Sebastiano
Caputo, responsabile di SOS Chrétiéns d'Orient in Italia: i
bisogni dei Cristiani sono molto diversi in tutta la Regione.
di Edward
Pentin*, National Catholic Register
traduzione:
Gb.P.
Molti
cristiani hanno lasciato l'Iraq e altri vogliono andarsene, a
causa di conflitti apparentemente perpetui, instabilità e
mancanza di posti di lavoro. Ma in Siria la situazione è molto
diversa, e la ragione è da attribuire principalmente al
presidente Bashar Assad che garantisce la sopravvivenza dei
Cristiani. "Se ci fosse un cambio di regime in Siria",
avverte Sebastiano
Caputo, a capo di SOS Chrétiéns d'Orient in Italia, un ente
umanitario cattolico, "i Cristiani se ne andranno, come hanno
fatto in Iraq". "Ecco perché" aggiunge," è
molto importante offrire un aiuto umanitario, ma allo stesso tempo
rendere consapevole la gente in Occidente sulla loro situazione, e
portare il loro messaggio ai nostri paesi".
Recentemente,
Caputo ha contribuito a creare una filiale italiana dell'ente
benefico che è cresciuto rapidamente da quando è stata fondato
da un gruppo di giovani Cattolici Francesi nel 2013. Ora ha oltre
1.400 volontari che lavorano in cinque Paesi. In questa intervista
rilasciata al National Catholic Register a
Roma il mese scorso, Caputo ha chiarito meglio il lavoro di SOS
Chrétiéns d'Orient, su come i bisogni dei Cristiani variano
ampiamente in Medio Oriente e perché SOS Chrétiéns d'Orient
potrebbe, a un certo punto, anche indirizzare il suo aiuto ai
Cristiani in Occidente, dove dice che la persecuzione è
"psicologica" piuttosto che fisica.
SOS
Chrétiéns d'Orient si è espansa ora in Italia. Come è
successo, e come sei stato coinvolto?
Sono
un giornalista. Lavoro per Il quotidiano italiano "Il
Giornale" e la Treccani, un'enciclopedia in cui ho scritto
sulla politica estera e le relazioni tra stati, con particolare
attenzione al Medio Oriente. Quindi ho viaggiato molto negli
ultimi tre anni. Quando ero a Damasco nel 2015 - a settembre,
durante una conferenza - ero con il capo della missione di SOS
Chrétiéns in Siria. L'ho conosciuto durante tutto il viaggio che
ho fatto in Medio Oriente: Egitto, Libano, Iraq e Siria. Ho visto
come questa associazione ha lavorato con i Cristiani in Medio
Oriente. Così, quando sono tornato in Italia il mese scorso, ho
chiamato Charles De Meyer e Benjamin Blanchard, fondatori della
SOS Chrétiéns d'Orient con sede a Parigi, e ho chiesto se Parigi
fosse interessata a creare un ufficio di rappresentanza a Roma.
Come
hanno reagito?
Ne
sono stati molto contenti perché Roma è la città del Vaticano e
l'Italia è un paese nel mezzo del Mediterraneo ed ha
un'importante cultura mediterranea. Quindi mi hanno aiutato a
creare questo ufficio. Il 26 aprile, il co-fondatore di SOS,
Charles De Meyer, è venuto a Roma e abbiamo tenuto una conferenza
stampa per presentare i membri italiani. C'erano circa 100 persone
interessate all'iniziativa. Ora l'obiettivo è quello di inviare
una squadra di 10 volontari italiani per unirsi alle missioni
francesi in tutto il Medio Oriente dove è presente "SOS".
In secondo luogo, l'obiettivo è lavorare per costruire una rete
per i donatori, perché "SOS" lavora solo con donazioni
di privati. Raccolgono donazioni e i volontari cercano donazioni
sul campo. Quindi è molto trasparente: fa bene ai donatori, ma
anche ai volontari. Sono occidentali e molto giovani, stanchi di
non fare nulla per aiutare chi è nel bisogno, quindi queste
persone vanno in questi Paesi dove i Cristiani affrontano una
situazione difficile, la guerra principalmente, ma non solo.
Il
termine "persecuzione cristiana" è troppo generico?
Sì,
è molto semplice parlare di persecuzione cristiana, ma tutti i
paesi sono diversi: alcuni soffrono per guerra e discriminazione,
ma il Libano è un paese multiconfessionale. In Iraq, il problema
sussisteva durante l'occupazione di Daesh (ISIS). La maggior parte
dei Cristiani ha lasciato la Piana di Ninive, ma in Siria i
Cristiani hanno una buona posizione sociale. La cosa buona di SOS
[i volontari] è che quando vanno in un Paese, rispettano quella
società e cercano di non mettere i Cristiani in pericolo.
Rispettano la società e la società multiconfessionale. Lavorano
per la sopravvivenza di una società multietnica e
multiconfessionale.
Anche
alcuni Musulmani lavorano con SOS, giusto?
Sì,
quando lavorano con la popolazione locale, è spesso con i
Cristiani, ma anche con i Musulmani, per esempio in Siria e in
altri Paesi musulmani, quindi non trovano discriminazione.
Rispettano tutte le persone lì, e questa è una buona cosa.
Che
aiuto pratico date, per esempio, in Iraq piuttosto che in Siria?
Una
parte è il lavoro umanitario: diamo cibo alle persone e aiutiamo
altre comunità cristiane a ricostruire chiese, scuole o ospedali
o sostenere progetti come gli scout. E quando ricostruiscono
ospedali e scuole, non è solo per i Cristiani, ma per tutta la
popolazione. Non chiediamo loro se sono battezzati. Le differenze
tra Iraq e Siria non sono notevoli, poiché entrambi i Paesi sono
stati in guerra con Daesh. Quindi si trattava più di aiuti di
emergenza, cibo e acqua, mentre in Egitto e Libano, che non sono
in guerra, offriamo aiuto per insegnare l'Inglese e il Francese ai
giovani, o semplicemente viviamo insieme a loro. È importante che
essi sappiano che l'Occidente è con loro, è importante che ci
conosciamo reciprocamente e loro sentano la nostra presenza lì.
I
cristiani in Iraq e in Siria vogliono restare?
Questa
è una domanda molto importante perché l'Iraq ha vissuto la
guerra fin dal 2003. Molti hanno sempre e solo conosciuto la
guerra e non sanno cosa sia la pace, quindi vogliono andarsene
perché oramai non hanno più un passato. In Siria è diverso.
Hanno avuto la guerra per otto anni, ma prima, la società era
molto tollerante, multiconfessionale e pacifica. Quindi le persone
hanno un ricordo di come era la vita prima della guerra e vogliono
restarvi. Perciò è completamente diverso: tutti i cristiani
Irakeni vogliono andarsene, mentre in Siria la maggior parte dei
cristiani vuole restare. Ciò è molto interessante. L'ho notato
quando sono stato in Siria. Prima e durante la guerra, essi hanno
sempre avuto un buon rapporto con il governo e il governo rispetta
le comunità cristiane.
Finché
il presidente Bashar Assad è al potere, vorranno restare?
Sì,
per otto anni hanno cercato di trasmettere un messaggio al mondo
occidentale: cioè che se ci fosse un cambio di regime in Siria, i
Cristiani se ne andrebbero, come hanno fatto in Iraq. Ecco perché
è molto importante offrire loro aiuto umanitario, ma allo stesso
tempo rendere consapevole la gente in Occidente della loro
situazione e inviare il loro messaggio ai nostri Paesi.
Pensi
che i Cristiani torneranno in Iraq?
Difficile
a dirsi. Per anni, i cristiani sono diminuiti in gran numero, una
caduta pazzesca. Inoltre, tutti i Cristiani che incontro lì
vogliono andarsene. Quando andai in una casa di Cristiani,
chiedemmo loro di cosa avevano bisogno. Tutti hanno detto:
"Abbiamo bisogno di un biglietto aereo per partire", ma
la missione di SOS è di aiutarli a rimanere, a non partire. Penso
a Benedetto XVI°, che ha dato un principio importante: tutti
hanno il diritto di vivere nel loro Paese perché è il loro
Paese.
I
Cristiani iracheni continueranno ad andarsene finché non avranno
un capo che protegge i Cristiani?
Sì.
La loro società è completamente diversa dalla nostra società;
dobbiamo rispettare che la loro è una società tribale. Per le
società tradizionali, la religione è molto importante per tutti;
la cultura del leader è molto importante. Ecco perché è
importante innanzitutto rispettare questo: anche la volontà delle
persone e il leader che loro vogliono.
