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sabato 1 giugno 2013
venerdì 31 maggio 2013
Mentre i Paesi occidentali e arabi discutono sul futuro della Siria e se inviare armi ai ribelli, la Chiesa continua il suo lavoro discreto e silenzioso fra poveri e sfollati
Intervistato da AsiaNews, mons. Antoine Audo, arcivescovo caldeo di Aleppo e presidente di Caritas Siria racconta la "straordinaria vitalità dei giovani cattolici". Affrontando i rischi della guerra, migliaia di ragazzi lavorano nelle mense e nei centri di raccolta della Caritas locale e hanno grande attenzione anche per le attività spirituali, spesso rivolte anche a membri di altre religioni .
"Ogni giorno - afferma mons. Audo - cerchiamo di compiere la nostra missione ovunque vi sia bisogno. I giovani responsabili che ci seguono sono diverse centinaia. Insieme ai loro coetanei essi sono attivi in molte attività caritatevoli".
Per il prelato questo impegno dei ragazzi siriani è commovente e straordinario "per una città come Aleppo, che sempre di più è descritta dai media come un luogo sull'orlo della distruzione, in preda al caos, agli odi inter-religiosi".
gruppi scout di Aleppo |
Le Chiese cattolica e ortodossa, sono rimaste le uniche realtà autorevoli e neutrali presenti ad Aleppo e in gran parte dei territori siriani. Tale consapevolezza ha spinto sacerdoti e prelati a chiedere con urgenza un sinodo locale della Chiesa cattolica ad Aleppo. "I giovani sacerdoti - spiega - mons. Audo - lo stanno chiedendo da diverso tempo, vogliamo comprendere come essere uniti in questo periodo difficile, per dare una speranza alla popolazione e ai nostri fedeli".
Fino ad ora l'unica organizzazione in grado di distribuire viveri e offrire ospitalità alle migliaia di sfollati della provincia di Aleppo è la Caritas locale, che opera attraverso le parrocchie e i conventi sparsi nelle varie province. Di recente la Chiesa ha organizzato una giornata di formazione per tutti i responsabili dei centri per l'assistenza ai poveri e agli sfollati.
"Vi erano oltre 100 giovani - racconta mons. Audo - e ciò dimostra quante iniziative silenziose e gratuite sono presenti in questa città, dove si sente il pericolo della guerra, di morire, di essere rapiti, derubati, ma si va avanti, con fede e speranza".
http://www.asianews.it/notizie-it/Assad-apre-forse-al-dialogo.-Ad-Aleppo-giovani-cristiani-offrono-la-loro-vita-per-i-poveri-28009.html
giovedì 30 maggio 2013
Appello della Santa Sede: «Far tacere le armi»
Mons. Tomasi: No all'escalation militare in Siria. Sì al dialogo politico
ASIA NEWS- 30/05/2013
Ginevra - Contro "l'inutile e distruttiva tragedia" che sta sbriciolando la Siria e il Medio oriente, la via da seguire non è "l'intensificazione militare del conflitto armato, ma il dialogo e la riconciliazione". È l'appello di mons. Silvano Tomasi, osservatore della Santa Sede all'Onu di Ginevra, lanciato ieri durante l'incontro della Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani, sul tema "Il deterioramento della situazione dei diritti umani nella Repubblica araba siriana e le recenti uccisioni di Al Qusayr".
Proprio nei giorni scorsi l'Unione europea ha cancellato il bando sull'export di mezzi militari all'opposizione siriana. Secondo alcuni osservatori, tale bando non è mai stato attuato: nei quasi due anni di guerra civile in Siria, diversi Paesi europei hanno venduto armi ad Arabia saudita, Qatar e Abu Dhabi, alleati del Free Syrian Army, maggior forza di opposizione al governo siriano.
Per giustificare la fine ufficiale del bando agli aiuti militari, le diplomazie europee - soprattutto Francia e Gran Bretagna - continuano a denunciare la presenza di migliaia di Hezbollah libanesi in Siria, a sostegno di Assad. Nessuna parola sulle altrettante migliaia di combattenti jihadisti che da tutto il Medio oriente (e anche dall'Europa) vanno a combattere contro l'esercito siriano.
Anche Navi Pillai, Alto commissario Onu per i diritti umani, ha denunciato la Siria per la presenza di "truppe straniere" a Qusayr. Il messaggio finale della Commissione Onu è però simile a quello di mons. Tomasi: "Se la situazione attuale persiste, o si deteriora di più, i massacri interetnici diverranno una certezza, invece che un rischio... Il messaggio da tutti noi deve essere lo stesso: noi non sosterremo questo conflitto con armi, munizioni, politica o religione".
Nel suo intervento, l'osservatore della Santa Sede denuncia che "decine di migliaia di vite sono state distrutte; 1,5 milioni di persone sono state forzate a fuggire all'estero come rifugiati; più di 4 milioni hanno perso la loro casa; e i civili sono divenuti l'obbiettivo delle parti in guerra, in totale disprezzo verso le leggi umanitarie".
Mons. Tomasi ricorda le parole di papa Francesco nel suo messaggio pasquale: "Quanto sangue è stato versato! E quante sofferenze dovranno essere ancora inflitte prima che si riesca a trovare una soluzione politica alla crisi?".
Per questo egli domanda che "le armi tacciano" e che si cerchi a tutti i costi una soluzione politica che inizi con negoziati pacifici e porti a un governo partecipato da tutte le rappresentanze civili del Paese.
http://www.asianews.it/notizie-it/Mons.-Tomasi:-No-all'escalation-militare-in-Siria.-Sì-al-dialogo-politico-28064.html
Holy See’s UN Observer warns against a military intensification of Syria’s conflict
(Vatican Radio) Archbishop Silvano Tomasi, the Holy See’s Permanent Observer to the UN in Geneva, has described Syria’s armed conflict as a national tragedy that risks intensifying regional and global conflicts and could melt down the entire country. Please see below the full transcript of Archbishop Tomasi’s statement delivered at the 23rd session of the Human Rights Council.
martedì 28 maggio 2013
SE PREVALGONO I "SIGNORI DELLA GUERRA"
da PICCOLE NOTE
29 maggio 2013
Una buona
parte delle sorti della guerra in Siria la si sta decidendo all’estero, ma i
due fronti contrapposti non sono solo quelli di cui si sente parlare, spesso in
modo un po’ approssimativo: Occidente e paesi del Golfo contro Russia, Cina e
Iran.
C’è chi
lavora a un negoziato, da impostare il mese prossimo a Ginevra, e chi invece
pensa che la guerra andrà decisa prima di tutto sul piano militare, come prova
di forza tra i ribelli e le milizie fedeli a Bashar al Assad.
Di recente
sono apparse alcune testimonianze senza precedenti su come si sta muovendo il
secondo dei due fronti, quello che punta ad “alzare il livello dello scontro”.
