Mi sono
recata in Siria nelle scorse settimane per incontrare le Sorelle
Trappiste, che in Siria sono presenti con una fondazione del
monastero italiano di Valserena, ed altre esperienze cristiane con
cui da alcuni anni OraproSiria è in amichevole rapporto.
Colpisce
anzitutto la bellezza e la cura del sito sul quale amorevolmente le
Suore stanno costruendo il loro monastero, permeato di pace, di
serenità, della letizia dei loro volti.
La
situazione di guerra incide profondamente sulla vita anche di questo
angolo relativamente tranquillo del Paese, adiacente alla 'Valle dei
Cristiani': pesantissimo è l'aumento vertiginoso dei prezzi, il
razionamento dell'energia elettrica (il Governo fornisce un'ora di
luce ogni cinque), la mancanza di combustibile per il funzionamento
dei generatori.
L'embargo
imposto dall'Occidente ha ulteriormente frustrato il reperimento
delle materie prime, annientando le attività produttive, il
commercio, gli scambi, quindi il lavoro.
La
preoccupazione di non intravedere una soluzione e un futuro dignitoso
crea uno scoramento tangibile in tutta la popolazione; di
conseguenza la mancanza di prospettive genera una sempre maggior
spinta all'emigrazione.
Nel
tessuto sociale così ferito, colpisce il coraggio di questo popolo
che affronta la vita quotidiana con dignità, con la voglia di
vivere, con un attaccamento leale alla propria nazione e che si
indigna della informazione distorta circolante sulla guerra che è
stata imposta dall'esterno al proprio Paese,
Vi
racconterò in diverse “puntate” le testimonianze che ho
raccolto, grata di tanta fede e cammino di purificazione che mi sono
stati consegnati ed ho ricevuto come un dono prezioso.
Fiorenza
Intervista a suor Marta superiora del monastero delle Trappiste di 'Azeir
14
marzo 2017
D:
Da cosa è nata la vostra presenza qui?
Il
14 marzo è il giorno del nostro primo arrivo in Siria, ormai 12 anni
fa, nel 2005. Anno dopo anno, stiamo riscoprendo veramente la grazia
di questo cammino provvidenziale di scoperta di tante cose che noi
stiamo sperimentando ogni giorno, perché noi siamo state sorrette in
ogni nostro progetto e desiderio.
All'inizio
è stato il desiderio di seguire i nostri fratelli dell'Atlas
(Tibhirine), non tanto coltivando la memoria della loro morte, quanto
nello scoprire in che modo essi vivevano. Nel nostro stesso Ordine ci
si è chiesti come questa comunità sempre un po' precaria e fragile,
in una situazione di minoranza, senza troppe prospettive per il
futuro, proprio anche per le persone che ne facevano parte (perché
la comunità raccoglieva personale da monasteri diversi e non c'era
una comunità cristiana locale da cui sperare vocazioni), che senso
avesse. Col tempo, nell'Ordine si è riscoperto il senso di questa
presenza fondamentalmente gratuita. Loro si definivano 'oranti in
mezzo ad altri oranti', quindi il primo approccio è stato quello di
partire avendo un'eredità da custodire, perché i nostri fratelli
erano morti, ma in Algeria non era possibile dare continuità alla
loro presenza e quindi si è posto il problema di come vivere e dove
continuare questa eredità.
Abbiamo
sentito questo come una grazia anzitutto per noi. In terra d'islam
essendo minoranza abbiamo riscoperto la Grazia di appartenere a
Cristo vivendo la nostra fede in modo radicale: dove tu hai intorno
un contesto religioso differente devi rimotivare anzitutto a te
stesso le ragioni della tua fede approfondendo il tuo rapporto con
Cristo. Devi testimoniarlo in modo vero sapendo di appartenerGli.
Da
una parte quindi il dialogo con l'Islam, dialogo inteso come apertura
ad altri credenti, ma testimoniando nei fatti la nostra Fede, con
decisione, senza annacquarla e senza contrapporla alla loro. Anche i
nostri fratelli in Algeria non hanno mai vissuto una situazione di
sincretismo, sono sempre stati dei monaci fedeli a Cristo che
cercavano il Signore e, proprio per questo, senza paura. Più si
approfondiva la loro appartenenza a Cristo più erano capaci di
vivere in apertura semplice e quotidiana con gli altri. Questa è
stata la chiave e la ricchezza dalla quale abbiamo potuto attingere.
