gesù non dice: amate i vostri fratelli che credono come voi, dice: «Amatevi gli uni gli altri… amate il vostro prossimo come voi stessi» (cf. Gv 12,15; Gal 5,14). Il «prossimo» è ogni persona umana, senza limiti e senza classificazione.
Il capo religioso ha un ruolo determinante da svolgere in questa nuova educazione. È lui infatti a ispirare gli atteggiamenti assunti in famiglia, nella scuola e nella società. L’educazione in famiglia ha bisogno di purificarsi da ogni atteggiamento che rifiuta chi è diverso nella sua religione e dai pregiudizi del passato, trasmessi di generazione in generazione. La famiglia deve passare per una fase di purificazione, di cambiamento di mentalità e di comportamenti verso l’altro.
In tutta la società bisogna operare una conversione. I massacri, le guerre civili e le crudeltà degli ultimi anni non sono ancora terminati, e tutto questo richiede purificazione, conversione e un passaggio dalla morte alla vita.
Vi sono ancora persone che uccidono in nome di Dio, o che educano potenziali assassini basandosi su vecchi metodi educativi. Anch’essi per parte loro devono cambiare, per poter acquisire uno spirito nuovo ed educare uomini e donne capaci di amare e rispettare tutti quelli che professano una religione diversa.
Anche le nostre scuole private e pubbliche, le nostre università e i mezzi di comunicazione sono responsabili della nuova educazione, che dice a tutti: siamo tutti uguali in umanità e nella dignità che Dio ci ha dato. I responsabili delle scuole private e pubbliche devono chiedersi: che tipo di credente, cristiano o musulmano o druso, stiamo preparando? Che tipo di cittadino e che futuro prepariamo per il paese? Stiamo costruendo una società unita, compatta, nonostante le differenze religiose o partitiche, o stiamo alimentando il confessionalismo religioso o politico e preparando guerre civili in nome di Dio o del partito?
Che tipo di credenti vogliamo? Vogliamo credenti e cittadini forti e fraterni, che non opprimono nessuno e non si lasciano opprimere da nessuno. Credenti la cui forza sta nella loro capacità di amare e di opporsi a ogni aggressione contro loro stessi o contro gli altri.
Capitolo 3: Che cosa diciamo ai leader occidentali?
Ai nostri fratelli vescovi, preti, diaconi, religiosi e religiose e a tutti i nostri diletti fedeli, in tutte le nostre eparchie, in Oriente e nei paesi di emigrazione, «grazie a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!» (1Cor 1,3).
1. Vi scriviamo questa lettera nella festa di Pentecoste, dopo aver celebrato la Pasqua gloriosa di nostro Signore Gesù Cristo e la sua vittoria sulla morte e sul male. Abbiamo bisogno, infatti, di contemplare Cristo risorto e di chiedere allo Spirito Santo di colmarci della sua forza e di rinnovare la nostra fede, in questo tempo nel quale ci vediamo sommersi dal male della guerra e della morte in tutta la regione.
In molti dei nostri paesi vediamo morte e distruzione, a causa di una politica mondiale, economica e strategica, mirante a creare un «nuovo Medio Oriente».
Tutti, cristiani e musulmani, veniamo uccisi o costretti a emigrare, in Iraq, Siria, Palestina e Libia. Nessun paese arabo conosce la pace o la stabilità.
Oggi molti parlano della nostra estinzione o della riduzione drammatica del numero dei nostri fedeli. Noi continuiamo a credere in Dio, Signore della storia, che veglia su di noi e sulla sua Chiesa in Oriente. Continuiamo a credere nel Cristo risorto e nella sua vittoria sul male. In Oriente resteranno sempre dei cristiani che proclameranno il Vangelo di Gesù Cristo, testimoni della sua risurrezione, anche se rimarremo solo un piccolo gruppo. Resteremo «sale, luce e lievito» (cf. Mt 5,13.14; 13,33), come ci ha detto il Signore Gesù Cristo, il quale ci aveva anche preannunciato: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio; io ho vinto il mondo!… Non sia turbato il vostro cuore» (Gv 16,33; 14,27).
2. Fratelli e sorelle, vi inviamo questa lettera, dopo il nostro incontro annuale alla residenza patriarcale di Dimane (Libano), dal 9 all’11 agosto 2017, dove siamo stati ospiti del nostro fratello, il patriarca card. Bechara Boutros Raï. La indirizziamo a voi, nostri fedeli, ai nostri paesi, a tutti i nostri concittadini cristiani, musulmani e drusi, ai nostri governi e anche ai responsabili politici in Occidente, che hanno deciso di creare un nuovo Medio Oriente e pensano di avere il diritto di decidere dei nostri destini, grazie alle loro potenze materiali o militari.