A gettare un po’ di luce ci ha pensato l’edizione domenicale del Financial
Times, il 19 maggio scorso, con un lungo reportage sul ruolo del Qatar nella
guerra civile siriana. «Ringalluzzito» dal successo ottenuto in Libia, dove
pure le truppe qatariote hanno giocato un ruolo di primo piano nella ribellione
anti-Gheddafi, il governo del piccolo emirato da più di un anno è diventato il
principale finanziatore dei ribelli siriani.
Il suo
contributo alla “causa” – secondo il quotidiano finanziario di Londra – può
essere stimato tra uno e tre miliardi di dollari: soldi stanziati dalla casa
regnante per fare dell’emiro Hamad bin Khalifa «un nuovo Nasser islamista». Un
leader cioè che aspira a unificare tutti i popoli arabi contro un unico nemico
(come fece Gamal Nasser, autore del colpo di Stato egiziano del 1952),
servendosi però della bandiera dell’islamismo. Non a caso i soldi qatarioti
sono arrivati un po’ a tutte le sigle della ribellione, incluse quelle legate
allo jihadismo internazionale e ad al Qaeda in Iraq. «Il problema – spiega un
ufficiale americano al Financial Times – è che “per il Qatar non importa chi
finanzi, l’importante è abbattere Assad”».
È
interessante che un attacco così duro contro il Qatar arrivi proprio dal giornale
della City di Londra. L’intento “politico” del reportage è stato chiarito
subito, con un editoriale non firmato apparso sul quotidiano del 20 maggio:
l’attivismo qatariota – recita l’articolo – si è andato a scontrare con quello
dell’Arabia saudita, aumentando solo la confusione in un fronte già
estremamente frammentario. Conclusione: «La lotta dei ribelli contro Assad
resterà caotica fino a quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non
interverranno in prima persona per fornire armi ai moderati che combattono in
Siria».
L’argomento
non è dei più solidi: per contrastare l’attivismo dei paesi del Golfo il
Financial Times propone un nuovo attivismo dell’Occidente. Ma le intenzioni (e
il tempismo) erano evidenti: dare man forte a chi sosteneva, in ambito di
Unione Europea, la necessità di non rinnovare l’embargo sulla vendita di armi
in Siria. Missione compiuta: lunedì scorso, per il veto posto dal britannico
William Hague e dal francese Laurent Fabius (uno dei “falchi” del governo
Hollande), i ministri degli Esteri dell’Ue non sono riusciti a prolungare il
divieto. Ora anche gli europei sono autorizzati ad armare ai ribelli.
Com’era
prevedibile, la Russia non ha mancato di rispondere alla mossa “minacciosa” di
Gran Bretagna e Francia, confermando che consegnerà alla Siria una batteria di
missili contraerei S-300: «I missili sono un fattore di stabilità, – ha
spiegato il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov – evitano che qualche
testa calda possa provocare un’escalation del conflitto sul piano regionale».
Non è
difficile immaginare che la scelta europea di non prolungare l’embargo abbia
causato qualche mal di pancia alla Casa Bianca. Il segretario di Stato
americano John Kerry è tuttora impegnato in un giro del mondo finalizzato a
organizzare, d’accordo con Mosca, una conferenza di pace che coinvolga sia il
governo di Assad sia i ribelli, insieme ai rispettivi sponsor internazionali
(Iran incluso). Ma la strada verso “Ginevra 2″ «è ancora lunga», per usare le
parole del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, che il 9 maggio scorso,
alla Farnesina, si era confrontata proprio con Kerry sui passi necessari a
chiudere la crisi siriana.
La fine
dell’embargo – ha detto oggi la Bonino – segna un «momento non glorioso» per la
politica estera dei Ventisette. Che ora dovranno scegliere se inseguire il
Qatar nella corsa agli armamenti o lavorare, insieme a russi e americani, per
il successo dell’incontro di Ginevra.
MOSCA RISPONDE ALLA UE: ECCO I MISSILI PER ASSAD
La decisione
della Ue di lasciar liberi gli Stati membri sulla possibilità di fornire armi
alle forze anti-Assad, prima in regime di embargo, si è rivelata devastante.
Nonostante sia stata giustificata come mezzo di pressione contro Assad perché
prenda sul serio i negoziati promossi da Russia e Usa (la tecnica del bastone e
della carota), è tutt’altro: un ordigno gettato contro il processo di pace.
La Russia ha
annunciato che darà seguito all’invio degli S 300, micidiali nella difesa
aerea, allo scopo di dissuadere alcune “teste calde” dall’intervenire nel conflitto.
Decisione che, a sua volta, ha allarmato Israele, che lancia oscure minacce.
L’arrivo degli S 300, oltre a rendere più complesso un intervento Nato o Onu,
perché obbligherebbe i belligeranti a una guerra vera, impedirebbe
all’aviazione di tsahal ulteriori raid in territorio siriano: opzione che
Israele vuole conservare.
Il clima
surriscaldato non giova alla preparazione della conferenza di pace in programma
a Ginevra a giugno.
Dopo due anni di conflitto, novantamila morti, questo è il
primo tentativo serio di uscire da una sanguinosa impasse. La Ue si presenta
all’appuntamento divisa e, soprattutto, con opzioni altre e più inquietanti.
Una buona parte delle sorti della guerra in Siria la si sta decidendo all’estero, ma i due fronti contrapposti non sono solo quelli di cui si sente parlare, spesso in modo un po’ approssimativo: Occidente e paesi del Golfo contro Russia, Cina e Iran. C’è chi lavora a un negoziato, da impostare il mese prossimo a Ginevra, e chi invece pensa che la guerra andrà decisa prima di tutto sul piano militare, come prova di forza tra i ribelli e le milizie fedeli a Bashar al Assad.
Una buona parte delle sorti della guerra in Siria la si sta decidendo all’estero, ma i due fronti contrapposti non sono solo quelli di cui si sente parlare, spesso in modo un po’ approssimativo: Occidente e paesi del Golfo contro Russia, Cina e Iran. C’è chi lavora a un negoziato, da impostare il mese prossimo a Ginevra, e chi invece pensa che la guerra andrà decisa prima di tutto sul piano militare, come prova di forza tra i ribelli e le milizie fedeli a Bashar al Assad.
Di recente sono apparse alcune testimonianze senza precedenti su come si sta muovendo il secondo dei due fronti, quello che punta ad “alzare il livello dello scontro”. A gettare un po’ di luce ci ha pensato l’edizione domenicale del Financial Times, il 19 maggio scorso, con un lungo reportage sul ruolo del Qatar nella guerra civile siriana. «Ringalluzzito» dal successo ottenuto in Libia, dove pure le truppe qatariote hanno giocato un ruolo di primo piano nella ribellione anti-Gheddafi, il governo del piccolo emirato da più di un anno è diventato il principale finanziatore dei ribelli siriani.
