Traduci

domenica 10 settembre 2017

Cosa ne è stato della comunità cristiana di Palmyra?

L'antica città di Palmyra fu sede di una piccola comunità cristiana che ora vive in esilio. L'arcivescovo siro-cattolico di Homs, accompagnato da alcuni sacerdoti, è tornato alle rovine della parrocchia distrutta.
 di Vincent Gelot, di ritorno dalla Siria
Un segno della croce, qualche preghiera sussurrata in punta di labbra e un rosario appeso allo specchietto retrovisore. "Non dimenticate di prendere da bere" ricorda l'arcivescovo siro cattolico Philippe Barakat di Homs ai sacerdoti che lo accompagnano. L'automobile si avvia a passo d'uomo. Gli sguardi dei passeggeri sono ansiosi. "La strada per il deserto sarà lunga e questa è la prima volta che siamo tornati a Palmyra da quando l'esercito siriano l'ha riconquistata." confida il prelato barbuto, accendendo freneticamente la prima sigaretta del viaggio. "Non sappiamo su cosa andremo a cascare", mormora. Conquistata dall'organizzazione Stato Islamico (ISIS o Daech in arabo) nel maggio 2015, la città emblematica era stata ripresa nel marzo 2016 da parte dell'esercito siriano, sostenuto dai suoi alleati russi e iraniani, prima di cadere nuovamente nove mesi più tardi in mano a Daech. Riconquistata ai jihadisti nel marzo di quest'anno, alla città è ancora vietato l'accesso, i permessi di accesso sono complicati da ottenere, e la distanza di 160 km. in linea d'aria da Homs permane pericolosa.
Una cappella discreta ma colorata
Celebre per il suo antico sito archeologico, Palmyra (o Tadmor come gli Orientali la chiamano) lo è molto meno per la sua piccola comunità cristiana e per la sua modesta chiesa. "La parrocchia è dedicata a Santa Teresa del Bambin Gesù e risale al periodo del mandato francese. I Francesi l'avevano donata alla diocesi siriaco cattolica di Homs alla fine del mandato ", spiega il vescovo Barakat.
Situata nel cuore della città moderna, lungo la Via Regale decantata dalle guide turistiche, dove alberghi-ristoranti rivaleggiavano con i negozi di souvenir, la chiesa, la cui comunità parrocchiale era composta da cinque famiglie siriache e centinaia di fedeli di tutti i riti, "era una parrocchia molto colorata", ricorda padre Georges Khoury, il sacerdote di Palmyra. "Durante la Messa della Domenica, c'erano albergatori armeni, mercanti greci, soldati, lavoratori ... e persino turisti stranieri di passaggio!” Il cellulare dell'abuna (Padre) vibra. Uno dei suoi parrocchiani gli ha chiesto di fotografare la condizione della sua casa. Dopo la riconquista di Palmyra nel marzo scorso, la zona è ancora sotto controllo militare e nessun civile ha potuto tornare sul posto.
Il deserto, ocra e grigio, si stende a perdita d'occhio. L'auto prosegue la sua corsa lungo l'antico percorso, una volta utilizzato da carovane e cammelli, adesso trasformato in un asfalto deformato dal calore soffocante di agosto e malridotto dal passaggio continuo dei camion militari. La monotonia del viaggio è a volte interrotta dai posti di blocco dell'esercito siriano, dal passaggio di carri armati russi, auto blindate con mitragliatori e pickup recanti la bandiera gialla e nera della divisione "Fatimidi" una milizia sciita composta da combattenti afghani. D'un tratto, la strada si trova a correre a lato di un aeroporto militare per diversi chilometri. "Si tratta della base aerea T4, che ha svolto un ruolo chiave nella seconda riconquista di Palmyra" commenta il vescovo. "I terroristi hanno tentato più volte di prenderla senza mai riuscirvi." Inseguiti dopo una feroce battaglia, le milizie di Daech sono state respinte indietro di un centinaio di chilometri a est verso Deir-ez-Zor, dove i combattimenti continuano.
"Ho pianto molto"
Le ore passano, l'orizzonte si apre e le lingue si sciolgono. Incollando le sigarette, Padre Georges ricorda quel 21 maggio 2015 quando gli uomini di Daech entrarono in Palmyra: "L'esercito governativo è venuto ad avvisarci che i jihadisti stavano avvicinandosi. Ho noleggiato autobus e automobili malridotte per evacuare le nostre famiglie verso Homs. Sette ore più tardi, Daech prese possesso di Palmyra.". Poi, saranno gli anni dell' esilio, ancora di guerra e di privazioni, dove anche la sua comunità ha trovato rifugio nella frazione di Meskané alla periferia rurale di Homs: "Le famiglie sono rimaste parecchi mesi ad abitare nei locali della parrocchia. Ma la situazione si trascinava e non c'era lavoro, per cui le famiglie hanno finito per trasferirsi altrove o emigrare". La popolazione cristiana della Siria, che contava due milioni di anime prima dell'inizio della insurrezione nel 2011, adesso sarà all'incirca un terzo di allora.