Vorresti
che i giovani americani iniziassero un SOS negli Stati Uniti?
Sì,
naturalmente. Ora stiamo costruendo un ufficio qui a Roma, ma
forse in futuro altri Paesi potrebbero costruire qualcosa di
simile, in modo che tutti i Paesi abbiano l'opportunità di fare
volontariato e inviare denaro a queste persone. Sono cose
importanti, e magari networking (fare rete), contatto e ascolto
delle opinioni degli altri e conferenze nel Paese, incluse.
Abbiamo molti problemi da affrontare.
Ritieni
che anche in Occidente i Cristiani siano minacciati? Parliamo di
Cristiani perseguitati in Medio Oriente, ma dovrebbe esserci anche
un SOS Chrétiéns anche in Occidente?
Sì,
naturalmente; lo spero, perché a volte parliamo dei Cristiani
perseguitati in Medio Oriente, ma questa persecuzione è fisica.
Nel mondo occidentale, è psicologica, morale e anche una
persecuzione da parte dello Stato. È anche contro i simboli:
vietare la croce, gli attacchi contro la famiglia. Quindi è molto
importante lavorare insieme. E penso che i Cristiani in Oriente
possano aiutare i Cristiani in Occidente a migliorare e viceversa,
perché l'Occidente non è più cattolico o cristiano
culturalmente parlando; siamo una minoranza. Le ideologie
dell'Occidente sono il capitalismo, il consumismo e l'edonismo. I
giovani che fanno volontariato in Medio Oriente sono spesso
cattolici tradizionali, e questo può aiutare molto: l'interazione
tra culture per riscoprire la nostra identità.
*Edward
Pentin è il corrispondente del National Catholic Register di
Roma.
http://www.ncregister.com/daily-news/aid-worker-persecuted-christians-in-middle-east-continue-to-need-aid-suppor
Chi volesse partire come volontario può richiedere il modulo a : roma@soschretiensdorient.fr |
Traduci
domenica 24 giugno 2018
Nasce SOS Chrétiéns d'Orient anche in Italia: intervista a Sebastiano Caputo
sabato 23 giugno 2018
I religiosi siriani: la vera opera umanitaria, oggi, sarebbe aiutare i siriani a tornare in patria, non a lasciarla.
Per svuotare la Siria una politica pro immigrazione
di Fulvio ScaglioneVisto da Aleppo, la città-martire della Siria che in quattro anni di assedio da parte dell’esercito islamista ha perso per emigrazione (interna alla Siria o verso l’estero) più di metà dei 4,6 milioni di abitanti che aveva prima della guerra, il dibattito europeo sull’immigrazione pare al tempo stesso ingenuo, ipocrita e, ma questa non è una novità, inconcludente.
Per quanta retorica si possa fare, infatti, i migranti non sono tutti uguali, nemmeno agli occhi di coloro che sono più disposti ad accoglierli. E questa dura legge sembra essere applicata, per quanto paradossale possa sembrare, soprattutto ai richiedenti asilo e a coloro che cercano una protezione internazionale. Ed è proprio il “caso Siria” che porta a pensarlo.
Tra il 2011 e il 2016 (ovvero, tra l’inizio della guerra civile e lo snodo fondamentale delle riconquista di Aleppo da parte dell’esercito siriano), più di 11 milioni di siriani (sui 23 milioni di abitanti del Paese) hanno dovuto abbandonare le loro case. La gran parte di loro è rimasta in Siria (più di 6,5 milioni, secondo l’Unhcr) o nei Paesi confinanti (poco meno di 5 milioni di Turchia. Libano, Iraq e Giordania, stessa fonte). Ma più di un milione di siriani ha chiesto asilo politico e protezione in Europa.
Chi si è fatto un minimo di esperienza di Siria in questi anni sa che ad andarsene all’estero non sono stati, necessariamente, i siriani più colpiti dalle atrocità e dalle miserie della guerra. Nella maggioranza dei casi sono riusciti ad arrivare in Europa i siriani più istruiti e benestanti, e quelli che avevano buoni contatti con i Paesi europei.
La diaspora, infatti, era nutrita anche prima di questa guerra, almeno una decina di milioni di persone con comunità cospicue in Germania (500mila persone) e Svezia (150mila) ma folte anche in Austria e Grecia, e chi aveva parenti già residenti sul suolo europeo ha avuto ovviamente vita più facile.
A fronte di tutto questo, i dati (elaborazione del Pew Research Center su cifre Eurostat) ci dicono che i siriani hanno fatto domanda d’asilo e richiesta di protezione in misura almeno doppia a quella di qualunque altra nazionalità. E che l’hanno ottenuta in una misura molto superiore a quella di qualunque altra nazionalità.
Nel 2015 e 2016 le richieste dei siriani sono state accolte (nei diversi Paesi Ue più Svizzera e Norvegia), nella misura dell’80%, assai più di quanto sia stato concesso agli eritrei (68%), ai somali (38%), agli iracheni (36%), ai sudanesi (36%) e agli afghani (22%). La media europea di concessione di una qualche forma di protezione internazionale è del 40%, quindi assai inferiore a quella già citata ottenuta dai siriani. Inoltre, il 52% dei 2,2 milioni di persone che in questi anni hanno chiesto asilo in Europa è ancora in attesa di una risposta, mentre solo il 20% dei siriani sta ancora aspettando. È davvero così stravagante ipotizzare che tutto questo non sia frutto del caso ma di una precisa scelta? Che non sia anche questa assai mirata “benevolenza” un’esca per svuotare la Siria, che l’Europa sottopone a embargo e di tanto in tanto bombarda, delle sue energie migliori? Che la solidarietà e la pietà delle organizzazioni di base non sia sapientemente indirizzata per il raggiungimento di uno scopo politico?
È una domanda che tormenta, oggi, in primo luogo i rappresentanti delle comunità cristiane. I quali ripetono, ovviamente inascoltati, che la vera opera umanitaria, oggi, sarebbe aiutare i siriani a tornare in patria, non a lasciarla.
http://www.occhidellaguerra.it/migranti-siria-europa/
http://www.occhidellaguerra.it/migranti-siria-europa/
mercoledì 20 giugno 2018
Tortura, fame, condanne a morte: i civili della Ghouta orientale parlano della vita sotto il controllo dei terroristi.
l'autrice
con residenti di Douma
|
di
Eva Bartlett
traduzione:
Gb.P.
La
scorsa settimana ho scritto di quello che mi hanno raccontato i civili di
Ghouta riguardo alle affermazioni non verificate sull'Esercito
Siriano che li avrebbero attaccati con sostanze chimiche, ma essi
hanno parlato anche dei crimini commessi dai terroristi e del ruolo
dei White Helmets.
Benché
benignamente chiamati "ribelli" dai media di sistema, il
gruppo terrorista salafita Jaysh al-Islam non sta combattendo per la
libertà o per i diritti umani in Siria, e nemmeno lo facevano gli altri gruppi
terroristici che precedentemente governavano nella Ghouta orientale.
Era
Jaysh al-Islam che imprigionava i civili siriani in gabbia, usandoli
come scudi umani contro potenziali bombardamenti, e Jaysh al-Islam
era tra i gruppi terroristici che sparavano missili e mortai sui
civili a Damasco, uccidendo in questi anni oltre 10.000 persone.
Loro, Faylaq al-Rahman, e le altre fazioni terroristiche che
occupavano la regione regnavano con il terrore, decapitando uomini e
donne e affamando il popolo.
La
regola infernale di Jaysh al-Islam: fame ed esecuzioni con la spada
Quando
ho visitato la Ghouta orientale e il centro per gli sfollati di
Horjilleh appena a sud di Damasco (nella maggioranza persone
provenienti da Ghouta), ho chiesto della loro vita sotto il dominio
di Jaysh al-Islam e di altri gruppi, ed il motivo per cui stavano
morendo di fame. La risposta è stata che, come io e altri avevamo
già sentito in Aleppo est, in Madaya e al-Waer, i terroristi
rubavano gli aiuti e controllavano tutto il cibo, rivendendocelo poi
a prezzi da estorsione che la gente comune non poteva permettersi.
Sabah
al-Mushref mi ha parlato della insensibilità dei terroristi di
Hammouriyeh e Zamalka nei confronti dei bambini e di come i suoi
stessi figli abbiano cercato il cibo tra l'immondizia dei leader
terroristi che avevano cibo abbondante.
