da PICCOLE NOTE
29 maggio 2013
Una buona
parte delle sorti della guerra in Siria la si sta decidendo all’estero, ma i
due fronti contrapposti non sono solo quelli di cui si sente parlare, spesso in
modo un po’ approssimativo: Occidente e paesi del Golfo contro Russia, Cina e
Iran.
C’è chi
lavora a un negoziato, da impostare il mese prossimo a Ginevra, e chi invece
pensa che la guerra andrà decisa prima di tutto sul piano militare, come prova
di forza tra i ribelli e le milizie fedeli a Bashar al Assad.
Di recente
sono apparse alcune testimonianze senza precedenti su come si sta muovendo il
secondo dei due fronti, quello che punta ad “alzare il livello dello scontro”.
A gettare un po’ di luce ci ha pensato l’edizione domenicale del Financial
Times, il 19 maggio scorso, con un lungo reportage sul ruolo del Qatar nella
guerra civile siriana. «Ringalluzzito» dal successo ottenuto in Libia, dove
pure le truppe qatariote hanno giocato un ruolo di primo piano nella ribellione
anti-Gheddafi, il governo del piccolo emirato da più di un anno è diventato il
principale finanziatore dei ribelli siriani.
Il suo
contributo alla “causa” – secondo il quotidiano finanziario di Londra – può
essere stimato tra uno e tre miliardi di dollari: soldi stanziati dalla casa
regnante per fare dell’emiro Hamad bin Khalifa «un nuovo Nasser islamista». Un
leader cioè che aspira a unificare tutti i popoli arabi contro un unico nemico
(come fece Gamal Nasser, autore del colpo di Stato egiziano del 1952),
servendosi però della bandiera dell’islamismo. Non a caso i soldi qatarioti
sono arrivati un po’ a tutte le sigle della ribellione, incluse quelle legate
allo jihadismo internazionale e ad al Qaeda in Iraq. «Il problema – spiega un
ufficiale americano al Financial Times – è che “per il Qatar non importa chi
finanzi, l’importante è abbattere Assad”».
È
interessante che un attacco così duro contro il Qatar arrivi proprio dal giornale
della City di Londra. L’intento “politico” del reportage è stato chiarito
subito, con un editoriale non firmato apparso sul quotidiano del 20 maggio:
l’attivismo qatariota – recita l’articolo – si è andato a scontrare con quello
dell’Arabia saudita, aumentando solo la confusione in un fronte già
estremamente frammentario. Conclusione: «La lotta dei ribelli contro Assad
resterà caotica fino a quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non
interverranno in prima persona per fornire armi ai moderati che combattono in
Siria».
L’argomento
non è dei più solidi: per contrastare l’attivismo dei paesi del Golfo il
Financial Times propone un nuovo attivismo dell’Occidente. Ma le intenzioni (e
il tempismo) erano evidenti: dare man forte a chi sosteneva, in ambito di
Unione Europea, la necessità di non rinnovare l’embargo sulla vendita di armi
in Siria. Missione compiuta: lunedì scorso, per il veto posto dal britannico
William Hague e dal francese Laurent Fabius (uno dei “falchi” del governo
Hollande), i ministri degli Esteri dell’Ue non sono riusciti a prolungare il
divieto. Ora anche gli europei sono autorizzati ad armare ai ribelli.
Com’era
prevedibile, la Russia non ha mancato di rispondere alla mossa “minacciosa” di
Gran Bretagna e Francia, confermando che consegnerà alla Siria una batteria di
missili contraerei S-300: «I missili sono un fattore di stabilità, – ha
spiegato il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov – evitano che qualche
testa calda possa provocare un’escalation del conflitto sul piano regionale».
