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martedì 22 maggio 2018

Aleppo dice addio a suor Marguerite, angelo dei malati per 50 anni




Commemorazione di Suor Marguerite

Suor Marguerite è nata il 3 giugno 1928 a Jezzine, in Libano, con il nome di Nadima Slim.
E' la quarta in una famiglia di 5 fratelli.
All'età di 8 anni, perde sua madre. Viene inviata all'orfanotrofio delle Suore di 'San Giuseppe dell'Apparizione' a Khan in Saida (Libano) per continuare la sua educazione.
Nel 1949, a causa di un problema alla schiena, viene mandata ad Aleppo per un intervento chirurgico di ernia del disco dal Dr. Henri Fruchaud. Dopo 3 mesi di convalescenza molto dolorosa, lei rimane qui e vi lavora per circa un anno. Durante questa esperienza, il Signore la chiama a dare la vita al servizio degli altri.

Nel 1950, entra nel Postulato e fa il suo Noviziato a Marsiglia, dove emette i suoi primi voti nel 1952 e riceve il mandato per la missione dell'ospedale di Aleppo. Data la giovane età, le sue qualità professionali ed umane, il dott. Fruchaud la prende come assistente in sala operatoria. Con lui, lavora giorno e notte per alleviare la sofferenza degli ammalati.
Nel 1958, pronuncia i suoi voti perpetui.
Nel 1963, viene inviata ad Attar in Mauritania, poi a Port Etienne (ora Nouadhibou); successivamente a Nouakchott dove lavora presso il dipartimento di chirurgia dell'Ospedale Nazionale.
Poi nel 1968, trascorre un anno a Lione. Date le sue capacità organizzative, viene rimandata all'ospedale di Aleppo per "un anno" con la missione di risollevare l'ospedale che era in difficoltà: un anno che invece si protrarrà fino ai suoi ultimi giorni.

Nel 1983, diventa Direttore dell'Ospedale e assumerà questa responsabilità cercando di fare di questo ospedale uno dei migliori della Siria: Ha introdotto e cambiato tutto ciò che era necessario per servire al meglio gli ammalati, ed anche i medici e il personale infermieristico. Non ha risparmiato alcuno sforzo per rinnovare l'attrezzatura e i diversi servizi. Cercava sempre il meglio senza alcuna considerazione per i costi finanziari.
Durante la guerra, nonostante le molte difficoltà, ha voluto con l'accordo di tutte le Sorelle tenere aperto l'ospedale e dare tutto il necessario per poter curare la popolazione e specialmente i civili feriti a motivo della guerra.
Era una donna di fede, che ha fondato la sua vita e la sua azione su Cristo. Ha tratto la propria forza e dinamismo dalla preghiera e nella meditazione.

Lavorare per la maggior gloria di Dio, adempiere la sua Volontà e favorire la Provvidenza, è stato per Suor Marguerite l'orientamento costante della sua vita.
La sua fiducia in Dio dentro l'insicurezza, il distacco da tutte le cose materiali, una devozione speciale per la Vergine Maria e per le anime del Purgatorio, ci hanno rivelato tutta la ricchezza di un'anima appassionata di Dio e di ogni uomo.
Durante la sua lunga malattia, ha mantenuto l'attenzione per l'ospedale e ha seguito tutte le attività con una mente ampia e con cuore aperto, per il bene dei malati e dello staff.

In sintesi:
UNA VITA INTERAMENTE DONATA A DIO E AL SERVIZIO DELLA POPOLAZIONE DI ALEPPO!
Per questo, rendiamo grazie a Dio e che la sua memoria e testimonianza di vita rafforzino la nostra Speranza e ci siano d'esempio e di slancio verso il futuro, per l'avvento del Suo Regno.

 Le Suore dell'Ospedale Saint Louis, Congregazione di San Giuseppe dell'Apparizione 

domenica 20 maggio 2018

Frère Jean-Pierre di Tibhirine: "Restare, significava essere fedeli alla nostra vocazione"

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996 un commando formato da una ventina di uomini armati irruppe nel monastero dei Trappisti di Notre Dame dell'Atlas, sequestrando sette dei nove monaci che ne formavano la comunità, tutti di nazionalità francese.  Il sequestro fu rivendicato un mese dopo dal Gruppo Islamico Armato, che propose in cambio alla Francia uno scambio di prigionieri. 
Dopo inutili trattative, il 21 maggio dello stesso anno i terroristi annunciarono l'uccisione dei monaci, le cui teste furono ritrovate il 30 maggio; i corpi non furono invece mai ritrovati. Due monaci della comunità scamparono al sequestro, Amédée Noto e Jean-Pierre Schumacher, e dopo la morte dei loro confratelli si trasferirono nel monastero di Fès in Marocco. L'assassinio dei monaci è avvenuto nel contesto della sanguinosa guerra civile algerina (Wikipedia) . Perciò i 7 monaci verranno beatificati insieme al gruppo dei 19 MARTIRI DI ALGERIA. 
Riproponiamo, nell'anniversario del loro martirio, la testimonianza di  Frère Jean-Pierre Schumacher, raccolta da Laurence Faure e pubblicata su La Vie 
Marzo 2012: P. Jean Pierre SCHUMACHER, ultimo sopravvissuto dei monaci di Tibhirine saluta un'impiegata musulmana del Priorato di Notre Dame de l'Atlas, Midelt, Marocco. © Bruno ROTIVAL / CIRIC