"Vivevo
a Zamalka, i miei figli erano quasi morti di fame, la pelle di mia
figlia era diventata gialla, era malnutrita", mi ha detto Sabah.
"L'ho portata al posto medico perché la visitassero, ma hanno
detto che non c'erano medicine. Ho detto: 'mia figlia sta morendo,
cosa dovrei fare ?!' Mi hanno risposto che il punto medico era solo
per i cittadini di Douma. Sono andato allora dal rappresentante di
Zamalka, l'ho supplicato: "Per favore dammi qualsiasi cosa per i
miei figli, stanno morendo di fame, non hanno mangiato nulla da due
giorni." Ha detto: "Ciò che abbiamo qui è solo per i
cittadini di Zamalka, tu sei di Marj al-Sultan, vai dal tuo
rappresentante. Non c'è aiuto per te qui."
Quando
ho parlato con Sabah, era con altre tre persone provenienti dalle
zone orientali di Ghouta. Le loro testimonianze son venute fuori,
l'una peggiore dell'altra mentre parlavano a voce alta degli orrori
che avevano vissuto.
Mahmoud
Souliman Khaled, 28 anni, di Douma, ha parlato della sua prigionia e
della tortura da parte di Jaysh al-Islam. "Mi hanno fermato di
notte, stavo andando a prendere qualcosa. Sospettarono che lavorassi
per il regime aiutando l'esercito. Mi portarono al carcere di
al-Taoubah, dove mi torturarono. Mi legarono a una sedia e mi diedero
la scossa, sulle mani e la punta delle dita dei piedi. Collegarono
due fili alle dita dei piedi, poi li collegarono al generatore di
corrente e dato la scossa. Han continuato a farlo affinché io
confessassi, ma non ho confessato, perché non avevo niente da
confessare. Mi hanno torturato per due giorni. Quello che hanno fatto
mi ha causato una grave miopia; mi è sembrato che l'elettricità mi
uscisse dagli occhi ".
Khaled
ha parlato di un'esecuzione a cui ha assistito a Douma: "Sono
venuti su un autocarro con a bordo una mitragliatrice da 23
millimetri (antiaerea) con uno al quale hanno fatto volare via la
testa. Dopo hanno accusato l'Esercito Siriano di averlo ucciso."
Una
foto sul suo cellulare mostra un uomo senza testa seduto su una
sedia, senza segni di bombardamenti. "Jaysh al-Islam lo ha
decapitato per aver venduto cibo a buon mercato, mentre loro volevano
mantenere alti i prezzi, in modo che le persone rimanessero
impoverite e dovessero lavorare per loro nei tunnel o unirsi a loro
nella lotta".
A
Kafr Batna, il 2 maggio di quest'anno, le strade erano ritornate alla
vita normale e si è incominciato a ripulire, i tecnici
dell'elettricità hanno ripristinato l'energia elettrica alla città.
Fuori da un negozio che vende shawarma, Mou'taz Al-Aghdar racconta di
essere stato imprigionato per 15 giorni da Jaysh al-Islam per aver
venduto riso. "Hanno confiscato i nostri beni e ci hanno
imprigionato. A nessuno è stato permesso di lavorare a meno che non
fosse sotto il loro controllo."
Parla
anche delle esecuzioni con la spada e di bambini e adulti scomparsi,
alcuni tornati con organi mancanti. "Viviamo in una piccola
città, la gente iniziava a parlare: un bambino è stato rapito qui,
un altro lì ... Alcune persone sono state rapite e i loro organi
sono stati prelevati. Un bambino è stato sepolto, era stato trovato
morto in un fienile coperto di paglia, era stato legato e coperto di
paglia mentre era ancora vivo. Non abbiamo saputo chi l'ha fatto ".
Altri civili di Ghouta hanno parlato di furto di organi.
Più
avanti, ho incontrato Mohammad Shakr, che ha indicato la rotonda
centrale come luogo usato dai terroristi per le esecuzioni.
Mohammad Shakr nella piazza di Kafr Batna dove i terroristi giustiziavano i civili. |
"Portavano qui le persone e le giustiziavano, a volte con una spada e altre volte con una pistola. Era molto normale per loro. Ora, da quando l'Esercito Siriano è arrivato qui, le persone possono nuovamente camminare e muoversi liberamente. Ma prima, non avresti visto nessuno sulla strada. "
In
una gelateria vicino alla piazza, anche Abdallah Darbou ha detto di
aver visto simili esecuzioni. Ha anche parlato di proteste. "Molte
volte, abbiamo protestato contro i terroristi, perché eravamo
affamati, ci stavano uccidendo. A volte ci hanno sparato addosso
durante le proteste. Ci hanno distrutto, ci hanno davvero distrutti. Il regime siriano non ci ha fatto questo, quando l'esercito è
entrato qui ci ha distribuito del pane, prima abbiamo visto il pane
solo nelle foto".
Percorrendo
Douma il 29 aprile, ho incontrato Yahya Mohammed Hamo che vendeva
arance su un carretto. Quando gli ho chiesto come era stata la vita
sotto Jaysh al-Islam, ha risposto: "Fame, fame e fame. Se hanno
una religione, sia maledetta quella religione. La religione non ti fa
morire di fame ".
Gli
uomini a un chiosco di frutta e verdura, che avevano risposto con un
clamoroso "no" quando ho chiesto loro circa le accuse
sugli attacchi con sostanze chimiche, hanno parlato anche degli aiuti
inviati a Douma. Un uomo anziano, esagerando nel dire che c'era cibo
in abbondanza a Douma, diceva che era sufficiente per altri cinque
anni, ma che i terroristi li avevano privati di tutto.
Ho
chiesto dei campi agricoli che avevo visto entrando a Douma. La
risposta è stata che Jaysh al-Islam aveva il controllo su tutto, la terra
fertile, il bestiame. Un giovane mi ha detto che prima che i
terroristi lasciassero Douma sugli autobus, hanno sparato a tutti gli
animali.
Gli
uomini hanno parlato di esecuzioni, facendo un gesto alla gola. Un
uomo più giovane ha raccontato di un altro omicidio, quando il boia
mise una pistola nella bocca di qualcuno e premette il grilletto.
"Terrorismo, sono il significato letterale del terrorismo",
dice Toufik Zahra, il proprietario dello stand.
Gli
Elmetti Bianchi non sono così benevoli, hanno lavorato con i
terroristi.
Alla
mia domanda se i White Helmets aiutassero le persone, Zahra rispose:
"La Difesa Civile era solo per i gruppi terroristici, solo per
loro, per Jaysh al-Islam".
Questo
è stato ribadito da Mahmoud Mahmoud al-Hammouri, che lavora in un
negozio in fondo alla strada, e che ha detto: "I Caschi Bianchi
sono chiamati Difesa Civile. Si supponeva fossero per i civili,
mentre era l'opposto: erano per Jaysh al-Islam. "
A
Kafr Batna, il venditore di shawarma , Mou'taz Al-Aghdar, dice:
"Jaysh Al-Islam ci attaccava indossando un caschetto bianco un
giorno, mentre un altro giorno se lo dimenticava."
Il
giovane nella gelateria, Abdallah, risponde che non sapeva nulla dei
Caschi Bianchi perché a lui e ai civili in generale non era permesso
avvicinarsi.
Questo
di per sé è strano, dato che il loro presunto obiettivo è quello
di salvare i civili, e dato che i Caschi Bianchi avevano centri a
Douma, Zamalka e Saqba. Il centro dei White Helmets di Saqba era a
meno di 500 metri da Kafr Batna. In particolare, era a soli 200 metri
di strada da un edificio in cui Faylaq al-Rahman produceva enormi
quantità di missili e mortai.
Marwan
Qreisheh, nel centro di Horjilleh, ha molto da dire sui Caschi
Bianchi. "I primi membri della Difesa Civile arrivati a Ghouta
tre o quattro anni fa provenivano da paesi stranieri, non erano
Arabi, non parlavano arabo. Erano la difesa dei terroristi ed erano
soliti terrorizzare. Avevano un sacco di soldi e li usavano per
attirare le persone ad unirsi alla Difesa Civile. Quando i White
Helmets volevano andare da qualche parte, i terroristi erano soliti
andare con loro e aprire le strade per loro. Nel momento in cui
arrivavano in un posto dove avrebbero simulato un attacco, lanciavano
10 bombe fumogene, causando fumo pesante, non si vedeva nulla.
