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lunedì 26 novembre 2018

I ribelli colpiscono con i missili al cloro i civili di Aleppo, ma stavolta nessuno s’indigna


di Gian Micalessin

Stavolta nessuno indagherà, nessuno condannerà e nessuno, tantomeno, bombarderà. A differenza di quelli messi a segno a Ghouta nel 2013, a Khan Shaykun nel 2017 o a Douma nell'aprile 2018 l'attacco chimico lanciato sabato notte nella zona di al-Khalidiya, un quartiere sul versante occidentale di Aleppo, non indigna, né scandalizza nessuno. Anche perché stavolta a venir colpita non è una zona controllata dai ribelli, ma una città completamente pacificata dove la popolazione civile è stata restituita da quasi due anni all'autorità del governo di Damasco. A spazzar via l'atmosfera di precaria tranquillità che si respira ad Aleppo è bastata una salva di missili partiti dalle zone della provincia di Idlib, l'ultima roccaforte jihadista nella parte nord occidentale del paese.

I missili non sono una grande novità. I civili di Aleppo ci hanno fatto il callo. Sanno che di tanto in tanto i ribelli, nonostante le trattative per arrivare ad una loro evacuazione pacifica da quei territori, non resistono alla tentazione di punire una città colpevole di aver resistito per anni all' assedio jihadista.

Nessuno però si aspettava un attacco chimico in piena regola. Un attacco messo a segno colpendo Aleppo con delle testate al cloro. Quell'attacco, stando a fonti d'informazioni siriane, ha causato l'intossicazione di almeno 41 persone mentre i contaminati sarebbero oltre un centinaio. Secondo la testimonianza di un medico dell'ospedale di Aleppo trasmessa dalla televisione di stato almeno due persone restano in conduzioni critiche mentre quasi tutto gli altri soffrono di difficoltà respiratorie e ridotte capacità visive. L'attacco viene segnalato anche da Rami Abdurrahman, il titolare di quel discusso "Osservatorio Siriano per i Diritti Umani" basato in Gran Bretagna considerato, sin dal 2011, il portavoce delle fazioni ribelli.

Stavolta neppure l'assai poco imparziale "Osservatorio Siriano" se la sente di negare l'attacco ad una città dove da due anni non c'è più la guerra. Una città dove, invece di combattere, si cerca di ricostruire. Proprio per questo l'utilizzo delle testate al cloro è sicuramente più proditorio e più vigliacco. Eppure nessuno sembra volersi sbilanciare. Certo stavolta è un po' difficile ripetere le litanie del passato quando ogni responsabilità veniva fatta cadere sul governo di Bashar Assad e sui suoi alleati russi. Stavolta anche il più scatenato sostenitore della causa ribelle ha qualche difficoltà nell'accusare il "dittatore" di aver colpito con le armi chimiche quei cittadini di Aleppo che non solo si sono opposti per anni all'assedio dei ribelli, ma stanno salutando il ritorno di migliaia di profughi rientrati nelle zone controllate dal governo. Ed ancor più difficile è ribaltare la verità sostenendo, come fecero alla vigilia dei bombardamenti dello scorso aprile Emmanuel Macron e Theresa May, di aver in mano le prove certe della colpevolezza del regime. 
Stavolta l'unica cosa sicura e certa è che nessuno verrà né accusato, né punito. Perché se s'incominciasse ad indagare anche le certezze del passato incomincerebbero a traballare. E l'intero castello di carte costruito sugli attacchi chimici attribuiti al governo siriano e ai suoi alleati rischierebbe di crollare. 

venerdì 23 novembre 2018

Dietro alla crisi del Golfo si cela anche una spaccatura religiosa tutta interna al mondo sunnita


di Michele Brignone

Oltre ad aver ridisegnato gli equilibri geo-politici mediorientali, la crisi che da un anno oppone il Qatar e la coalizione composta da Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Bahrein ha ratificato la frattura politico-religiosa, tutta interna al mondo sunnita, tra un campo islamista sponsorizzato da Doha e un campo anti-islamista sostenuto dagli Stati del quartetto.