In questa lettera rivolgiamo tre messaggi: il primo ai nostri fedeli; il secondo ai nostri concittadini e ai governanti dei nostri paesi; il terzo a coloro che in Occidente decidono della politica del Medio Oriente e a Israele
Capitolo 1: Messaggio ai nostri fedeli
Tempi difficili
3. Sappiamo che è difficile rivolgere una parola ai nostri fedeli che hanno subito molteplici prove, hanno pianto la morte dei loro cari e vicini o sono stati dispersi nel mondo. Davanti a tanta sofferenza, la parola più eloquente è il silenzio. Silenzio anche davanti al mistero di Dio e del suo amore per tutte le sue creature, un mistero che noi non riusciamo a comprendere, con tutto il male che ci invade.
Silenzio e rispetto di fronte alle prove subite dai nostri fedeli; insieme a loro facciamo nostro il grido del salmista: «Fino a quando, Signore?». «Signore, Dio, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato» (Sal 6,4; 80,15-16a).
Silenzio, preghiera, e abbandono e sottomissione alla volontà di Dio. Ringraziamo al tempo stesso Dio per ogni cosa, per la sua Provvidenza che veglia sulla Chiesa d’Oriente, su ogni persona che è in mezzo a noi e sul mondo intero.
Circondati dal sangue e dalla distruzione, dispersi nel mondo, noi meditiamo le parole di Cristo, il quale ci ha preannunciato difficoltà e persecuzioni: «Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio» (Gv 16,2). E ancora: «… e sarete condotti davanti a governatori e re, per causa mia» (Mt 10,18). Ma ci ha detto anche che lo Spirito sarà con noi: «Quando vi porteranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire, perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,11-12).
Questa è la nostra situazione, come quella del salmista che afferma: «Per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello» (Sal 44,23; cf. anche Rm 8,36) e come quella di Paolo, che scrive: «Ogni giorno io vado incontro alla morte» (1Cor 15,31). Ma l’apostolo ci rivolge anche una parola di incoraggiamento: «In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati» (2Cor 4,8). Ispirati da queste parole della Scrittura, noi definiamo i nostri comportamenti umani, nelle nostre Chiese e nei nostri paesi. E in mezzo alle difficoltà, sempre con il salmista, rinnoviamo la nostra fede: «Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice» (Sal 116,10).
Noi crediamo, pur sapendo che è difficile credere mentre siamo sommersi dalle tenebre e dalle ingiustizie di questo mondo.
Vediamo la terra piena di miserie. Vediamo la crudeltà degli uomini, gli uni verso gli altri e verso di noi. Sperimentiamo un tempo di morte e di martirio. Davanti a tutto questo, noi guardiamo la bontà di Dio, gli chiediamo la forza e la capacità di accogliere la sua grazia. Gli chiediamo di accompagnarci nell’ora del martirio quando giungerà. Gli chiediamo di accompagnarci, se restiamo nelle nostre case, se le nostre Chiese sono distrutte e se siamo dispersi nel mondo. Gli chiediamo la forza di restare saldi nella nostra fede e nella nostra fiducia nella sua bontà. Nonostante la morte che ci minaccia, noi crediamo che Dio non cessi d’inviarci nei nostri paesi o nel mondo portando dentro di noi una briciola della sua bontà divina, della sua forza e del suo amore per tutto il mondo.
Emigrazione
4. In alcuni dei nostri paesi assistiamo all’emigrazione forzata di nostri fedeli a causa delle prove disumane che hanno conosciuto. Ringraziamo i paesi, le Chiese, le organizzazioni assistenziali internazionali che hanno accolto i nostri fedeli e hanno offerto loro l’aiuto necessario per assicurare loro una vita umana degna. Ma ripetiamo a tutti, soprattutto ai politici, che il miglior aiuto da dare ai nostri fedeli è quello di permettere loro di restare a casa loro, nei loro paesi, di non suscitare disordini politici e le varie forme di violenza che li costringono a emigrare.