Solitamente, sparavano alle persone e dopo che il fumo si era
schiarito iniziavano le riprese. Era impossibile dire una parola
perché ti avrebbero ucciso, ti avrebbero scaricato addosso il fucile
immediatamente. Se
qualcuno si fosse tagliato le vene di un braccio, lo avrebbero
amputato immediatamente e ricucirebbero la ferita durante le riprese.
Se la gamba di qualcuno era stata ferita a causa di un proiettile, un
pezzo di vetro o altro, il loro primo trattamento era l'amputazione
".
Le
affermazioni di Qreisheh sull'amputazione sono state riprese da
Hanadi Shakr, da Saqba, che ha lavorato per un anno come infermiera
fino a quando suo marito, che si era unito a Jaysh al-Islam, l'ha
costretta a smettere.
"Ogni
volta che c'era un caso un po' severo, dicevano che dovevi amputare
questa persona. Dicevano di essere a corto di forniture mediche e
quindi l'amputazione è la scelta migliore. Non trattavano le
persone. Anche le persone che avrebbero potuto necessitare di un
intervento chirurgico minore, le avrebbero semplicemente amputate. "
Le
denunce di mancanza di forniture mediche si sono rivelate false, come
nella parte orientale di Aleppo. In un ospedale sotterraneo a Saqba
da solo, ho visto stanze piene di medicinali e apparecchiature
mediche rubate. I giornalisti siriani hanno documentato tali traffici
ovunque nella Ghouta orientale.
Secondo
Hanadi Shakr "tutto l'aiuto medico e alimentare che era
introdotto, semplicemente svaniva, lo avrebbero venduto e preso i
soldi. Tutto è andato ai leader delle fazioni terroristiche".
Quando
la Ghouta orientale è stata liberata, i media main-stream erano
impegnati a sfornare resoconti falsi di massacri, proprio come
accadde quando Aleppo è stata liberata. Producevano storie
provenienti da sostenitori di fazioni terroristiche, incolpando
sempre il Governo siriano per la fame e, soprattutto, tacendo i
crimini e il terrorismo dei gruppi estremisti che occupavano la
Ghouta orientale. In realtà, i civili di Ghouta avevano molto da
dire sui crimini dei loro carcerieri, e anche del loro sollievo per
essere stati liberati dall'esercito siriano, ma i media corporativi
non sono interessati se ciò non si adatta alla loro narrativa sul
cambiamento di regime.
*Eva
Karene Bartlett è una giornalista freelance e attivista per i
diritti umani con una vasta esperienza nella Striscia di Gaza e in
Siria. I suoi scritti possono essere trovati sul suo blog “In
Gaza”.
Tutte
le immagini in questo articolo sono dell'autore.
https://www.rt.com/op-ed/429349-syrians-tell-terrorists-white-helmets/
domenica 17 giugno 2018
Aria di rinascita, a Damasco
di Fulvio Scaglione
(Damasco) Come
sempre, i fatti importanti te li rivelano le piccole cose. La strada
dal confine col Libano a Damasco già meno sconnessa. I paesini
che la fiancheggiano più illuminati. I posti di blocco meno fitti e
più rilassati. Nella capitale, poi, il fermento è assoluto. È
vero, sono arrivato in tempo per le ultime ore del Ramadan,
quando già impazzavano i preparativi per Eid al Fitr, la festa che
segna la fine del mese di digiuno e purificazione: alla grande
moschea degli Omayyadi erano in allestimento grande tavolate piene di
cibo, il suq formicolava di gente impegnata negli ultimi rifornimenti
prima che i negozi chiudessero per un week end lungo (Eid al Fitr più
il venerdì) di riposo. Ma non è solo questo.
In
realtà è scoppiato il dopoguerra.
Anche se la guerra continua
a Sud e a Nord, anche se il presidente Bashar
al Assad è
comparso in tv per ricordare che “il conflitto sarà ancora lungo”,
nell’animo dei damasceni c’è l’insopprimibile sollievo di chi
pensa che il peggio è davvero passato. Di nuovo, tante piccole cose
lo dimostrano. Certi nuovi caffè del centralissimo quartiere di Bab
Touma (la Porta di Tommaso), a grande concentrazione cristiana. I
negozietti pieni delle bandiere delle nazionali che giocano la Coppa
del Mondo di calcio in Russia. Il modo ormai distratto con cui
i soldati,
ai posti di blocco, manovrano l’aggeggio che manda impulsi
elettronici per far saltare a distanza eventuali auto-bomba. E anche
i manifesti dei “martiri” (i soldati, ma anche i cittadini,
uccisi da Isis, Al Nusra e altri terroristi), che sui muri di Bab
Touma si sono ancora moltiplicati. Un peso di lutti e sofferenze che
fa capire perché i damasceni vogliano poter finalmente sorridere e
festeggiare, anche a dispetto della realtà.
Perché
la pace, a esser realisti, è ancora lontana. I Paesi che hanno
investito nella distruzione della Siria non molleranno facilmente,
anche se ora sembrano più preoccupati dell’Iran. E la
ricostruzione, qui, non è ancora davvero partita proprio perché è
legata in modo strettissimo alla questione della pace.
Sono due, infatti, i principali ostacoli alla rinascita economica
della Siria. Da un lato le forze più produttive, ovvero gli uomini
in età da lavoro, sono decimate dalla leva militare o dalla fuga
all’estero per evitare la leva, il che è la stessa cosa. Oggi la
Siria è mandata avanti da donne e anziani,
con tutto ciò che questo comporta in un Paese del Medio Oriente.
L’altro
impedimento forte sono le sanzioni internazionali,
che la Ue tra l’altro ha appena prolungato di un anno. Mutilano le
attività economiche e sono una follia totale, perché non sfiorano
Assad né i personaggi del suo entourage ma, semmai, fanno soffrire i
civili siriani incolpevoli. Sono alloggiato, a Damasco, in una casa
delle suore francescane dove sono state ospitate, negli anni, decine
e decine di famiglie di malati
di cancro che,
a causa delle sanzioni, non hanno più modo di trovare i medicinali o
di disporre dei macchinari per curarsi adeguatamente. Le sanzioni
ottengono questi risultati, non altri.
Ma
la gente di Damasco, che fino a qualche settimana fa sopportava la
pioggia di razzi e colpi di mortaio dai quartieri di Jobar e Harasta
e oggi cammina tranquilla per le strade, ha deciso che è ora di
essere allegri. Per la prima volta dopo sette anni.
venerdì 15 giugno 2018
Le misure coercitive unilaterali rafforzano la crisi umanitaria in Siria
Dichiarazione
di Idriss Jazairy, relatore speciale del Consiglio dei diritti umani
delle Nazioni Unite a Ginevra su "gli effetti negativi delle
misure coercitive unilaterali sull'esercizio dei diritti umani",
alla fine della sua missione nella Repubblica Araba Siriana.
Idriss
Jazairy, relatore speciale sull'effetto negativo delle misure
coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani, ha visitato
la Siria dal 13 al 17 maggio 2018 su invito del governo siriano. Alla
fine del suo viaggio, era profondamente preoccupato di come vengono
applicate le sanzioni unilaterali. Una
delle conseguenze è il rifiuto dell'aiuto umanitario di emergenza
per il popolo siriano; le
sanzioni aggravano la crisi umanitaria in Siria e riguardano
soprattutto le popolazioni più fragili. Idriss
Jazairy ha annunciato che nel settembre 2018 apparirà il suo
rapporto dettagliato contenente i suoi risultati e le sue
raccomandazioni.
Pubblicato
in inglese da Ohchr.org
Traduzione: OraproSiria
Osservazioni
preliminari e raccomandazioni
Vorrei
iniziare questo incontro esprimendo la mia gratitudine al governo
della Repubblica araba siriana per il suo invito a visitare il paese
e per la franchezza e la disponibilità che ha dimostrato e che hanno
facilitato gli incontri della mia missione. Vorrei anche
ringraziare l'ufficio del coordinatore residente, i membri della
squadra nazionale delle Nazioni Unite e l'ufficio dell'Alto
commissario per i diritti umani per il loro prezioso sostegno.
Il
Consiglio per i diritti umani mi ha incaricato di monitorare gli
effetti negativi delle misure coercitive unilaterali sull'esercizio
dei diritti umani, di riferire e formulare raccomandazioni. In
diverse occasioni, le Nazioni Unite hanno espresso preoccupazione per
l'uso di tali misure che potrebbero essere in conflitto con il
diritto internazionale, il diritto internazionale umanitario, la
Carta delle Nazioni Unite, le norme e i principi che governano
relazioni pacifiche tra Stati.