Una relazione complicata
   Il conflitto attuale è l’ultimo capitolo nella storia della complicata relazione triangolare tra lo Stato egiziano, i Fratelli musulmani e i Paesi del Golfo. Tutto cominciò negli anni ’50, quando molti membri della Fratellanza lasciarono l’Egitto per sfuggire alla repressione nasserista, trovando rifugio nel Golfo e in particolare in Arabia Saudita. Fino all’inizio degli anni ’90, l’incontro tra gli islamisti e l’Arabia Saudita avvenne sotto il segno della cooperazione: i Fratelli musulmani furono considerati un alleato naturale contro i movimenti arabi rivoluzionari e contribuirono ad accrescere la legittimità pan-islamica di Riyadh. Fu in questo periodo che dall’ibridazione culturale e religiosa tra le idee della Fratellanza e il wahhabismo saudita nacque il movimento della Sahwa islāmiyya (il Risveglio islamico). Il sodalizio si ruppe con la guerra del Golfo del 1990-1991, quando per liberare il Kuwait occupato dall’Iraq di Saddam Hussein la monarchia saudita permise alle truppe statunitensi di stazionare sul proprio territorio, scatenando l’indignazione islamista.
Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno poi allargato ulteriormente il fossato: mentre i Fratelli musulmani e altri movimenti islamisti, sostenuti dal Qatar e dalla Turchia, erano impegnati a creare un nuovo ordine politico mediorientale, l’Arabia Saudita e gli Emirati intervenivano per ripristinare lo status quo, in particolare appoggiando l’Egitto del generale al-Sisi.

Critiche e accuse incrociate
   Dopo la rottura del 2017, si sono moltiplicate accuse, analisi critiche, e prese di distanza incrociate da parte di politici, intellettuali e chierici dei due campi. Il fronte pro-islamista e filo-Qatar accusa lo schieramento opposto di aver tradito l’Islam, cedendo al secolarismo occidentale. Per esempio il marocchino Ahmad al-Raysūnī, principale ideologo del movimento Unicità e Riforma (MUR) e vice-presidente dell’Unione Mondiale degli Ulema Musulmani, nell’ottobre del 2017 ha rimproverato all’Islam sauditadi essere passato «dalla fioritura alla decadenza». Sempre nell’autunno del 2017, dalle colonne del quotidiano qatarino al-Watan, il giornalista di al-Jazeera Ahmad Mansūr ha imputato a Emirati e Arabia Saudita di voler deliberatamente secolarizzare le società islamiche. In una serie di articoli pubblicati sul quotidiano digitale filo-qatarino Arabi21, Soumaya Ghannouchi, figlia del fondatore e leader del partito islamista tunisino Ennahda, ha descritto invece il conflitto attuale come una battaglia tra un Islam democratico e liberale e un autoritarismo che in passato si è servito della religione ma che oggi è diventato laicista.
 Il fronte anti-islamista ascrive invece la violenza e il caos che perturbano le società musulmane all’influenza nefasta dei Fratelli musulmani. Ad esempio il principe ereditario saudita, Muhammad bin Salman, che ha promesso di “riportare” l’Arabia Saudita alla “moderazione” degli anni precedenti al 1979, attribuisce l’estremismo religioso presente nel Regno alle infiltrazioni della Fratellanza, in particolare nel sistema educativo saudita.