E'
quindi avvenuta la scoperta della Siria, quando 12 anni fa nessuno
parlava della Siria. Non si sapeva nemmeno dove fosse, né si
conosceva la ricchezza della sua storia e della sua cultura, della
tradizione antichissima del suo monachesimo: si conosce la tradizione
dei monaci in Egitto ma pochi sanno che essa è nata proprio in
Siria. Ne è un esempio Isacco di Ninive che ha influenzato tutta la
spiritualità dell'Occidente e la vita monastica arrivando fino a San
Benedetto e da lì anche alle nostre radici cistercensi.
E
poi è stato l'incontro con il presente, con la numerosa presenza di
etnie diverse: curdi, drusi, sciiti, sunniti, cristiani armeni e
tutta la ricchezza delle tradizioni religiose cristiane e non
cristiane, perché in Siria sono presenti tutti e tutti vivevamo
insieme con questa mescolanza molto naturale, nella vita quotidiana.
Dunque,
alla prima motivazione con questo sguardo rivolto all'Islam, come la
religione altra di maggioranza, in questo nostro cammino si è unita
la scoperta delle altre tradizioni cristiane e la volontà di
inserirci dentro questo patrimonio.
All'inizio
pensammo di entrare a far parte di uno dei riti di quella tradizione
orientale qui presenti, ma gli stessi vescovi ci hanno invitato a
restare aperte ma restando latine; l'invito è stato: “Rimanete
aperte a tutti, sarete considerate forse un po' straniere ma cercate
di cogliere un po' da tutti”. Questo ci ha permesso di attingere
con libertà a tutte le varie realtà e anche dalla vita reale che
c'è in Siria, perché la prima cosa che abbiamo notato nei cinque
anni trascorsi ad Aleppo è che i cristiani passavano da una chiesa
all'altra con semplicità ovunque ci fosse preghiera, perfino tra
ortodossi e cattolici si potevano incontrare persone alla stessa
messa; trovavamo maroniti alla messa siro cattolica con moltissima
libertà. E anche le famiglie erano composte nello stesso modo.
E
così abbiamo scoperto che ci sono i cristiani arabi, perché noi
pensiamo che arabi significhi appartenenti all'Islam, invece è una
cultura, un modo di percepire la fede legato alla lingua, cioè alla
forma di pensiero e questa è una ricchezza dalle mille sfumature. In
Siria non si deve mai generalizzare ma avere rispetto per tutti i
cammini e i mille percorsi delle varie comunità perché qui la
realtà è molto composita e molto ricca: questo ci insegna ad avere
sempre una grossa apertura con tutti, con un profondo rispetto,
proprio perché come persone siamo state accolte con una grande
generosità e con molta benevolenza. Ci siamo così sentite, noi,
ospiti benvolute e questa sta diventando sempre più la nostra terra:
ci sentiamo con un cuore siriano grazie alla loro accoglienza e noi
vogliamo ascoltare la loro esperienza e ciò va fatto con tanta
attenzione e senza preconcetti .
Nel
rispetto, si scopre che dietro ad ogni storia c'è il mistero di una
persona e questo ci ha dato, come criterio per dipanare la vicenda
delle persone e del Paese stesso, quello del BENE. La ricerca del
bene apre alla possibilità anche di trovare soluzioni a quello che
oggi si vive.
Purtroppo
la Siria adesso è conosciutissima, ma a un prezzo molto caro, non
diciamo a prezzo di una morte, perché la Siria è viva, ma di una
grande distruzione e sofferenza che è stata imposta al 98% da forze
straniere. Il cammino è quello di un amore vero a questa terra e a
questa gente, così com'è oggi, senza sognare su cose che non sono,
ma con la disponibilità a ricostruire con le persone che ci sono:
non quindi per distruggere qualcosa ma disponibili a fare un cammino
insieme a partire dall'essere diversi, con una verità e con un bene
che è possibile cercare insieme.
D:
Come coniugate la risposta al bisogno che incontrate e la vostra
vocazione contemplativa?
La
prima risposta ce l'hanno data proprio loro, perché durante la
guerra ci hanno detto che il saperci qui, per loro era un aiuto, una
forza, si sono sentiti aiutati dalla nostra presenza e dalla nostra
preghiera. La preghiera è una cosa molto attiva, è un'arma diversa
ma potente, perché non siamo più noi che agiamo ma consegniamo
tutto nelle mani del Padre, che non è una remissività, una
passività, un fatalismo, ma è un chiedere il bene, chiedere la
conversione del cuore, chiedere la pace e anche sentire nella
preghiera, soprattutto con la preghiera dei salmi, che possiamo
portare tutta la gioia, tutta la sofferenza, tutta la rabbia,
l'invocazione e la disperazione. Tutto questo passa nella preghiera,
perché la preghiera e mettersi davanti a Dio così come si è e noi
cerchiamo di farlo semplicemente stando qui.