C’è anche un’emigrazione di cristiani in altri paesi, nei quali la situazione è relativamente tranquilla, ma che ugualmente risentono del clima di guerra e d’instabilità politica generale nella regione. Noi ripetiamo a tutti i nostri fedeli l’importanza della presenza cristiana in Oriente e della presenza di ognuno e ognuna di voi nei vostri paesi dove Dio vi ha chiamati e vi ha inviati. In tempi difficili, i vostri paesi e le vostre Chiese hanno bisogno di voi. Vi diciamo di resistere per quanto potete alla tentazione dell’emigrazione e di continuare a vivere la vostra missione nei vostri paesi e nelle vostre Chiese. L’avvenire delle nostre Chiese e della presenza cristiana in generale nella regione dipende anche dalla vostra decisione di partire o di accettare la volontà di Dio restando là dove vi ha chiamati.
I nostri martiri
5. Dai nostri morti, dai nostri martiri e dalla crudeltà degli uomini nei nostri confronti noi impariamo due cose. Anzitutto restiamo dei messaggeri portatori di vita nei nostri paesi e nelle nostre società. In secondo luogo, se la morte è una realtà, per il credente anche la vita è una realtà ed essa finirà per trionfare sulla morte. La vita piena, la «vita in abbondanza» (Gv 10,10) che Cristo è venuto a offrirci e ci permette di comunicare agli altri. Nelle molteplici difficoltà, i nostri corpi vengono uccisi, ma il messaggio rimane. Noi restiamo portatori di un messaggio, qui e sulle strade del mondo. Qui contribuiamo alla costruzione delle nostre società, e sulle strade del mondo, là dove giungiamo, portiamo il Vangelo di Gesù Cristo.
Noi non disperiamo, non fuggiamo lontano da un mondo nel quale regna la morte. Anche coloro che uccidono hanno bisogno di sale e di luce, per riuscire ad aprire gli occhi e uscire dalla loro cecità e dalla loro disumanità. Noi non fuggiamo davanti a coloro che uccidono nelle nostre società o nel mondo. Cerchiamo piuttosto di ricondurli alla vita, perché uccidendoci uccidono sé stessi. La missione delle nostre Chiese, e di tutti i nostri fedeli, è una missione difficile, sanguinosa. Essa consiste nel rendere la vita a una generazione di morti, nel rendere la bontà di Dio a coloro che se ne sono privati, nel rendere la vista a coloro che l’hanno perduta e sono diventati incapaci di vedere l’amore di Dio e dei figli di Dio.
Che cosa ci dicono i nostri martiri?
6. I nostri martiri dicono a noi cristiani una parola di verità. Dio ha voluto che noi ricevessimo in questo XXI secolo il battesimo del sangue.
I nostri martiri ci dicono di rinnovare il nostro amore gli uni verso gli altri, anche se siamo ancora separati da strutture esterne che si sono formate nel corso dei secoli. Anche se continuano le nostre differenze nel modo di comprendere ed esprimere la fede nell’unico Signore Gesù Cristo. Un solo amore nelle nostre Chiese, una sola voce per il povero, per l’oppresso e per la pace, uno stesso impegno nelle nostre società, nelle quali il Signore ci ha posti e ci ha mandati per costruirle e per avviarvi una nuova fase della nostra storia. Il nostro contributo alle nostre società consiste nel rendervi più presente Dio e nell’introdurvi più amore e pace.
I nostri martiri hanno dato la loro vita per Gesù Cristo e per la vita delle nostre Chiese e dei nostri paesi. Perciò le nostre Chiese elevano insieme la loro lode all’unico Signore Gesù Cristo e avanzano verso una maggiore unità fra di noi e nelle nostre società. Essendo state battezzate nel sangue dei nostri martiri, le nostre Chiese hanno il dovere di rinnovarsi per diventare fonte di vita per tutti.
I nostri martiri ci dicono di rinnovare la nostra preghiera, affinché sia al tempo stesso culto reso a Dio e amore del prossimo, amore delle persone più vicine e anche di quelle più lontane, amore di tutte le nostre comunità e di tutte le nostre società. La nostra preghiera non resterà fra le mura delle nostre Chiese, ma si estenderà a tutte le nostre relazioni reciproche e alle nostre società. La nostra preghiera si estenderà a tutti i bisogni materiali e spirituali di tutti. Questo implica anche un rinnovamento delle nostre tradizioni, delle nostre liturgie e delle nostre devozioni, affinché diventino un nutrimento che trasforma la nostra vita quotidiana e ci aiuta ad assolvere la nostra missione nel mondo.
