“Più
volte ho voluto dare voce alle atroci, disumane e inspiegabili
persecuzioni di chi in tante parti del mondo — e soprattutto tra i
cristiani — è vittima del fanatismo e dell’intolleranza, spesso
sotto gli occhi e nel silenzio di tutti. Sono i martiri di oggi,
umiliati e discriminati per la loro fedeltà al Vangelo. Il mio
ricordo, che si fa appello solidale, vuol essere il segno di una
Chiesa che non dimentica e non abbandona i suoi figli esiliati a
motivo della loro fede: sappiano che una preghiera quotidiana si
innalza per loro, insieme alla riconoscenza per la testimonianza che
ci offrono.
A sua volta possa l’opinione pubblica mondiale
essere sempre più attenta, sensibile e partecipe davanti alle
persecuzioni condotte nei confronti dei cristiani e, più in
generale, delle minoranze religiose. Rinnovo l’auspicio che la
Comunità Internazionale non assista muta e inerte di fronte a tale
inaccettabile crimine, che costituisce una preoccupante deriva dei
diritti umani più essenziali e impedisce la ricchezza della
convivenza tra i popoli, le culture e le fedi.”
Lettera
del Papa Francesco per i martiri cristiani del Medio oriente ,
06
agosto 2015
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12 agosto 15: questa mattina sono caduti più di 30 missili sui quartieri residenziali di Damasco, Innumerevoli feriti |
L’agonia
dei cristiani trucidati, l’Europa inebetita.
Parla il capo della
chiesa armeno-cattolica di Qamishli
di Matteo
Matuzzi
Il Foglio, 8 luglio 2015
"Qui
ora siamo al sicuro, grazie all’esercito siriano. Hassaké,
attaccata nella notte tra il 24 e il 25 giugno dai miliziani dello
Stato islamico, è ora quasi totalmente liberata. Solo le periferie
sono ancora in mano loro, ma il peggio è passato”. Monsignor
Antraning Ayvazian è il capo della eparchia cattolico-armena di
Qamishli, e in una conversazione con il Foglio descrive la situazione
sul terreno in quell’estremo lembo di Siria orientale non ancora
toccato dall’orda nera delle truppe al soldo del califfo Abu Bakr
al Baghdadi. Basta spostarsi d’una ottantina di chilometri più a
sud, ad Hassaké, e il quadro cambia drasticamente. “Lì il novanta
per cento dei cristiani se n’è andato, milleottocento sono
arrivati qui, insieme a quattrocentocinquata famiglie musulmane”.
Qamishli, più di centomila abitanti, è uno degli ultimi avamposti
fedeli a Damasco prima del confine con la Turchia e non è troppo
lontana da quello con l’Iraq, a est. Ed è proprio al dirimpettaio
turco che mons. Ayvazian addebita gran parte delle colpe per il
disastro in cui è precipitata la Siria: “Ci separano 998
chilometri di confine. Quasi mille chilometri da cui entra di tutto,
a cominciare dai jihadisti. Li vediamo ogni giorno, passano a gruppi
di trecento, anche cinquecento. E’ Ankara, insieme alla Georgia, a
giocare un ruolo fondamentale nel caos che vediamo oggi. Un doppio
gioco che l’occidente farebbe bene a troncare, prima che sia
davvero troppo tardi. Un mio parrocchiano – racconta il sacerdote –
è stato arrestato dalla polizia turca e gettato in carcere, in una
cella di un metro per un metro. Vicino a lui, c’erano uomini con
lunghe barbe pronti ad arruolarsi con lo Stato islamico. Per loro
c’era ogni ben di dio, ogni richiesta veniva soddisfatta. Qualche
agente li incitava a darsi da fare in Siria. Noi queste cose le
sappiamo, perché le constatiamo con i nostri occhi e le nostre
orecchie”.
Il
capo dell’eparchia di Qamishli ricorda di aver anche incontrato un
gruppo di miliziani nella città di Margada. Avevano occupato un
ospedale, nella cui cappella sono conservate reliquie armene: “Mi
hanno convocato e io sono partito, da solo, con la mia automobile.