A tutt'oggi, Padre Georges ha in cura la Parrocchia di Meskané mentre fa il "commesso viaggiatore" per visitare i suoi fedeli di Palmyra sparsi in tutta la regione: "Io porto loro cesti di cibo, medicine, vestiti, garantendo nel contempo la cura pastorale. Ho anche celebrato diversi battesimi e alcuni matrimoni!" Nel corso di questi anni bui, ha assistito da lontano, impotente e inorridito, alla messa in scena delle esecuzioni nel teatro antico, dove secondo l'OSDDH circa 280 persone sono state massacrate, e alla distruzione di monumenti storici. "Palmyra era la perla dell'Oriente e l'orgoglio di tutti i Siriani. Il giorno in cui han fatto saltare i templi di Baalshamin e di Bêl ho pianto molto ", ammette Padre Georges, che - sulla quarantina - ha vissuto a Palmyra per dieci anni ed era diventato un familiare dell'antico sito al quale L'UNESCO ha attribuito un "valore universale eccezionale".
Improvvisamente, la cittadella araba di Fakhr-Ed-Din, una fortezza del XII° secolo, appare in cima al suo picco roccioso. Le bocche si zittiscono. Entriamo in Palmyra.
Il perdono degli antenati
La città moderna di Palmyra potrebbe assomigliare a un castello di carte collassato o a un villaggio fantasma del far-west dopo l'OK Corral. Barricate tra edifici rovinati, minareti abbattuti in mezzo a veicoli bruciati, ovunque tracce di saccheggi e combattimenti stradali, ma non un'anima viva ad eccezione dei soldati di pattuglia. Adiacente ad una piazzetta con la fontana a secco, dove gli abitanti amavano alla sera prendere il fresco dell'oasi, fumando un narghilé, un "caffè turistico" in agonia è in attesa del cliente. "La città è in condizioni molto peggiori della prima volta", dice abuna Georges che era ritornato a vederne lo stato dopo la prima riconquista di Tadmor nella primavera del 2016. "Non promette niente di buono", sbotta.
Il prete invita il conducente a fermarsi. Il veicolo parcheggia davanti a quella che, prima del suo visibile stato miserabile, doveva essere una cappella. All'interno, l'altare è devastato, le lastre del pavimento sono state strappate e le pareti sono carbonizzate. Padre Georges è prostrato: "Dopo la prima partenza degli islamisti, la chiesa era stata saccheggiata ma non bruciata. Ho anche pensato di rimetterla in uso almeno simbolicamente. Ma adesso è distrutta!" lamenta. Adiacente al santuario, la casa di accoglienza ha subito lo stesso destino. Sostenuto dall'Oeuvre d'Orient, questo Centro con una dozzina di camere aveva come obbiettivo la creazione di posti di lavoro e stimolare la comunità cristiana locale accogliendo i visitatori e i pellegrini. "Abbiamo iniziato i lavori del centro nel 2010. Il sito stava per essere completato. Che spreco!" si rammarica Monsignor Barakat e conclude: "Che i nostri antenati e i nostri figli perdonino ciò che abbiamo fatto della Siria!". 
Prima di lasciare i luoghi, facciamo un salto all'antico sito. Il veicolo passa davanti al museo archeologico, completamente saccheggiato e devastato. Dalla pista di ciottoli, l'ippodromo e i primi colonnati sfilano... "L'ottanta per cento del sito dovrebbe essere ancora in piedi" ha giudicato a lume di naso padre Georges, prima di aggiungere "Il sito rimane impressionante. Prima lo era due volte di più”. Veniamo bloccati dall'esercito nei pressi delle torri funerarie, anch'esse vittime della follia distruttiva dei jihadisti. Subito la strada è interrotta: “non potete andare oltre" ci avverte un uomo in armi, indicandoci di svoltare. Su un colonnato crollato per i tre quarti, di fronte alle immensità desolate e brucianti, lo stendardo dei "Fatimidi" vincitori, sormontato da una bandiera russa slavata, galleggia nel vento.
  Vincent Gelot, capo dei progetti per il Medio Oriente dell'Œuvre d’Orient
     traduzione: Gb.P.