Frère Jean-Pierre Schumacher, ultimo sopravvissuto di Tibhirine, parla della prossima beatificazione dei suoi sette fratelli, recentemente riconosciuti come martiri dalla Chiesa cattolica con altri 12 uomini e donne religiosi algerini. Come padre Amédée, morto nel 2008, Jean-Pierre Schumacher era chiuso nella sua stanza durante il rapimento degli ostaggi del 1996. Malgrado il dramma vissuto 22 anni fa, il monaco trappista che ora ha 94 anni ha scelto di continuare a vivere a Midelt (Marocco), nel Monastero di Notre-Dame-de-l'Atlas.
"Quando ho appreso della prossima beatificazione dei miei sette fratelli... ho sentito anzitutto una gioia grande e profonda! Ora essi sono potenti intercessori presso Dio. Questo riconoscimento conferisce un significato particolare al loro martirio, come a quello di Monsignor Pierre Claverie e degli altri loro compagni martiri in Algeria. Non hanno lasciato il paese. Nonostante i rischi. Perché non si abbandonano i propri amici quando sono in pericolo. Per arrivare a ciò, ovviamente, devi stabilire amicizie reali e profonde. È anche necessario che questi amici esprimano il loro desiderio di avere la nostra presenza al loro fianco.
"L'annuncio del Vangelo in silenzio", "essere da soli una Cristianità", diceva il Beato Charles de Foucauld ... È un po' quello che la Chiesa vive qui, in Nord Africa, nel suo rapporto con l'Islam. Abbiamo vissuto a Tibhirine qualcosa che illustra questo spirito. Eravamo in rapporto con una dozzina di membri della congregazione musulmana Alawiya, di obbedienza Sufi. Non potevamo pregare insieme, perché le nostre religioni sono diverse, ma ci incontravamo due volte all'anno nel 'Ribat es Salaam' (il Legame della Pace, un'associazione di dialogo spirituale con l'Islam supportata da Christian de Chergé con Claude Rault, padre bianco, vescovo di Laghouat in Algeria, dal 2004 al 2017, ndr). Una delle prime cose che ci hanno chiesto di fare, era di non entrare nelle discussioni teologiche. Senza negare la teologia cristiana, ovviamente - perché ne abbiamo bisogno e lo sappiamo - non ne parlavamo perché ciò avrebbe rotto qualsiasi dialogo.
Fede cristiana, fede musulmana
Così ci siamo riuniti in una stanza del monastero, con alcune panche e un tavolo, ma ognuno pregava separatamente, in silenzio: è assolutamente monastico, e ciò mi è piaciuto molto! Christian de Chergé chiedeva di accendere la candela. Era una candela rossa. Non c'era bisogno di spiegazioni teologiche, è risaputo cosa significa : Dio è presente. È anche uno dei più bei nomi di Dio, tra i 99 nomi dati a Lui dai musulmani: "Dio è luce" - "Allah e' Nur" in arabo. Così senza pronunciare parola eravamo silenziosi e ognuno stava alla presenza di Dio per circa mezz'ora. Poi ci scambiavamo una parola e quelli che lo desideravano condividevano la risonanza che assumeva questa parola nelle loro vite. Ad esempio, "Dio è luce": noi come loro, potevamo meditare questa frase secondo la nostra fede.
Conosciamo un certo numero di imam che si sono opposti al terrorismo e alla violenza durante la guerra, a rischio della loro vita.
È difficile confrontare la fede cristiana con la fede musulmana. Eppure anche i musulmani hanno i loro martiri, in un senso vicino al nostro: conosciamo un certo numero di imam che si sono opposti al terrorismo e alla violenza durante la guerra, a rischio della loro vita. E, naturalmente, non possiamo che provare grande ammirazione per quel padre di famiglia musulmano che ha dato la sua vita per salvare quella di Christian Chergé quando egli era un ufficiale in Algeria nel 1959. Un atto compiuto secondo la sua fede, la sua carità. E questo è proprio ciò che all'epoca ha interpellato Christian: quest'uomo, che non era un cristiano, ha vissuto ciò che è al vertice della nostra fede cristiana e del Vangelo! Dare la propria vita per coloro che si amano... Questo fatto ha riecheggiato nella vita personale del nostro priore di Tibhirine; egli pensava di non poter fare altro che dare la sua vita, a sua volta, per il popolo algerino. Non poteva sapere cosa poi sarebbe successo, ma era già la disposizione del suo cuore.
La bellezza e il lavoro dello Spirito SantoQuesta storia mostra, se uno lo vuol vedere - e crederci - che lo stesso Spirito agisce negli uomini di fede e di preghiera che si lasciano guidare da Dio. Era la passione di Christian scoprire la bellezza e l'operato dello Spirito Santo in ognuno, e di cooperarvi, incoraggiarlo. Senza alcun desiderio di proselitismo. Questa è la nostra specificità.
Una volta ho incontrato un uomo, in un eremo di Charles de Foucauld, che voleva attirare i musulmani a diventare Cristiani... Noi diamo un significato diverso alla parola conversione: anche noi abbiamo bisogno di convertirci a Dio, di ascoltare meglio la sua Parola e di viverla. Il primo punto, quindi, è diventare tu stesso migliore e più disponibile a Dio. Partendo da questo, lasciamo che il Signore agisca sull'altro, reciprocamente. Noi speriamo che questa azione dello Spirito cresca nell'uomo e gli consenta di rispondere fedelmente a ciò che Dio si aspetta da lui. Ma è opera di Dio, è Lui che fa il lavoro, in modo intimo. Esiste una forma di eguaglianza tra noi e colui al quale ci rivolgiamo: siamo tutti figli di Dio. A volte pensiamo che siamo più avanti, ma non è sempre sicuro ... a volte l'altro può essere più avanti di noi. Il Signore ci vuole tutti. Agisce nell'altro e in noi. Ciò deve essere incoraggiato da questa offerta di se stessi a Dio.
Dal 1993, dopo l'intrusione di un gruppo armato nel monastero, avevamo riflettuto e, dopo molti scambi d'opinione, abbiamo preso la decisione unanime di rimanere.
