settimana di preghiera per l'unità dei cristiani ad Aleppo |
Intervista di Francesco Inguanti
La guerra in Siria è nata dal cuore dell’uomo, che è capace di tanto bene, ma anche di tanto male. Nasce dall’egoismo e dall’avidità personale che è insita in ogni cuore umano. Ma quando questi mali assumono una dimensione comunitaria, si comincia a desiderare le energie economiche di un altro popolo, il vantaggio della sua posizione geopolitica e si pensa di risolvere i propri problemi a scapito di quelli di altri popoli.
E qual è la situazione sul campo?
Siamo giunti ormai all’ottavo anno di guerra; abbiamo censito un anno fa ben 10 eserciti internazionali, presenti sul campo senza nessun coordinamento fra di loro, alcuni più degli altri si fanno la guerra sul territorio siriano; è, dunque, una situazione molto complessa e delicata.
Si può raggiungere la pace?
È difficile fare la pace perché la guerra è più conveniente, per un motivo semplice: perché nel caos, nel disordine si può fare quello che nella pace non si può fare. Per esempio si possono vendere tante armi. Il commercio delle armi ha raggiunto nel Medio Oriente la cifra record di 700 miliardi di dollari, ma tutti pensano che sia molto più alta. Con le armi poi, si possono rubare le case, rapire le persone, appropriarsi delle risorse energetiche e degli impianti industriali. La guerra in Siria conviene a tanti.
Aleppo vive da due anni una situazione meno drammatica di prima?
Non so se è più o meno drammatica di prima. È vero che, dal 22 dicembre 2016, non cadono missili su diversi quartieri aleppini, ma continuano purtroppo a cadere sulla parte ovest della città, in modo particolare su tre quartieri. Giorni fa sono stati lanciati missili pieni di cloro, dai gruppi armati nella periferia di Idlib, che pur non avendo fatto morti, hanno provocato disturbi gravi a 110 persone, che sono state costrette a passare ore o giorni all’ospedale con la maschera d’ossigeno. Quindi, meno o più drammatica non si sa, ma è una situazione assurda.
Quale futuro vede per la Siria?
La Siria era un luogo di convivenza, un mosaico di diversi colori in cui c’era spazio per tutti. Adesso invece si va verso la creazione di zone ad influenza etnica o religiosa maggioritaria. Questo è contro la nostra storia e non risolverebbe il problema della convivenza. Sembra che la comunità internazionale non abbia imparato niente dalle due guerre mondiali. In Medio Oriente è in atto un pezzo della terza guerra mondiale a pezzi di cui ha parlato il Papa. Vediamo quindi nuvole nere che riempiono l’orizzonte; che tutto quello che è successo e succede in Siria è una possibile introduzione a un inverno freddo pieno di fulmini che potrà espandersi come guerra mondiale in tutto il mondo.
E ad Aleppo come si vive oggi?
Una volta Aleppo era la Milano della Siria dal punto di vista dello sviluppo economico: aveva il 60 per cento della produzione economica dell’intero paese. Adesso ha le ali tagliate e non riesce a tornare ad essere produttiva. Soprattutto non c’è lavoro e quindi non c’è sviluppo. I macchinari delle fabbriche sono stati derubati mentre le strutture sono state rase al suolo. Di conseguenza, c’è una povertà incredibile ed inimmaginabile che può trasformarsi da un momento all’altro nella carestia di un’intera città o di un intero popolo.
Ma chi rimane allora in città?
A causa di questa mancanza di futuro la gente continua a lasciare il Paese senza sperare di potervi tornare. Le minoranze e con esse i cristiani sono quelli che soffrono di più. Basti pensare che due terzi della popolazione della Siria e della comunità cristiana sono andati via. Quelli andati all’estero torneranno molto difficilmente, forse potranno tornare quelli spostati in altre città della Siria o in campi profughi del Libano. Abbiamo calcolato che da gennaio di quest’anno 10 famiglie della parrocchia sono tornate ad Aleppo a fronte di 10 famiglie che hanno lasciato la città. Tornando alla domanda, si può rispondere che solo i poveri che non potevano scappare sono rimasti nella città.
Di fronte a tanto male torna sempre la solita domanda: dov’è Dio? Perché rimane in silenzio?
Sicuramente, c’è il Mysterium iniquitatis; alcuni potranno inciampare in quello che chiamiamo il problema del male, accusando Dio di essere assente; è una tentazione. Noi invece vediamo Dio ogni giorno: un Dio soffrente, inchiodato sulla croce, nelle membra dell’umanità sofferente, derubate dalla sua dignità umana. Dio innanzitutto lo adoriamo come presente nelle ferite della popolazione, poi lo vediamo al timone di questa Chiesa in mezzo alle onde più alte di quelle del “mare di Galilea”, lo vediamo ogni giorno che si avvicina con tutta la sua tenerezza per curare noi e provvedere ai bisogni delle sue creature.