Non è
difficile immaginare che la scelta europea di non prolungare l’embargo abbia
causato qualche mal di pancia alla Casa Bianca. Il segretario di Stato
americano John Kerry è tuttora impegnato in un giro del mondo finalizzato a
organizzare, d’accordo con Mosca, una conferenza di pace che coinvolga sia il
governo di Assad sia i ribelli, insieme ai rispettivi sponsor internazionali
(Iran incluso). Ma la strada verso “Ginevra 2″ «è ancora lunga», per usare le
parole del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, che il 9 maggio scorso,
alla Farnesina, si era confrontata proprio con Kerry sui passi necessari a
chiudere la crisi siriana.
La fine
dell’embargo – ha detto oggi la Bonino – segna un «momento non glorioso» per la
politica estera dei Ventisette. Che ora dovranno scegliere se inseguire il
Qatar nella corsa agli armamenti o lavorare, insieme a russi e americani, per
il successo dell’incontro di Ginevra.
MOSCA RISPONDE ALLA UE: ECCO I MISSILI PER ASSAD
La decisione
della Ue di lasciar liberi gli Stati membri sulla possibilità di fornire armi
alle forze anti-Assad, prima in regime di embargo, si è rivelata devastante.
Nonostante sia stata giustificata come mezzo di pressione contro Assad perché
prenda sul serio i negoziati promossi da Russia e Usa (la tecnica del bastone e
della carota), è tutt’altro: un ordigno gettato contro il processo di pace.
La Russia ha
annunciato che darà seguito all’invio degli S 300, micidiali nella difesa
aerea, allo scopo di dissuadere alcune “teste calde” dall’intervenire nel conflitto.
Decisione che, a sua volta, ha allarmato Israele, che lancia oscure minacce.
L’arrivo degli S 300, oltre a rendere più complesso un intervento Nato o Onu,
perché obbligherebbe i belligeranti a una guerra vera, impedirebbe
all’aviazione di tsahal ulteriori raid in territorio siriano: opzione che
Israele vuole conservare.
Il clima
surriscaldato non giova alla preparazione della conferenza di pace in programma
a Ginevra a giugno.
Dopo due anni di conflitto, novantamila morti, questo è il
primo tentativo serio di uscire da una sanguinosa impasse. La Ue si presenta
all’appuntamento divisa e, soprattutto, con opzioni altre e più inquietanti.
Una buona parte delle sorti della guerra in Siria la si sta decidendo all’estero, ma i due fronti contrapposti non sono solo quelli di cui si sente parlare, spesso in modo un po’ approssimativo: Occidente e paesi del Golfo contro Russia, Cina e Iran. C’è chi lavora a un negoziato, da impostare il mese prossimo a Ginevra, e chi invece pensa che la guerra andrà decisa prima di tutto sul piano militare, come prova di forza tra i ribelli e le milizie fedeli a Bashar al Assad.
Una buona parte delle sorti della guerra in Siria la si sta decidendo all’estero, ma i due fronti contrapposti non sono solo quelli di cui si sente parlare, spesso in modo un po’ approssimativo: Occidente e paesi del Golfo contro Russia, Cina e Iran. C’è chi lavora a un negoziato, da impostare il mese prossimo a Ginevra, e chi invece pensa che la guerra andrà decisa prima di tutto sul piano militare, come prova di forza tra i ribelli e le milizie fedeli a Bashar al Assad.
Di recente sono apparse alcune testimonianze senza precedenti su come si sta muovendo il secondo dei due fronti, quello che punta ad “alzare il livello dello scontro”. A gettare un po’ di luce ci ha pensato l’edizione domenicale del Financial Times, il 19 maggio scorso, con un lungo reportage sul ruolo del Qatar nella guerra civile siriana. «Ringalluzzito» dal successo ottenuto in Libia, dove pure le truppe qatariote hanno giocato un ruolo di primo piano nella ribellione anti-Gheddafi, il governo del piccolo emirato da più di un anno è diventato il principale finanziatore dei ribelli siriani.