Il suo contributo alla “causa” – secondo il quotidiano finanziario di Londra – può essere stimato tra uno e tre miliardi di dollari: soldi stanziati dalla casa regnante per fare dell’emiro Hamad bin Khalifa «un nuovo Nasser islamista». Un leader cioè che aspira a unificare tutti i popoli arabi contro un unico nemico (come fece Gamal Nasser, autore del colpo di Stato egiziano del 1952), servendosi però della bandiera dell’islamismo. Non a caso i soldi qatarioti sono arrivati un po’ a tutte le sigle della ribellione, incluse quelle legate allo jihadismo internazionale e ad al Qaeda in Iraq. «Il problema – spiega un ufficiale americano al Financial Times – è che “per il Qatar non importa chi finanzi, l’importante è abbattere Assad”».
È interessante che un attacco così duro contro il Qatar arrivi proprio dal giornale della City di Londra. L’intento “politico” del reportage è stato chiarito subito, con un editoriale non firmato apparso sul quotidiano del 20 maggio: l’attivismo qatariota – recita l’articolo – si è andato a scontrare con quello dell’Arabia saudita, aumentando solo la confusione in un fronte già estremamente frammentario. Conclusione: «La lotta dei ribelli contro Assad resterà caotica fino a quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non interverranno in prima persona per fornire armi ai moderati che combattono in Siria».
L’argomento non è dei più solidi: per contrastare l’attivismo dei paesi del Golfo il Financial Times propone un nuovo attivismo dell’Occidente. Ma le intenzioni (e il tempismo) erano evidenti: dare man forte a chi sosteneva, in ambito di Unione europea, la necessità di non rinnovare l’embargo sulla vendita di armi in Siria. Missione compiuta: lunedì scorso, per il veto posto dal britannico William Hague e dal francese Laurent Fabius (uno dei “falchi” del governo Hollande), i ministri degli Esteri dell’Ue non sono riusciti a prolungare il divieto. Ora anche gli europei sono autorizzati ad armare ai ribelli.
Com’era prevedibile, la Russia non ha mancato di rispondere alla mossa “minacciosa” di Gran Bretagna e Francia, confermando che consegnerà alla Siria una batteria di missili contraerei S-300: «I missili sono un fattore di stabilità, – ha spiegato il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov – evitano che qualche testa calda possa provocare un’escalation del conflitto sul piano regionale».
Non è difficile immaginare che la scelta europea di non prolungare l’embargo abbia causato qualche mal di pancia alla Casa Bianca. Il segretario di Stato americano John Kerry è tuttora impegnato in un giro del mondo finalizzato a organizzare, d’accordo con Mosca, una conferenza di pace che coinvolga sia il governo di Assad sia i ribelli, insieme ai rispettivi sponsor internazionali (Iran incluso). Ma la strada verso “Ginevra 2″ «è ancora lunga», per usare le parole del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, che il 9 maggio scorso, alla Farnesina, si era confrontata proprio con Kerry sui passi necessari a chiudere la crisi siriana.
La fine dell’embargo – ha detto oggi la Bonino – segna un «momento non glorioso» per la politica estera dei Ventisette. Che ora dovranno scegliere se inseguire il Qatar nella corsa agli armamenti o lavorare, insieme a russi e americani, per il successo dell’incontro di Ginevra.
Di recente sono apparse alcune testimonianze senza precedenti su come si sta muovendo il secondo dei due fronti, quello che punta ad “alzare il livello dello scontro”. A gettare un po’ di luce ci ha pensato l’edizione domenicale del Financial Times, il 19 maggio scorso, con un lungo reportage sul ruolo del Qatar nella guerra civile siriana. «Ringalluzzito» dal successo ottenuto in Libia, dove pure le truppe qatariote hanno giocato un ruolo di primo piano nella ribellione anti-Gheddafi, il governo del piccolo emirato da più di un anno è diventato il principale finanziatore dei ribelli siriani.
Il suo contributo alla “causa” – secondo il quotidiano finanziario di Londra – può essere stimato tra uno e tre miliardi di dollari: soldi stanziati dalla casa regnante per fare dell’emiro Hamad bin Khalifa «un nuovo Nasser islamista». Un leader cioè che aspira a unificare tutti i popoli arabi contro un unico nemico (come fece Gamal Nasser, autore del colpo di Stato egiziano del 1952), servendosi però della bandiera dell’islamismo. Non a caso i soldi qatarioti sono arrivati un po’ a tutte le sigle della ribellione, incluse quelle legate allo jihadismo internazionale e ad al Qaeda in Iraq. «Il problema – spiega un ufficiale americano al Financial Times – è che “per il Qatar non importa chi finanzi, l’importante è abbattere Assad”».
È interessante che un attacco così duro contro il Qatar arrivi proprio dal giornale della City di Londra. L’intento “politico” del reportage è stato chiarito subito, con un editoriale non firmato apparso sul quotidiano del 20 maggio: l’attivismo qatariota – recita l’articolo – si è andato a scontrare con quello dell’Arabia saudita, aumentando solo la confusione in un fronte già estremamente frammentario. Conclusione: «La lotta dei ribelli contro Assad resterà caotica fino a quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non interverranno in prima persona per fornire armi ai moderati che combattono in Siria».
L’argomento non è dei più solidi: per contrastare l’attivismo dei paesi del Golfo il Financial Times propone un nuovo attivismo dell’Occidente. Ma le intenzioni (e il tempismo) erano evidenti: dare man forte a chi sosteneva, in ambito di Unione europea, la necessità di non rinnovare l’embargo sulla vendita di armi in Siria. Missione compiuta: lunedì scorso, per il veto posto dal britannico William Hague e dal francese Laurent Fabius (uno dei “falchi” del governo Hollande), i ministri degli Esteri dell’Ue non sono riusciti a prolungare il divieto. Ora anche gli europei sono autorizzati ad armare ai ribelli.
Com’era prevedibile, la Russia non ha mancato di rispondere alla mossa “minacciosa” di Gran Bretagna e Francia, confermando che consegnerà alla Siria una batteria di missili contraerei S-300: «I missili sono un fattore di stabilità, – ha spiegato il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov – evitano che qualche testa calda possa provocare un’escalation del conflitto sul piano regionale».
Non è difficile immaginare che la scelta europea di non prolungare l’embargo abbia causato qualche mal di pancia alla Casa Bianca. Il segretario di Stato americano John Kerry è tuttora impegnato in un giro del mondo finalizzato a organizzare, d’accordo con Mosca, una conferenza di pace che coinvolga sia il governo di Assad sia i ribelli, insieme ai rispettivi sponsor internazionali (Iran incluso). Ma la strada verso “Ginevra 2″ «è ancora lunga», per usare le parole del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, che il 9 maggio scorso, alla Farnesina, si era confrontata proprio con Kerry sui passi necessari a chiudere la crisi siriana.
La fine dell’embargo – ha detto oggi la Bonino – segna un «momento non glorioso» per la politica estera dei Ventisette. Che ora dovranno scegliere se inseguire il Qatar nella corsa agli armamenti o lavorare, insieme a russi e americani, per il successo dell’incontro di Ginevra.