Molti ci fanno questa domanda: perché siamo rimasti a Tibhirine in quel momento? È un po' come quello che è accaduto a Christian: questo desiderio di scoprire l'anima musulmana, tramite una reciproca ricerca di Dio. Già nel 1993, dopo l'intrusione di un gruppo armato nel monastero, avevamo riflettuto e, dopo molti scambi di opinione, preso la decisione unanime di rimanere. Questo momento cruciale appare bene nel film "Uomini di Dio" (Xavier Beauvois, 2010, ndr). È la nostra vocazione, allora, che era in gioco. Rimani o parti? Rimanere significava essere fedeli alla nostra vocazione, al motivo per cui Dio ci aveva voluto lì. Andarsene, sarebbe stato come un soldato che lascia il fronte per paura del pericolo, quando lui non comanda, che la sua vita è al servizio di ciò per cui è stato mandato. Qualunque cosa costi. Non potevamo andarcene per questo: questa missione la riceviamo, la viviamo, l'abbiamo dentro di noi.
L'amore prevarrà sull'odio
Dopo il rapimento dei nostri fratelli nel 1996, quando rimanemmo soli con padre Amédée (morto nel 2008, ndr), eravamo determinati a continuare. Per prima cosa volevamo rimanere a Tibhirine per proseguire l'opera di Dio e accoglierla in mezzo agli eventi che ci avesse dato di vivere. Avevamo anche pensato che i nostri fratelli potessero essere liberati e quindi dovevamo aspettarli ...
Più tardi, quando la loro morte fu confermata, pensammo di accogliere altri fratelli, per rilanciare la vita monastica con lo stesso spirito. Ma le forze militari hanno insistito perché partissimo, per la nostra sicurezza.
Ci portarono ad Algeri, in una casa diocesana, poi raggiungemmo il Marocco, come era stato concordato con i nostri fratelli scomparsi: se, nonostante il nostro desiderio di rimanere, ci fossimo dispersi, avevamo deciso all'unanimità di incontrarci a Fez - un annesso di Tibhirine aperto dal 1988.
Quello che era certo, era che se fossimo stati costretti a lasciare l'Algeria, saremmo rimasti in un paese musulmano. Nel monastero di Notre Dame de l’Atlas, a Midelt, viviamo come una continuazione di Tibhirine. È la stessa comunità che si è trasferita e vogliamo continuare a vivere di tali amicizie, perché è questo l'essenziale del nostro "dialogo islamo-cristiano". I nostri martiri in Algeria ci stimolano oggi - e probabilmente per molti anni a venire - a credere che l'Amore prevarrà sull'odio e sulla violenza che esso genera.
Un desiderio di condividere
I nostri legami con la popolazione locale si riassumono nella convivialità, attraverso tutte le questioni concrete della vita quotidiana. La nostra regola di solito impone una stretta clausura, ma non si può vivere qui come in un paese della cristianità: ci devono essere cose che passano tra le due comunità, per arrivare a una conoscenza e a una stima reciproca. Creare dei legami è essenziale per dialogare e accogliere lo Spirito che lavora in ciascuno.
Questo scambio è facilitato dall'ospitalità del popolo berbero ... Penso in particolare allo spuntino di mezzogiorno offerto dai dipendenti musulmani del monastero: non possiamo evitarlo, dobbiamo andarci! (Ride). Ci piace, ovviamente, è un desiderio di condivisione. Questa è la carità: il desiderio di piacere a Dio, che ci chiede di essere buoni con gli altri. Durante la nostra quaresima, alcuni amici musulmani agiscono anche verso di noi come agirebbero tra di loro: ci offrono la loro zuppa del Ramadan.
Qui siamo quindi oranti tra oranti.
Il nostro ruolo di monaci, è principalmente quello di essere oranti. La nostra vita deve essere tutta una preghiera: è l'obiettivo della vita monastica. Gli antichi Padri del deserto, nei primi secoli, insistevano molto sulla purezza del cuore, quella disposizione permanente dell'essere proteso verso Dio, un traguardo che si raggiunge solo alla fine della vita. Per questo, ci esercitiamo nel corso della nostra giornata ad essere presenti a Dio. Questo è l'essenziale.
Assomiglia un po' a questo ciò che fanno i musulmani: hanno cinque preghiere distribuite nella giornata, in momenti specifici. Noi ne abbiamo sette, dalle vigilie alla compieta. Lo scopo di questa distribuzione della preghiera è di santificare le altre ore del giorno: ci strappiamo dalle attività materiali per lodare e riempirci di Dio. Anche quella dei musulmani ha questo obbiettivo. Qui siamo quindi oranti tra questi oranti. Le persone tra le quali viviamo spesso ci danno questo esempio: qualunque cosa facciano nella loro giornata, la fanno nel nome di Dio - "Bismillah", dicono. "
Cosa significa la frase "Monsignor Claverie e i suoi compagni"?
La causa di beatificazione dei martiri d'Algeria porta il nome di "Monsignor Claverie e i suoi compagni". Il termine "compagno" ha attraversato la storia della Chiesa. "È la traduzione usuale, ricevuta dal latino socius (socii al plurale), che si riferisce al fatto che i missionari non sono di solito inviati da soli, ma sempre in gruppi di almeno due che si accompagnano (Marco 6, 7, Luca 10, 1)," ci spiega Jean Duchesne, membro dell'Osservatorio Fede e Cultura. Così, un gran numero di martiri non sono soli, ad esempio i santi Blandina e Potino "e i loro 46 compagni", martiri del II° secolo a Lione. "La fede non è mai solitaria: è sempre trasmessa da altri, messaggeri di Dio, e porta frutto in quanto esige di non essere tenuta per sé ma condivisa, prima ancora che venga messa alla prova nel martirio", dice Jean Duchesne. I martiri in Algeria non hanno vissuto da soli la loro chiamata, hanno dato la loro vita fino alla fine "in un unico corpo di membri di Cristo".
     Anne-Laure Filhol