Erano tutti stranieri, tranne un siriano. Il loro capo era un
qatariota, si chiamava Faisal. Erano forniti di mezzi ipertecnologici
e sofisticati, cose che qua non si vedono spesso. Mi disse che
avrebbero fatto saltare in aria tutto se lui e i suoi uomini non
avessero ottenuto i resti dei loro martiri. Mi confessò con la
massima tranquillità di non essere per nulla interessato a
discettare di politica o dei destini del paese. Era in Siria solo per
una banale questione di soldi, che gli sarebbero stati versati a
patto di soddisfare due semplici condizioni: radere al suolo ogni
costruzione in piedi e abbattere tutto ciò che si muove”. Per
“tutto”, il miliziano “intedeva bambini, donne, vecchi e
malati. Tutti”. Al termine del breve colloquio, “gli ho dato la
mano. Lui è rimasto fermo. Me ne sono andato”.
La
Siria, prima della guerra, era una oasi di tolleranza, dove
l’uguaglianza tra cristiani, ebrei e musulmani era un fatto
assodato, una certezza, ragiona Ayvazian. “Qui, nella terra di San
Paolo, c’è sempre stata libertà di culto, i cristiani non
dovevano pagare nemmeno un soldo in tasse per aprire un nuovo luogo
di culto. Mai nessun divieto, siamo sempre stati liberi. Io servivo
messa, da bambino, insieme ai miei amici ebrei e musulmani”,
ricorda il nostro interlocutore. Non c’è mai stata la percezione
di essere di culto diverso, per noi era un fatto normale”. Poi è
arrivata la primavera araba, facciamo notare. “Poi sono arrivati i
sauditi”, corregge lui: “E’ arrivato il cosiddetto ‘caos
creativo’, e ancora mi chiedo come possa essere creativo il caos,
il disordine più completo”. Fa la conta dei preti e laici rapiti
in questi anni, uomini di cui non si sa più nulla: “Vivi o morti,
chi lo sa. Solo silenzio”.
Nessuno
sembra interessarsi alla sorte dei cristiani, che lentamente stanno
scomparendo da quella regione che vede chiese distrutte e croci
divelte, case segnate con la “n” di nazareno e colonne
interminabili di famiglie costrette all’esodo. Gli attacchi sono
sempre più frequenti e non di tutti si ha notizia, come riferiscono
i francescani attivi nel vicino oriente. Il 27 febbraio scorso, ad
esempio, presso la chiesa di Azizieh, ad Aleppo, durante la messa
serale una bomba di gas ha provocato la morte di due fedeli e il
ferimento di tanti altri che si trovavano all’esterno dell’edificio
di culto. La notte del venerdì santo ortodosso, tra il 10 e 11
aprile, diversi missili sono stati lanciati in zone abitate da
cristiani armeni.
“Dove
sono le manifestazioni di piazza? Perché nessuno scende in strada,
da voi, per protestare contro quel che accade qui?”, domanda mons.
Ayvazian. “Quello dell’occidente è un silenzio complice. Non mi
capacito di come sia possibile assistere inerti dinanzi al tramonto
della civiltà cartesiana, quella fondata sulla logica. Dove è
l’Europa? Mi auguro che presto l’occidente possa risvegliarsi,
prima che sia troppo tardi. Prima che la distruzione arrivi anche a
casa vostra”.
Le
parole del sacerdote “armeno fino al midollo, ma orgogliosamente
membro della nazione siriana” sono routine tra le gerarchie delle
chiese cristiane d’oriente, costrette a far la conta quotidiana di
quanti fedeli da accudire spiritualmente e materialmente siano
rimasti. In qualche caso, come succede a Baghdad, il patriarca
caldeo, mar Louis Raphael Sako, sfinito dal conflitto e dall’avanzata
dei fondamentalisti, arriva a parlare della possibilità di unificare
le chiese per far fronte al nemico comune. Altrove, poco oltre la
piana di Ninive, in direzione del Kurdistan, vescovi con croce
pettorale indosso passano in rassegna truppe volontarie e danno loro
la benedizione. Youhanna Boutros Moshe, della chiesa siro-cattolica
di Mosul, l’ha fatto lo scorso febbraio: “Andate avanti e
ricordatevi che questa terra era vostra ancora prima della venuta di
Cristo”, era il suo messaggio per i duemila ragazzi messi insieme
da un deputato curdo, Jacob Yaco.