Il sangue dei nostri martiri è un seme per un rinnovamento delle nostre Chiese, dei nostri fedeli, dei nostri sacerdoti, vescovi e patriarchi. Anche se la strada aperta dal sangue dei nostri martiri è lunga e difficile, noi la percorriamo. Camminiamo insieme a loro, con lo sguardo fisso al cielo, ricordandoci della nostra vera vocazione, come cristiani e come esseri umani creati a immagine di Dio: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Anche la strada della perfezione è lunga e difficile. Perciò, mentre avanziamo sulla strada della perfezione, i nostri martiri ci dicono anche di saperci preparare al battesimo del sangue.
Ai loro persecutori, ai loro assassini vicini o lontani, a viso scoperto o nascosto, i nostri martiri dicono: anche per voi noi abbiamo dato la nostra vita, affinché anche voi possiate vedere Dio e i figli di Dio, vedere Dio in ogni essere umano, sia che appartenga alla vostra religione, sia a un’altra. Aprite i vostri occhi e i vostri cuori alla vita. Ritrovate la vostra libertà, non restate contemporaneamente assassini e vittime del vostro male. Non restate persecutori dei vostri fratelli e schiavi del male che c’è in voi.
Il sangue dei nostri martiri annuncia una vita nuova, la nascita di un uomo arabo nuovo, cristiano, musulmano e druso. Essi sono morti per la gloria di Dio e sono diventati una benedizione per le loro Chiese e le loro società arabe. Il numero dei cristiani diminuisce, ma il sangue dei martiri è seme di vita e di grazia. Il numero dei cristiani diminuisce, ma la grazia sovrabbonda.
In mezzo alle difficoltà e alla morte, noi ricordiamo sempre la bontà e la misericordia di Dio. Lo ricordiamo a coloro che ci uccidono, perché anch’essi, nonostante tutto il male che c’è in loro, hanno qualcosa della bontà di Dio. Anch’essi possono amare. Dio non ha creato l’uomo per la morte, per la sua morte o per quella degli altri. Lo ha creato per essere fratello e sorella di tutti e di tutte, quali che siano e a qualunque religione appartengano. Creati a sua immagine, noi siamo in grado di vivere e di amare come lui.
Capitolo 2: Che cosa diciamo ai nostri concittadini e ai nostri governanti?
La nostra realtà
7. La nostra realtà è caratterizzata da un lato da prosperità, ricchezza, grandi edifici e una parvenza di pace, con molto benessere, molta religione, molta scienza e molto denaro; dall’altro da molta povertà e, in alcuni dei nostri paesi, molti senzatetto. Nel campo della religione, per molti i nostri metodi di educazione religiosa sono un terreno fertile per l’estremismo o il confessionalismo chiuso e settario. Sul terreno, come nelle anime, domina una situazione di guerra e di sedizione. In alcuni dei nostri regimi politici si ha paura della libertà delle persone. I nostri paesi sono in cammino verso una stabilità non ancora realizzata. Dall’esterno e dall’interno ci sono state imposte delle guerre. E il nostro futuro rimane ignoto.
I nostri capi politici
8. Ringraziamo i nostri capi politici per i loro sforzi a servizio dei nostri popoli. Ma ricordiamo loro anche ciò che abbiamo detto sopra. La strada che ci separa dalla «città virtuosa» resta ancora lunga. Continuiamo a soffrire per la povertà, la corruzione, la limitazione delle libertà, il confessionalismo e le guerre. Tutto questo dovrebbe essere già stato superato.
Siamo pienamente consapevoli delle difficoltà e della complessità della situazione. Ma nonostante le difficoltà e la complessità, il male e la corruzione devono cessare. E questo è possibile. Il governo è un servizio reso alla comunità ed esige uno sforzo per migliorare le sue condizioni di vita. Il suo scopo è quello di assicurare a ogni cittadino una vita degna e libera, a livello sia materiale, sia spirituale, sia sul piano delle libertà. Siamo in grado di raggiungere tutto questo. Ma ne siamo ancora molto lontani.
Distacco e bene comune
9. I veri capi sono disinteressati. Sono servitori, cercano il bene delle persone e delle comunità. Paolo dice di se stesso: «Io non cerco il mio interesse, ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» (1Cor 10,33). Con le sue parole, egli esortava i suoi fedeli a «imitare Dio». È bene e anche necessario che i capi politici ascoltino questa parola: non cercare il loro interesse personale, ma quello degli altri. È necessario che chi governa cerchi l’interesse del popolo dal quale ha ricevuto il mandato di governarlo. L’autorità è un servizio per l’edificazione della comunità.