Durante
la mia visita, ho avuto l'onore di essere ricevuto da ministri, vice
ministri e alti funzionari dei Ministeri degli Affari Esteri e degli
Espatriati, dell'Economia e del Commercio, Amministrazione locale e
Ambiente, del Lavoro e Affari Sociali, Trasporti, Agricoltura e
riforma agraria, dell'Elettricità e della Sanità. Ho anche
incontrato la direzione della commissione per la pianificazione e la
cooperazione internazionale, l'ufficio centrale di statistica, la
Camera di Commercio e il governatore della Banca centrale.
Il
personale della società civile, le organizzazioni umanitarie e gli
esperti indipendenti mi hanno dato delle guide. Infine, sono
grato anche per i numerosi corpi diplomatici che hanno condiviso le
loro opinioni con me durante la mia visita. Ho apprezzato molto
i briefing della Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite
per l'Asia occidentale a Beirut prima della mia visita.
Lo
scopo di questa missione era di esaminare fino a che punto le misure
coercitive unilaterali dirette alla Repubblica araba siriana
indeboliscano la piena realizzazione dei diritti sanciti nella
Dichiarazione universale dei diritti umani e in altri strumenti
internazionali sui diritti umani. Presenterò il mio rapporto
completo al Consiglio per i diritti umani nel settembre 2018. Questo
rapporto contiene le mie osservazioni preliminari sui risultati della
mia visita.
Ho
esaminato la situazione della Repubblica araba siriana in quanto
obiettivo di misure coercitive unilaterali da parte di diversi
Stati. Ho analizzato le prove rilevanti e ho cercato di valutare
l'impatto attuale di tali misure sul popolo siriano. Uno Stato ha
istituito misure coercitive unilaterali nel 1979, che sono state
rafforzate negli anni successivi. Un gruppo più ampio di Stati
ha iniziato ad applicare misure simili nel 2011.
Le
misure collettive richiedono un divieto di commercio per
l'importazione e l'esportazione di vari servizi e beni. Ciò
include anche i trasferimenti finanziari internazionali. La
sovrapposizione di diversi gruppi di misure collettive settoriali,
unitamente all'introduzione sistematica di restrizioni finanziarie,
equivale al loro impatto complessivo sull'imposizione di restrizioni
più ampie sulla Siria. Sono state inoltre attuate misure
complementari rivolte a persone in base al loro rapporto con il
governo.
Per la loro natura globale, queste misure hanno avuto un effetto devastante sull'intera economia e sulla vita quotidiana delle persone comuni. Ciò ha esacerbato le loro sofferenze a causa della devastante crisi che si è sviluppata dal 2011. Distinguere gli effetti delle misure coercitive unilaterali di questa crisi pone molte difficoltà, ma ciò non sminuisce in alcun modo la necessità di ripristinare i loro diritti umani fondamentali nel loro insieme.
Per la loro natura globale, queste misure hanno avuto un effetto devastante sull'intera economia e sulla vita quotidiana delle persone comuni. Ciò ha esacerbato le loro sofferenze a causa della devastante crisi che si è sviluppata dal 2011. Distinguere gli effetti delle misure coercitive unilaterali di questa crisi pone molte difficoltà, ma ciò non sminuisce in alcun modo la necessità di ripristinare i loro diritti umani fondamentali nel loro insieme.
È
chiaro che la sofferenza inflitta da misure coercitive unilaterali ha
aumentato la sofferenza causata dal conflitto. In effetti,
ironia della sorte, queste misure attuate dagli Stati di origine
senza preoccuparsi dei diritti umani, attualmente contribuiscono al
deterioramento della crisi umanitaria come una conseguenza fortuita.
Il
drammatico aumento della sofferenza del popolo siriano
L'economia
siriana continua a deteriorarsi a un ritmo allarmante. Dopo
l'applicazione delle misure coercitive nel 2011 e l'inizio
dell'attuale crisi, il PIL annuo totale della Siria è diminuito di
due terzi. Le riserve in valuta estera sono state esaurite e le
attività finanziarie internazionali e altre attività continuano a
essere congelate. Nel 2010, 45 lire siriane erano scambiate a un
dollaro; nel 2017, il tasso è sceso a 510 lire per
dollaro. L'inflazione è aumentata drasticamente dal 2010, con
un picco dell'82,4% nel 2013; il prezzo del cibo è aumentato
durante questo periodo. La combinazione dei fattori ha portato
alla devastazione delle condizioni di vita della popolazione che era
già stata danneggiata dal conflitto. Questo fenomeno riguarda
in particolare la metà dei siriani attivi che ricevono uno stipendio
fisso.
Conseguenze
non intenzionali delle misure coercitive unilaterali
Questo
danno all'economia ha avuto effetti prevedibili sulla capacità dei
siriani di comprendere la loro economia e i loro diritti sociali e
culturali. Gli indici di sviluppo umano siriano sono tutti
crollati. C'è stata una crescita vertiginosa del tasso di
povertà tra i siriani ordinari. Mentre non c'era insicurezza
alimentare prima dello scoppio della violenza, nel 2015 il 32% dei
siriani ne è stato colpito. Allo stesso tempo, la
disoccupazione è aumentata dall'8,5% nel 2010 a oltre il 48% nel
2015.
Restrizioni
bancarie
Le
preoccupazioni onnipresenti di cui ho sentito parlare durante la mia
missione riguardano gli effetti negativi delle restrizioni
finanziarie su tutti gli aspetti della vita siriana. Le
restrizioni della Banca centrale, delle banche pubbliche e delle
banche private, nonché delle transazioni nelle principali valute
internazionali hanno eliminato la capacità di chiunque di fare
affari a livello internazionale.
Pur
avendo teoricamente incluso "deroghe umanitarie", nella
pratica queste si sono rivelate costose ed estremamente lente.
L'incertezza
sul fatto che le transazioni violino o meno le misure coercitive
unilaterali ha portato a un "raffreddamento" di banche e
aziende che sono, quindi, riluttanti o incapaci di fare affari con la
Siria. Ciò ha impedito alla Siria, alle multinazionali, agli
attori non governativi (compresi quelli che lavorano solo nel campo
umanitario) e ai cittadini siriani di condurre transazioni
finanziarie internazionali (anche per beni legalmente importati) ,
ottenere credito o, per attori internazionali, pagare salari o pagare
imprenditori in Siria.
Ciò
ha costretto i siriani a trovare alternative, come il hawala [un
sistema tradizionale di pagamento informale nel mondo arabo, ndr],
causando la circolazione di milioni di dollari attraverso costosi
intermediari finanziari che a volte si sono rivelati parte di
organizzazioni terroristiche. Questi canali, che non sono
trasparenti, non possono essere controllati e aumentano il costo
della transazione, e rimangono l'unico modo per operare a livello
internazionale per le società e gli attori più piccoli nella
società civile siriana.
Assistenza
medica
La
Siria offre un accesso universale e gratuito all'assistenza sanitaria
a tutti i suoi cittadini. Prima dell'attuale crisi,
godeva di uno dei più alti livelli di assistenza nella regione. Le
richieste create dalla crisi hanno travolto il sistema e causato un
livello eccezionalmente elevato di bisogno. Nonostante ciò, le
misure restrittive, in particolare quelle relative al sistema
bancario, hanno influenzato la capacità della Siria di acquistare e
pagare farmaci, attrezzature, pezzi di ricambio e software. Sebbene
in teoria vi siano esenzioni, in pratica le società internazionali
private non sono pronte a superare gli ostacoli necessari per
garantire di poter trattare con la Siria senza essere accusate di
violare inavvertitamente misure restrittive.
Migrazione
e "fuga di cervelli"
Sebbene
la situazione della sicurezza sia un fattore determinante nel flusso
migratorio della Siria, bisogna sottolineare che il drammatico
aumento della disoccupazione, la mancanza di offerte di lavoro, la
chiusura delle imprese a causa dell'impossibilità di ottenere
materie prime, macchinari o esportazione dei loro beni hanno tutti
contribuito all'aumento dell'emigrazione dei siriani. Alcuni
Stati “accoglienti” hanno selezionato migranti qualificati e
hanno esercitato pressioni sui meno fortunati per tornare in
Siria. La "fuga di cervelli" ha indebolito
particolarmente le industrie mediche e farmaceutiche, proprio nel
periodo peggiore per la Siria.