Vi
è nella mentalità dell’uomo occidentale di oggi l’idea che,
dopotutto, Siria e Iraq siano due realtà lontane che poco o nulla
possano incidere sulle sue abitudini quotidiane.”Ve ne accorgerete
presto, tra trenta o quarant’anni, quando a casa vostra ci sarà
chi avrà la pretesa di definirsi vero credente e voi non saprete
come comportarvi, non potrete fare nulla”, è il monito profetico
del capo dell’eparchia di Qamishli, che prevede scenari foschi per
chi volge la testa dall’altra parte. Monsignor Ayvazian ce l’ha
con quello che definisce il “rilassamento” dell’Europa,
l’inebetimento di un continente “che si richiama ai valori
cristiani e poi accetta tutto questo”. “C’è da
scandalizzarsi”, dice. Mentre l’antica perla Aleppo continua a
vivere il suo assedio e le rovine di Palmira divengono il teatro per
esecuzioni di massa tra lo sventolio dei vessilli neri del Califfato,
i cristiani se ne vanno: “Già ora più della metà degli
appartenenti alla comunità cristiana di questo paese ha attraversato
il confine”, osserva il il capo dell’eparchia di Qamishli, che
denuncia l’esistenza di un racket cui non è estranea la polizia
turca: “Per un visto qui si pagano dai cinquemila ai settemila
euro, e si è fuori. Intere famiglie si sono economicamente
dissanguate pur di scappare in fretta”.
La
conversazione, inevitabilmente, cade sulle prospettive dell’immediato
futuro: fino a quando si potrà andare avanti così? La risposta che
giunge da Qamishli è netta: “Questo paese non cadrà in mano
straniera, noi non siamo la Tunisia. Qui è nato il concetto di
civilizzazione, non è immaginabile arrendersi a chi di questa realtà
non sa nulla”. L’appoggio delle comunità cristiane locali al
rais Bashar el Assad è convinto. Il presidente asserragliato a
Damasco è considerato dai siriani non musulmani come l’unico
argine contro il dilagare del fondamentalismo islamico. Due anni fa,
la grande veglia di preghiera in San Pietro organizzata dal Papa
aveva contribuito a fermare i cacciabombardieri francesi e americani
che già rullavano sulle piste, pronti a decollare verso la Siria.
Oggi, sono ancora le chiese del luogo – attraverso le loro più
alte gerarchie – a contrastare ogni ipotesi di abbandonare al suo
destino il capo dello stato. “Se cade Assad, scorreranno fiumi di
sangue tra i cristiani”, avverte mons. Ayvazian. “Hassaké, qui
vicino, è salva solo grazie a lui e al suo esercito. La sua caduta
propizierà la disintegrazione del paese, che si dividerebbe in una
dozzina di microstati in guerra tra loro. Io – aggiunge – non
sono arabo. Sono armeno. Ma allo stesso tempo faccio parte della
nazione siriana, e l’unico legame è oggi rappresentato da
Assad”.
Osserviamo
che sul terreno, soprattutto nei primi tempi della crisi, era
presente un’opposizione organizzata, che teneva periodici incontri
all’estero e che godeva di un seguito tra le cancellerie
internazionali. Un’alternativa moderata al regime al collasso. “Chi
sono questi ribelli moderati?”, sbotta il nostro interlocutore:
“Dove sono? Forse si saranno riuniti in Turchia, ma qui sul
territorio, nelle nostre strade, non si sono visti. Qualcuno dovrebbe
spiegare, poi, come si fa a essere moderati tenendo in pugno le armi
più all’avanguardia messe a disposizione da qualche emirato del
Golfo persico. E’ questa quella che voi chiamate moderazione?”.
L’occidente che discetta su vie d’uscita democratiche al
conflitto in corso, chiosa il prelato, dovrebbe spiegare “il senso
di destituire Assad per mettere al suo posto qualche sceicco
importato dalla penisola arabica, gente che magari non è neppure
capace di leggere”. Per i cristiani, in quel caso, sarebbe la fine:
“La prospettiva è quella già vista in Iraq ai tempi della Guerra
del Golfo, lo svuotamento sistematico dei fedeli a Cristo da quel
paese. Arrivarono in Siria quasi un milione e mezzo di profughi
cristiani. Siriaci, caldei, armeni”
L’appello
è ad agire, a fermare i tagliagole prima che l’infezione si
propaghi all’Europa fino a oggi risparmiata dal contagio
fondamentalista; prima che il cancro si diffonda anche al di fuori di
quella regione dove “ormai vale soltanto la legge della foresta:
ognuno mangia l’altro e nessuno ne parla. Le leggi umane, qui, non
valgono più”.