mercoledì 16 maggio 2018

I vescovi della Terra Santa: «Si ponga fine all’assedio di Gaza»

Di fronte alle notizie drammatiche di queste ultime ore l’Assemblea degli ordinari cattolici della Terra Santa, la Conferenza episcopale che riunisce i vescovi dei diversi riti, ha diffuso questa sera un appello. Lo riportiamo qui nella traduzione di Mondo e  Missione :


I vescovi della Terra Santa: «Si ponga fine all’assedio di Gaza»«È fonte di grave preoccupazione apprendere che sessanta palestinesi sono stati uccisi ieri e circa tremila sono rimasti feriti nelle proteste che si sono tenute vicino al confine di Gaza con Israele.
Queste vittime – o almeno la maggior parte di loro – si sarebbero potute evitare se mezzi non letali fossero stati utilizzati dalle forze israeliane.
Facciamo appello a tutte le parti coinvolte affinché rinuncino alla violenza e trovino strade per porre fine appena possibile all’assedio imposto su circa due milioni di persone che vivono nella Striscia di Gaza.
Nel frattempo, ieri, siamo stati anche testimoni dello spostamento dell’ambasciata americana nello Stato di Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Come abbiamo già detto in passato, qualsiasi mossa o decisione unilaterale sulla Città Santa di Gerusalemme non aiuta a far avanzare la pace tra israeliani e palestinesi, tanto attesa.
Cogliamo l’occasione per esprimere il nostro impegno in favore della posizione – espressa numerose volte dalla Santa Sede – che esprime la necessità di rendere Gerusalemme una città aperta a tutti i popoli, il cuore religioso delle tre religioni monoteiste, e di evitare misure unilaterali. Crediamo che non ci sia ragione per impedire alla Città di essere la capitale di Israele e della Palestina, ma ci si potrà giungere solo attraverso il negoziato e il rispetto reciproco.
Di fronte a questi tristi sviluppi, e mentre la Festa della Pentecoste si avvicina, chiediamo specificamente a tutte le Chiese e più in generale a tutti i popoli di elevare le proprie preghiere a Dio Onnipotente affinché porti la pace e la giustizia ai popoli della Terra Santa, del Medio Oriente e del mondo intero. Per questo invitiamo le nostre e tutte le altre Chiese e i fedeli delle altre religioni a pregare per la pace e la giustizia in Terra Santa».