In tutto questo voi come riuscite a sopravvivere?
Molto spesso chi chiediamo: come mai noi siamo sopravvissuti? Siamo sopravvissuti a tanti missili, alla mancanza d’acqua, di elettricità e di molto altro. Questo è stato possibile solo perché Lui era presente con tutta la sua forza, una forza di bene, di cura, di provvidenza, che sempre ci ha sorpresi e continua ancora oggi a sorprenderci. Questo lo vediamo ogni giorno nelle piccole come nelle grandi cose, nelle persone che pregano per noi in tutto il mondo, ma anche in tante persone che fanno sacrifici per aiutarci, dal punto di vista concreto e anche i pochi spiccioli si moltiplicano come i pani e i pesci, fino a poter vedere anche gli avanzi. Nella nostra vita quotidiana ad Aleppo, in mezzo ai missili che cadono, noi siamo testimoni della Sua presenza tenera con noi.
Con quali aspettative è andato ad Aleppo?
Quando sono partito per Aleppo avevo le mani nude, ma un cuore disponibile; armato della mia fede e della mia carità. E posso assimilare questa carità coraggiosa e anche creativa a quella di una madre che quando nasce il primo figlio non sa come allattarlo, lavarlo, accudirlo, ma ha un istinto spirituale che la muove a fare ugualmente tutto questo. La carità è una cosa che scoppia dal cuore disponibile e che guida a fare cose che mai hai immaginato. Così sono scattati tutti i miracoli di questi quattro anni della mia presenza ad Aleppo.
Cosa significa in concreto?
Significa che il Signore mi ha chiesto di far fronte non solo ad un compito spirituale, ma di rispondere ad una emergenza che è oltre ogni limite. Ogni giorno mi trovo a fare l’infermiere, il medico, l’ingegnere, il poliziotto, l’architetto, l’assistente sociale. Quindi, come faccio il parroco? Facendo la volontà istantanea di Dio, rendendomi disponibile alle sue ispirazioni ogni istante. Ad Aleppo, è Dio che pianifica e esegue, mentre il parroco di Aleppo è soltanto un servo inutile.
Che cosa vuol dire per lei fare la volontà di Dio in questa situazione?
Non è rassegnazione, si tratta di un’attesa, come quella vissuta in questo periodo di Avvento. Siamo nel buio della notte, ma aspettiamo con certezza che l’alba arrivi. L’alba della pace non è arrivata ancora, viviamo nell’ansia che verrà, in quest’attesa sofferente, pazienti, di un mattino che dovrebbe arrivare, anzi arriverà. Non sappiamo quando, ma dovremo essere pronti e vigilanti.
E fare il parroco?
Tutto il lavoro di sostegno alla popolazione che soffre, cioè il lavoro di emergenza e di ricostruzione, lo sento come parte del lavoro pastorale. Se concepiamo la parrocchia come un “ospedale da campo”, come dice papa Francesco, certamente lì non si può parlare di Dio ad un bambino ammalato o ad una famiglia in difficoltà, prima di curare il bimbo e prima di ricostruire la casa distrutta e prima di pagare un intervento chirurgico cardiaco costoso. La prima forma della pastorale è andare incontro al bisogno concreto immediato. Poi, c’è l’abito che ci fa strada.
Cioè? Si riferisce al saio che indossa?
Sì, perché serve a ricordare a tutti che tutto ha senso a partire dall’evento di Gesù Cristo. È Gesù che mi manda a loro, ed io, frate e sacerdote, sono l’emanazione del Suo Amore e la Sua trasfigurazione nell’oggi della loro vita. Tutto quello che faccio, come servizio umanitario, non è altro quindi se non una testimonianza all’amore di Cristo verso le Sue creature. Quello infatti, che mi ha “rubato il cuore” e mi ha fatto “abbandonare le reti” è Gesù Cristo. Non ho lasciato la mia casa e la mia famiglia per una ideologia umanistica, ma perché me lo ha chiesto Uno che guida la storia e questo mi richiama a dare la vita come Lui.
Ma come si fa a parlare di futuro in un contesto simile?