Abbiamo
sentito come un grande dono per noi essere qui: se fossimo in Italia
parleremmo tanto della Siria, qui non parliamo tanto, ma "siamo
con" e per questo siamo contente di essere qua con questa gente
che sta soffrendo perché qualcosa sta succedendo 'sopra' di loro, e
noi, semplicemente, con tutta la nostra inadeguatezza alla
situazione, siamo con loro, siamo qui.
Quello
che è importante è incarnare un'esperienza concreta a fianco della
sofferenza, però con una speranza; vuol dire anche darsi ragione,
perché non basta essere solidali, occorre chiedersi ogni giorno:
“abbiamo una risposta? Crediamo che il Signore ha vinto la morte o
no?” Non tanto per quello che faccio o non faccio, ma se io vivo
questa speranza la mia speranza passa per me e passa per gli altri. È
veramente un impegno mettersi davanti alle domande fondamentali del
nostro stare al mondo e questo ci ha fatto maturare una riflessione
anche a livello ecclesiale: è chiaro che c'è bisogno di rispondere
a tutte le necessità materiali, che sono tremende, perché non si
tratta solo di un po' più di lavoro o un po' più di stabilità:
stiamo parlando di gente che muore per le strade, di bambini
straziati e senza famiglia, di situazioni atroci, e grazie a Dio ci
sono tanti che stanno operando in un modo veramente bello! Nello
stesso tempo l'uomo non è definito solo dai suoi bisogni materiali,
c'è una sete più profonda, una sete di senso e c'è anche il
bisogno di trovare il motivo per cui resistere. Alla fine, perché
resistere a questa distruzione? Si è fatto tutto il possibile e
allora perché non lasciarsi andare? Ma se la vita è altro, se
l'uomo è altro, allora uno trova anche le risorse, trova anche il
senso dentro la sofferenza e la distruzione.
Tante volte parlando
con i giovani che volevano partire e sono partiti dal paese, senza
giudicare e capendo molto bene le motivazioni non solo per sè ma
anche per la famiglia, con la preoccupazione quindi di far crescere i
figli con delle possibilità, la domanda però alla fine è: “che
cosa cerchiamo veramente? Si può essere pienamente uomini e donne,
qui, o no?” Se si risponde a questa domanda, si trova il senso del
restare o no, e questo dipende da quale umanità io voglio vivere.
C'è qualcosa che m'impedisce veramente di essere pienamente uomo,
creatura di Dio con la mia dignità, qui, o no? In base alla risposta
che mi do poi faccio delle scelte, Per noi è stato anche un modo di
credere anzitutto noi in questo e di cercare di camminare con loro;
piano piano, perché per la lingua abbiamo ancora difficoltà ma
ormai da un anno e mezzo abbiamo sempre più ospiti che arrivano e il
nostro desiderio è di offrire uno spazio per queste domande e per
questa riflessione.
La
gente che viene al monastero sente forte la presenza di una vita
comune, di una comunità e ci dicono che si percepisce una gioia, una
serenità; trovano un'accoglienza serena, un sorriso e ci dicono che
sentono la forza della nostra preghiera. A volte noi siamo molto
preoccupate per la lingua perché molto del nostro ufficio
liturgico non è in arabo, ma loro sentono lo stesso uno spessore,
sentono che c'è una dimensione di preghiera che li aiuta, uno spazio
dove possono stare con tutta la loro dimensione che a volte viene un
po' soffocata dalle necessità quotidiane, ma che invece li dilata
quando riescono a riempirsene i polmoni.
Abbiamo
quindi piccoli gruppi che vengono qui, se avessimo più
disponibilità di posto, con le richieste che abbiamo, potremmo fare
molto di più in termini di accoglienza. Però preferiamo che le
persone abbiano uno spazio di silenzio per porsi le domande vere,
piuttosto che ricevere i grandi gruppi.
D:
Quale servizio offre il monastero alle comunità religiose locali?