Già questa mattina l’amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa, aveva diffuso una sua lettera in cui – ricordando come «ancora una volta siamo costretti dalle circostanze a chiedere e gridare per la giustizia e la pace» – invita a una giornata di digiuno e di preghiera per la Terra Santa che si terrà sabato 19 maggio, alla viglia della Pentecoste. 
A tutti i sacerdoti, i religiosi e le religiose e ai fedeli della diocesi latina di Gerusalemme,
Il Signore vi dia pace!
In questi giorni assistiamo all’ennesima esplosione di odio e violenza, che sta insanguinando ancora una volta la Terra Santa. La vita di tanti giovani ancora una volta è stata spenta e centinaia di famiglie piangono sui loro cari, morti o feriti. Ancora una volta, come in una sorta di circolo vizioso, siamo costretti a condannare ogni forma di violenza, ogni uso cinico di vite umane e di violenza sproporzionata. Ancora una volta siamo costretti dalle circostanze a chiedere e gridare per la giustizia e la pace!
Questi comunicati di condanna ormai si ripetono, simili ogni volta l’uno all’altro.
Invito tutta la comunità cristiana della diocesi ad unirsi in preghiera per la Terra Santa, per la pace di tutti i suoi abitanti, per la pace di Gerusalemme, per tutte le vittime di questo interminabile conflitto.
Dobbiamo pregare di più per la pace e per la nostra conversione, e per quella di tutti.
Dobbiamo veramente pregare lo Spirito affinché cambi il nostro cuore per meglio comprendere la Sua volontà e darci la forza di continuare ad operare per la giustizia e la pace!
Invito inoltre tutta la diocesi – parrocchie, comunità religiose, associazioni e movimenti – in questi giorni di preparazione alla solennità di Pentecoste a dedicare una giornata di preghiera e digiuno per la pace di Gerusalemme e a fare in modo che la liturgia del giorno di Pentecoste sia accompagnata dalla preghiera per la pace.
In Cristo,
Gerusalemme, 15 maggio 2018
+Pierbattista Pizzaballa
Amministratore Apostolico

lunedì 14 maggio 2018

Israele e i suoi progetti

Per esercitare la nostra mente e il nostro spirito critico...


Un grande intellettuale ebreo israeliano, acceso oppositore del sionismo.
  Israel Shahak nacque a Varsavia il 28 Aprile 1933. Nel 1943 i nazisti lo deportarono insieme alla madre nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Scampati alla shoah, nel 1945 emigrarono in Palestina. Fece il servizio di leva presso una unità di élite dell'esercito israeliano. Frequentò la Hebrow University a Gerusalemme dove si laureò in chimica nel 1961.
Sin da giovane fu critico verso numerosi aspetti deleteri dell’ebraismo classico (compreso il razzismo), verso la natura reazionaria del sionismo e l'oppressivo carattere sionista dello stato di Israele.
Era apprezzato in Israele e nel resto del mondo. Anche presso gli Arabi. Morì il 2 luglio 2001.
Per più di trenta anni denunciò strenuamente la negazione dei diritti umani in Israele e l'oppressione del popolo palestinese, sostenendo, in quanto sopravvissuto alla shoah, che gli oppressi possono divenire a loro volta oppressori. Per Edward Said era "un uomo coraggioso che dovrebbe essere onorato per i servizi che ha reso all'umanità" e per Gore Vidal "l'ultimo, ma non l'ultimo dei grandi profeti’’
Shahak non amava le organizzazioni ebraiche negli USA e criticava il loro cieco allineamento alla politica del governo israeliano nei confronti degli Arabi e in particolare dei Palestinesi. Li accusava di esercitare pressioni per soffocare il dissenso e di servirsi dell'olocausto per ottenere finanziamenti e sostegno politico. A causa di ciò fu anche minacciato di morte.
Pubblicò tre libri tra il 1994 ed il 1999.
In "Jewish fondamentalism in Israel" metteva in evidenza l'influenza e il potere del fondamentalismo ebraico in Israele, prendendo soprattutto in esame la sua natura antidemocratica, il suo sviluppo e le sue diverse correnti.
La natura antidemocratica del fondamentalismo ebraico è sottolineata dall’analisi sulle connessioni tra alcuni degli aspetti negativi del sionismo e i filoni del giudaismo ortodosso classico.
In Open Secrets: Israeli Nuclear and Foreign Policies (Pluto, 1997), Shahak analizzava la politica estera israeliana - tra il 1992 ed il 1995 - tesa a condurre una pratica segreta di espansionismo su molti fronti per conseguire il controllo della Palestina e dell'intero Medio Oriente. Con effetti devastanti non soltanto per l’area mediorientale, come possiamo vedere oggi noi Europei colpiti dal problema-alibi del terrorismo, che giustifica la brama dei guerrafondai e dagli effetti sociali e politici conseguenti all'arrivo straordinario di centinaia di migliaia di profughi costretti dalla brutalità di una guerra pluridecennale ad abbandonare i loro Paesi. O dalle ricadute negative sui rapporti commerciali e culturali con la sponda sud del Mediterraneo, che contribuiscono ad impoverirci.
A Israel Shahak si deve la traduzione dall’ebraico all’ inglese del Piano sionista per il Medio Oriente. Da Oded Yinon "Una strategia per Israele negli anni Ottanta"
Yinon è un ex alto funzionario del ministero degli Esteri israeliano.
Ne pubblichiamo di seguito alcuni paragrafi legati alla stretta attualità.