Una buona parte delle sorti della guerra in Siria la si sta decidendo all’estero, ma i due fronti contrapposti non sono solo quelli di cui si sente parlare, spesso in modo un po’ approssimativo: Occidente e paesi del Golfo contro Russia, Cina e Iran. C’è chi lavora a un negoziato, da impostare il mese prossimo a Ginevra, e chi invece pensa che la guerra andrà decisa prima di tutto sul piano militare, come prova di forza tra i ribelli e le milizie fedeli a Bashar al Assad.
Di recente sono apparse alcune testimonianze senza precedenti su come si sta muovendo il secondo dei due fronti, quello che punta ad “alzare il livello dello scontro”. A gettare un po’ di luce ci ha pensato l’edizione domenicale del Financial Times, il 19 maggio scorso, con un lungo reportage sul ruolo del Qatar nella guerra civile siriana. «Ringalluzzito» dal successo ottenuto in Libia, dove pure le truppe qatariote hanno giocato un ruolo di primo piano nella ribellione anti-Gheddafi, il governo del piccolo emirato da più di un anno è diventato il principale finanziatore dei ribelli siriani.
Il suo contributo alla “causa” – secondo il quotidiano finanziario di Londra – può essere stimato tra uno e tre miliardi di dollari: soldi stanziati dalla casa regnante per fare dell’emiro Hamad bin Khalifa «un nuovo Nasser islamista». Un leader cioè che aspira a unificare tutti i popoli arabi contro un unico nemico (come fece Gamal Nasser, autore del colpo di Stato egiziano del 1952), servendosi però della bandiera dell’islamismo. Non a caso i soldi qatarioti sono arrivati un po’ a tutte le sigle della ribellione, incluse quelle legate allo jihadismo internazionale e ad al Qaeda in Iraq. «Il problema – spiega un ufficiale americano al Financial Times – è che “per il Qatar non importa chi finanzi, l’importante è abbattere Assad”».
È interessante che un attacco così duro contro il Qatar arrivi proprio dal giornale della City di Londra. L’intento “politico” del reportage è stato chiarito subito, con un editoriale non firmato apparso sul quotidiano del 20 maggio: l’attivismo qatariota – recita l’articolo – si è andato a scontrare con quello dell’Arabia saudita, aumentando solo la confusione in un fronte già estremamente frammentario. Conclusione: «La lotta dei ribelli contro Assad resterà caotica fino a quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non interverranno in prima persona per fornire armi ai moderati che combattono in Siria».
L’argomento non è dei più solidi: per contrastare l’attivismo dei paesi del Golfo il Financial Times propone un nuovo attivismo dell’Occidente. Ma le intenzioni (e il tempismo) erano evidenti: dare man forte a chi sosteneva, in ambito di Unione europea, la necessità di non rinnovare l’embargo sulla vendita di armi in Siria. Missione compiuta: lunedì scorso, per il veto posto dal britannico William Hague e dal francese Laurent Fabius (uno dei “falchi” del governo Hollande), i ministri degli Esteri dell’Ue non sono riusciti a prolungare il divieto. Ora anche gli europei sono autorizzati ad armare ai ribelli.
Com’era prevedibile, la Russia non ha mancato di rispondere alla mossa “minacciosa” di Gran Bretagna e Francia, confermando che consegnerà alla Siria una batteria di missili contraerei S-300: «I missili sono un fattore di stabilità, – ha spiegato il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov – evitano che qualche testa calda possa provocare un’escalation del conflitto sul piano regionale».
Non è difficile immaginare che la scelta europea di non prolungare l’embargo abbia causato qualche mal di pancia alla Casa Bianca. Il segretario di Stato americano John Kerry è tuttora impegnato in un giro del mondo finalizzato a organizzare, d’accordo con Mosca, una conferenza di pace che coinvolga sia il governo di Assad sia i ribelli, insieme ai rispettivi sponsor internazionali (Iran incluso). Ma la strada verso “Ginevra 2″ «è ancora lunga», per usare le parole del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, che il 9 maggio scorso, alla Farnesina, si era confrontata proprio con Kerry sui passi necessari a chiudere la crisi siriana.
La fine dell’embargo – ha detto oggi la Bonino – segna un «momento non glorioso» per la politica estera dei Ventisette. Che ora dovranno scegliere se inseguire il Qatar nella corsa agli armamenti o lavorare, insieme a russi e americani, per il successo dell’incontro di Ginevra.
Di recente sono apparse alcune testimonianze senza precedenti su come si sta muovendo il secondo dei due fronti, quello che punta ad “alzare il livello dello scontro”. A gettare un po’ di luce ci ha pensato l’edizione domenicale del Financial Times, il 19 maggio scorso, con un lungo reportage sul ruolo del Qatar nella guerra civile siriana. «Ringalluzzito» dal successo ottenuto in Libia, dove pure le truppe qatariote hanno giocato un ruolo di primo piano nella ribellione anti-Gheddafi, il governo del piccolo emirato da più di un anno è diventato il principale finanziatore dei ribelli siriani.
Il suo contributo alla “causa” – secondo il quotidiano finanziario di Londra – può essere stimato tra uno e tre miliardi di dollari: soldi stanziati dalla casa regnante per fare dell’emiro Hamad bin Khalifa «un nuovo Nasser islamista». Un leader cioè che aspira a unificare tutti i popoli arabi contro un unico nemico (come fece Gamal Nasser, autore del colpo di Stato egiziano del 1952), servendosi però della bandiera dell’islamismo. Non a caso i soldi qatarioti sono arrivati un po’ a tutte le sigle della ribellione, incluse quelle legate allo jihadismo internazionale e ad al Qaeda in Iraq. «Il problema – spiega un ufficiale americano al Financial Times – è che “per il Qatar non importa chi finanzi, l’importante è abbattere Assad”».
È interessante che un attacco così duro contro il Qatar arrivi proprio dal giornale della City di Londra. L’intento “politico” del reportage è stato chiarito subito, con un editoriale non firmato apparso sul quotidiano del 20 maggio: l’attivismo qatariota – recita l’articolo – si è andato a scontrare con quello dell’Arabia saudita, aumentando solo la confusione in un fronte già estremamente frammentario. Conclusione: «La lotta dei ribelli contro Assad resterà caotica fino a quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non interverranno in prima persona per fornire armi ai moderati che combattono in Siria».
L’argomento non è dei più solidi: per contrastare l’attivismo dei paesi del Golfo il Financial Times propone un nuovo attivismo dell’Occidente. Ma le intenzioni (e il tempismo) erano evidenti: dare man forte a chi sosteneva, in ambito di Unione europea, la necessità di non rinnovare l’embargo sulla vendita di armi in Siria. Missione compiuta: lunedì scorso, per il veto posto dal britannico William Hague e dal francese Laurent Fabius (uno dei “falchi” del governo Hollande), i ministri degli Esteri dell’Ue non sono riusciti a prolungare il divieto. Ora anche gli europei sono autorizzati ad armare ai ribelli.