Il suo contributo alla “causa” – secondo il quotidiano finanziario di Londra – può essere stimato tra uno e tre miliardi di dollari: soldi stanziati dalla casa regnante per fare dell’emiro Hamad bin Khalifa «un nuovo Nasser islamista». Un leader cioè che aspira a unificare tutti i popoli arabi contro un unico nemico (come fece Gamal Nasser, autore del colpo di Stato egiziano del 1952), servendosi però della bandiera dell’islamismo. Non a caso i soldi qatarioti sono arrivati un po’ a tutte le sigle della ribellione, incluse quelle legate allo jihadismo internazionale e ad al Qaeda in Iraq. «Il problema – spiega un ufficiale americano al Financial Times – è che “per il Qatar non importa chi finanzi, l’importante è abbattere Assad”».
È interessante che un attacco così duro contro il Qatar arrivi proprio dal giornale della City di Londra. L’intento “politico” del reportage è stato chiarito subito, con un editoriale non firmato apparso sul quotidiano del 20 maggio: l’attivismo qatariota – recita l’articolo – si è andato a scontrare con quello dell’Arabia saudita, aumentando solo la confusione in un fronte già estremamente frammentario. Conclusione: «La lotta dei ribelli contro Assad resterà caotica fino a quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non interverranno in prima persona per fornire armi ai moderati che combattono in Siria».
L’argomento non è dei più solidi: per contrastare l’attivismo dei paesi del Golfo il Financial Times propone un nuovo attivismo dell’Occidente. Ma le intenzioni (e il tempismo) erano evidenti: dare man forte a chi sosteneva, in ambito di Unione europea, la necessità di non rinnovare l’embargo sulla vendita di armi in Siria. Missione compiuta: lunedì scorso, per il veto posto dal britannico William Hague e dal francese Laurent Fabius (uno dei “falchi” del governo Hollande), i ministri degli Esteri dell’Ue non sono riusciti a prolungare il divieto. Ora anche gli europei sono autorizzati ad armare ai ribelli.
Com’era prevedibile, la Russia non ha mancato di rispondere alla mossa “minacciosa” di Gran Bretagna e Francia, confermando che consegnerà alla Siria una batteria di missili contraerei S-300: «I missili sono un fattore di stabilità, – ha spiegato il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov – evitano che qualche testa calda possa provocare un’escalation del conflitto sul piano regionale».
Non è difficile immaginare che la scelta europea di non prolungare l’embargo abbia causato qualche mal di pancia alla Casa Bianca. Il segretario di Stato americano John Kerry è tuttora impegnato in un giro del mondo finalizzato a organizzare, d’accordo con Mosca, una conferenza di pace che coinvolga sia il governo di Assad sia i ribelli, insieme ai rispettivi sponsor internazionali (Iran incluso). Ma la strada verso “Ginevra 2″ «è ancora lunga», per usare le parole del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, che il 9 maggio scorso, alla Farnesina, si era confrontata proprio con Kerry sui passi necessari a chiudere la crisi siriana.
La fine dell’embargo – ha detto oggi la Bonino – segna un «momento non glorioso» per la politica estera dei Ventisette. Che ora dovranno scegliere se inseguire il Qatar nella corsa agli armamenti o lavorare, insieme a russi e americani, per il successo dell’incontro di Ginevra.
Di recente sono apparse alcune testimonianze senza precedenti su come si sta muovendo il secondo dei due fronti, quello che punta ad “alzare il livello dello scontro”. A gettare un po’ di luce ci ha pensato l’edizione domenicale del Financial Times, il 19 maggio scorso, con un lungo reportage sul ruolo del Qatar nella guerra civile siriana. «Ringalluzzito» dal successo ottenuto in Libia, dove pure le truppe qatariote hanno giocato un ruolo di primo piano nella ribellione anti-Gheddafi, il governo del piccolo emirato da più di un anno è diventato il principale finanziatore dei ribelli siriani.