       Maria Antonietta Carta

Risultati immagini per oded yinon biography
" § 22 Il fronte occidentale, che in superficie appare più problematico, è di fatto meno complicato del fronte orientale, dove la maggior parte degli eventi che dettano i titoli ai giornali hanno avuto luogo di recente. La dissoluzione totale del Libano in cinque province, serve da precedente per tutto il mondo arabo, inclusi Egitto, Siria, Iraq e penisola arabica, e sta già seguendo quell’orientamento. La dissoluzione di Siria e Iraq in aree etnicamente o religiosamente e uniche come in Libano, è l'obiettivo primario di Israele sul fronte orientale nel lungo periodo, mentre la dissoluzione del potere militare di questi stati costituisce l'obiettivo primario a breve termine. La Siria cadrà a pezzi, in conformità con la sua struttura etnica e religiosa, divisa in diversi stati, come in oggi il Libano, in modo che ci sarà uno stato sciita alawita lungo la sua costa, uno stato sunnita nella zona di Aleppo, un altro stato sunnita a Damasco ostile al suo vicino del nord, e i drusi che si insedieranno in uno stato forse anche nel nostro Golan, e certamente nel’Hauran e nel nord della Giordania. Questo stato di cose sarà la garanzia per la pace e la sicurezza nella zona, nel lungo periodo, e questo obiettivo è già alla nostra portata oggi.
§ 23 ’Iraq, ricco di petrolio da una parte e lacerato internamente dall'altra, è un candidato garantito per gli obiettivi di Israele. La sua dissoluzione è ancora più importante per noi di quella della Siria. L'Iraq è più forte della Siria. Nel breve periodo è il potere iracheno che costituisce la più grande minaccia per Israele. Una guerra Iraq-Iran ridurrà in pezzi l'Iraq e provocherà la sua caduta, anche prima che sia in grado di organizzare un ampio fronte di lotta contro di noi. Ogni tipo di confronto inter-arabo ci aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada verso l'obiettivo più importante, dividere l'Iraq come in Siria e in Libano. In Iraq, una divisione in province lungo linee etnico-religiose, come in Siria durante il periodo ottomano è possibile. Così, tre o più stati esisteranno attorno alle tre principali città: Bassora, Baghdad e Mosul. Le zone sciite nel sud separate da quelle sunnita e curda del nord. E' possibile che l'attuale scontro iraniano-iracheno approfondisca questa polarizzazione.
§ 31 La nostra esistenza in questo paese è certa, e non vi è alcuna forza che potrebbe mandarci via da qui né con la forza né con l’inganno (come ha fatto Sadat). Nonostante le difficoltà dell’errata politica di pace, del problema degli arabi israeliani e di quelli dei territori, siamo in grado di affrontare efficacemente questi problemi nel prossimo futuro."

Per chi volesse conoscere il Piano Yinon nella sua interezza ecco il link:

Rimandiamo anche a un precedente articolo sul tema : 

domenica 13 maggio 2018

Vita e morte dei cristiani d’Oriente

mons George Saliba, vescovo siro-ortodosso di
Mont-Liban e di Tripoli
"Se la situazione rimane come è ora, i Cristiani del Medio Oriente scompariranno in un decennio, anche in Libano"

Mons Saliba, tuttavia, non è un pessimista. È un uomo tenace di forza e fede. Originario della Siria, appartenente ad una comunità vittima di massacri e spostamenti, è più consapevole di altri della fragilità dei cristiani in Medio Oriente. 

"Il 70% dei cristiani siriani hanno lasciato il paese dall'inizio della guerra nel 2011. Il paese aveva più di due milioni di cristiani di tutte le comunità. Vivevano principalmente ad Aleppo, Damasco, Wadi al-Nassara e Hasakah (zona conosciuta nel mandato francese come al-Jazeera, e che comprendeva una serie di minoranze). 
L'85% dei cristiani in Iraq, che nel 2003 erano circa 1,5 milioni alla caduta di Saddam Hussein, non vivono più nel loro paese. Il loro esodo si è accelerato con l'arrivo di ISIS nel 2014. 
Questi cristiani sfollati dal Medio Oriente si sono stabiliti in Canada, Australia ed Europa in paesi come Germania, Svezia, Paesi Bassi e Belgio. 

"I cristiani che hanno lasciato la regione non torneranno più in patria. Si raduneranno con le loro chiese e i loro figli gradualmente perderanno la loro appartenenza al Medio Oriente. 1400 anni fa, abbiamo perso l'uso del nostro linguaggio aramaico a causa delle conquiste musulmane. Oggi, a causa del fondamentalismo islamico, alla fine perderemo la lingua araba che abbiamo imparato perfettamente ", insiste Mons. Saliba, uno studioso che conosce a memoria migliaia di poesie nelle lingue aramaiche e arabe. 
"In Libano, vi sono molti cristiani della comunità siriaca, che attualmente conta 80.000 anime. La maggior parte di loro discendenti dei sopravvissuti di massacri Seifo nel 1916 sotto Impero ottomano, non detiene la cittadinanza libanese. Questo è uno dei motivi che li ha spinti a partire ".


"Il futuro appartiene all'Islam" 
Per la maggioranza dei cristiani in Oriente, il Libano, con il suo presidente maronita, la sua amministrazione mista, la sua libertà di culto e il suo pluralismo, rimane il paese ideale, che essi sognano come rifugio. 