La
fine anticipata dell'attuale conflitto non metterà fine al
flusso di migranti, specialmente in Europa, data la saturazione dei
paesi vicini. È probabile che tali flussi continuino fino a che
le misure coercitive unilaterali impediranno alle autorità siriane
di risolvere i problemi urgenti connessi alle infrastrutture sociali
ed economiche, come il ripristino delle forniture di acqua ed
elettricità.
Divieto
di commercio di attrezzature e pezzi di ricambio
Il
divieto di commercio di attrezzature, macchinari e pezzi di ricambio
ha spazzato via l'industria siriana. I veicoli, comprese le
ambulanze, i camion dei pompieri e le macchine agricole mancano di
pezzi di ricambio. Pompe idriche difettose compromettono
gravemente l'approvvigionamento idrico e riducono la produzione
agricola. Le centrali elettriche non funzionano più e le nuove
non possono essere costruite o mantenute, il che causa interruzioni
di corrente. Macchine complesse, che richiedono manutenzione da parte
di tecnici internazionali, non funzionano più e danneggiano
dispositivi medici e macchinari di fabbrica. Gli aerei civili
non sono più in grado di volare in sicurezza e gli autobus di
trasporto pubblico sono in uno stato disdicevole. A prescindere
dai motivi che i Paesi di origine adducono per giustificare la
restrizione dei cosiddetti beni a duplice uso, devono essere compiuti
sforzi maggiori per garantire l'autorizzazione dei beni chiaramente
destinati all'uso civile e per garantire che possano essere
finanziati.
Embargo
sulla tecnologia
A seguito di misure coercitive unilaterali, i siriani non sono in grado di acquisire molte tecnologie, compresi telefoni cellulari e computer. Le società di software, le società tecnologiche e il software bancario e finanziario sono dominati dagli americani e sono vietati in Siria. È quindi difficile trovare alternative, il che ha paralizzato o perturbato ampie sezioni di istituzioni siriane.
Istruzione e formazione
La
mancanza di supporti, di acqua e di forniture energetiche, così come
la mancanza di materiale didattico che ritarda la ricostruzione delle
scuole, ha impedito a 1,8 milioni di bambini di andare a scuola. La
capacità dei siriani di contribuire alla comunità internazionale è
stata seriamente compromessa. I siriani sono stati esclusi dai
programmi di scambio educativo internazionale e incontrano grandi
difficoltà nell'ottenere un visto, il che impedisce a molti di loro
di studiare o di viaggiare all'estero, di espandere la loro
formazione e competenze o di partecipare a conferenze
internazionali. Ritirando i loro servizi consolari dalla Siria,
i Paesi hanno costretto i siriani, compresi i più poveri, a recarsi
nei paesi vicini per inoltrare tali domande, sottoponendoli a costose
restrizioni d'ingresso.
Conclusione
Sono profondamente preoccupato che le misure coercitive unilaterali contribuiscano all'attuale sofferenza dei siriani. Proclamare la necessità di estendere misure coercitive in vista della protezione della popolazione o dell'agevolazione di una transizione democratica è difficilmente compatibile con le sofferenze subite sul piano umanitario ed economico. È giunto il momento di chiedersi se queste conseguenze non intenzionali non siano più gravi di quelle ragionevolmente accettabili per gli stati democratici. A prescindere dagli obiettivi politici, devono esserci modi più umani di raggiungerli, nel pieno rispetto del diritto internazionale.
Data
la complessità del sistema di misure coercitive unilaterali in
vigore, occorrerebbe un approccio graduale per affrontare la
deplorevole situazione dei diritti umani in Siria oggi. Ciò
implicherebbe un approccio sequenziale che soddisferebbe i bisogni
umanitari di base delle persone in tutto il paese, senza
precondizioni, quando si tratta di vita o di morte. Un
primo passo potrebbe integrare l'urgente necessità di sicurezza
alimentare, che riguarda quasi un terzo della popolazione. Il
secondo passo deve essere tradotto in misure efficaci sul terreno,
gli Stati di origine devono rispettare i loro impegni e adempiere ai
loro obblighi autorizzando esenzioni umanitarie, in particolare per
le transazioni finanziarie. Infine, deve esserci una discussione
seria sulla riduzione delle misure coercitive unilaterali, a partire
da quelle che hanno l'effetto più scioccante sulla popolazione, così
che queste promuovano la costruzione della fiducia tra le parti, con,
obiettivo finale, la rimozione delle misure coercitive
unilaterali. Spero che questo briefing
e la mia prossima relazione contribuiscano a tal fine.
Grazie.
Grazie.
martedì 12 giugno 2018
Padre Samir. Il rapporto tra cristiani e musulmani: cittadinanza, lealtà, verità, come fratelli di un’unica famiglia umana
Una strada più bella di convivenza, come fratelli di un’unica famiglia umana; un rifiuto della violenza e dell’incancrenirsi al passato; un impegno a rispettare la cittadinanza di tutti, senza dividere i diritti fra cristiani e musulmani. È il messaggio e l’invito che p. Samir Khalil Samir, gesuita, esperto islamologo a livello mondiale, rivolge agli “amici musulmani”, insieme all’appello a distinguere la politica dalla religione. Nei giorni scorsi, in occasione del suo 80mo compleanno, p. Samir ha partecipato a un convegno in suo onore tenutosi presso il Pontificio istituto orientale. P. Samir propone anche una pista per la fondamentale testimonianza dei cristiani nel mondo arabo.
Asianews 4 giugno 2018
1. L’Islam non è solo una religione: è una totalità
“L’Islam, a differenza del cristianesimo, non è solo una religione: è una totalità. È questo la sua forza e il pericolo. Può diventare un impero, una dittatura, perché niente sfugge all’islam: l’economia, la politica, l’aspetto militare, il rapporto uomo-donna, i gesti precisi nella preghiera, il modo di vestirsi, tutto! Tutto è islamico!
“È una forza, una potenza, ma è anche la lacuna, la difficoltà dell’islam. Mescolando religione, politica, economia e potere, la religione perde la sua essenza. È ciò che cerco di spiegare agli amici musulmani: fino a che ci sarà questo miscuglio – e rischia di essere per l’eternità – sarà difficile per i musulmani trovare una linea umanistica completa.
2. Il problema: mescolare politica e religione
Mescolare politica e religione è successo a tutte le religioni, in alcuni periodi. Spesso i musulmani mi criticano dicendo: “E allora, le crociate?”, aggiungendo cose inesatte e non vere. Io rispondo: “Tu stai parlando di una fase della storia, ma andiamo alla radice. Prendi il Vangelo, e trovami un solo passo in cui Gesù dice ‘combattetele, uccideteli, non fateli fuggire’, come sta scritto nel Corano” (2: 190-191; 4: 89; 9: 5; 9: 123; ecc.). Questa è la grande differenza! Gli uomini sono tutti simili, ma il testo fondatore è essenziale.
Gesù non dice “occhio per occhio, dente per dente” (Levitico 24:20; Esodo 21:24), come Mosè. Al contrario, Egli dice: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due. Da' a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” (Matteo 5, 38-42).
A chi mi viene a dire: “Ma allora, tu ti sottometti a lui, al musulmano!”. Rispondo: “No, io supero la provocazione, per aiutarlo a capire: è la visione evangelica di Cristo, il suo progetto originale.
Invece, il progetto originale di Maometto è un progetto politico, che usa sì la religione e la fede – ma è politico. L’islam non è capace di distinguere le due dimensioni. Ci sono tendenze che vogliono dissociare politica e religione, ma vengono criticate. Viene detto loro che quanto da loro portato avanti “non è l’Islam”.
Questo capita anche in altre religioni. Pensiamo all’induismo – che io credevo essere il pacifismo perfetto – e a quello che accade in India oggi: ogni giorno c’è un attacco contro protestanti, cattolici, musulmani. C’è difficoltà a distinguere la religione dalla cultura politica e economica.
3. “La religione appartiene a Dio, ma la patria a tutti!”
In Egitto, nel 1919, ci fu la rivoluzione contro i britannici. Il capo dell’opposizione, il famoso Saad Zaghloul, per raccogliere tutti gli egiziani – musulmani, cristiani, ebrei, miscredenti – contro di loro, lanciò lo slogan: “La religione appartiene a Dio, ma la patria a tutti!” (Ad-dīn li-llāh, wa-l-waṭan li-l-ǧamī‘).
