Il
nunzio apostolico in Iran, arcivescovo Leo Boccardi, dopo l’uccisione
del generale Soleimani ha dichiarato in un’intervista a «VaticanNews» :
“Tutto
questo crea preoccupazione e ci dimostra quanto è difficile
costruire e credere nella pace. La buona politica è al servizio
della pace, tutta la comunità internazionale deve mettersi al
servizio della pace, non soltanto nella regione ma nel mondo intero.
Certamente, in queste ore, si respira una forte tensione in Iran. Ci
sono state manifestazioni dove, dopo l’incredulità, si sono
registrati violenza, dolore e protesta.
L’appello
è quello di abbassare la tensione, chiamare tutti al negoziato e
credere al dialogo sapendo, come la storia ci ha sempre insegnato,
che la guerra e le armi non sono le soluzioni ai problemi che
affliggono il mondo di oggi. Bisogna credere nel negoziato. Si deve
credere nel dialogo. Bisogna rinunciare al conflitto e si deve
“armarsi” con le altre armi che sono quelle della giustizia e
della buona volontà.
Occorre
continuare a prodigarsi e a portare all’attenzione della comunità
internazionale la situazione del Medio Oriente. Una situazione che
deve essere risolta e si devono chiamare tutti alla responsabilità
diretta che abbiamo. Pacta sunt servanda, dice una regola importante
della diplomazia. E le regole del diritto devono essere rispettate da
tutti.”
America
contro tutti con l’uccisione del generale Soleimani
di
Gianandrea Gaiani
L’uccisione
a Baghdad del comandante della divisione al-Quds dei pasdaran
iraniani, il generale Qassem Soleimani, non costituisce solo
l’ennesima esecuzione mirata effettuata dagli Stati Uniti ormai in
ogni angolo del mondo, ma rappresenta un vero e proprio spartiacque
tra Washington e il resto del mondo, alleati inclusi.
Poco
importa se, sul piano tecnico-militare i due veicoli Suv polverizzati
all’aeroporto di Baghdad siano stati colpiti dai missili Hellfire
lanciati da un elicottero AH-64E o da un velivolo teleguidato MQ-9
Reaper.
Quel
che conta in termini politico-strategici è che gli Stati Uniti hanno
ucciso Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis (vice comandante delle Unità
di Mobilitazione Popolare, le milizie scite irachene filo-iraniane
protagoniste della campagna vittoriosa contro lo Stato Islamico) come
se si trattasse di capi talebani o di leader di milizie e gruppi
terroristici qaedisti o dell’Isis.
Soleimani
era un generale comandante di una forza governativa, cioè un’alta
personalità dello Stato iraniano mentre al-Muhandis era un alto
ufficiale di una milizia integrata nell’apparato militare dello
Stato iracheno, lo stesso Stato che ha un accordo con Washington per
ospitare forze statunitensi che certo non prevede vengano impiegate
per colpire figure istituzionali oppure ospiti e amici dell’Iraq.
Non
si tratta solo di ingerenza arbitraria ma di un raid effettuato dagli
USA con velivoli decollati probabilmente dall’Iraq che hanno
colpito a Baghdad personalità dello Stato iracheno e iraniano
ritenute ostili da Washington che, come fa Ankara con i curdi,
definisce “terroristi” tutti i suoi avversari inclusi gli
iraniani.
Definizione
improbabile tenuto conto del ruolo fondamentale ricoperto da pasdaran
e milizie scite nello sconfiggere lo Stato Islamico in Iraq e Siria.
L’enormità
di quanto è accaduto a Baghdad non può essere sottovalutata anche
in termini di rispetto della sovranità di uno Stato amico degli
stati Uniti. Come reagiremmo se aerei statunitensi decollati da
Aviano o Sigonella colpissero alti ufficiali italiani e di un paese
amico di Roma bombardando i loro veicoli all’aeroporto di
Fiumicino? Come definiremmo il raid di un drone iraniano che
uccidesse con un missile a Baghdad un generale dei marines o delle
special forces statunitensi? Senza dubbio lo definiremmo un atto di
terrorismo.
E’
vero che gli iraniani erano presenti alla violenta manifestazione
tenutasi davanti all’ambasciata americana a Baghdad ma quell’evento
è stata una risposta non molto pacifica a un atto di guerra quale i
raid aerei statunitensi su una base delle milizie scite irachene.