"L'unico capo di stato libanese che aveva capito l'importanza del Libano per i cristiani d'Oriente era Camille Chamoun. Aveva lavorato concretamente durante il suo mandato (1952-1958) per fare del Libano un paese rifugio per tutti i cristiani orientali. Da allora, nessuno è mai stato sensibile alle testimonianze dei cristiani in Turchia, Palestina, Siria, Iraq e Giordania ", osserva.  Camille Chamoun aveva aiutato molti cristiani della regione che vivevano in Libano ad avere accesso alla nazionalità libanese, sapendo che questa nazionalità non è acquisita dal diritto del suolo (ius soli) ma dal diritto del sangue (ius sanguinis).
Il vescovo Saliba ha detto in risposta a una domanda: "Dobbiamo affrontare i fatti, è necessario che i leader politici cristiani libanesi si sveglino, credano davvero nel pericolo e agiscano di conseguenza. Ma visto come stanno le cose, non sono affatto ottimista al riguardo. "

"I siriaci (come gli Armeni, gli Assiri e i Greci di Costantinopoli) sono discendenti di sopravvissuti a massacri. Sì, abbiamo molte chiese in Turchia, da visitare sia in Abdeen, a Diarbakir, in Urfa, o Mardin ... Sì, sono belle e antiche, a testimoniare l'antica cristiana appartenenza della regione. Ma a cosa servono se sono vuote e chiuse, se non ci sono più parrocchiani?" martella il vescovo siriaco-ortodosso, prima di continuare: "Dicono che l'area del Libano è di 10 452 km². Per cosa sarà usato questo territorio se questo paese viene svuotato dai suoi Cristiani? ".


Per Saliba, un uomo aperto e tollerante la cui porta è aperta a tutti, "il futuro appartiene all'Islam". 

"Guarda cosa sta succedendo in Europa in questo momento. L'Occidente è ateo, con i cambiamenti demografici e lo spostamento delle popolazioni che si stanno verificando oggi, alla fine diventerà islamico. Questa islamizzazione non riguarda solo il Medio Oriente in cui i cristiani sono scomparsi, ma l'intera Europa che non solo diventerà atea, ma anche musulmana", dice in conclusione.

https://www.lorientlejour.com/article/1110721/-a-quoi-servent-les-eglises-si-elles-sont-vides-et-fermees-.html

lunedì 7 maggio 2018

mons Abou Khazen: «..e sono assolutamente contro i corridoi umanitari che non sono altro che un invito a lasciare il Paese».

Tre vescovi che non si arrendono

di Michele Zanzucchi

«Il simbolo della guerra attuale sono i 15 km del suq di Aleppo che sono stati distrutti: erano Patrimonio mondiale dell’Unesco. Sono stati distrutti per il disegno di spartizione della Siria, alla caccia del petrolio e del gas del nostro sottosuolo. Che altro scopo può avere la presenza, ad esempio, di 2 mila soldati statunitensi? Difendere i curdi? Li hanno abbandonati, si contano ormai 3.600 morti. È stata operata una distruzione sistematica delle infrastrutture del Paese, in un’offensiva i bombardieri Usa hanno distrutto i 32 ponti sull’Eufrate ed è stata danneggiata la diga che trattiene un invaso di 85 km: l’irrigamento ormai è un ricordo nella regione. 23 gruppi etnici e religiosi erano un bel mosaico, chissà in futuro. Con l’arrivo dei russi qualcosa s’è mosso, e ormai in 5 mila villaggi c’è stata resa delle armi e un inizio di riconciliazione. Ora bisogna riaprire le scuole».   Mons. Georges Abou Khazen, vicario apostolico dei latini, francescano, entra in materia molto decisamente. Come tutti (o quasi) i cristiani rimasti in Siria sceglie la continuità dello Stato siriano: «C’è una proposta di nuova costituzione laica: per la Siria sarebbe un passo in avanti nella cittadinanza, perché la vecchia costituzione verrebbe epurata da alcune tracce di shari’a. Anche il muftì di Aleppo la accetterebbe. E verrebbe introdotta anche la possibilità di cambiare religione».
Racconta di un progetto in comune col muftì: «Vogliamo occuparci dei bambini abbandonati di Aleppo, spesso nati per le relazioni estemporanee di soldati o ribelli con donne del popolo, senza che poi vi sia stato riconoscimento alcuno dei nuovi nati. Si chiama “Un nome e un avvenire”. Abbiamo trovato due centri, uno già è in funzione, l’altro aprirà tra pochi giorni: vogliamo dare un nome a questi bimbi e un supporto scolastico adeguato, cercando pure di realizzare eventuali “ricongiungimenti familiari”. Non sarà un centro per far dormire i bambini, ma un centro per risolvere alla radice i loro problemi. Nell’Islam non c’è adozione, ma qualcosa si può egualmente fare, si può accogliere in famiglia un bambino dandogli il nome, ma dichiarando pubblicamente che quel piccolo non è figlio naturale della coppia. A 18 anni il ragazzo partirà di casa».
Cosa fare per i giovani siriani che se ne vanno? «Abbiamo già fatto molto, ma quando non c’è più cibo, né sicurezza, la battaglia è difficile. La guerra ormai dura da 7-8 anni, i giovani si sono trovati a combattere contro loro coetanei che magari erano loro amici, e poi la scia di morti e feriti è stata senza fine, e così i mutilati che non trovano ancora protesi, mentre le famiglie si sono smembrate, gli anziani sono stati abbandonati a loro stessi e hanno dovuto bruciare persino le loro scarpe per scaldarsi d’inverno! Solo cessando la guerra i giovani torneranno. Ci interroghiamo se ora è giusto aiutare i profughi all’estero: credo che si debba aiutare la gente a restare, solo a restare. In questo senso sono assolutamente contro i corridoi umanitari che non sono altro che un invito a lasciare il Paese».