Com’era prevedibile, la Russia non ha mancato di rispondere alla mossa “minacciosa” di Gran Bretagna e Francia, confermando che consegnerà alla Siria una batteria di missili contraerei S-300: «I missili sono un fattore di stabilità, – ha spiegato il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov – evitano che qualche testa calda possa provocare un’escalation del conflitto sul piano regionale».
Non è difficile immaginare che la scelta europea di non prolungare l’embargo abbia causato qualche mal di pancia alla Casa Bianca. Il segretario di Stato americano John Kerry è tuttora impegnato in un giro del mondo finalizzato a organizzare, d’accordo con Mosca, una conferenza di pace che coinvolga sia il governo di Assad sia i ribelli, insieme ai rispettivi sponsor internazionali (Iran incluso). Ma la strada verso “Ginevra 2″ «è ancora lunga», per usare le parole del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, che il 9 maggio scorso, alla Farnesina, si era confrontata proprio con Kerry sui passi necessari a chiudere la crisi siriana.
La fine dell’embargo – ha detto oggi la Bonino – segna un «momento non glorioso» per la politica estera dei Ventisette. Che ora dovranno scegliere se inseguire il Qatar nella corsa agli armamenti o lavorare, insieme a russi e americani, per il successo dell’incontro di Ginevra.
lunedì 27 maggio 2013
Ecco quel che sta accadendo in Siria: dalla Siria domande al Ministro Bonino e al democratico Occidente
"Cosa si intende per Siria oggi? il legittimo governo che s'è dato il popolo siriano?, oppure: la masnada di guerriglieri fanatici che - in nome dell'Islam - si son dati appuntamento sul territorio siriano?"
Ho letto con interesse, ma anche con costernazione, la dichiarazione pubblicata dall'Agenzia Adnkronos circa la dichiarazione fatta dal Responsabile della politica estera dell'Italia, circa la conferma dell'embargo contro la Siria.
La prima domanda che mi pongo e pongo a chi ha fatto quella affermazione è: Cosa si intende per Siria oggi? Il legittimo governo che s'è dato il popolo siriano? oppure: la masnada di guerriglieri fanatici che - in nome dell'Islam - si son dati appuntamento sul territorio siriano?
Se si vuole intendere la Siria con il suo legittimo governo, mi permetto di dissociarmi: in quanto cittadino italiano ed in quanto individuo libero e cosciente di una situazione distruttiva del Paese, non voluta né da chi lo dirige e tanto meno dal popolo. So per certo che fino alla metà di marzo dell'anno 2011 la Siria ed i siriani vivevano in pace, godevano non solo di libertà, controllata se si vuole, ma ognuno era pur sempre libero di muoversi come voleva. Oggi dov'è questa libertà? Oggi si vive nel terrore.
Ho avuto la fortuna di vivere in quella terra benedetta da Dio per parecchi anni. Posso assicurare che in nessun paese di tutto lo scacchiere Mediorientale ci fosse tanta libertà. Nelle città la gente circolava per strada liberamente e senza alcuna paura fino alle ore piccole della notte. Ho avuto modo di ospitare a varie riprese, in diversi anni, amici venuti dall'Italia: con questi si usciva, soprattutto di estate, a partire dalle ore 11,30 di notte e si usciva a piedi, si rientrava dopo un'ora od un'ora e mezza tranquillamente. Più di uno di questi miei ospiti, venuto con il preconcetto che la Siria fosse un paese canaglia, s'è ricreduto ; non solo, ma s'è espresso in questi termini per descrivere la situazione di libertà e sicurezza che, malgrado le idee con cui era venuto, non s'è vergognato di ammettere, dicendo: "E' un delitto che i nostri governanti ed il mondo intero vogliono far passare la Siria per un paese canaglia".
Nella seconda metà di marzo 2011 scoppia la così detta "primavera araba" pure in Siria. Il mondo occidentale applaude, come ha fatto per gli altri Paesi dell'area. Il mondo occidentale non s'è reso conto che dietro tutta quella macchina primaverile vi erano Stati del Golfo interessati a far cadere il Governo ed il suo Capo: e non perché fosse dittatore, ma perché si vedevano veramente minacciati nelle loro Istituzioni.
L'Occidente è caduto nella trappola, è stato irretito ed ha appoggiato queste manovre, anche perché se non lo avesse fatto si sarebbero potuti chiudere i pozzi dell'oro nero di cui l'Occidente ha tanto bisogno. Non ha riflettuto che si volevano attirare le attenzioni sulla Siria, che stava guadagnando terreno attraverso le aperture democratiche e di libertà concesse al proprio popolo, alle spese dei veri dittatori sempre al potere di altri Paesi dell'area.
Così si è iniziato pagando facinorosi perché scendessero in piazza a gridare contro il governo (ogni individuo che gridava "abbasso il regime" era pagato $ 10 e se con sé ne portava altri 5 - 6 - 10 percepiva altri $10 a testa. Questo sistema era diventato un business vero e proprio... Un individuo poteva così guadagnare in una sola ora 150 - 200 dollari americani, circa lo stipendio di un mese. Chi legge faccia le sue considerazioni).
Si chiedeva al Governo di togliere lo stato di "Emergenza". In realtà questo stato di "Emergenza" non esisteva più da anni. Altrimenti come si può spiegare la libertà di cui godeva il popolo? Come si può spiegare, ad esempio, il fatto che la gente usciva per strada e si ritrovava nei caffé, nei bar, nelle gelaterie fino all'una o le due di notte?
Ormai s'era aperta una strada e bisognava percorrerla fino in fondo. Si doveva trovare un "capro espiatorio" e l'Occidente pur di aver il petrolio l'ha designato, e continua a perseguirlo.
L'Occidente organizza "meetings" ed altro, in favore del povero popolo siriano ed invita a parteciparvi gente che non rappresenta il popolo, come è successo a Roma il 28 febbraio 2013: in occasioni del genere si arriva con i portafogli pieni e si riversano "aiuti" nelle mani o nelle sacche di chi?... di chi dovrebbe dare la pace e la tranquillità ai siriani. I soldi vengono dati usando l'eufemismo "aiuti strategici".
Che dicano chiaramente: "PER COMPERARE ARMI". Che dicano finalmente cosa stanno facendo e cosa intendono fare della Siria.
Che dicano chiaramente: "PER COMPERARE ARMI". Che dicano finalmente cosa stanno facendo e cosa intendono fare della Siria.
Oggi si parla di confermare l'embargo e i soldi dati alle masnade di rivoltosi, venuti dal mondo intero, chi li blocca?
Questi Signori della Guerra, perché altro non sono, si sono mai posti la questione: là dove abbiamo aiutato un gruppo di facinorosi (in tutti i Paesi del mondo ve ne sono, come in tutti i Paesi del mondo vi sono i malcontenti) a sollevarsi ed hanno raggiunto, col nostro aiuto, il potere, hanno poi portato la libertà? la democrazia? Questi commercianti di guerra hanno mai riflettuto se in Tunisia, in Libia, in Egitto s'è instaurato il regime di libertà che loro avevano auspicato e per cui avevano gettato soldi portandoli via dalle casse della loro Nazione? Questi Signori della Guerra hanno diritto di vuotare le casse del proprio Paese per portare guerra e disordine in un Paese in cui non sono stati chiamati?