C'è
un grande bisogno di formazione e il nostro sogno è che il nostro
monastero possa diventare un luogo dove persone, anche di tradizioni
diverse si incontrino, anche solo per scambiare una riflessione e una
speranza; che diventi anche un luogo in cui nascano progetti a
partire dalla chiarezza della nostra missione qui in Siria: è la
strada dell'amicizia, senza pretese, per poter mettere in comune il
desiderio di costruire, perché si creda che c'è una speranza e che
possiamo condividerla. Ci piacerebbe che tra consacrati ci si
ritrovasse per una giornata di fraternità anche tra riti diversi.. e
anche che tra i giovani si creasse un luogo di scambio. Insomma ci
portiamo nel cuore questo desiderio di essere un segno, e questa è
la progettualità cristiana.
Ma
poi c'è anche proprio l'essere insieme a tutti: tra i nostri operai
ci sono sia cristiani che sunniti che alauiti, e qui si vede come
nello stare insieme si costruisce giorno per giorno, con un sorriso,
con l'ascolto delle persone, con la nostra stessa presenza, un segno
di fraternità.
Ci
sono tutti molto grati per il fatto che pur potendo andarcene abbiamo
scelto di restare qui. Ci capita spesso ai posti di blocco che ci
chiedano di fermarci a prendere un caffè con loro o ci offrano un
cioccolatino e quando andiamo nel villaggio dicono: "queste sono
le nostre suore".
Adesso
la nostra zona è più tranquilla ma anche quando i combattimenti
erano molto vicini, siamo andate avanti a costruire e a coltivare, e
questo è stato un grande segno, proprio perché coglievano che non
si viveva così ,alla giornata, aspettando quel che succede, ma con
una progettualità, mantenendo un impegno nella realtà carico della
nostra speranza, e poco a poco ci sono dei piccoli segni di
riconoscimento reciproco che ci fanno sentire di appartenere alla
stessa vita, che ci siamo e che viviamo insieme.
D:
Quale assistenza date ai bisogni materiali della gente?
La
nostra resta una vita contemplativa; non abbiamo opere esterne; il
nostro aiuto consiste soprattutto nell'offrire lavoro: in sei anni
non si è mai interrotto il cantiere e ci sono persone che non hanno
altro lavoro che quello svolto presso di noi, noi abbiamo cercato di
aiutare soprattutto creando un lavoro semplice, come quello agricolo
o spostare i sassi e la piccola manodopera.
Per 6-7 anni abbiamo
potuto dare lavoro con continuità a 10 -15 persone e frequentemente
ad altri specializzati come il mobiliere, l'idraulico... Cerchiamo
anche di sopperire ai tanti bisogni concreti: si rivolgono a noi
sempre più spesso per la necessità di un intervento chirurgico, per
finanziare le cure mediche o sostenere gli studi di ragazzi che non
riescono a pagarsi neppure il costo del pulmino per andare tutti i
giorni in università.
Quello
che però va fatto, ma è un po' più difficile, è creare la
possibilità di intrapresa, ma qui la vera arma micidiale è
l'embargo, che è davvero un'arma di morte, che nessuno vuole
affrontare.
Le
sanzioni penalizzano pesantemente tutta la vita di questa gente:
anzitutto con le materie prime che non ci sono e quindi come si fa a
lavorare? E quando ci sono hanno prezzi insostenibili.
Poi
la mancanza di gasolio, le medicine e gli alimenti... Insomma è la
mancanza concreta di tutto! Ma l'altra faccia terribile delle
sanzioni è che alimentano le mafie, perché la gente ha bisogno di
procurarsi il necessario e ciò avviene sovente attraverso vie
illegali con il mercato nero.
Se non ci fossero le sanzioni non
avremmo questa terribile svalutazione della lira siriana rispetto al
dollaro (il cambio attuale è 500 lire per un dollaro). Non ci
sarebbe nemmeno l'accaparramento di beni che poi vengono messi sul
mercato quando si vuole e al prezzo che si vuole. La gente prima,
anche con salari minimi aveva una vita dignitosa; prima con il suo
salario poco a poco si costruiva la casa, adesso gli impiegati e la
classe media non hanno neppure i soldi per curarsi un malanno. Non
si possono pagare neppure le spese per il riscaldamento. Ovviamente
tutto ciò ha fatto aumentare la corruzione, anche a piccoli livelli,
perché chi può procurarti qualcosa, ti chiede di pagare per
procacciarti quel bene di cui hai bisogno, chi può si inventa un
pretesto per alzare il prezzo... Ci sono persone che guadagnano
20.000 Lire siriane al mese (40 dollari), ma come fa a procurarsi
quel sacchetto di lenticchie che prima costava 35 o 40 lire e adesso
ne costa cinquecento o seicento? Quindi tutti cercano di arrangiarsi
in qualche modo. Una volta abbiamo comprato un sacco di zucchero per
fare le marmellate che poi vendiamo e ci siamo accorte dopo che era
un aiuto umanitario che ci era stato rivenduto.