Certo,
le tensioni tra statunitensi e milizie filo-iraniane in Iraq avevano
messo da tempo a dura prova i rapporti tra Baghdad e Washington ma le
pesanti ripercussioni dell’uccisione di Soleimani non sfuggono
neppure ai vertici dell’Amministrazione Trump.
Il
Pentagono ha subito tenuto a precisare che “per ordine del
Presidente le forze armate hanno adottato misure difensive decisive
per proteggere il personale americano all’estero uccidendo Qassem
Soleimani”. Una dichiarazione che cerca di giustificare l’omicidio
come un’azione difensiva attribuendo al tempo stesso la
responsabilità a Trump.
Il
segretario di Stato, Mike Pompeo, si è impegnato a spiegare ad amici
e alleati le ragioni degli USA ma ha incassato un plauso solo da
Gerusalemme (peraltro scontato) mentre ovunque dilagano scetticismo,
sconcerto e condanne più o meno manifeste. Intanto i presidenti
russo e francese discutono ormai sempre più apertamente su come
contrastare la politica muscolare degli Stati Uniti in Medio Oriente.
Di
fronte agli scarsi risultati ottenuti dalla sua campagna in cerca di
consenso e comprensione, Pompeo, ha pensato bene di bacchettare gli
alleati europei (ancora !!) che, a suo giudizio, non sono stati “così
disponibili” nel comprendere le ragioni che hanno spinto gli
americani a uccidere Soleimani. “Ho parlato con i nostri partner
nella regione del Medio Oriente per spiegare loro cosa stessimo
facendo, perchè lo stessimo facendo, e per chiedere loro assistenza.
Tutti sono stati fantastici. Ma
le mie conversazioni con i nostri partner in altri luoghi non sono
state altrettanto positive. Francamente, gli europei non sono stati
così disponibili come avrei voluto che fossero. Gli inglesi, i
francesi, i tedeschi, tutti devono capire ciò che hanno fatto gli
americani, hanno salvato vite umane anche in Europa”.
Valutazione
che ben spiega quale sia il concetto di alleanza con l’Europa della
leadership statunitense, già peraltro ben evidenziato in passato.
Di
fatto Washington (fin da prima dell’attuale amministrazione) ci
dice da anni che dobbiamo accettare che i russi siano di nuovo
“cattivi”, che dobbiamo spendere di più per la Difesa (ma
comprando prodotti “made in USA”), che l’accordo sul nucleare
con l’Iran andava abrogato (cin sanzioni economiche annesse) pur in
assenza di violazioni da parte di Teheran e ora pretende di
convincerci che se gli americani ammazzano chiunque desiderino e
bombardano ovunque ritengano necessario in barba a ogni norma del
diritto, lo fanno per il nostro bene.
Meglio
metterlo in conto: con visioni così semplicistiche e supponenti i
rapporti con gli USA saranno per tutti sempre più ardui e complicati
mentre la pretesa di averci come vassalli plaudenti rende agli
europei sempre più difficile essere amici e alleati degli Stati
Uniti.
Difficile
scongiurare l’escalation che l’uccisione di Soleimani con ogni
probabilità finirà per generare, soprattutto in un Iraq già da
tempo in preda a una profonda crisi interna che mina la residua
credibilità delle istituzioni in mano agli sciti e rilancia, per
l’ennesima volta dalla rimozione del regime di Saddam Hussein, il
confronto tra sciti e sunniti.
L’Iran
potrebbe rispondere presto all’uccisione di Soleimani in termini
militari mentre Baghdad sarà con ogni probabilità costretta da
pressioni da parte di molti partiti sciti e di Teheran a chiedere
agli Stati Uniti di ritirare i circa 5mila militari presenti nel
paese nell’ambito della Coalizione anti-Isis di cui fanno parte
anche i contingenti alleati inclusi 900 militari italiani.
Soldati
barricati nelle basi nel timore di trovarsi coinvolti in qualche
rappresaglia, scambiati per americani, dopo il raid all’aeroporto
di Baghdad circa il quale gli USA non avevano neppure informato gli
alleati della coalizione.
L’aperta
ostilità con l’Iran e il mondo scita, ufficializzata platealmente
con l’uccisione di Soleimani, preoccupa Roma (che schiera soldati a
Baghdad e Irbil ma anche in mezzo agli Hezbollah nel libano del Sud)
ma anche le stesse monarchie del Golfo che vedono oggi ancor più
concreto il rischio di una guerra con Teheran ma soprattutto devono
oggi guardare con crescente diffidenza le forze militari statunitensi
presenti sul loro territorio.