La storia delle rivoluzioni e delle guerre in Medio Oriente inizia con la guerra all'Iraq. Guerra fatta per detronizzare un dittatore che ha bluffato il mondo intero minacciandolo di possedere armi chimiche di distruzione di massa. L'Iraq è stato distrutto, il dittatore è stato detronizzato, processato ed ucciso, ma di armi chimiche neppure l'odore. Fu ammesso, e da chi aveva dichiarato quella guerra, rifiutando di ascoltare la voce del Beato Giovanni Paolo II...
Una domanda sorge spontanea: in tutta quella storia, dove era l'ONU? Oggi l'ONU è sempre presente a gridare che in Siria il numero dei morti ha raggiunto questo numero,.... quasi a volerli attribuire tutti all'esercito regolare. Come se i cosiddetti oppositori sparassero cioccolato o ciliegie. Già, perché gli oppositori - con i soldi che forniscono loro i Signori della Guerra - comperano armi giocattolo...
Ma l'ONU ci ha mai detto dove sono finiti più di un milione di Irakeni, morti per una guerra assurda? Gli Irakeni morti durante quella guerra, e quelli che muoiono ancora oggi per tutti gli attentati perpetrati dai terroristi, cosa sono per l'ONU? animali da macello soltanto? O all'ONU, visto il proprio comportamento assunto con la guerra in Irak, oggi sorgono gli scrupoli di coscienza, e conta i morti siriani?
Chiudo queste mie considerazioni con qualche domanda che rivolgo a coloro che vogliono l'embargo chiaramente unilaterale, per poter poi armare come vogliono i ribelli:
"se mai avete una coscienza riflettete a quanto avete fatto fino ad oggi ed a quanto state per perpetrare" : in Siria si sta distruggendo un popolo, una delle civiltà più antiche del mondo, tutto ciò chi l'ha permesso?
Che fine hanno fatto i due sacerdoti ed i due vescovi rapiti ad Aleppo, i primi lo scorso gennaio ed i secondi lo scorso 22 aprile? Ma questi non sono i soli. Ve ne sono tanti altri che non sono mai tornati a casa....
Che fine hanno fatto i due sacerdoti ed i due vescovi rapiti ad Aleppo, i primi lo scorso gennaio ed i secondi lo scorso 22 aprile? Ma questi non sono i soli. Ve ne sono tanti altri che non sono mai tornati a casa....
La Siria ha soltanto bisogno di pace: se si vuole il bene di un popolo, di un Paese, si devono escogitare modi e maniere per aiutarlo e, se nel caso si dovesse ritenere che chi lo governa dovrà cambiare qualcosa, lo si deve aiutare, ma mai imporre ad un Capo di Stato: "devi fare questo o quello soltanto così sarai nostro amico".
Soprattutto....
Soprattutto si deve capire che mai si può imporre ad un Capo di Stato di quella Regione: devi andare in esilio, devi lasciare il potere, te ne devi andare. Ci si deve sforzare di comprendere la loro psicologia e questo lo si potrà capire vivendo con loro e tra loro, per anni ed anni....
l'Osservatore Siriano da Aleppo
domenica 26 maggio 2013
APPELLO DI PADRE DANIEL DA QARA
Monastery of Saint James the Mutilated
Qâra – Syre
Telephone : 00963 11 7851700 - Fax : 00963 11 7852701 -
Mobile : 00963 94 224 248
maesdaniel3@gmail.com
______________
Gentili Signori,
Chiediamo la vostra attenzione sulla grande sofferenza del
popolo siriano.
Noi stessi viviamo con 18 persone nel monastero di San
Giacomo il Mutilato (Mar Yakub) a 90 km da Damasco, appartenente alla diocesi
greco-melchita (cattolica) di Homs. Noi siamo originari di otto paesi e anche da
tutta la Siria: monaci, monache, residenti, famiglie e bambini. In aggiunta, ci
sono diverse famiglie di profughi sunniti accolti qui.
Prima della guerra il Monastero era un centro di
pellegrinaggio per i cristiani e anche musulmani provenienti da tutta la Siria
e soprattutto per i giovani. La guerra ha
interrotto bruscamente le visite. Tuttavia abbiamo ancora i migliori
contatti con la gente e ci sforziamo di fornire a tutti assistenza
indipendentemente dal credo religioso.
La Siria oggi vive la sua più grande catastrofe umanitaria
dopo la seconda guerra mondiale. Ci sono 9 milioni di persone che mancano di tutto il necessario per vivere. Ci sono 5
milioni di profughi. Le famiglie sono in cerca di riparo con delle scatole nei
parchi pubblici. Molti hanno perso non solo le loro case, ma anche parenti
stretti.
Da diversi ambiti siamo pregati di venire in soccorso. Il
tempo per le discussioni politiche e recriminazioni reciproche è passato. La
situazione è diventata chiara, i giochi sono fatti. E’ il momento di fornire aiuti
di emergenza.
Potete chiedere qualsiasi chiarimento o ulteriori informazioni
al fondatore e superiore del monastero Saint Jacques: Madre Agnès-Mariam della
Croce ( vedi indirizzi nella parte superiore di questa lettera.)
Come aiutare?
- Il latte in polvere è urgente per i bambini che soffrono
di più.
- Farmaci (non scaduti!) per le malattie croniche, diabete,
problemi di cuore ... e tutti i tipi di attrezzature mediche, bende ...
- Un pacchetto di cibo per una piccola famiglia costa 40 €
per due settimane
- Il container successivo
è in preparazione, per essere
inviato dal Belgio a Lattakia (Siria) alla fine di maggio 2013
-
Info:
Koen
Peeters, gsm : 0032(0)496514666; koen@postel-antiek.be;
ou Jeanne Vercautere 0032(0)14/378265; juanitavdk2@hotmail.com
IBAN BE
32-068-2083244-02 BIC GKCCBEBB (van
Daniël Maes, norbertijnenabdij POSTEL-MOL; Mar Yakub, Qâra, Syrië)
Il popolo siriano è lasciato sul ciglio della strada, come
una vittima gravemente ferita:
Grazie per essere uno dei buoni Samaritani.
P. Daniel Maes
o. praem,
Direttore del Seminario, Mar Yakub, Qâra, Syrie.
Per la Madre Superiora :
Sr.