Copti e musulmani stavano mano nella mano contro gli inglesi che invadevano l’Egitto. Era una questione nazionale, non religiosa. Non era un conflitto tra musulmani (cioè egiziani) e cristiani (cioè britannici), ma un conflitto puramente politico.
Questa è stata la vera rivoluzione delle mentalità. Abbiamo combattuto allora mano nella mano. E abbiamo vissuto poi anche mano nella mano, musulmani, cristiani ed ebrei. In proporzione a loro numero, c’erano più ministri cristiani che musulmani; lo stesso a tutti i livelli della vita sociale, economica, culturale e politica. Gli ebrei si sentivano a casa, e i i negozi più grandi erano i loro.
La religione è affare personale, tra me e Dio. Nessuno ha diritto d’interferire. È questa distinzione dei settori che è fondamentale, è quello che nel dialogo islamo-cristiano cerco, personalmente, di suggerire. Se parliamo di islam, cristianesimo e ebraismo, non parliamo di ebrei, musulmani e cristiani: parliamo del progetto. È un progetto puro, valido per tutti gli esseri umani, o è un progetto per “tribù”? Finché non ci capirà questo, temo che non ci sarà pace.
4. I periodi di liberalismo nella storia islamica
Nel corso della storia, abbiamo avuto periodi in cui vi è stato rispetto per tutti, soprattutto nel periodo abbasside, tra il 750 e l’anno mille. Eravamo tutti insieme, gli uni erano discepoli degli altri. Man mano, tutto si è poi politicizzato.
Più tardi, nel 1800, abbiamo riscoperto questa possibilità di convivenza, con un’apertura fino alla metà del 20mo secolo; ma poi è tornata la tendenza islamista. Il ritorno a un’era più liberale è possibile, ma non è prevedibile a breve tempo.
Ora siamo addirittura passati dall’intransigenza al terrorismo. Ed è un terrorismo squisitamente islamico. Chi uccide lo fa nel nome dell’islam, non nel nome dell’arabismo o del nazionalismo, ma contro chi non è un “perfetto islamico”: sciiti, yazidi, cristiani… E questa corrente sta arrivando anche in Occidente. Io temo che l’Europa non si accorga dell’immensità del pericolo.
Queste settimane in Gran Bretagna hanno proposto che ai musulmani si applichi la sharia, e non la legge inglese! Se la Gran Bretagna accettasse una cosa del genere – se ognuno avesse la sua legge: cristiani, ebrei, indù, ecc. – allora non ci sarebbe più patria, non ci sarebbe più Paese.
Il principio fondamentale da attuare è questo: la distinzione dei settori. La politica vale per tutti, la decidiamo tutti insieme e sbagliamo – e ci correggiamo – tutti insieme. La fede è un fatto personale. Se tu vuoi essere ateo, hai il diritto di esserlo. Penso che ti manchino degli elementi, ma quello è affare tuo. Tu hai il diritto di essere ateo, come io ho il diritto di essere credente, e l’altro di essere musulmano o buddista, ecc. Questo manca nella visione islamica.
5. Aiutare i musulmani a ritrovare il loro liberalismo di una volta
I cristiani devono aiutare i musulmani (ed altri gruppi religiosi o ideologici) a ricordare questi principi: non è un principio solo cristiano, è un principio umanistico. Siamo tutti “italiani”, “umani”, uomo e donna. Io non ho autorità sulla donna, né una donna ha autorità su di me. Tutti siamo sotto una sola autorità, quella della legge e – se si crede – sotto quella di Dio.
Se la Costituzione divide cristiani e musulmani, o donna e uomo – come, purtroppo dal 1971 avviene in quella egiziana – non c’è più uguaglianza e non c’è più cittadinanza! Questo concetto di cittadinanza era “la” richiesta maggiore del Sinodo per il Medio Oriente nell’ottobre-dicembre 2010, ma non è stato possibile trasmetterla alla popolazione musulmana.
La disuguaglianza tra musulmani e non musulmani, uomo e donna, ricco e povero, i vari stati sociali, ecc., sono le cause del ritardo a tutti i livelli in molti Paesi. La costituzione e le leggi valgono ugualmente per tutti, e non dovrebbe esserci nessuna distinzione tra i membri del Paese e della nazione!
6. Il salafismo è la piaga dell’islam
La piaga attuale dell’islam è la tendenza salafita, che consiste a pensare che la soluzione ai mali presenti dell’islam è il ritorno all’islam delle origini, del settimo secolo. Questa tendenza prende varie forme e nomi: il wahhabismo, da un certo Muḥammd Ibn ‘Abd al-Wahhāb (1703-1792), che viveva a Najd nel centro dell’Arabia ; i salafiti, nati in Egitto alla fine del XIX° secolo, con il desiderio di riformare l’Islam tornando al modello dei primi compagni e successori di Maometto ; i Fratelli musulmani, movimento creato in Egitto nel marzo 1928 da Hassan al-Banna.
In questi gruppi, c’è una visione per cui non si distingue fra il settimo secolo e il ventunesimo. Ciò che era valido allora lo è oggi. Eppure sono passati 14 secoli, e ora la mentalità è cambiata, e cambia giorno per giorno. Come si può dire “torniamo a praticare quello che si faceva al tempo del Profeta”, come affermano i salafiti? Non si può. Bisogna avere buon senso e logica, e per questo la critica deve essere fatta, con rispetto, certo! – perché so che chi applica quest’idea lo fa perché è convinto che quella sia la parola di Dio – , ma fatta con forza e violenza !
Allora, lo aiuto, dicendo: “Rifletti con me, riflettiamo insieme”. La nostra missione è di aiutare a riflettere, e loro devono decidere. Non posso decidere per loro, ma non posso ignorare che loro stiano pensando con criteri non contemporanei. Si tratta di un impegno di informazione e di apertura, non di imporre qualcosa.
È il messaggio che trasmetto personalmente agli amici musulmani. Senza aggressività, dico: “Fratello mio, io ti voglio tanto bene. Vedi come puoi fare una famiglia, amata e amante, strutturata; come fare un’industria che sia per il bene dei poveri”. Serve equilibrare tutto, pensare globalmente. E, in fin dei conti, siamo tutti esseri umani, membri di una famiglia che può essere la patria, degli egiziani, degli italiani… ma non una famiglia che divide.
7. Cristiani del mondo arabo: la nostra missione
Quando si dice “musulmano”, si contrappone a “cristiano”. Io penso all’evangelizzazione, è vero, ma non per convertire, ma per annunciare il Vangelo, un progetto di liberazione! Se tu pensi che questo messaggio ti aiuti ad essere migliore, prendi quel che vuoi. Ma non cerco di farti cristiano. Cerchiamo una strada più bella. Se ne vedi una, seguila – ma alla condizione che non vi sia mai qualcuno che ne soffre, che ne paga il prezzo.
Vorrei concludere con ciò che abbiamo scritto nell’Assemblea speciale per il Medio Oriente, in Vaticano, l’8 dicembre 2009:
“Il rapporto tra cristiani e musulmani va compreso a partire da due principi: da una parte, come cittadini di uno stesso Paese e di una stessa patria che condividono lingua e cultura, come gioie e dolori dei nostri Paesi; dall’altra, noi siamo cristiani nelle e per le nostre società, testimoni di Cristo e del Vangelo. Le relazioni sono, più o meno spesso, difficili, soprattutto per il fatto che i musulmani generalmente non fanno distinzione tra religione e politica, il che mette i cristiani nella situazione delicata di non-cittadini” (§ 68).
“Tocca a noi, perciò, lavorare, con spirito d’amore e lealtà, per creare un’uguaglianza totale tra i cittadini a tutti i livelli: politico, economico, sociale, culturale e religioso, e questo conformemente alla maggioranza delle Costituzioni dei nostri Paesi. Con questa lealtà alla patria, e in questo spirito cristiano, noi facciamo fronte alla realtà vissuta, che potrebbe essere irta di difficoltà quotidiane, cioè di dichiarazioni e minacce da parte di certi movimenti. Constatiamo, in molti Paesi, la crescita del fondamentalismo, ma anche la disponibilità di un gran numero di musulmani a lottare contro questo estremismo religioso crescente” (§ 70).
Concludo con la dichiarazione al mondo del Concilio Vaticano II, il 28 ottobre 1965: “La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini” (Nostra aetate, 3).