Mons. Audo
È invece gesuita e caldeo, mons. Antoine Audo, una delle voci più ascoltate in Occidente della Siria cristiana. Commenta l’ultimo raid americano-franco-britannico: «È stato un momento molto triste, mi dice, ma nel contempo è chiaro ormai che l’esercito siriano, col supporto russo, sta vincendo la guerra. È stato in qualche modo un atto di frustrazione degli sconfitti. I leader occidentali vogliono umiliare il presidente Assad, ma con lui dovranno trattare. E sullo sfondo ci sono le grandi questioni del petrolio, del commercio delle armi, della lotta tra sciiti e sunniti, della presenza di Israele. La Chiesa cattolica deve dire la verità e portare a un dialogo vero tra sunniti e sciiti qui in Siria».
Passiamo a parlare dei bimbi di strada, anche con mons. Audo: «Spesso hanno traumi sessuali, sono stati violentati, non sanno cosa voglia dire avere una madre. È una novità per la Siria, un Paese ben organizzato e a suo modo ricco. Ma non tutti i bimbi sono così. Sono rimasto stupito dalla forza dei bambini di Aleppo Est che hanno una straordinaria capacità di adattamento, di sopravvivenza, che gli europei nemmeno sospettano che esista. Anche gli anziani hanno maturato una loro forza di resistenza: lo vedo in alcuni centri che abbiamo aperto per loro. Sono soprattutto musulmani. Qualcuno arriva ad accusarmi di aiutare i musulmani invece dei cristiani: ne sono orgoglioso, anche se non dimentico i fedeli delle nostre Chiese cristiane». Continua sulla questione musulmana: «I musulmani hanno scoperto in questa guerra un po’ meglio le qualità dei cristiani, soprattutto per le attività umanitarie che abbiamo organizzato. Lo sguardo è rinnovato. Ma i cristiani hanno invece perso la fiducia nei musulmani, a causa del fanatismo di gruppi armati, soprattutto pagati e ispirati dall’estero. Qui ad Aleppo tanti cristiani usano parole aggressive nei confronti dei musulmani, ma non è giusto».
La Chiesa si è trasformata in una Ong? «No. Non è il nostro scopo quello di fare solo opere di solidarietà. Bisogna resistere spiritualmente e intellettualmente, evitando lo scadimento delle qualità della comunità cristiana in Siria, come in Iraq». La sfida? «Mantenere la speranza. Rileggo in questo periodo von Balthasar e altri teologi: quello che non avevo capito nelle loro riflessioni ora mi sembra di capirlo. La guerra porta anche all’intelligenza della fede. E con questa intelligenza dobbiamo ricostruire le basi di un Paese prospero come la Siria».
Cosa sarà la Siria tra 5 anni? «Bisognerà vedere se anche il regime Baas saprà riconoscere i propri sbagli, le proprie ingiustizie, nella ricerca di un dovere della verità. Con la violenza non si arriverà a nessun cambiamento vero. La Chiesa ha il dovere di lavorare per il cambiamento, anche se siamo deboli. Anche la nostra influenza nella politica e nell’esercito è molto diminuita in questa guerra, anche se ci sono cristiani validissimi, come cinque ministri. Ma speriamo, sempre».
Jean-Clement Jeanbart

Ci riceve in un episcopio provvisorio, un semplice appartamento, perché la sua cattedrale è stata distrutta. L’arcivescovo greco-cattolico di Aleppomons. Jean-Clement Jeanbart, ha un carattere di ferro: «Questa è una terra santa – esordisce – che va preservata assolutamente, curata e sostenuta. La Siria ha dato 7 papi a Roma, il Vaticano deve riconoscenza a questa Chiesa. Non bisogna in alcun modo favorire la diaspora, bisogna incoraggiare tutti i cristiani a rimanere da queste parti, anche pagando il loro ritorno, sostenendoli con nuovo lavoro… 40 persone sono tornate negli ultimi mesi nella nostra comunità. Il papa deve dire chiaro e forte non solo: “Cristiani rimanete in Siria”, ma anche: “Cristiani tornate in Siria”. Anche perché le Chiese d’Oriente possono aiutare le loro consorelle d’Occidente a ritrovare i valori fondanti del cristianesimo».
Il presente è in chiaroscuro: «Per Pasqua ho celebrato messe per 4 mila persone. Non poche. Ora bisogna riaprire scuole, istituzioni e chiese danneggiate o distrutte, perché solo così il Paese ritroverà un suo ruolo nella comunità internazionale. Ma per far questo dobbiamo mantenere la laicità del Paese, e così sopravvivremo. Questo influenzerà positivamente anche l’Islam, perché senza libertà religiosa non si potrà sopravvivere da queste parti. Non bastano i soldi, serve libertà».