Claire-Marie.
sabato 25 maggio 2013
Appello della Premio Nobel Mairead Maguire all'Italia: "Non boicottate la pace"
"Abbiamo visto le sofferenze del popolo siriano, ma anche il suo impegno per il dialogo fra tutte le parti, e la pace. Vi chiediamo di non ostacolarlo, anzi di incoraggiarlo. "
di Marinella Correggia, Damasco
La nord-irlandese Mairead Maguire, premio Nobel per la pace nel 1976, ha guidato una delegazione internazionale a sostegno del movimento siriano Mussalaha (Riconciliazione). Occhi come il cielo d’Irlanda e sorriso buono, al termine della missione Mairead è lieta di rivolgere un appello all’Italia, mentre i tamburi di guerra della no-fly zone risuonano da Roma a Doha, da Istanbul a Parigi e rischiano di ipotecare la prossima conferenza internazionale sulla Siria.
Finora l’Italia si è mossa nell’ambito del gruppo cosiddetto degli “Amici della Siria”, con altri paesi della Nato e del Golfo. Cosa dovrebbe fare invece?
Qui abbiamo visto le sofferenze del popolo siriano, ma anche il suo impegno per il dialogo fra tutte le parti, e la pace. Vi chiediamo di non ostacolarlo, anzi di incoraggiarlo. Chiediamo agli stati di rimuovere le sanzioni economiche che aumentano le sofferenze di una popolazione colpita dalla guerra. Chiediamo di evitare interventi esterni diretti o indiretti: da fuori non devono arrivare armi o addestramento a combattenti spesso stranieri che uccidono cittadini siriani. Questa ingerenza impedisce la Mussalaha. La comunità internazionale ha il compito di spingere le parti a un processo di pace, non di soffiare sulla guerra. La Lega araba deve riaccogliere la Siria fra i suoi membri, e i paesi che hanno interrotto le relazioni diplomatiche dovrebbero riavviarle.
L’Italia ha riconosciuto come unico rappresentante del popolo siriano la cosiddetta “Coalizione nazionale della rivoluzione siriana e delle forze d’opposizione” che a dispetto del nome è nata sotto le ali del Qatar e continua a chiedere appoggi militari esterni.
In questi giorni abbiamo incontrato tanti cittadini e politici siriani, di diverso orientamento, di diverse comunità. E tutti, tutti sono molto amareggiati per questo riconoscimento mondiale alla “Coalizione di Doha”: persone che non rappresentano nessuno. Sono un gruppo illegale, eterodiretto, non eletto. Non possono parlare a nome del popolo siriano.
Quali sono i rischi di un allargamento della crisi, in questa guerra per procura?
La delegazione ha incontrato, a Baalbek in Libano, molti rifugiati dalla Siria, fra i quali tanti palestinesi che abitavano là da decenni. La tragedia siriana non mette solo in pericolo l’integrità di questo paese e la sua pluralità culturale e religiosa, ma può destabilizzare anche il piccolo Libano, che accoglie un numero di rifugiati pari a un terzo della sua popolazione. Quanto a Israele, il suo attacco aereo sulla Siria è un atto criminale. Enough is enough, dico a Usa e Israele: abbiamo visto abbastanza guerre!
Come si può fare affinché il popolo siriano possa decidere del proprio destino?
Nessuno da fuori può dettare nulla ai siriani. Bashar al-Assad è finora il presidente, e nessuna potenza da fuori può deciderne la rimozione finché non saranno i siriani a pronunciarsi, con le elezioni. Riconosciamo le legittime aspirazioni al cambiamento, ma le riforme richiedono mezzi nonviolenti. Abbiamo visto cos’è successo in Iraq: con la disinformazione, con la demonizzazione, si è arrivati a una guerra che ha distrutto il paese. Chiedo al presidente Obama di onorare il suo premio Nobel per la pace, di smettere l’appoggio finanziario e militare ai gruppi armati. Ho incontrato privatamente anche alcuni “ribelli” che con la Mussalaha hanno deposto le armi. Ho speranza, se cessano le ingerenze.
E il mondo guarda alla Siria: se riesce a trionfare qui, la pace, sarà un esempio per tanti altri casi. Pensiamo alla tragedia degli interventi bellici in Iraq, dell’Afghanistan, della Libia. Che non si ripetano.
Incontrando a Beirut l’ex generale Michel Aoun, avete discusso di “pace dall’alto” o “pace dal basso”…
Michel Aoun dice giustamente che occorre un cessate il fuoco immediato in Siria. Io ritengo però, sulla base dell’esperienza nell’Irlanda del nord, che senza riconciliazione dal basso, fra le comunità, questo sia troppo fragile. Noi con Peace People abbiamo prima lavorato fra le persone, in qualche modo “costringendo” Gran Bretagna e Irlanda a far pressione sui loro alleati locali. Ma riconosco che in Siria le ingerenze per fini geostrategici sono molto più forti.
http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=1391
giovedì 23 maggio 2013
"L'incapacità della società internazionale a liberare i rapiti e fermare il flusso di sangue in Siria senza trovare una soluzione a questa crisi umanitaria è un peccato grave"
"Iniziativa creativa" invece di disordine creativo
Il Patriarca Laham lancia un appello che "riguarda la pace e la coscienza di ogni uomo libero, onesto, per liberare i due vescovi Yazji e Ibrahim."
Insiste sul fatto che l'incapacità della società internazionale per liberare e per fermare il flusso di sangue in Siria senza trovare una soluzione a questa crisi umanitaria, è un peccato grave, è la prova dell'assenza di valori spirituali e umani nella attuale politica internazionale verso la crisi nel mondo arabo. Si rammarica del fatto che la crisi siriana è diventato un commercio dai molteplici volti, in cui la dignità umana e il rispetto per l'uomo si sono persi, dimenticando che l'uomo è immagine di Dio.
Egli ha chiesto "a tutte le chiese nel mondo, e ai fautori della pace nel mondo, e alla coscienza di ogni essere umano libero, onesto e generoso per i sostenitori della pace nel mondo di sostenere gli appelli per il rilascio di i due amati Vescovi, che sono simbolo di pace, di amore e di riconciliazione, e di dialogo e comunicazione in Siria e nella comunità araba".
Egli implora di cercare seriamente una soluzione per liberare tutti quelli che sono stati rapiti, e di fermare i rapimenti, e per la liberazione di tutti i detenuti di qualsiasi appartenenza essi siano: il rapimento che e’ in contrasto con tutte le norme di umanità".
"Manteniamo le nostre convinzioni sulla base della fede, perché nessuna soluzione verrà dall'incremento delle armi o dalle soluzioni armate, ma la vera vittoria è attraverso il dialogo, la riconciliazione, la comprensione e il compromesso".
Infine egli ha invitato alla "iniziativa creativa" invece di disordine creativo: questa è la domanda rivolta agli sforzi della Russia e degli Stati Uniti così come ai paesi invitati al congresso per trovare una soluzione pacifica alla crisi siriana
http://www.pgc-lb.org/fre/gregorios/view/The-patriarch-appeal-to-the-conscience-of-the-world-about-the-kidnapping-of-the-2-bishops-and-the-situation-in-Syria
IL NOSTRO DOLORE
Un mese è trascorso, e stiamo ancora vivendo l'incubo della
sorte del rapimento dei nostri due Arcivescovi Mar Gregorios Yohanna Ibrahim
Metropolita siriaco ortodosso dell'arcidiocesi di Aleppo, e del Metropolita Boulos
Yazaji dell'Arcidiocesi greco-ortodossa di Aleppo
Sono stati rapiti il 22 aprile 2013. Un gruppo sconosciuto
li ha prelevati senza dichiarazioni di responsabilità fino ad ora, né
annunciando i motivi del rapimento né facendo conoscere il loro luogo di
detenzione.