Noi diciamo alle nostre autorità: ascoltate la voce dei poveri. Un buon governante è quello che sradica la povertà. Nelle nostre società vi sono grandi fortune; ci sono anche le conoscenze e la capacità organizzativa. Nelle nostre società, nelle quali si trovano tante risorse e ricchezze, la povertà è un segno della noncuranza o dell’incapacità dell’autorità. La povertà esiste quando un fratello non vede il proprio fratello. Essa è la conseguenza inevitabile di un governante che cerca il proprio interesse e non quello della comunità.
Perché nei nostri paesi ricchi di risorse esiste ancora la povertà? Dipende da una nostra mancanza di «umanità»? Dipende dall’egoismo e dall’incapacità dei nostri ricchi o dei nostri capi politici di uscire dal loro ego per pensare agli altri?
O forse la religione, nonostante la sua onnipresenza, è in realtà assente? Infatti tutto l’Oriente, cristiano o musulmano o druso, è religioso, o diciamo piuttosto saldamente legato alla sua comunità religiosa. La religione è presente, ma spesso Dio non è presente. Può capitare, infatti, che nonostante la fedeltà alle pratiche rituali religiose Dio sia assente. Si è religiosi, si va in chiesa o in moschea, ma si trascura il povero che è creatura e figlio di Dio. Le elemosine sono certamente frequenti. Alcuni costruiscono anche una chiesa o una moschea. I nostri paesi e le nostre società, dove esistono molte ricchezze e molti poveri al tempo stesso, hanno bisogno di ben più di questo. Non hanno bisogno solo di elemosine, ma di giustizia sociale, di un’economia giusta che assicuri la dignità umana a ognuno.
La povertà nei nostri paesi ricorda a tutti coloro che hanno grandi patrimoni, ai governanti, ai responsabili dell’economia, che i nostri paesi hanno bisogno di qualcosa che va al di là dell’«elemosina». Hanno bisogno di sistemi e di piani economici in grado di distribuire e organizzare le ricchezze della nazione, e anche degli individui, affinché nessun abitante resti nel bisogno. La religione è molto presente, ma dobbiamo rendere presente Dio stesso, Dio misericordioso, il quale ci dice di aver dato a tutti la stessa dignità umana. Questo esige una migliore comprensione della religione. Questo esige capi che sappiano essere servitori, che lavorino per gli altri e assicurino una vita degna a ogni cittadino. E nessuno dica che le cose sono difficili e complicate. I responsabili facciano piuttosto uno sforzo per vedere e riconoscere che esistono intenzioni francamente cattive e mancanza di buona volontà per realizzare la giustizia sociale.
Questa questione della povertà riguarda anche le nostre Chiese, ossia tutti noi, in primo luogo pastori, vescovi, preti, religiosi e religiose. Infatti noi possiamo attivarci per reclamare e realizzare una migliore giustizia sociale. E possiamo anche dare l’esempio nel nostro modo di possedere e usare le ricchezze di questo mondo. I poveri presenti nelle nostre società ci invitano tutti, responsabili religiosi e politici, a fare un esame di coscienza sul nostro atteggiamento verso il denaro e sulla nostra azione o noncuranza di fronte al grido del povero.
La libertà
10. Ascoltate la voce degli oppressi che sono stati privati della loro libertà. «Amate la giustizia, voi giudici della terra» (Sap 1,1). Le autorità politiche hanno il dovere di formare un governo forte e garantire a tutti la sicurezza e la tranquillità. Ma non è permesso al governo, qualunque sia il regime, di diventare dittatura e tirannia. Non è permesso di umiliare la persona umana o di ucciderla in forza della sua libertà, la quale ha certamente i suoi limiti, che sono il bene delle persone e delle comunità.
Il buon governante non teme la libertà e neppure l’opposizione. Al contrario, si basa su di esse e le prende come guida per assicurare meglio il bene comune.