venerdì 8 settembre 2017

“Il giorno della Natività della Vergine Maria – diceva il cardinal J.Ratzinger l’8 settembre 1991 – non è un compleanno come tanti altri...."

La natività di Maria nella tradizione bizantina





di Manuel Nin 
Osservatore Romano



La festa della natività della Madre di Dio, l’8 settembre, è celebrata nelle Chiese d’oriente e d’occidente, e parecchi testi bizantini per questa festa sono entrati nell’ufficiatura romana. Inoltre, l’inizio dell’anno liturgico bizantino, l’1 settembre, situa la natività di Maria come la prima delle grandi feste, allo stesso modo che il 15 agosto, la sua dormizione, è l’ultima grande festa, e in qualche modo la conclusione, dell’anno liturgico. La celebrazione, preceduta il 7 da una pre-festa, prosegue fino alla vigilia dell’Esaltazione della croce il 13 settembre. E già dalla vigilia la liturgia sottolinea la gioia per la nascita di colei che diventa la madre del Verbo incarnato.
I titoli dati a Maria quasi sempre vengono messi in parallelo con quelli cristologici: «Con la tua natività, o immacolata, sono sorti sul mondo i raggi spirituali della gioia universale, che a tutti preannunciano il sole della gloria, Cristo Dio. La Vergine ricettacolo di Dio, la Madre di Dio pura, il vanto dei profeti, la figlia di Davide, nasce oggi da Gioacchino e da Anna la casta, e rovescia col suo parto la maledizione di Adamo che ci colpiva. Tu sei stata madre del creatore di tutti».
Un tropario della vigilia riunisce dodici titoli dati a Maria presi da testi veterotestamentari interpretati in chiave cristologica e quindi anche mariologica: l’immagine dei monti dai salmi, la mensa e il candelabro dal libro dell’Esodo, il trono dalle profezie di Isaia e di Daniele, il roveto ardente ancora dal libro dell’Esodo: «Gioisci, ricapitolazione dei mortali; gioisci, tempio del Signore; gioisci, monte santo; gioisci, mensa divina; gioisci, candelabro tutto luminoso; gioisci, vanto dei veri credenti, o venerabile; gioisci, Maria, madre del Cristo Dio; gioisci, tutta immacolata; gioisci, trono di fuoco; gioisci, dimora; gioisci, roveto incombusto; gioisci, speranza di tutti».
Nel vespro per due volte si mette in evidenza il mistero e la teologia della festa. Per confermare la professione di fede nella vera incarnazione del Verbo eterno di Dio, l’autore di questo testo, Sergio patriarca di Costantinopoli nel VII secolo, presenta in parallelo il cielo e la terra, la dimora di Dio e quella dell’uomo, la terra che diventa per l’incarnazione del Verbo di Dio nel grembo di Maria dimora del Dio vivo: «Oggi Dio, che riposa sui troni spirituali, si è apprestato sulla terra un trono santo; colui che ha consolidati i cieli con sapienza nel suo amore per gli uomini si è preparato un cielo vivente: perché da sterile radice ha fatto germogliare per noi, come pianta portatrice di vita, la madre sua. O Dio dei prodigi, speranza dei disperati, Signore, gloria a te».
Un altro testo, dello stesso Sergio, propone anche una lettura ecclesiologica. Maria è il luogo dove si congiungono le due nature nel Verbo di Dio incarnato e la Chiesa diventa luogo della bellezza: «Venite, fedeli tutti, corriamo verso la Vergine, perché ecco, nasce colei che prima di essere concepita in seno è stata predestinata a essere madre del nostro Dio; il tesoro della verginità, la verga fiorita di Aronne che spunta dalla radice di Iesse, l’annuncio dei profeti, il germoglio dei giusti Gioacchino e Anna nasce, e il mondo con lei si rinnova. Essa è partorita, e la Chiesa si riveste del proprio decoro. Il tempio santo, il ricettacolo della divinità, lo strumento verginale, il talamo regale nel quale è stato portato a compimento lo straordinario mistero della ineffabile unione delle nature che si congiungono in Cristo: adorando lui, celebriamo l’immacolata nascita della Vergine».
L’anno liturgico bizantino si svolge tra le due grandi feste della Madre di Dio: la sua nascita e la sua dormizione. La vita di Maria percorre il mistero di Cristo, come quella della Chiesa che lo annuncia e lo celebra: «Oggi le porte sterili si aprono e ne esce la divina porta verginale. Oggi la grazia comincia a dare i suoi frutti, manifestando al mondo la Madre di Dio, per la quale le cose terrestri si uniscono a quelle celesti, a salvezza delle anime nostre. Oggi è il preludio della gioia universale. Oggi cominciano a spirare le aure che preannunciano la salvezza. La sterilità della nostra natura è finita, perché la sterile diventa madre di colei che resta vergine dopo aver partorito il creatore, di colei dalla quale colui che è Dio per natura assume ciò che gli è estraneo, e con la carne per gli sviati opera la salvezza».

mercoledì 6 settembre 2017

La geopolitica scrive la storia del calcio siriano.

Undici soldati 
La Siria prosegue la sua riconquista dentro e fuori dal campo: l’esercito rompe l’assedio di Deir Ezzor e la nazionale di calcio si qualifica ai playoff per i mondiali in Russia.