L’Islam emiratino: tra tradizione e pensiero critico
   Al di là della discutibile narrazione storica proposta da MBS, il suo progetto di riforma dell’Islam rimane molto vago. La sua preoccupazione non è tanto una riforma religiosa, quanto un Islam che non intralci il processo di modernizzazione del Paese, non si trasformi in una forma di opposizione politica e non comprometta la reputazione internazionale dell’Arabia Saudita. È per questo che la vera alternativa all’interpretazione islamista non è l’Islam che, chissà quando chissà se, nascerà in Arabia Saudita, ma quello che già oggi viene promosso dagli Emirati. Questi ultimi, a differenza dell’Arabia Saudita e del Qatar, non aderiscono alla dottrina wahhabita, ma alla scuola malikita. Allo stesso tempo però, gli Emirati non dispongono di istituzioni islamiche tradizionali attraverso le quali veicolare il proprio messaggio religioso. La loro politica islamica si è così tradotta nel patrocinio di nuove istituzioni, nominalmente indipendenti, guidate da eminenti personalità del mondo sunnita.  Fra queste spiccano il Consiglio dei Saggi Musulmani e il Forum per la Promozione della Pace nelle Società Musulmane, nate entrambe ad Abu Dhabi nel 2014. Il Consiglio, che riunisce ulema di tutto il mondo, è presieduto dal Grande Imam dell’Azhar Ahmad al-Tayyib, e rappresenta una risposta all’Unione Mondiale degli Ulema Musulmani, una rete di esperti religiosi e intellettuali di orientamento islamista, molto vicina al Qatar, creata e presieduta dal “global mufti” Yūsif al-Qaradāwī. Il Forum per la Promozione della Pace è invece guidato dallo shaykh di origine mauritana ‘Abdallāh Bin Bayyah, che fino al 2013 faceva parte dell’Unione mondiale degli Ulema. Queste due istituzioni sono espressione di un Islam legato alle scuole giuridiche e teologiche tradizionali e alla spiritualità sufi, impegnato nel dialogo interreligioso e interculturale e decisamente avverso alle interpretazioni politiche e violente. 
 Tuttavia, l’azione degli Emirati non punta soltanto nella direzione di una religiosità neo-tradizionale: da qualche tempo, ospite fisso del canale Abu Dhabi TV è Muhammad Shahrūr, intellettuale siriano impegnato in un’esegesi rinnovata del Corano, che, quando in Tunisia si è iniziato a dibattere del superamento della disparità successoria tra uomo e donna, si è trovato sul fronte opposto a quello dello shaykh al-Tayyib. Secondo un’inchiesta pubblicata nel luglio del 2017 sul sito di al-Jazeera, gli Emirati sarebbero anche i principali ideatori e finanziatori di Mu’minūn bilā Hudūd (“Credenti senza frontiere”), una Fondazione la cui sede principale è a Rabat e a cui partecipano intellettuali di tutto il mondo arabo. Attraverso un’impressionante mole di pubblicazioni ed eventi, Mu’minūn bilā Hudūd promuove un pensiero critico sulla tradizione islamica e sul rapporto tra Islam e spazio pubblico, dando voce a quei “nuovi pensatori” che da alcuni decenni portano avanti una rilettura della rivelazione attraverso gli strumenti offerti dalla critica testuale moderna. Cura per esempio la pubblicazione dell’opera omnia dello studioso egiziano Nasr Hāmid Abū Zayd, noto per la sua ermeneutica storica del testo sacro islamico.

The Koran (photo: dpa)Due modelli per l’Islam sunnita
   Il Qatar dell’emiro Tamīm e gli Emirati dell’attivissimo erede al trono di Abu Dhabi Muhammad bin Zāyid sono così l’emblema delle due grandi interpretazioni che si contendono oggi la scena sunnita. Da una parte una lettura politica dell’Islam, fondata sulla critica all’ordine esistente e ai regimi autoritari, attenta alla giustizia sociale e fautrice di un progetto di reislamizzazione delle società e di istituzione di regimi “islamo-democratici”, sulla falsariga dell’esperienza, perlopiù fallimentare, tentata dopo le rivolte del 2011 in Tunisia ed Egitto. Dall’altra un Islam incentrato sulla spiritualità personale, ostile alle interpretazioni violente, presente sulla scena pubblica ma poco interessato a interferire con le scelte politiche ed economiche dei governanti, anche a costo di chiudere un occhio sugli abusi e sulle ingiustizie commessi da questi ultimi.
   È interessante notare che, sebbene questa alternativa percorra oggi molte società musulmane, essa non sia necessariamente destinata a produrre conflitti laceranti. Paesi come la Tunisia e il Marocco, in cui il processo di costruzione democratica continua ad avanzare, sono anche quelli che hanno impedito all’islamismo di egemonizzare la sfera religiosa, ma senza escluderlo dallo spazio politico e dalla società.

martedì 20 novembre 2018

Insieme per ridare un nome e un futuro alla Siria. Intervista a Mons. Abou Khazen


“Siamo un po’ preoccupati per il futuro, ma stiamo bene”. Il tono di voce è ottimista, lo sguardo è vivace. Fa un certo effetto sentire il vicario apostolico di Aleppo, mons. Abou Khazen, parlare della guerra in Siria e avere la percezione che sia quasi un problema lontano. “Ad Aleppo la situazione è più calma. I servizi funzionano, l’elettricità arriva per 16 ore al giorno. E’ una città viva, con il traffico che ha ripreso a intasare le strade”.

Eccellenza, da quello che dice Aleppo sembra davvero rinata…

Ci stiamo riprendendo. So che 2400 fabbriche hanno aperto negli ultimi mesi. E altre si stanno preparando a riaprire. E’ un segnale importante, anche se molti sfollati non stanno tornando: non basta il lavoro, bisogna anche ricostruire le case.

Dopo otto anni di guerra, a che punto siamo secondo lei?