Il suo contributo alla “causa” – secondo il quotidiano finanziario di Londra – può essere stimato tra uno e tre miliardi di dollari: soldi stanziati dalla casa regnante per fare dell’emiro Hamad bin Khalifa «un nuovo Nasser islamista». Un leader cioè che aspira a unificare tutti i popoli arabi contro un unico nemico (come fece Gamal Nasser, autore del colpo di Stato egiziano del 1952), servendosi però della bandiera dell’islamismo. Non a caso i soldi qatarioti sono arrivati un po’ a tutte le sigle della ribellione, incluse quelle legate allo jihadismo internazionale e ad al Qaeda in Iraq. «Il problema – spiega un ufficiale americano al Financial Times – è che “per il Qatar non importa chi finanzi, l’importante è abbattere Assad”».
È interessante che un attacco così duro contro il Qatar arrivi proprio dal giornale della City di Londra. L’intento “politico” del reportage è stato chiarito subito, con un editoriale non firmato apparso sul quotidiano del 20 maggio: l’attivismo qatariota – recita l’articolo – si è andato a scontrare con quello dell’Arabia saudita, aumentando solo la confusione in un fronte già estremamente frammentario. Conclusione: «La lotta dei ribelli contro Assad resterà caotica fino a quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non interverranno in prima persona per fornire armi ai moderati che combattono in Siria».
L’argomento non è dei più solidi: per contrastare l’attivismo dei paesi del Golfo il Financial Times propone un nuovo attivismo dell’Occidente. Ma le intenzioni (e il tempismo) erano evidenti: dare man forte a chi sosteneva, in ambito di Unione europea, la necessità di non rinnovare l’embargo sulla vendita di armi in Siria. Missione compiuta: lunedì scorso, per il veto posto dal britannico William Hague e dal francese Laurent Fabius (uno dei “falchi” del governo Hollande), i ministri degli Esteri dell’Ue non sono riusciti a prolungare il divieto. Ora anche gli europei sono autorizzati ad armare ai ribelli.
Com’era prevedibile, la Russia non ha mancato di rispondere alla mossa “minacciosa” di Gran Bretagna e Francia, confermando che consegnerà alla Siria una batteria di missili contraerei S-300: «I missili sono un fattore di stabilità, – ha spiegato il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov – evitano che qualche testa calda possa provocare un’escalation del conflitto sul piano regionale».
Non è difficile immaginare che la scelta europea di non prolungare l’embargo abbia causato qualche mal di pancia alla Casa Bianca. Il segretario di Stato americano John Kerry è tuttora impegnato in un giro del mondo finalizzato a organizzare, d’accordo con Mosca, una conferenza di pace che coinvolga sia il governo di Assad sia i ribelli, insieme ai rispettivi sponsor internazionali (Iran incluso). Ma la strada verso “Ginevra 2″ «è ancora lunga», per usare le parole del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, che il 9 maggio scorso, alla Farnesina, si era confrontata proprio con Kerry sui passi necessari a chiudere la crisi siriana.
La fine dell’embargo – ha detto oggi la Bonino – segna un «momento non glorioso» per la politica estera dei Ventisette. Che ora dovranno scegliere se inseguire il Qatar nella corsa agli armamenti o lavorare, insieme a russi e americani, per il successo dell’incontro di Ginevra.
Una buona parte delle sorti della guerra in Siria la si sta decidendo all’estero, ma i due fronti contrapposti non sono solo quelli di cui si sente parlare, spesso in modo un po’ approssimativo: Occidente e paesi del Golfo contro Russia, Cina e Iran. C’è chi lavora a un negoziato, da impostare il mese prossimo a Ginevra, e chi invece pensa che la guerra andrà decisa prima di tutto sul piano militare, come prova di forza tra i ribelli e le milizie fedeli a Bashar al Assad.