Questa è la visione cristiana, che, nella mia conoscenza limitata, mi sembra essere la più aperta di tutte le altre.
sabato 9 giugno 2018
Le proteste sociali in Giordania e l'accordo nel sud della Siria
di Scarlett Haddad (OLJ)
Traduzione: OraproSiria
Le
proteste sociali in Giordania occupano attualmente una parte
importante delle notizie regionali. Mentre
il loro catalizzatore è stato indubbiamente il decreto sulle nuove
tasse, la maggior parte dei media arabi collega questi movimenti con
l'accordo che sta per essere raggiunto nella regione meridionale
della Siria, come anche con quello che si sta definendo "l'accordo
del secolo" sul conflitto israelo-palestinese.
I
media del Qatar mettono in causa direttamente i servizi degli Emirati
Arabi Uniti e Sauditi nell'attizzare i conflitti sociali in
Giordania, ma queste accuse possono essere parte del conflitto tra
questo emirato e i Sauditi e i loro alleati. Tuttavia,
rapporti diplomatici arabi suggeriscono che le proteste sociali sono
più o meno legate agli sviluppi nella regione, in particolare in
Siria. Secondo
questi rapporti, il Regno hashemita avrebbe da qualche tempo preso le
distanze dal campo americano-saudita in Siria. Non
solo il quartier generale operativo in Giordania, che negli ultimi
anni aveva svolto un ruolo importante nell'addestramento e nella
formazione delle forze di opposizione siriane, ha cessato le
operazioni, ma ancor più, lo Stato Giordano ha recentemente deciso
di "normalizzare" i suoi rapporti con la Siria, attraverso
la riapertura del valico di Nassib (il più importante tra i due
paesi) per ragioni principalmente economiche, poiché questo
passaggio può portare al Tesoro giordano quasi 400 milioni dollari
al mese in entrate doganali, secondo le stime. In
altre parole, la Giordania non vuole più che i piani contro il
regime siriano passino attraverso il suo territorio. Ciò
costituisce una posizione avanzata che rafforza la posizione di
Damasco nel sud, in particolare nella provincia di Deraa.
Secondo
i rapporti diplomatici di cui sopra, la posizione della Giordania
probabilmente faciliterà la conclusione di un accordo
russo-israeliano per quella parte della Siria che prevede
l'accettazione da parte degli israeliani dello spiegamento
dell'esercito siriano nel sud, al confine del Golan occupato, in
cambio del ritiro delle forze alleate (Iran e Hezbollah) dalla
suddetta regione.
Questo accordo, che inciampa ancora sul ritiro degli Stati Uniti dalla base di Tanaf situata sul confine siriano-iracheno ma vicino alla Giordania (una condizione posta da russi e siriani), è stato presentato come una vittoria per gli Israeliani che ottengono così il il ritiro degli Iraniani e degli Hezbollah dall'adiacente area del Golan, dove questi ultimi avevano affermato di voler creare una forza di resistenza per riproporre uno scenario simile a quello accaduto nel sud del Libano. Questo è il motivo per cui i suddetti reports diplomatici prevedono un'azione israeliana presso gli Americani a favore della conclusione di questo accordo.
Sempre secondo gli stessi rapporti, gli Israeliani hanno bisogno di questo accordo per soffocare la possibilità che si crei un fronte permanente e attivo lungo le Alture del Golan. Soprattutto perché non hanno ancora digerito gli ultimi sviluppi in questa regione, in particolare quello che il Segretario Generale di Hezbollah ha definito in uno dei suoi discorsi "la notte dei missili". Durante quella notte, furono lanciati 48 missili dal territorio siriano verso posizioni israeliane nel Golan. Gli israeliani riconobbero solo il lancio di 20 missili, assicurando che la maggior parte di essi fu intercettata. Ma secondo Hassan Nasrallah, il loro numero è molto più alto e hanno raggiunto obiettivi militari israeliani importanti e segreti, installati nel Golan occupato e destinati a monitorare le attività delle forze avversarie. Inoltre, gli Israeliani non sono ancora riusciti a determinare l'identità di coloro che hanno lanciato i missili (esercito siriano, Iraniani o Hezbollah). Ciò aumenta ulteriormente la loro confusione, poiché hanno ammesso che la loro forza aerea non può più sorvolare e bersagliare impunemente obiettivi in Siria da quando uno dei suoi aerei militari è stato abbattuto da un missile lanciato dal territorio siriano. Gli Israeliani quindi hanno tastato il terreno e ottenuto risposte che non li hanno affatto rassicurati. Questo è il motivo per cui ora considerano che un ritorno alla situazione prebellica in Siria sia preferibile per la stabilità nel Golan. È in questo contesto che chiedono il dispiegamento dell'esercito siriano nel sud del paese per rilanciare il cessate il fuoco che era in vigore in precedenza e che è stato in linea di principio garantito dalle Forze di Pace delle Nazioni Unite. Questa rivendicazione, presentata come una vittoria, è in realtà un riconoscimento del fallimento di tutti i tentativi di rovesciare il regime siriano e del piano di aiuto alle forze dell'opposizione siriana che è durato quasi sette anni. Mostra anche che, nonostante le loro minacce, gli Israeliani temono l'apertura del fronte del Golan e la presenza di forze dell'asse della resistenza in quest'area.
Questo accordo, che inciampa ancora sul ritiro degli Stati Uniti dalla base di Tanaf situata sul confine siriano-iracheno ma vicino alla Giordania (una condizione posta da russi e siriani), è stato presentato come una vittoria per gli Israeliani che ottengono così il il ritiro degli Iraniani e degli Hezbollah dall'adiacente area del Golan, dove questi ultimi avevano affermato di voler creare una forza di resistenza per riproporre uno scenario simile a quello accaduto nel sud del Libano. Questo è il motivo per cui i suddetti reports diplomatici prevedono un'azione israeliana presso gli Americani a favore della conclusione di questo accordo.
Sempre secondo gli stessi rapporti, gli Israeliani hanno bisogno di questo accordo per soffocare la possibilità che si crei un fronte permanente e attivo lungo le Alture del Golan. Soprattutto perché non hanno ancora digerito gli ultimi sviluppi in questa regione, in particolare quello che il Segretario Generale di Hezbollah ha definito in uno dei suoi discorsi "la notte dei missili". Durante quella notte, furono lanciati 48 missili dal territorio siriano verso posizioni israeliane nel Golan. Gli israeliani riconobbero solo il lancio di 20 missili, assicurando che la maggior parte di essi fu intercettata. Ma secondo Hassan Nasrallah, il loro numero è molto più alto e hanno raggiunto obiettivi militari israeliani importanti e segreti, installati nel Golan occupato e destinati a monitorare le attività delle forze avversarie. Inoltre, gli Israeliani non sono ancora riusciti a determinare l'identità di coloro che hanno lanciato i missili (esercito siriano, Iraniani o Hezbollah). Ciò aumenta ulteriormente la loro confusione, poiché hanno ammesso che la loro forza aerea non può più sorvolare e bersagliare impunemente obiettivi in Siria da quando uno dei suoi aerei militari è stato abbattuto da un missile lanciato dal territorio siriano. Gli Israeliani quindi hanno tastato il terreno e ottenuto risposte che non li hanno affatto rassicurati. Questo è il motivo per cui ora considerano che un ritorno alla situazione prebellica in Siria sia preferibile per la stabilità nel Golan. È in questo contesto che chiedono il dispiegamento dell'esercito siriano nel sud del paese per rilanciare il cessate il fuoco che era in vigore in precedenza e che è stato in linea di principio garantito dalle Forze di Pace delle Nazioni Unite. Questa rivendicazione, presentata come una vittoria, è in realtà un riconoscimento del fallimento di tutti i tentativi di rovesciare il regime siriano e del piano di aiuto alle forze dell'opposizione siriana che è durato quasi sette anni. Mostra anche che, nonostante le loro minacce, gli Israeliani temono l'apertura del fronte del Golan e la presenza di forze dell'asse della resistenza in quest'area.
In
questo contesto, la richiesta di ritiro delle forze iraniane e
alleate dal sud della Siria non è una vittoria ma un desiderio di
calma, per essere in grado di concentrarsi sulla questione
israelo-palestinese e l'esecuzione del famoso "accordo del
secolo" proposto dal presidente degli Stati Uniti Donald
Trump. Secondo quanto si sa circa il piano americano,
Gerusalemme non dovrebbe più essere reclamata dai Palestinesi e sarà
consacrata capitale dello Stato ebraico. Questo sarebbe anche
l'altro motivo del desiderio di "punire" la Giordania che
rifiuta questa disposizione, perché essa è il "guardiano dei
Luoghi Santi" di Gerusalemme. Dossier da seguire ...
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