Rimangono due grandi problemi: la presenza dei combattenti stranieri (a decine di migliaia) e il ruolo delle potenze straniere implicate in questa guerra. Ma dopo anni siamo tutti abbastanza ottimisti  e confidiamo che si arrivi presto a una soluzione politica.

Quanto manca alla fine?

Ci sono ancora troppi interessi politici ed economici in campo. E le continue tensioni internazionalinon aiutano. Ad esempio, il fatto che Trump abbia ripristinato le sanzioni contro l’Iran inciderà negativamente sul conflitto e sullo scontro confessionale ancora vivo nella regione.

Eppure lei parla di una pace possibile…

Sempre, vissuta nella nostra vita e testimonianza di ogni giorno. Noi cristiani cerchiamo di essere ponte tra i vari gruppi, non abbiamo problemi con nessuno. Ai nostri fedeli cerchiamo di infondere la speranza, perché vogliamo aiutare tutti nel cammino della riconciliazione.

Ci sono dei segni particolari di quanto sta testimoniando?

In particolare un progetto nato dall’amicizia personale con il Muftì. Finita la battaglia di Aleppo ci siamo accorti delle migliaia di bambini abbandonati e nemmeno iscritti all’anagrafe, di cui non si conosce né la madre né il padre. Spesso nati da stupri e violenze, sono i figli dei jihadisti, i segni più terribili che ci sta lasciando questa guerra. Bambini senza nome, e perciò senza futuro. La ONG ATS pro Terra Sancta ci ha fornito i finanziamenti necessari per iniziare e ci sta ancora aiutando a creare gli spazi necessari per accogliere più di 2000 bambini. Lavoriamo insieme perché questi piccoli possano avere – un giorno – le stesse possibilità di chiunque altro.  E il progetto si chiama – appunto – “Un nome e un futuro”.

Come vi occupate di loro?

Per prima cosa li aiutiamo a iscriversi all’anagrafe, così che possano frequentare la scuola. Il parlamento sta ancora studiando una legge ad hoc per registrarli, ma non è facile. Mi consola però che ci sia un’ipotesi di legge,  perché altrimenti questi ragazzi – quando cresceranno – quali possibilità avranno, se non esistono per nessuno? Noi li aiutiamo poi in tutti gli aspetti, prevediamo un accoglienza e un percorso psicologico perché possano, un giorno, superare i traumi ben visibili sui loro volti.

Tra i bambini che avete accolto, c’è qualcuno che le è rimasto nel cuore?

Qualche mese fa, quando mi sono avvicinato a uno di questi bambini, si è spaventato. Aveva paura di ogni uomo, non voleva parlare con nessuno ed era chiuso al mondo. Quando ho potuto stargli accanto per qualche minuto mi sono accorto che non riusciva a sorridere. Ha cominciato a frequentare il centro, e dopo qualche settimana ha ricominciato a giocare con gli altri, a parlare, a studiare. Qualche tempo dopo sono tornato a trovarlo. Oggi è un’altra persona. Finalmente sorride,  e un bambino che sorride è il futuro della Siria.
Per sostenere il Progetto UN NOME UN FUTURO per i bambini abbandonati di Aleppo :   https://www.proterrasancta.org/it/aiuta-la-terra-santa/aiutaci/?pr=lappello-del-custode-di-terra-santa-emergenza-siria

sabato 17 novembre 2018

Monachesimo nel cuore dell'Islam

 

Dal 2005 una piccola comunità di trappiste provenienti da Valserena, il monastero nell’entroterra di Cecina che ha appena festeggiato i 50 anni, si è insediata in Siria, prima ad Aleppo e poi ad Azeir, presso il confine con il Libano. Una scelta operata con l’intento di raccogliere l’eredità lasciata dai monaci di Thibirine, rapiti poi uccisi nel 1996 da terroristi islamici: la possibilità di una vita fra genti di fedi diverse, tutte però coscienti di una comune dipendenza da Dio. La guerra scoppiata poco dopo l’insediamento nel luogo prescelto per la fondazione del monastero di Nostra Signora fonte della Pace non ha fatto recedere le monache da questo proposito e la loro presenza continua a essere un faro di spiritualità per i siriani cristiani ma anche per la maggioranza islamica. 
Ce ne parla in questa intervista la superiora suor Marta.
Intervista di Toscana Oggi.

giovedì 15 novembre 2018

SOS Chrétiens d’Orient: "Questa generazione può cambiare il mondo e restituire la sua anima all'Europa"

