di G. Gaiani
La Bussola Quotidiana
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Dopo anni di connivenze e aperte complicità con i movimenti jihadisti che combattono il regime siriano, il presidente turco Recep Tayyp, Erdogan scende in campo nel conflitto contro lo Stato Islamico, ma lo fa con l’ambiguità che caratterizza non solo la politica di Ankara ma ormai l’intera operazione condotta dalla Coalizione internazionale.
Scattato il 24 luglio, l’intervento militare turco ha preso il via dopo la recrudescenza degli scontri con i miliziani curdi del Partito curdo dei Lavoratori (Pkk) che ha ridato vita a un conflitto interrottosi nel 2011 con una tregua in atto da 2 anni ma che in 30 anni ha provocato la morte di 40 mila turchi. I raid hanno preso il via soprattutto dopo la strage di Suruc dove un kamikaze ha ucciso 32 persone ferendone decine nel villaggio turco a pochi chilometri dal conflitto siriano.
L’attentato è stato attribuito allo Stato Islamico che però non sembrava avere molti interessi a colpire Ankara. Durante l’assedio degli uomini del Califfo alla città curda di Kobane vennero diffuse foto che mostravano guardie di frontiera curde e miliziani dell’Isis che fraternizzavano ed è noto che molte munizioni e armi sono giunte allo Stato Islamico (e ad altri movimenti jihadisti dalla Turchia) così come negli ospedali turchi sono stati curati molti combattenti del Califfato. La svolta di Ankara, sostenuta da Washington anche nel recente incontro tra Obama ed Erdogan, non sembra in realtà fornire un significativo supporto alla Coalizione contro l’Isis ed è abbinata a un giro di vite sulla sicurezza interna che ha già provocato oltre 600 arresti di esponenti di movimenti jihadisti, curdi, di sinistra, ma anche del Partito Democratico dei popoli (Hdp), filo curdo, che aveva avuto una buona affermazione alle ultime elezioni contribuendo a far perdere al partito di Erdogan, Akp, la maggioranza assoluta dei seggi.
Non è un caso che gli F-16 turchi decollati dalla base di Dyrbakir abbiano effettuato nelle prime 48 ore solo 9 incursioni contro 4 check-point dell’Isis nella zono di Kilis mentre contro le roccaforti irachene del Pkk e i loro alleati siriani delle milizie popolari curdi (Ypg), braccio armato del Partito Democratico Curdo siriano (Pdy), sono state effettuate una trentina di incursioni. Il governo turco ha smentito di aver colpito postazioni curde in territorio siriano negando che Ypg e Pdy siano bersagli dei velivoli e dell’artiglieria turca, ma ieri mattina erano stati denunciati bombardamenti contro postazioni curde a Zor Maghar, nella provincia di Aleppo. Il governo di Ankara ha riferito di aver avviato un'indagine, per appurare se nell'offensiva contro lo Stato Islamico siano state colpite anche postazioni curde in Siria. «Le operazioni militari in corso sono tese a neutralizzare l'imminente minaccia alla sicurezza nazionale della Turchia e continuano ad avere come obiettivo lo Stato Islamico in Siria e il Pkk in Iraq», ha annunciato la fonte. Difficile però credere che i turchi non conoscano gli schieramenti militari dei gruppi armati presenti ai loro confini e inoltre la decisione di attivare una no fly-zone profonda 50 chilometri e lunga 90 in territorio siriano tra Marea e Jarabulus tradisce la volontà di Ankara di liberarsi dell’Isis ai suoi confini, ma anche di impedire ai curdi siriani di estendere l’area sotto il loro controllo lunga la frontiera.
La guerra allo Stato Islamico ha consentito ai curdi di Iraq e Siria di istituire un’area sotto il loro controllo e contigua territorialmente che si estende dal nord della Siria al nord dell’Iraq. Il presupposto ideale, specie in caso di sfaldamento dell’Iraq, per istituire l’agognato Stato curdo. Un’opzione inaccettabile da Ankara perché rivitalizzerebbe l’autonomismo dei curdi turchi. Non è forse un caso che l’intervento turco si verifichi dopo i vasti successi conseguiti dai curdi contro l’Isis. L’Ypg ieri ha liberato la cittadina di Sarrin, dopo tre settimane di scontri violentissimi. Sarrin si trova sull’autostrada tra Raqqa e Aleppo nel nord della Siria (e non lontano dal confine turco), contribuendo a isolare Raqqa, la capitale del Califfato da cui le avanguardie curde distano meno di 80 chilometri.
Ankara sembra voler puntare a cacciare l’Isis dai confini, contenere i curdi e indebolire ulteriormente Bashar Assad con una no fly-zone aperta ai cacciabombardieri turchi e della Coalizione, ma da cui sono banditi i jet di Damasco (pena l’abbattimento) . Il tutto con il sostegno di Washington ma senza uno straccio di risoluzione dell’Onu che autorizzi la palese violazione del diritto internazionale e della sovranità siriana. Probabile (come sostiene il quotidiano turco Hurryet) che Washington abbia barattato il via libera all’utilizzo della base aerea di Incirlik (e di altre tre basi in caso di necessità) con il sostegno all’istituzione della no fly-zone, ma il supporto degli Usa non può sostituire l’avvallo dell’Onu anche se Erdogan ha invocato l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite sul diritto all’autodifesa.