di Sebastiano Caputo 

Chi lo avrebbe mai detto che la Siria avrebbe vinto anche sul fronte calcistico.  Improvvisamente, non uno, ma due eserciti sono avanzati parallelamente per riprendersi tutto. Così mentre i valorosi soldati della Syrian Arab Army hanno appena rotto l’assedio di Deir Ezzor, una città sperduta nel deserto orientale letteralmente accerchiata per tre anni dai miliziani dello Stato Islamico, la nazionale di calcio ha conquistato per la prima volta nella sua storia la qualificazione ai playoff per i mondiali che si disputeranno in Russia nel 2018.  L’epopea individuale dell’eroico Issam Zahr al Din, druso eretico, comandante della 104a brigata paracadutisti della Guardia repubblicana, ora si intreccia con quella di Ayman Hakeem, allenatore delle “Aquile di Qasioun”, riuscito nell’impresa sportiva dopo aver pareggiato con l’Iran (già qualificato) nell’ultima sfida del girone.   Hard e soft power si mescolano, fino a confondersi, per ridare speranza ad un intero popolo devastato da una guerra sporca scoppiata nella primavera del 2011 e che ormai dura da oltre sei anni. Perché le lacrime di chi ha perso parenti e amici sacrificati sull’altare della patria possono asciugarsi per un attimo di fronte ad un passato che si allontana sempre di più. Il ritorno del calcio in Siria è anche sinonimo di ritorno alla normalità.
   Quella che i commentatori sportivi chiamavano la “Nazionale parallela”, una squadra nata nel luglio del 2014 a Tripoli (Libano) in cui figuravano ex giocatori professionisti, molti dei quali provenienti dalla ribelle Homs, è di fatto scomparsa qualche mese dopo insieme a tutti quei guerriglieri “moderati” sponsorizzati dal mondo occidentale e arruolatisi col passare degli anni nelle fila di Daesh o nelle costole di Jabhat Al Nusra, il ramo siriano di Al Qaeda.   Oggi a sventolare negli stadi asiatici e nelle strade in festa c’è solo il tricolore nero-bianco-rosso con le due stelle verdi al centro, anche se la squadra rimane in esilio per motivi di sicurezza dall’inizio del conflitto.   A causa della situazione economica dell’intero sistema-calcio siriano (premier league siriana interrotta poi ripresa con metà delle squadre, stadi vuoti per paura degli attentati, stipendi dei giocatori congelati, sanzioni, giovani talenti morti in guerra o arruolatisi nell’esercito) la nazionale stava per abbandonare la competizione, fino a quando il governo di Damasco è riuscito a firmare un accordo in extremis con la Malesia: l’Hang Jebeat Stadium di Malacca deciderà di ospitare tutte le partite casalinghe.