È certamente difficile rispettare pienamente la libertà umana. Ma chi ha accettato di governare deve essere in grado di affrontare ogni difficoltà, senza cadere nelle ingiustizie. Deve sapere come trattare la libertà delle persone senza opprimerle. Un buon governante si dimostra tale proprio attraverso la sua capacità di trattare la libertà delle persone e dei gruppi, fra cui i partiti politici e tutti coloro che si oppongono a lui con le loro idee. Non ha diritto di gettare in prigione gli intellettuali e le persone libere del popolo per il solo fatto di appartenere all’opposizione. Anche nelle prigioni, deve essere rispettata la dignità della persona umana. Non si possono correggere le differenze di opinione attraverso l’annientamento della persona umana, soggetta unicamente a Dio e non alla tirannia di un dittatore.
Di fronte alla politica mondiale
11. Vogliamo dei leader politici indipendenti dalle pressioni e dai piani esterni. Sappiamo che esistono molte pressioni di ogni sorta, che costituiscono fardelli pesanti da portare, limitano la libertà dei governanti e vanno contro il bene dei loro popoli.
Perciò abbiamo bisogno di leader politici forti. Ed è nel popolo che essi troveranno la loro forza, ma solo se ne sapranno rispettare la libertà e la dignità. Sostenuti dal loro popolo, i capi possono far fronte a tutte le pressioni esterne mondiali e alle grandi potenze che pretendono di cambiare a loro piacimento il nostro Medio Oriente.
Abbiamo bisogno di leader che, sostenuti dal loro popolo, siano in grado di tener testa ai potenti di questo mondo e di trattare con loro alla pari; essi non temeranno alcuna minaccia militare o economica.
Un popolo rispettato dai suoi leader è la loro forza e la fonte della loro libertà di decisione di fronte a ogni aggressione dall’esterno e di fronte a ogni tentativo di distruzione o di sedizione e di guerre civili, come abbiamo visto e come vediamo ancora nei nostri diversi paesi.
La regione ha bisogno di leader che siano artefici di pace per il loro paese e per i paesi vicini. Essi rifiutano ogni incitamento alla guerra che proviene loro dall’esterno, nonché le alleanze contro il bene dei loro popoli o dei paesi vicini. Vogliamo capi liberi, con le mani pulite, che possano far uscire la regione dalle sue molteplici guerre e stabilirvi una pace stabile e definitiva.
Lo stato laico
12. Noi ci aspettiamo dai nostri capi che costruiscano uno stato laico, basato sull’uguaglianza di tutti i suoi cittadini, senza discriminazione sulla base della religione o di qualsiasi altra ragione. Uno stato nel quale ogni cittadino si senta a casa propria, uguale a tutti gli altri e con le stesse opportunità di vita, governo o lavoro, indipendentemente dalla sua religione. Tutti si sentiranno fratelli nella stessa patria, con gli stessi doveri e gli stessi diritti.
Lo stato laico separa religione e stato, ma rispetta tutte le religioni e le libertà. Si sforza di comprendere meglio la questione religiosa nei nostri paesi, con le sue componenti, cristianesimo, islam e comunità druse, senza lasciare che si trasformino in confessionalismo religioso o politico. Questo richiede due cose: anzitutto noi, cristiani e musulmani e drusi, dobbiamo imparare come vivere insieme, come creare insieme lo stato moderno; e in secondo luogo dobbiamo apprendere come formare le nostre generazioni attraverso una nuova educazione basata sugli stessi principi: rispetto reciproco, collaborazione e destino comune, nel paese nel quale Dio ci ha mandati.
Per questo vogliamo leader politici che abbiano il coraggio d’intraprendere una nuova educazione alla vita politica, alla formazione della persona umana e di un nuovo cittadino. Vogliamo un’autorità che formi persone che tendono al proprio perfezionamento e a quello dei loro fratelli e di tutta la patria. Cittadini e credenti che non sono chiusi in sé stessi, ma sono aperti e capaci di abbracciare tutti i loro fratelli e sorelle e il mondo intero.
I capi religiosi
13. Noi vogliamo capi religiosi che abbiano visioni nuove, capi religiosi cristiani, musulmani e drusi uniti dalla fede in Dio uno e unico, misericordioso, amico degli uomini. Capi che collaborino e si sforzino di formare dei credenti che si amano gli uni gli altri, quale che sia la rispettiva religione.
Condanniamo le guerre religiose del passato, le lasciamo alla storia e per esse chiediamo perdono a Dio. Gli chiediamo d’illuminarci per configurare insieme la nostra nuova storia e di darci la forza di camminare nella sua luce e nella sua misericordia, affinché la religione resti, a immagine di Dio stesso, una religione di amore e di misericordia per tutte le sue creature.