Certo, agli Stati Uniti l’ambiguo intervento militare turco consente di limitare la partecipazione al conflitto continuando a perseguire con successo la destabilizzazione della regione mediorientale accentuando caos e conflitti interni. Il paradosso di una Coalizione che conduce una guerra così blanda al Califfato da sembrare finta si aggiunge all’ambiguità delle monarchie sunnite (il cui impegno limitato è imposto dalla necessità di non favorire i governi sciiti di Iraq e Siria e di non irritare le loro opinioni pubbliche, sunnite e simpatizzanti per l’Isis) e di una Turchia che muove guerra all’Isis, ma al tempo stesso a curdi e governativi siriani, nemici giurati dello Stato Islamico.
Per lo Stato Islamico l’intervento turco rappresenta un’ulteriore complicazione e l’ennesimo atto di ostilità proveniente da Paesi che avevano contribuito alla nascita e al consolidamento del Califfato ma non possono venire messi in secondo piano gli aspetti di politica interna che possono avere indotto Erdogan all’azione. Lo Stato d’emergenza consentirà agli apparati giudiziari, militari e di polizia di sbarazzarsi di tanti oppositori interni rovesciando lo stato di debolezza del governo e del partito Apk emerso dopo le ultime elezioni. Erdogan ha detto che la campagna militare durerà circa tre o quattro mesi: un periodo forse sufficiente a rovesciare gli equilibri e a mettere sotto scacco quanto resta della democrazia turca anche se questo significa riaprire il conflitto con il Pkk e rischiare la guerra civile. Per alimentare il clima di emergenza e di Stato d’assedio il governo ha annunciato che costruirà un muro prefabbricato con fossati, telecamere a infrarossi e sensori lungo gli oltre 600 chilometri il confine siriano al costo di oltre 1,5 miliardi di euro.
Piccole Note, 25 luglio 15
«Finora Ankara era stata di fatto uno sponsor del Califfato: attraverso la Turchia l’Is riceveva armi e medicine, e riusciva al tempo stesso a esportare il suo petrolio». Così Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum e una delle menti più lucide dei neocon Usa, intervistato da Arturo Zampiglione per la Repubblica del 24 luglio. Pipes dice qualcosa che sapevano tutti (e ai suoi ricordi andrebbe aggiunto anche altro, come il fatto che il territorio turco era luogo di reclutamento dei miliziani e via dicendo). Insomma uno sponsor del terrorismo internazionale, come spiega Pipes, che ha agito impunemente e liberamente per anni, nella piena consapevolezza dei Paesi Nato.
Ma
questo è il passato. In questi giorni la Turchia ha cambiato
strategia e ha dichiarato guerra all’Isis.
A dimostrazione che fa sul serio, l’inizio di azioni militari
in territorio siriano e l’arresto di alcuni terroristi in
patria. Oltre a ciò ha concesso agli americani l’uso della
base aerea di Incirlik, finora
negata, che Washington considera strategica per un’efficace
azione di contrasto al Califfato.
Molti
analisti hanno individuato la genesi di questo cambio di
strategia nell’attentato di Suruc,
nel quale una kamikaze dell’Isis si è fatta esplodere
uccidendo una trentina di giovani curdi che stavano organizzando una
missione tesa alla ricostruzione di Kobane,
la città siriana al confine turco simbolo della resistenza al
Califfato. L’attentato ha creato un clima teso in
Turchia: al governo è stata rimproverata l’acquiescenza verso i
terroristi islamici e ha riaperto la frattura con i curdi, il cui
successo elettorale nelle recenti elezioni (il loro partito ha tolto
all’Akp, partito islamico al potere, la maggioranza assoluta) ha
mandato all’aria i piani di Tayyp Erdogan di
ridisegnare la Costituzione.
In
realtà è più probabile che alla base di questo
cambiamento di strategia di Ankara ci sia altro, ovvero
l’accordo sul nucleare
iraniano tra
Usa e Iran, che sta determinando un terremoto geopolitico in tutto il
Medio Oriente. Un accordo che ha rafforzato Assad, da
sempre legato a Teheran, e ha aperto nuove possibilità di
dialogo in vista di un accordo globale sulla Siria. Una prospettiva
che potrebbe aver determinato la nuova assertività
turca: ridimensionata, la speranza di un cambio di regime a
Damasco per via terroristica, Ankara si riposiziona con una strategia
che sviluppa due direttrici: da una parte potrebbe consentirgli di
entrare finalmente con le sue truppe in territorio siriano (idea da
tempo in cantiere) per prendere il controllo di un’area di confine
che comprende la (ex) ricca città di Aleppo; dall’altra di entrare
con forza nella partita negoziale che potrebbe aprirsi sul destino di
Damasco.
Una
strategia che conserva quindi tante ambiguità, anzi le moltiplica.
Tra queste anche quella che vede innescarsi un confronto più
serrato con i curdi, gettando alle ortiche il simulacro della
trattativa con il Pkk,
il partito dei lavoratori curdi, del recente passato. Il successo del
partito curdo alle ultime elezioni e la prospettiva della nascita di
uno Stato curdo ai suoi confini per Erdogan e i suoi sono un incubo.
Anche per questo i bombardieri di Ankara hanno colpito obiettivi
curdi in Iraq e Siria, nonostante questi siano stati finora gli
unici veri oppositori, insieme al governo di Damasco, dell’Isis (la
coalizione internazionale anti-Isis messa su dagli Stati Uniti finora
ha fatto pochino, per usare un eufemismo).