Forze
che evidentemente Washington considera di poter impiegare senza
limitazioni nonostante gli accordi sottoscritti. Un aspetto su cui
necessariamente rifletteranno da oggi in tanti, in Medio Oriente come
in Europa.
E’
ancora tollerabile per Baghdad e il mondo arabo che in queste ore i
caccia statunitensi basati in Giordania, Kuwait ed Emirati Arabi
Uniti sorvolino liberamente l’Iraq per proteggere le proprie basi
e, qualora lo ritenessero necessario, bombardino installazioni e
milizie in territorio iracheno?
Queste
forze statunitensi costituiscono ancora un elemento di
stabilizzazione regionale o non sono al contrario strumenti per
accentuarne una destabilizzazione? Una destabilizzazione che
colpirebbe anche in termini petroliferi i paesi produttori e i
principali consumatori, eccetto quelli già autosufficienti come gli
Stati Uniti.
|
Milioni di iraniani si uniscono per la cerimonia di addio per il generale Soleimani e i suoi compagni |
Secondo
alcuni analisti l’uccisione così plateale di Soleimani ha
l’obiettivo di ripristinare la deterrenza statunitense nel Golfo,
per ammonire Teheran che gli USA sono sempre pronti a mordere le
forze iraniane e dei suoi alleati quali Hezbollah o le milizie scite
in Iraq. L’impressione è invece che l’attacco contro il leader
dei pasdaran punti a far saltare i precari equilibri che tengono
malamente insieme l’Iraq facendolo sprofondare nella guerra civile.
Soleimani era un “obiettivo pagante” ma la sua eliminazione non
costituisce nessun vantaggio: al suo posto è già stato nominato il
suo vice, il generale Esmael Ghaani (nella foto sotto), che
continuerà a guidare i pasdaran per garantire gli interessi
dell’Iran oltre i confini nazionali.
Anzi,
in un Iran diviso al suo interno dalla crescente insofferenza nei
confronti del regime, la morte di un eroe nazionale così popolare
come Suleimani aiuterà a cementare il patriottismo intorno al
governo.
Ancora
Mike Pompeo, subito dopo il raid ha annunciato su Twitter che si
vedono iracheni in festa per strada dopo l’annuncio della morte del
generale iraniano. “Gli iracheni danzano nelle strade per la
libertà, grati che il generale Soleimani non c’è più”.
A
esprimere tanta gioia erano però gli abitanti dei quartieri sunniti
di Baghdad e del resto Soleimani ha guidato gran parte delle
operazioni contro l’insorgenza sunnita accentrata intorno al
Califfato: dalla difesa di Baghdad nell’estate del 2014 (gestita
dai pasdaran) fino alla riconquista di tutto il nord e l’ovest
dell’Iraq nonché di parte dell’Est siriano.
Difficile
immaginare che il tweet di Pompeo fosse inconsapevole, tenuto conto
che l’attuale segretario di Stato è stato al vertice della CIA, ma
se dopo aver istituito la Coalizione anti Isis ora Washington punta
ad alimentare il revanchismo sunnita (specie ora
che l’Isis sta rialzando la testa)
è evidente che l’obiettivo ultimo è la definitiva
destabilizzazione dell’Iraq.
Un
obiettivo funzionale, nella visione strategica degli USA, a
interrompere la continuità geografica e strategica della “Mezzaluna
scita” che si estende dall’Iran bagnato dall’Oceano Indiano e
dalle acque del Golfo Persico fino alle coste del Libano meridionale
sulle rive del Mediterraneo attraverso Iraq e Siria.
Un
obiettivo certo non nuovo per gli USA che fino a ieri lo hanno
perseguito cercando di interrompere questa continuità geografica con
il controllo dei territori orientali siriani (in mano ai curdi
sostenuti da militari statunitensi, francesi e britannici) ad altri
ribelli appoggiati dalle forze USA in Giordania, nel settore di
al-Tanf.
Nell’ottobre
scorso l’intervento turco nel nord della Siria e il successivo
accordo tra Ankara e Mosca hanno cambiato tutto mettendo fuori gioco
gli statunitensi e permettendo a Damasco di riprendere il controllo
dell’est del paese.
L’anello
debole della “mezzaluna scita” su cui oggi Washington potrebbe
far leva è quindi l’Iraq, sostenendo e alimentando l’insofferenza
dei sunniti nei confronti del governo scita di Baghdad sostenuto
dall’Iran e afflitto da sempre dai mali del settarismo e della
corruzione.