  Da quel giorno è iniziato il volo delle 23 “Aquile di Qasioun” che le ha portate a sconfiggere nelle ultime gare del terzo roundl’Uzbekistan (1-0) e il Qatar (3-1) e a pareggiare con la Cina di Marcello Lippi (2-2) e l’Iran (2-2) qualificatosi di fatto come primo del girone A. E’ la geopolitica a scrivere la storia del calcio siriano. La Repubblica Araba di Siria si è ritrovata sola contro Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Arabia Saudita, Turchia e Qatar. Con la scusa della violazione dei diritti umani, dopo le prime insurrezioni legittime e spontanee della popolazione, le cancellerie occidentali e i loro alleati della regione avevano puntato sulla destabilizzazione di un governo non allineato, quello di Bashar Al Assad, che è riuscito col passare degli anni a tessere una rete di alleanze da Beirut fino a Teheran passando per Baghdad.

   Senza dimenticare la  discesa in campo della Russia di Vladimir Putin che il 30 settembre del 2015 ha ribaltato il tavolo militare per tutelare l’accesso ai mari caldi (le basi di Tartous e Latakia) e difendere il suo più grande alleato in Medio Oriente.      Paradossalmente, nel mondiale che avrà come epicentro Mosca, la nazionale siriana raggiunge i playoff (sfiderà l’Australia e per poco non prendeva l’Arabia Saudita) battendo il nemico statuale qatariota – tra i Paesi sponsor dei jihadisti insieme a Riad – e pareggiando all’ultimo secondo con l’Iran – membro anche lui del cosiddetto “asse della Resistenza” – nella sfida decisiva del girone. Il telecronista più famoso di Damasco che grida “Allah” incarna la voce di un intero popolo che la sera della qualificazione è sceso a festeggiare ad Aleppo, Homs, Tartous, Latakia, unito, come se non si fosse mai diviso.
“Apparteniamo a tutte le confessioni – aveva dichiarato prima della partita il trequartista Abdelzaraq Al Hussain – cristiani, sciiti, e sunniti siamo tutti una famiglia, giochiamo per una squadra e per un solo Paese”.
  E’ lo specchio di quello che era la Siria prima delle infiltrazioni terroristiche foraggiate dalle nazioni menzionate sopra, un vero e proprio mosaico laico e multiconfessionale che, con tutti i suoi problemi interni, aveva sempre tutelato le minoranze etnico-religiose. Ma gli interessi privati di pochi sono diventati gli obblighi della comunità internazionale. Eppure Mister Hakeem – insieme ai tanti generali dell’esercito che in tutti questi anni non hanno mai disertato – ha ribaltato tutti i teoremi, persino quello sugli italiani di Winston Churchill:  i siriani vincono le partite di calcio come fossero guerre e vincono le guerre come se fossero partite di calcio. Ai playoff ci vorrà il mancino dell’ala Kharbin, la tenacia del capocannoniere Al Soma, la classe di Al Mawas, la grinta e le lacrime della saracinesca Almeh, erede dello storico portierone Mosab Balhous, per scrivere dentro e fuori dal campo la storia della liberazione della Siria.