Nella nostra realtà quotidiana esistono dialogo e accettazione reciproca. Ma esiste anche il contrario. Continuano a esistere correnti religiose contrarie alla collaborazione e all’uguaglianza fra i credenti di religioni diverse. C’è un rifiuto dello stato laico e dell’uguaglianza dei cittadini. Nel cuore di molte persone si trovano ancora l’estremismo religioso e l’esclusione. Le nostre ferite in Iraq e in Siria sono ancora aperte. Gli attacchi contro le chiese in Egitto continuano a ripetersi. Esistono ancora fra noi fanatismi religiosi che separano i credenti in nome di Dio, che è uno e unico e ama tutte le sue creature indipendentemente dalla religione alla quale appartengono. Vi sono anche quelli che uccidono in nome di Dio.
Nei cuori di alcuni cristiani si è formata anche una reazione di carattere confessionale, che non è cristiana ed evidenzia un sentimento di disperazione e di rifiuto dell’altro.
Di fronte a queste realtà noi ci fermiamo, riflettiamo e ci facciamo un esame di coscienza per ridefinire insieme i nostri atteggiamenti e rinnovare la nostra fede in Dio, che è amore e misericordia. Rinnoviamo il nostro amore per Dio e gli uni per gli altri. Decidiamo di cambiare i vecchi comportamenti che dividono e li sostituiamo con l’amicizia e il rispetto reciproco.
Anche i capi religiosi sono «servitori» degli altri e non di loro stessi. Essi camminano e guidano i credenti nelle vie di Dio, ossia l’amore e la misericordia. Hanno la responsabilità della formazione di persone umane nuove, forti, misericordiose, amanti di ogni uomo, di ogni religione. Possono formare una generazione di credenti che danno la vita e non la morte; possono formare credenti sinceri, misericordiosi e non omicidi.
L’amore del capo religioso abbraccia certamente i credenti della sua comunità, ma si spinge oltre, perché l’amore non ha confini, è universale come l’amore che Dio ha per tutta la sua creazione. Il nostro Medio Oriente, saturo di sangue e di morte, ha bisogno di capi religiosi che lo guidino nelle vie della vita. Abbiamo bisogno anche di capi religiosi che abbiano il coraggio di resistere a tutte le forze di discriminazione e di morte, che ancora operano nelle nostre società, sia che provengano da noi stessi sia che provengano dall’esterno o da correnti che hanno un grande potere di distruzione.
Abbiamo bisogno di capi religiosi in grado di compatire le sofferenze di tutti, di portarle in loro stessi e di insegnare che le sofferenze non sono per la morte, ma sono una strada verso una vita nuova, sull’esempio della croce di nostro Signore Gesù Cristo, che fu un percorso dalla morte alla risurrezione. Tutta la vita umana ha un carattere pasquale; essa è un continuo passaggio da ogni forma di morte alla vita; è una continua vittoria sul peccato e sul male fino a giungere alla vita nuova.
I capi religiosi devono lasciare allo stato la sua indipendenza nel suo ambito. Devono insegnare e richiamare i grandi principi della morale. Attraverso il loro insegnamento devono sostenere lo stato in ogni azione giusta che conduce a una vita degna e tranquilla della comunità. Devono alzare la voce per difendere i poveri, gli oppressi. Devono andare in cerca di tutte le persone oppresse o bisognose per rendere loro giustizia e assicurare loro una vita degna. Devono difendere la libertà e insegnare al tempo stesso ai credenti come usare la loro libertà non per discriminare, non per arrecare pregiudizio alla società e opprimere, ma per costruire insieme.
Una nuova educazione
14. Quanto siamo venuti dicendo dimostra che abbiamo bisogno di una nuova educazione per formare un essere umano nuovo. La responsabilità tocca allo stato, come anche alla chiesa e alla moschea. Ogni capo religioso, in ogni religione, ne è responsabile. Abbiamo bisogno di una nuova educazione basata sulla misericordia e sull’amore, sull’uguaglianza e sulla pari dignità data da Dio a tutti.
Quando riusciremo a formare un uomo nuovo, formeremo anche un credente nuovo, capace di vedere Dio creatore, misericordioso e amico degli uomini. Così nascerà anche una nuova società basata sulla giustizia, sulla libertà e sulla collaborazione. Con un uomo nuovo nascerà uno stato nuovo per tutti i suoi cittadini, quale che sia la loro religione.