Vorrei iniziare questo breve report sulle mie 5 settimane di volontariato in Siria con questo scambio con padre Tony (se ben ricordo il nome), un sacerdote cattolico greco-melchita in visita a Maaloula per la festa di San Sergio, che si è celebrata il 7 ottobre.
"Che cosa fai con dei francesi?"  
- "Cosa sto facendo qui? ... Mi pongo la stessa domanda! Ma un italiano può adattarsi a tutte le situazioni! "
"Ne sono sicuro. "
Mi chiamo Nicola. Ho 32 anni, archeologo italiano di Bari, e ho scelto di andare in Siria con Fondazione SOS Cristiani d'Oriente .
È difficile per me condividere questa esperienza e spiegare i motivi che mi hanno portato a fare le valigie e prendere il mio zaino. Di ritorno a casa, tutto sembra diverso. Ho dovuto fermarmi, sedermi e riordinare i miei ricordi prima di tornare alla routine quotidiana italiana. Ogni volta che ho provato a scrivere qualcosa, ho finito per cancellare tutto per ricominciare da capo.
Solo una volontà molto forte ti porta a lasciare il tuo paese e superare i tuoi limiti personali. Negli ultimi anni molti europei si sono uniti ai terroristi islamisti per combattere e distruggere, per servire una causa che considerano giusta. Andare all'inverso di questo pensiero non è automatico ; partire per un paese in guerra per ricostruirlo non si impone allo spirito naturalmente.
Mi sono confrontato con la realtà siriana: un paese colpito dal flagello della guerra. I Siriani sono straordinari e, sebbene siano al centro di un conflitto mondiale da 8 anni, sono ancora profondamente gioiosi. Ti guardano con il cuore. Ogni persona che incontri ha nei suoi occhi qualcosa di unico e autentico, difficile da decodificare e appena percettibile.
A Damasco, Maaloula e Homs, ho preso parte ai cantieri di ricostruzione e alle attività con bambini e anziani vivendo pienamente l'istante presente, in mezzo a queste persone sconosciute ma molto rapidamente accattivanti. I confini culturali e psicologici sono facilmente superabili lavorando insieme.
Tutti questi incontri li ho vissuti e molto poco fotografati. Fotografare mi ha fatto sentire un turista della morte. D'altra parte, penso che fosse necessario rendere la mia famiglia e gli amici consapevoli della realtà della situazione in Siria. Il rischio è di abituarsi all'orrore, diventare dipendente dal caos.
Il Krak dei Cavalieri, magnifica fortezza e insieme teatro di orribili orrori, appare oggi ferito dall'occupazione dei terroristi jihadisti e trasformato dalla sua riconquista. Sembra che questo castello abbia dato ai siriani il coraggio di resistere. In Occidente, abbiamo dimenticato le nostre radici e la nostra identità. Se l'Europa avesse vissuto un decimo di quello che ha sofferto il Medio Oriente, non sarebbe rimasto nulla. Il popolo siriano è forte ben oltre la morte; non hanno paura di ricostruire dalle macerie, non hanno paura di sposarsi, di avere figli, senza particolare aiuto da parte del governo, non si vergognano della loro fede e credono in un mondo migliore.
A un certo momento, la Siria ha bisogno della vera Europa e l'Europa ha bisogno della Siria. Ovunque andassi, mi è stato detto: gli italiani sono gli arabi d'Europa. Forse è vero, abbiamo un enorme potenziale che la globalizzazione ci ha fatto dimenticare.
Sono andato in Siria e ho visto un popolo che non si arrende. Sono partito perché sono cristiano. Non ho paura di dirlo! La fede non è solo un sentimento intimo da conservare per se stessi. Deve riflettersi nella vita, nelle relazioni personali, nella cultura, nel lavoro, nell'educazione e nella politica. Come mi è stato detto molte volte, la fede di un cristiano deve essere il meridiano che attraversa tutti i paralleli della sua vita.
Ringrazio SOS Chrétiens d’Orient per avermi dato l'opportunità di vivere questa esperienza e tutte le persone che ho incontrato. Accanto alla Siria dei siriani, c'è per me la Siria dei francesi! Ho trovato qui dei volontari che non fuggono dal loro paese ma cercano veramente la verità. Nonostante le nostre differenze culturali e le incomprensioni che ne derivano, abbiamo davvero creato forti legami. Come diceva T. Eliot, "Nel mondo dei fuggiaschi, chiunque si muove nella direzione opposta sembrerà un disertore. "
Questa generazione che si coinvolge, che non ha paura di lavorare, in un caldo torrido o un freddo gelido, può cambiare il mondo e restituire all'Europa la sua anima.
 ( traduzione OraproSiria)
Per raggiungere i volontari di SOS Cristiani d'Oriente richiedete il formulario scrivendo a roma@soschreriensdorient.fr

sabato 10 novembre 2018

Al capezzale del dolore e del coraggio (5)

Concludiamo i racconti del viaggio in Siria con la testimonianza della nostra Maria da Conceiçao, infermiera che ha scelto di offrire due mesi come volontaria al servizio dei sofferenti. 