http://www.rivistacontrasti.it/calcio/undici-soldati/

martedì 5 settembre 2017

Video: 'Aleppo: le macerie, la speranza'

Ringraziamo TV2000 per questo bel reportage, veritiero e commovente, che documenta la tragedia, la resistenza , la forza del popolo e della Chiesa di Aleppo

sabato 2 settembre 2017

100 milioni di dollari all'anno il ricavo dell'ISIS per il contrabbando di antichi reperti dall'Iraq e dalla Siria

Un artefatto distrutto in un museo, dove i militanti dello Stato islamico nel 2015 si sono filmati mentre distruggevano statue e sculture inestimabili durante la battaglia contro i militanti a Mosul, in Iraq, l'11 marzo.

di Callum Paton
I jihadisti dello Stato islamico (ISIS) ricavano annualmente fino a 100 milioni di dollari trafficando le antichità rubate dall'Iraq e dalla Siria e vendendole sul mercato nero. Il Wall Street Journal ha riferito che, mentre non è stato possibile calcolare una cifra precisa sull'ammontare delle entrate generate per l'ISIS dal commercio degli artefatti, un funzionario francese della sicurezza non nominato, ipotizza che sia di circa 100 milioni di dollari. Le stime provenienti da altre fonti variano da poche decine di milioni in su.
Il commercio di oggetti rubati dall'Iraq e dai siti storici della Siria è diventato importante per l'ISIS, in quanto il territorio da esso controllato, e come conseguenza la sua capacità di contare sui ricavi petroliferi, diminuisce. "L'ISIS sta intensificando questa linea di traffico per compensare la perdita dei ricavi petroliferi", ha dichiarato a un quotidiano un funzionario francese della sicurezza. Per molti affaristi siriani e contrabbandieri, provati dalla "guerra civile" di sei anni, la vendita di antichità è diventata una necessità. Un cosiddetto intermediario, Muhammad Hajj Al-Hassan, ha descritto come l'ISIS abbia invaso la sua casa in Siria e quasi lo abbia giustiziato sospettando la sua simpatia per l'esercito siriano libero (FSA). In seguito, con riluttanza, ha iniziato a commercializzare artefatti per l'ISIS destinati ad acquirenti europei, su richiesta di Abu Laith Al-Dairi, capo del gruppo che si occupa di questi reperti antichi.
L'importanza che l'ISIS pone sul commercio delle antichità si riflette nell'utilizzo di jihadisti stranieri da parte del gruppo per gestire le sue operazioni. Il quadro dei combattenti internazionali è considerato più fedele rispetto alle controparti locali. I locali sono autorizzati da ISIS a scavare nei siti archeologici per estrarre i reperti. I permessi erano inizialmente gratuiti, ma ora il gruppo impone circa il 20 per cento del valore di ogni oggetto estratto. ISIS chiede che tutti gli oggetti scoperti siano rivenduti direttamente al gruppo militante stesso; poi raggiunge i concessionari.
Hassan descrive come abbia recentemente venduto due Bibbie antiche per 11.800 dollari ad un acquirente russo in una città nel sud della Turchia. Le Bibbie provenienti dalla Siria orientale sono state poi estradate dalla Turchia, nascoste in un camion pieno di verdure. Hassan ha percepito una commissione del 25 per cento per mediare la vendita. Il resto dei profitti è stato dato al commerciante che ha trasportato le Bibbie in Turchia.
Un altro intermediario ha descritto come abbia pagato 1.000 dollari a una donna siriana che trasportava una statua di bronzo romana sul confine tra la Siria e la Turchia. Il reperto proveniva da Raqqa e potrebbe essere un falso.
Nel mese di luglio, l'Hobby Lobby di Oklahoma City è stato multato di 3 milioni di dollari per il suo acquisto illegale di manufatti ritenuti rubati nel 2010 e contrabbandati dall'Iraq. "Nel dicembre 2010 infatti, Hobby Lobby ha concluso un accordo per l'acquisto di oltre 5.500 manufatti, composti da tavolette e mattoni cuneiformi, sigilli a bolla di argilla e sigilli cilindrici, per 1,6 milioni di dollari", ha dichiarato al momento il Dipartimento di Giustizia. "L'acquisizione degli artefatti era piena di bandiere rosse (segnalazioni di rischio)".
   trad Gb.P.
https://steemit.com/politics/@sarahabed/isis-makes-up-to-usd100-million-a-year-smuggling-ancient-artifacts-from-iraq-and-syria