Di recente sono apparse alcune testimonianze senza precedenti su come si sta muovendo il secondo dei due fronti, quello che punta ad “alzare il livello dello scontro”. A gettare un po’ di luce ci ha pensato l’edizione domenicale del Financial Times, il 19 maggio scorso, con un lungo reportage sul ruolo del Qatar nella guerra civile siriana. «Ringalluzzito» dal successo ottenuto in Libia, dove pure le truppe qatariote hanno giocato un ruolo di primo piano nella ribellione anti-Gheddafi, il governo del piccolo emirato da più di un anno è diventato il principale finanziatore dei ribelli siriani.
Il suo contributo alla “causa” – secondo il quotidiano finanziario di Londra – può essere stimato tra uno e tre miliardi di dollari: soldi stanziati dalla casa regnante per fare dell’emiro Hamad bin Khalifa «un nuovo Nasser islamista». Un leader cioè che aspira a unificare tutti i popoli arabi contro un unico nemico (come fece Gamal Nasser, autore del colpo di Stato egiziano del 1952), servendosi però della bandiera dell’islamismo. Non a caso i soldi qatarioti sono arrivati un po’ a tutte le sigle della ribellione, incluse quelle legate allo jihadismo internazionale e ad al Qaeda in Iraq. «Il problema – spiega un ufficiale americano al Financial Times – è che “per il Qatar non importa chi finanzi, l’importante è abbattere Assad”».
È interessante che un attacco così duro contro il Qatar arrivi proprio dal giornale della City di Londra. L’intento “politico” del reportage è stato chiarito subito, con un editoriale non firmato apparso sul quotidiano del 20 maggio: l’attivismo qatariota – recita l’articolo – si è andato a scontrare con quello dell’Arabia saudita, aumentando solo la confusione in un fronte già estremamente frammentario. Conclusione: «La lotta dei ribelli contro Assad resterà caotica fino a quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non interverranno in prima persona per fornire armi ai moderati che combattono in Siria».
L’argomento non è dei più solidi: per contrastare l’attivismo dei paesi del Golfo il Financial Times propone un nuovo attivismo dell’Occidente. Ma le intenzioni (e il tempismo) erano evidenti: dare man forte a chi sosteneva, in ambito di Unione europea, la necessità di non rinnovare l’embargo sulla vendita di armi in Siria. Missione compiuta: lunedì scorso, per il veto posto dal britannico William Hague e dal francese Laurent Fabius (uno dei “falchi” del governo Hollande), i ministri degli Esteri dell’Ue non sono riusciti a prolungare il divieto. Ora anche gli europei sono autorizzati ad armare ai ribelli.
Com’era prevedibile, la Russia non ha mancato di rispondere alla mossa “minacciosa” di Gran Bretagna e Francia, confermando che consegnerà alla Siria una batteria di missili contraerei S-300: «I missili sono un fattore di stabilità, – ha spiegato il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov – evitano che qualche testa calda possa provocare un’escalation del conflitto sul piano regionale».
Non è difficile immaginare che la scelta europea di non prolungare l’embargo abbia causato qualche mal di pancia alla Casa Bianca. Il segretario di Stato americano John Kerry è tuttora impegnato in un giro del mondo finalizzato a organizzare, d’accordo con Mosca, una conferenza di pace che coinvolga sia il governo di Assad sia i ribelli, insieme ai rispettivi sponsor internazionali (Iran incluso). Ma la strada verso “Ginevra 2″ «è ancora lunga», per usare le parole del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, che il 9 maggio scorso, alla Farnesina, si era confrontata proprio con Kerry sui passi necessari a chiudere la crisi siriana.
La fine dell’embargo – ha detto oggi la Bonino – segna un «momento non glorioso» per la politica estera dei Ventisette. Che ora dovranno scegliere se inseguire il Qatar nella corsa agli armamenti o lavorare, insieme a russi e americani, per il successo dell’incontro di Ginevra.