Un’educazione religiosa sana, per il cristiano e per il musulmano, ciascuno nella sua religione, rende possibile un progetto nazionale nuovo nel quale tutti e ciascuno sono ugualmente uomini e cittadini, tutti credenti e ciascuno fedele alla sua religione. Un progetto nazionale crea una patria per tutti e al di sopra di tutti. È uno slogan che sentiamo ripetere spesso, ma che finora non abbiamo saputo realizzare. L’unione e l’uguaglianza non sono ancora sufficientemente realizzate. Esistono ancora fra noi discriminazioni o privilegi tra i cittadini a motivo della religione o della libertà. Nei nostri paesi addirittura esistono ancora ingiustizie, delitti, torture in detenzione per chi rivendica la libertà. Dobbiamo ricordare i mali che ancora esistono, per non dimenticare che non abbiamo ancora raggiunto la perfezione. Abbiamo ancora molto lavoro da fare per educare, formare e purificare.
Chi educa? Chi forma l’uomo nuovo?
15. Siamo paesi «religiosi». La religione ci ha divisi in passato e in alcuni casi e luoghi continua tuttora a dividerci. Perciò, come abbiamo già detto, i leader religiosi hanno la responsabilità di lavorare alla nuova educazione. Infatti o assicuriamo una formazione sincera, che dica chiaramente a ogni uomo e donna che ogni credente, anche di una religione diversa, è suo fratello e sua sorella, e tutti i cittadini sono fratelli e sorelle, oppure continueremo a dire che non siamo tutti uguali e che «tu sei migliore di tuo fratello». Questa è stata l’educazione religiosa impartita fino a ora, ed è stata per ciò stesso un terreno fertile per le discordie, le guerre civili e l’oppressione di chi fosse per un aspetto o per l’altro diverso.
Abbiamo bisogno di una nuova educazione religiosa e civile che dica a ognuno: tu sei anzitutto una persona umana, creata da Dio, e ogni altra persona diversa da te è, come te, creatura di Dio. Per la creazione noi siamo tutti fratelli e sorelle. E in patria siamo tutti uguali.
Abbiamo bisogno di un’educazione religiosa che ricordi sempre il comandamento di Cristo: «Amatevi gli uni gli altri» (cf. Gv 13,34) senza limiti. Gesù non dice: amate i vostri fratelli che credono come voi, dice: «Amatevi gli uni gli altri… amate il vostro prossimo come voi stessi» (cf. Gv 12,15; Gal 5,14). Il «prossimo» è ogni persona umana, senza limiti e senza classificazione.
Il capo religioso ha un ruolo determinante da svolgere in questa nuova educazione. È lui infatti a ispirare gli atteggiamenti assunti in famiglia, nella scuola e nella società. L’educazione in famiglia ha bisogno di purificarsi da ogni atteggiamento che rifiuta chi è diverso nella sua religione e dai pregiudizi del passato, trasmessi di generazione in generazione. La famiglia deve passare per una fase di purificazione, di cambiamento di mentalità e di comportamenti verso l’altro.
In tutta la società bisogna operare una conversione. I massacri, le guerre civili e le crudeltà degli ultimi anni non sono ancora terminati, e tutto questo richiede purificazione, conversione e un passaggio dalla morte alla vita.
Vi sono ancora persone che uccidono in nome di Dio, o che educano potenziali assassini basandosi su vecchi metodi educativi. Anch’essi per parte loro devono cambiare, per poter acquisire uno spirito nuovo ed educare uomini e donne capaci di amare e rispettare tutti quelli che professano una religione diversa.
Anche le nostre scuole private e pubbliche, le nostre università e i mezzi di comunicazione sono responsabili della nuova educazione, che dice a tutti: siamo tutti uguali in umanità e nella dignità che Dio ci ha dato. I responsabili delle scuole private e pubbliche devono chiedersi: che tipo di credente, cristiano o musulmano o druso, stiamo preparando? Che tipo di cittadino e che futuro prepariamo per il paese? Stiamo costruendo una società unita, compatta, nonostante le differenze religiose o partitiche, o stiamo alimentando il confessionalismo religioso o politico e preparando guerre civili in nome di Dio o del partito?
Che tipo di credenti vogliamo? Vogliamo credenti e cittadini forti e fraterni, che non opprimono nessuno e non si lasciano opprimere da nessuno. Credenti la cui forza sta nella loro capacità di amare e di opporsi a ogni aggressione contro loro stessi o contro gli altri.
Capitolo 3: Che cosa diciamo ai leader occidentali?
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