Questo
dramma delle sanzioni sta veramente soffocando la popolazione, ma non
ha affatto colpito quelli a cui si diceva che erano dirette. Dannose,
inutili e controproducenti tanto che si è creato un meccanismo di
solidarietà con la propria nazione, perché la gente dice: “bene,
stiamo soffrendo ma resistiamo!” Ma è un resistere sulla pelle dei
bambini e degli anziani! Le sanzioni come strumento di coercizione
politica sono una vera aberrazione. Noi che siamo qui vediamo la
contraddizione nell'affamare la gente e contemporaneamente lo
sperpero di soldi nei cosiddetti aiuti umanitari, quando basterebbe
semplicemente aiutare la gente a lavorare, lasciare che la gente
possa produrre, vendere i suoi prodotti. Tuttavia, purtroppo il
ricorso alle sanzioni non trova il modo di essere annullato per cui
noi pensiamo che dietro ci debbano essere altri interessi. Chi vuol
fare qualcosa per la Siria deve affrontare questo problema delle
sanzioni, altrimenti sono tutte parole a vuoto. Quindi, chi ha il
potere di trovare soluzioni politiche lo faccia nelle sue sedi, ma
che almeno si metta la gente in condizione di vivere. Qui non si
tratta di libertà, né religiosa né politica né umana: in una
nazione che aveva livelli di vita accettabili e che stava crescendo,
tutto si è fermato, e non si può farlo passare in alcun modo come
un bene , non è giustificabile a nessun livello!
D:
Qual è adesso il vero bisogno della Siria?
Quello
che noi vediamo dalla nostra angolatura di vita religiosa, che non
esaurisce tutto, è il discorso formativo, di crescita, di dare uno
spazio alle motivazioni, a una crescita umana e di responsabilità a
tutti i livelli, personali, civili ed ecclesiali, perché le persone
possano trovare uno spazio per esprimere una responsabilità verso il
proprio destino.
C'è
un discorso individuale, perché ognuno sia impegnato nel proprio
cammino personale; c'è un discorso ecclesiale, perché come Chiesa
non si risponda soltanto ai bisogni materiali ma anche al bisogno
profondo della persona.
E
infine, è fondamentale che la comunità internazionale ci dia dia la
possibilità di avere accesso alle risorse materiali e culturali: in
fin dei conti consentire il ritorno a una vita, perchè è fuori di
dubbio che i siriani nonostante tutto quello che hanno passato
vogliono vivere. La voglia di vivere va aiutata e favorita e non
spenta!
Il
compito dei cristiani allora è quello di guardare la radice vera di
ogni evento e poi le soluzioni pratiche si trovano, ma il modo di
affrontare i problemi della vita dipende dal cammino che si vuole
fare... Che tipo di umanità si vuole? Senza voler entrare nella
polemica sulla emigrazione o non emigrazione, bisogna chiedersi:
perchè si va via? Perché si resta? Noi non siamo degli uomini
vaganti che cercano una terra in cui soffermarsi; la terra in cui
vogliamo davvero mettere le radici non è un problema di visti... Io
penso che i cristiani debbano riflettere, pregare e poi agire di
conseguenza: se non c'è un pensiero non c'è neanche un'azione che
vale. Pensare vuol dire mettersi davanti a Dio e alla nostra realtà
di creature chiamate a un destino di gloria. Cosa significa questo...
e in mezzo a una realtà di contraddizione, di guerra, di male? Non è
una realtà vittoriosa, ma noi crediamo che c'è già una vittoria di
Cristo sulla morte. Questo implica che si sta davanti alle situazioni
senza ignorarle, ponendosi delle domande a cui magari non si ha
risposta, a costo anche di arrabbiarsi e indignarsi con Dio ma
ponendosi il problema e questo ci rende capaci di operare, ognuno
nella sua situazione, noi nella nostra vocazione monastica, altri nel
loro servizio, in questa ricerca di Dio che dà senso alla nostra
vita.