Di recente sono apparse alcune testimonianze senza precedenti su come si sta muovendo il secondo dei due fronti, quello che punta ad “alzare il livello dello scontro”. A gettare un po’ di luce ci ha pensato l’edizione domenicale del Financial Times, il 19 maggio scorso, con un lungo reportage sul ruolo del Qatar nella guerra civile siriana. «Ringalluzzito» dal successo ottenuto in Libia, dove pure le truppe qatariote hanno giocato un ruolo di primo piano nella ribellione anti-Gheddafi, il governo del piccolo emirato da più di un anno è diventato il principale finanziatore dei ribelli siriani.
Il suo contributo alla “causa” – secondo il quotidiano finanziario di Londra – può essere stimato tra uno e tre miliardi di dollari: soldi stanziati dalla casa regnante per fare dell’emiro Hamad bin Khalifa «un nuovo Nasser islamista». Un leader cioè che aspira a unificare tutti i popoli arabi contro un unico nemico (come fece Gamal Nasser, autore del colpo di Stato egiziano del 1952), servendosi però della bandiera dell’islamismo. Non a caso i soldi qatarioti sono arrivati un po’ a tutte le sigle della ribellione, incluse quelle legate allo jihadismo internazionale e ad al Qaeda in Iraq. «Il problema – spiega un ufficiale americano al Financial Times – è che “per il Qatar non importa chi finanzi, l’importante è abbattere Assad”».
È interessante che un attacco così duro contro il Qatar arrivi proprio dal giornale della City di Londra. L’intento “politico” del reportage è stato chiarito subito, con un editoriale non firmato apparso sul quotidiano del 20 maggio: l’attivismo qatariota – recita l’articolo – si è andato a scontrare con quello dell’Arabia saudita, aumentando solo la confusione in un fronte già estremamente frammentario. Conclusione: «La lotta dei ribelli contro Assad resterà caotica fino a quando Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia non interverranno in prima persona per fornire armi ai moderati che combattono in Siria».
L’argomento non è dei più solidi: per contrastare l’attivismo dei paesi del Golfo il Financial Times propone un nuovo attivismo dell’Occidente. Ma le intenzioni (e il tempismo) erano evidenti: dare man forte a chi sosteneva, in ambito di Unione europea, la necessità di non rinnovare l’embargo sulla vendita di armi in Siria. Missione compiuta: lunedì scorso, per il veto posto dal britannico William Hague e dal francese Laurent Fabius (uno dei “falchi” del governo Hollande), i ministri degli Esteri dell’Ue non sono riusciti a prolungare il divieto. Ora anche gli europei sono autorizzati ad armare ai ribelli.
Com’era prevedibile, la Russia non ha mancato di rispondere alla mossa “minacciosa” di Gran Bretagna e Francia, confermando che consegnerà alla Siria una batteria di missili contraerei S-300: «I missili sono un fattore di stabilità, – ha spiegato il viceministro degli Esteri Sergei Ryabkov – evitano che qualche testa calda possa provocare un’escalation del conflitto sul piano regionale».
Non è difficile immaginare che la scelta europea di non prolungare l’embargo abbia causato qualche mal di pancia alla Casa Bianca. Il segretario di Stato americano John Kerry è tuttora impegnato in un giro del mondo finalizzato a organizzare, d’accordo con Mosca, una conferenza di pace che coinvolga sia il governo di Assad sia i ribelli, insieme ai rispettivi sponsor internazionali (Iran incluso). Ma la strada verso “Ginevra 2″ «è ancora lunga», per usare le parole del ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, che il 9 maggio scorso, alla Farnesina, si era confrontata proprio con Kerry sui passi necessari a chiudere la crisi siriana.
La fine dell’embargo – ha detto oggi la Bonino – segna un «momento non glorioso» per la politica estera dei Ventisette. Che ora dovranno scegliere se inseguire il Qatar nella corsa agli armamenti o lavorare, insieme a russi e americani, per il successo dell’incontro di Ginevra.