giovedì 31 agosto 2017

Diario di viaggio di un gruppo di italiani in Siria

Le macerie, la distruzione della guerra. Ma anche la letizia di una comunità cristiana che non smette di sperare. Tra attività, progetti per dare una casa a giovani coppie, oratori... 

Gianni Mereghetti 
Da Beirut il viaggio in auto per arrivare ad Aleppo è lungo. Il pericolo non si avverte, la strada è presidiata dai militari di Bashar al-Assad, ragazzi giovani ma che infondono comunque una certa sicurezza. I controlli sono superficiali, forse perché chi ci accompagna è molto conosciuto, l’impressione è che i due autisti facciano spesso questa tratta e sappiano il fatto loro. 
Homs vediamo i primi segni della guerra. Attraversiamo un lago salato asciutto per arrivare alla nostra destinazione: Aleppo. I check point si infittiscono, se ne incontra uno ogni duecento metri. Si cominciano a vedere palazzi abbattuti, case sventrate, strade irriconoscibili. Dopo otto ore siamo nel cuore della città martire di questa guerra. Nella distruzione della guerra cominciamo a vedere gente che si muove: è la città che vive, che vuole continuare a vivere dopo l’orrore della guerra.

Arriviamo nella parrocchia dei Francescani e ad accoglierci c’è padre Ibrahim Alsabagh, insieme ai i suoi collaboratori. Ci colpisce subito ritrovare il sorriso che in questi anni abbiamo visto tante volte stampato sulla faccia di padre Ibrahim, sui volti delle persone che incontriamo. È il primo contraccolpo dei quattro giorni che passeremo ad Aleppo, un viaggio che don Luciano e don Andrea hanno voluto intraprendere, rispondendo a un invito di padre Ibrahim e alla grande amicizia coltivata in questi anni con lui, a cui si sono aggiunti anche Angelo, Paolo e Matteo. 