Noi Siriaci, e l'Arcidiocesi greco-ortodossa di Aleppo , in coordinamento con i nostri due Patriarcati
di Damasco, abbiamo espresso giorno dopo giorno la nostra tristezza e il dolore
crescente per il rapimento e l'assenza di questi due eminenti prelati, e per ciò
che rappresentano in termini di santità, il loro rango locale e internazionale,
il loro ruolo attivo a tutti i livelli compreso quello spirituale, dei pensieri, del mondo accademico, dell'istruzione
e del sociale, ma soprattutto il lavoro umanitario che portavano avanti all'interno
della crisi che sta travolgendo il nostro paese Siria.
Oggi, dopo un mese dal sequestro, e nonostante tutte le preghiere
e le suppliche nelle Chiese locali e di tutto il mondo, così come gli appelli,
le dichiarazioni e gli sforzi delle organizzazioni cristiane e musulmane del
mondo e della comunità internazionale, si rinnova la nostra richiesta ai
rapitori di rivedere la loro azione: temete Dio, e rilasciate i due Arcivescovi
senza danneggiare la loro salute o la situazione fisica, e rilasciate tutti gli altri sacerdoti rapiti e
i civili innocenti!
A un mese dal sequestro ormai non si può che dire “BASTA!”, per i due Arcivescovi! Come è doloroso per
loro nel loro rapimento, è anche doloroso per tutti i fedeli delle loro due
comunità, per il popolo della Siria e del mondo. Il permanente rapimento dei
due Arcivescovi sta danneggiando la struttura della Siria nelle sue diverse
componenti e nella sua lunga storia di convivenza e di cittadinanza. Una tale
catastrofe sarà ricordata e registrata nella storia, come la più devastante e luttuosa della Siria.
Tali atti non ci spaventano, perché noi siamo i figli della
"Resurrezione". Confidiamo che la misericordia del Dio unico, in cui noi
tutti crediamo, guiderà i rapitori e li indurrà a rilasciare gli Arcivescovi, senza
alcuna condizione, perché non esiste un prezzo uguale alla libertà dei due
Arcivescovi, e nessuna condizione è uguale al loro sicuro ritorno alle loro comunità e alle
loro chiese.
Rinnoviamo la nostra supplica e continuiamo le nostre
preghiere con solennità al nostro Dio per la liberazione degli Arcivescovi, dei
sacerdoti e tutti coloro che sono stati rapiti.
mercoledì 22 maggio 2013
Triste anniversario! Un mese dal rapimento dei Vescovi di Aleppo
"Pregate per la liberazione di mons. Youhanna Ibrahim e mons. Boulos Yaziji e per tutta la popolazione siriana".
Aleppo - 22/05/2013È l'appello di mons. Antoine Audo, arcivescovo caldeo di Aleppo a un mese dal rapimento dei due prelati ortodossi, avvenuto lo scorso 22 aprile al confine con la Turchia.
"Ciò che più ci addolora - dice il prelato ad AsiaNews - e rattrista la popolazione è la totale assenza di notizie sulla condizione dei due vescovi e su dove sono prigionieri".
Lo scorso 18 maggio, tutte le chiese cristiane di Aleppo, cattoliche e ortodosse, hanno organizzato una giornata di preghiera comune per la Siria. Migliaia di persone hanno partecipato, sfidando le bombe, il rischio di rapine e rapimenti.
Per il vescovo, sacerdoti e leader religiosi sono un facile obiettivo per criminali ed estremisti: "Io stesso non posso muovermi liberamente per paura di essere rapito. Dobbiamo pianificare tutti i nostri spostamenti".
Il 24 maggio, la Chiesa cattolica di Aleppo terrà un ritiro di preghiera e riflessione nella cattedrale melchita. Ad esso parteciperanno sacerdoti e vescovi della diocesi. "Gli esercizi spirituali di quest'anno - racconta il prelato - sono incentrati su quanto accaduto a mons. Youhanna e mons. Yaziji. Tutte le nostre preghiere e celebrazioni saranno offerte per loro".
Il clima di una città sotto assedio, non limita la vita della Chiesa, divenuta l'unico segno di speranza in un Paese distrutto. "Siamo nel tempo di Pasqua - sottolinea mons. Audo - e in tutte le chiese risuona il canto 'Cristo è risorto Alleluia'. Sentire questa musica in un clima di dolore e guerra, ci commuove".
http://www.asianews.it/notizie-it/A-un-mese-dal-sequestro-Aleppo-prega-per-i-vescovi-ortodossi-rapiti-27986.html
Amman: marcia di preghiera per i Vescovi rapiti
Agenzia Fides, 22/5/2013
Amman - Più di duemila persone hanno attraversato ieri sera Amman con in mano le candele, per invocare la liberazione dei vescovi e dei sacerdoti rapiti in Siria e chiedere il dono della pace per tutto il Medio Oriente. La marcia di preghiera e silenzio è partita dalla cattedrale greco-ortodossa della Presentazione di Gesù al Tempio e si è snodata fino a quella siro ortodossa di Sant'Efrem, passando davanti alla chiesa cattolica di Santa Maria di Nazareth, presso il Vicariato latino.
La marcia con le candele, convocata a un mese dal rapimento dei due vescovi di Aleppo – il Metropolita siro ortodosso Mar Gregorios Yohanna Ibrahim e quello greco ortodosso Boulos al-Yazigi, sequestrati il 22 aprile - era guidata da capi e rappresentanti delle Chiese e delle comunità ecclesiali presenti in Giordania. All'arrivo nella cattedrale siro-ortodossa, l'Arcivescovo Maroun Lahham - Vicario patriarcale per la Giordania del Patriarcato latino di Gerusalemme - ha letto una dichiarazione sottoscritta da tutti i vescovi e i capi delle Chiese e delle comunità ecclesiali locali in cui si esprime la ferma condanna dei rapimenti che hanno avuto per vittime “due tra le più rilevanti personalità arabe cristiane del nostro tempo” e si prega “il Signore onnipotente affinchè riporti tranquillità e stabilità nell'amata Siria”.
http://www.fides.org/it/news/41558-ASIA_GIORDANIA_Marcia_di_preghiera_per_i_vescovi_siriani_rapiti_L_Onnipotente_custodisca_la_stabilita_nel_Regno_Hashemita#.UZ0gGG1H45s
Ramallah: una manifestazione sit-in di religiosi musulmani e cristiani di tutte le confessioni, con la presenza di figure nazionali e del Consiglio islamico delle Chiese |
Intercessione ecumenica per la liberazione dei rapiti a Damasco |
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