Quasi un mese fa sono arrivata in queste regioni orientali, per Qara e Damasco in Siria, con un senso di missione e un sentimento vero che ciò rispondeva a quello a cui il Signore mi invita, specialmente durante le mie preghiere.

Sono arrivata tranquilla, fiduciosa, forse piena di informazioni o piuttosto molto carente di informazioni. Erano immagini e resoconti di distruzione e persone in fuga, disperate.
Un Paese bombardato, minato, con morti atroci e una guerra che potremmo non comprendere (le guerre possono avere qualche giustificazione?), ma che è percepita non come una guerra civile ma come un ignobile palcoscenico di interessi internazionali. 
È vero, ho trovato distruzione, intorno a Qara nei villaggi più piccoli, nei borghi cristiani e nella periferia della capitale, che hanno sofferto l'occupazione che ha portato alla fuga forzata di centinaia di migliaia e a morti brutali.

Tutti mostrano il bisogno di parlare, di sentirsi ascoltati, ma non piace che registri o faccia foto. Io stessa non sento questo desiderio e provo rispetto per la sofferenza che appare sui volti e vi è impressa in modo dolente e molto presente.

Ho trovato, tuttavia, come non avrei osato supporre, devo dire, gente ricca di speranza, in un modo molto forte, determinata a Vivere, perché anche se non capisco la lingua e le conversazioni mi rendo conto che non c'è, in generale, alcuna propensione a parlare della guerra. Tuttavia, dopo un primo contatto, sia i pazienti che gli operatori mi raccontano di così tante perdite, della sofferenza ... di tempo e ancora più tempo mobilitati per il servizio militare, e della vita differita, con sogni perduti. 
Sono racconti di Vita e sopportazione in cui vedo accettazione, ma non rassegnazione. 
Con tutte la difficoltà della lingua, posso però prestare attenzione ad ogni espressione non verbale, allo sguardo, alle mani, al modo in cui mi restituiscono lo sguardo e infine un intuire e uno stare che mi permettono un po' di capire, aiutata dalla conoscenza che alcuni hanno della lingua francese o inglese.

Impressiona questa realtà in cui tutte, ma proprio tutte le persone hanno perdite di parenti e il constatare anche il gran numero di bambini e di giovani con cancro, forse in relazione a queste circostanze in cui sono nati e vivono ...

Nella grande città, la vita sembra "normale", qualunque cosa ciò possa significare, c'è tutto il traffico e il movimento delle persone con le borse della spesa. Ma ne abbiamo davvero parlato, del loro bisogno di "credere" che si torna alla normalità, che possono andare dal parrucchiere o prendere un gelato nella solita piazza. E oltre a questo, sono anche stanchi di essere "maltrattati" nelle notizie, questi che sono rimasti sono i resistenti, che amano il loro paese o non hanno nemmeno avuto condizioni sicure per andarsene. Restano anche quelli molto poveri.

Quello che posso dire del mio tempo qui è che mi sento accolta, faccio e mi restituiscono lo sforzo nella comunicazione, e incontro una realtà culturale; per esempio, nel numero di familiari che accompagnano il loro malato, in ogni momento, che può essere anche 6 o 8 persone; o ad esempio le famiglie dei pazienti di cui mi sto occupando esagerano i semplici ringraziamenti che devo accettare sotto pena che si sentano "offese" con il mio rifiuto.

Descrivere come le relazioni e le interazioni con i malati e i familiari si sviluppano, con una cultura così differente, non è possibile, perché la presenza, il sorriso, lo sguardo e il tocco sono più che "parole" e dominano. Queste conversazioni/relazioni hanno superato ogni aspettativa che avessi potuto avere.

Questo periodo ha risvegliato in me una forte crescita emotiva e spirituale.  Anche il silenzio che mantengo in una parte considerevole di ciascuna delle mie giornate, facilita un'attenzione al vissuto e alle forti suggestioni che mi porta emotivamente.

Un grande abbraccio

São

   (FINE)