Come è possibile che, in un luogo in cui si percepisce l’incombere della morte, sia presente una letizia più forte della distruzione provocata dalla guerra? Non abbiamo dovuto aspettare molto per trovare una traccia della risposta. Dopo aver pranzato, padre Ibrahim ci ha portato alla distribuzione dei pacchi alimentari per la comunità armena e lì, sui volti dei volontari, abbiamo rivisto la stessa letizia. 
  La distribuzione dei pacchi alimentari è certo la condivisione del bisogno di tante famiglie povere, ma ciò che muove questa risposta non è il loro pur encomiabile impegno, ciò che muove la risposta è la Presenza reale di Gesù. È l’esperienza dell’unità della fede, della sua capacità di abbracciare l’uomo per i bisogni che sente.
   Con l’abbraccio alla Comunità armena e con il gesto di preghiera con cui inizia la distribuzione dei pacchi alimentari, padre Ibrahim ci fa cogliere la portata educativa di questo gesto: non come puro dare ma come capacità di attingere al Suo sguardo d’amore. Ogni giorno all’Oratorio dei francescani viene fatta la distribuzione dei pacchi alimentari e ogni giorno si coglie che sta accadendo qualcosa di più della pura distribuzione di viveri, sta accadendo il Suo amore, quello sguardo di cui ha bisogno tutta questa gente. Qui ad Aleppo incontriamo lo stesso metodo delle prime comunità cristiane, la certezza che Gesù abbraccia tutti e tutto, e per farlo non gli basta la sua potenza che pur avrebbe, domanda la nostra libertà. 
   Quando padre Ibrahim è arrivato, in parrocchia non c’era praticamente nulla. Poi, le diverse esigenze che sono emerse, come la gestione dei pacchi alimentari, l’aiuto a non cadere vittime delle banche, la ricostruzione di appartamenti e l’organizzazione dell’oratorio estivo, hanno fatto diventare la parrocchia un luogo vivo, un centro di assunzione del bisogno, ancor prima, una comunità cristiana.

Con padre Ibrahim siamo andati a vedere il centro della città, devastato dalla violenza degli jihadisti e dell’Isis: una operazione di devastazione sistematica, non è rimasto in piedi se non un cumulo di macerie. L’abbiamo guardata passo dopo passo e, ad ogni nuovo angolo che si apriva e che ci portava a vedere nuove macerie, ci sentivamo assediati da un’angoscia profonda, come la percezione che non fosse possibile ricostruire. Invece padre Ibrahim proprio nel cuore della città devastata ci ha fatto vedere in due momenti che la ricostruzione è già in atto, che la città sta rifiorendo. 
  Il primo è quello del sostegno che la parrocchia dà a chi vuol iniziare un nuovo lavoro. Abbiamo visitato un forno per fare i biscotti, una sartoria, un bar. Il metodo di questi progetti è semplice: la parrocchia sostiene economicamente l’inizio senza chiederne la restituzione, chiede solo che chi ha ricevuto questo aiuto possa proseguire con le sue energie e diventando sempre più protagonista. 
  Il secondo progetto è quello della ricostruzione di case, con lo scopo di convincere i cristiani a rimanere anche in questi quartieri rasi al suolo. È un giovane ingegnere, Noubar, ad accompagnarci tra le macerie il miracolo di appartamenti rimessi in piedi. Padre Ibrahim ci ha fatto conoscere le giovani famiglie e i fidanzati che sta seguendo in questo momento così difficile della ricostruzione. Queste giovani coppie hanno bisogno di una casa e di un lavoro, è di questo che bisogna occuparsi in primo luogo.
  Padre Ibrahim ci porta a vedere il cimitero latino che stanno mettendo a posto e dove stanno cercando di mettere un nome su tutte le tombe. Perché è importante sfondare il muro di separazione che divide i vivi dai morti. 

Nel Collegio dei Francescani, 800 bambini assieme ai loro genitori hanno vissuto un momento di festa per la conclusione dell’oratorio estivo. Le due ore di festa con canti, balli, rappresentazioni ci hanno commosso profondamente, perché ci hanno testimoniato un fiotto di vita, un fiotto che scorreva con tanta freschezza e inarrestabile energia. 

Nel dialogo con il Vicario apostolico di tutta la Siria, Georges Abou-Khazen, e nell’incontro con le suore di Madre Teresa di Calcutta che vivono nel vicariato, è emerso in modo chiaro che la Chiesa fa rivivere l’umano, arrivando con la forza dello Spirito dovunque e ridando una speranza che sembrerebbe altrimenti impossibile. 
 È una forza che innanzitutto impatta con il nostro cuore, che dell’unità di vita che c’è ad Aleppo ha tanto bisogno. 

https://it.clonline.org/news/attualit%C3%A0/2017/08/31/diario+di+viaggio+siria+aleppo+padre+ibrahim