L’intelligenza della fede ci impone di progettare il futuro, non soltanto di conservare qualcosa del presente. I giovani che si sposano e i bambini che nascono sono il nostro futuro, come Chiesa e come società, e le nostre attenzioni pastorali sono rivolte soprattutto a loro. Il progetto del matrimonio non è un progetto di due fidanzati. È un progetto che inizia con loro, ma che alla fine è un progetto di tutta la società e di tutta la Chiesa. Riconoscere questo, specialmente in una situazione di guerra, è fondamentale per saperlo mettere come priorità, come una cosa che interessa tutti e che tutti devono aiutare a nascere.
Può quantificare quello che state facendo, per avere un’idea?
L’anno scorso abbiamo raggiunto il massimo nella distribuzione di pacchi alimentari mensili a 3.700 famiglie bisognose; quest’anno invece, ci siamo limitati a mille famiglie. E lo stesso vale per l’assistenza sanitaria che ad Aleppo è quasi inesistente. Poi bisognava andare oltre il servizio di emergenza, così abbiamo iniziato con i progetti chiamati “progetti di ricostruzione”. Abbiamo messo mano alla ricostruzione delle case, riuscendo a rimetterne in piedi 1.250, dal 2016 ad oggi, grazie all’aiuto di otto ingegneri. Certo non abbiamo ricostruito la città, ma abbiamo procurato la casa a un numero elevato di famiglie che rischiavano di rimanere senza tetto. In questo campo, quello che abbiamo fatto va ogni oltre misura se si tiene conto che siamo solo una piccola parrocchia latina e non uno Stato. Abbiamo anche avviato 500 progetti di microeconomia per far ripartire il processo economico, per rendere le persone indipendenti dagli aiuti che ricevono.
Ma lei ripete sempre che il primo e più importante obiettivo è la ricostruzione della persona umana. Ce lo spiega?
Certamente la persona umana è quella che ha subìto il danno più forte; ha bisogno quindi di una vera “ricostruzione”. Per questo, abbiamo messo grande attenzione a creare dei progetti educativi dei bambini, per esempio con doposcuola a tanti soggetti molti dei quali considerati “irrecuperabili” dalle istituzioni scolastiche. Abbiamo anche creato ambienti accoglienti per loro (l’oratorio estivo di quest’anno ne ha coinvolto 1.300) aiutandoli a scoprire i propri talenti e a farli sviluppare da tutti i punti di vista, non soltanto dal punto di vista spirituale. Tutto ha l’obbiettivo di far avere al bambino di Aleppo una guarigione e una vita nuova.
Come fate a non rimanere isolati dal resto del mondo?
Siamo stati avvolti dalla tenerezza di Dio. Papa Francesco ha detto che “la Chiesa è la mano tenera di Dio”. Noi abbiamo visto Cristo, sperimentato la sua tenerezza, attraverso parrocchie, chiese, vescovi, sacerdoti e laici che hanno voluto manifestare la loro vicinanza aiutandoci in tanti modi. Le istituzioni sono arrivate alla fine, anche se in ritardo, ma tutto è partito dalla Chiesa e dal Papa che ha sempre parlato del dramma della Siria.
Come ha recepito le più recenti parole del papa all’Angelus su di voi?
Il Santo Padre ha pregato perché i cristiani rimangano in Medio Oriente. Lui sa quale importanza hanno i cristiani per essere ponti tra tante parti, per essere testimoni proprio in quella parte di mondo che ha visto la nascita delle prime comunità cristiane. Questa testimonianza, come egli spiega, passa attraverso “la misericordia, il perdono, la riconciliazione”.
Quindi voi attendete il papa in Siria?
Certo ci piacerebbe che venisse, ma oggi credo proprio che sia impossibile. Domani chissà! In ogni caso lo sentiamo ogni giorno vicino e presente con le sue parole e la sua preghiera. Ci sentiamo amati e voluti bene.
Cosa chiedete a noi che siamo in Europa?
Prima di tutto di pregare per noi, perché la missione della Chiesa ad Aleppo è parte della missione universale della Chiesa. Chiediamo poi a tutti di lavorare ciascuno nel proprio campo con le parole e con le opere per favorire una pace che purtroppo è ancora lontana. E poi chiediamo a voi di seguire le ispirazioni del cuore. Se ciascuno seguisse le proprie ispirazioni del cuore, com’è accaduto a me andando ad Aleppo, potremmo costruire e far espandere il Regno di Dio, non solo in Siria, ma anche in tutto il mondo. La quarta cosa è combattere contro il nostro male, piccolo e personale. Tutto nasce dal cuore dell’uomo, il bene e il male. Contrastare il male nei nostri cuori significa vincerlo in tutto il mondo e far vincere il Regno dei Cieli sul regno delle tenebre.