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lunedì 7 giugno 2021

In Memoria di un servo fedele e giusto, mons Jacob Behnan Hindo, vescovo emerito di Hassake


Con affetto e gratitudine OraProSiria accompagna nella preghiera l'ultimo viaggio del Vescovo della Chiesa siro-cattolica Mons. Behnan Hindo, chiedendo alla Sua anima buona e fedele di intercedere per ottenere all'amata Siria il miracolo della tanto agognata pace. 

Sono numerose le sue coraggiose testimonianze circa la situazione dei Cristiani nella Regione del Jazira ora occupata dalle forze Curde. Ne potete trovare alcune raccolte qui  sul nostro sito.

Riportiamo a sintesi la frase che mons Hindo pronunciò in uno degli ultimi incontri pubblici in Italia:

"Il nostro futuro? Proprio come il nostro passato: un cammino verso il martirio. È stato così per quattordici secoli, sarà così anche il prossimo. Non c'è niente di nuovo per noi. Noi lo sappiamo. Noi portiamo la croce. Con questa Croce, vinceremo". 

Ci è caro ricordare le ultime parole che gli scrisse uno dei suoi figli spirituali, Padre François di Gesù Bambino Murad , di cui ricorderemo il martirio, avvenuto per mano dei cosiddetti 'ribelli liberi' il giorno 23 giugno 2013 a Ghassanie:

«Monsignore," Barekh Mor " (espressione siriaca in uso che significa" Benedici, o Signore "). Gli avvenimenti precipitano e penso che siamo entrati in una fase decisiva della nostra lotta. Dopo aver bruciato la chiesa greca (bizantina) e distrutto il santuario mariano dei Latini, hanno saccheggiato tutto e distrutto il mio convento e quello dei protestanti. Hanno fracassato e bruciato tutti i simboli religiosi del villaggio e imbrattato con bestemmie contro la nostra religione. Cercano di sopprimerci, ma qualsiasi cosa facciano, non potranno nulla contro la nostra fede fondata sulla Roccia di Cristo . Voglia Dio che Egli ci conceda la grazia di provare l'autenticità del nostro amore per Lui e per gli altri. Siate certi che io offro la mia vita con tutto il cuore per il bene della Chiesa e la pace nel mondo e soprattutto nella nostra amata Siria. Preghi per me. ".

venerdì 4 giugno 2021

Attese e domande intorno all’incontro con i Capi delle Chiese del Libano convocato dal Papa


 In Libano stanno suscitando sorpresa, speranze, attese e anche domande, le brevi parole con cui domenica 30 maggio, dopo la preghiera dell’Angelus, Papa Francesco ha annunciato dalla finestra del Palazzo apostolico affacciata su Piazza San Pietro, che il prossimo 1° luglio si incontrerà in Vaticano “con i principali Responsabili delle comunità cristiane presenti in Libano, per una giornata di riflessione sulla preoccupante situazione del Paese e per pregare insieme per il dono della pace e della stabilità”. Il Papa ha affidato l’intenzione che ispira la convocazione di tale incontro “all’intercessione della Madre Dio, tanto venerata al Santuario di Harissa”, chiedendo a tutti di accompagnare la preparazione di questo evento con la preghiera solidale, invocando per quell’amato Paese un futuro più sereno”.

L’iniziativa del Papa prende forma mentre il Libano appare ormai da tempo risucchiato da una crisi sistemica che sembra mettere in crisi la stessa sussistenza della compagine nazionale libanese. Secondo fonti locali contattate dall’Agenzia Fides, l’annuncio del Papa sta suscitando nelle diverse compagini ecclesiali anche domande e riflessioni volte a chiarire meglio la portata e i criteri ispiratori del prossimo summit convocato dal Papa. 

In primis, in Libano ci si chiede quali e quanti saranno i "principali Responsabili delle comunità cristiane presenti in Libano” attesi dal Papa in Vaticano il prossimo 1° luglio. I media libanesi danno per scontata la presenza all’incontro del Patriarca maronita Béchara Boutros Raï, del Patriarca siro cattolico Ignace Youssif III Younan, del Patriarca siro ortodosso Mor Ignatius Aphrem II e del Patriarca il Catholicos di Cilicia degli armeni apostolici Aram I e del Patriarca greco cattolico melchita Youssef Absi. Anche il Patriarca di Antiochia dei greco-ortodossi Yohanna X Yazigi, o un suo rappresentante, potrebbe partecipare all’incontro, insieme al reverendo Joseph Kassab, Presidente del Consiglio supremo delle Comunità evangeliche in Libano e Siria. 

Appare esclusa la possibilità di vedere invitati al summit leader politici cristiani, sparpagliati in partiti schierati su fronti contrapposti. Inoltre rimane ancora da capire se l’incontro fornirà l’occasione per condividere considerazioni generali sull’attuale condizione del Paese e delle comunità cristiane libanesi, o se l’attenzione del summit si concentrerà su punti specifici.
Ripercussioni indirette sui contenuti dell’incontro convocato in Vaticano potrebbero arrivare anche da eventuali sviluppi del quadro politico nel Paese dei Cedri, dove potrebbe sbloccarsi la paralisi che ormai dallo scorso ottobre impedisce al Premier incaricato, il sunnita Saad Hariri, di formare un nuovo governo. 

Infine l’incontro potrebbe fornire l’occasione per delineare in maniera più precisa l’auspicio già espresso da Papa Francesco di compiere una visita apostolica in Libano. 

http://www.fides.org/it/news/70226-ASIA_LIBANO_Attese_e_domande_intorno_all_incontro_con_i_Capi_delle_Chiese_convocato_dal_Papa

mercoledì 2 giugno 2021

Il nuovo calvario della Siria si chiama "sanzioni"

in fila al forno del pane 
 

Nonostante gli accorati appelli dei Vescovi e religiosi siriani , e delle Associazioni Caritative che operano in soccorso della popolazione stremata da 10 anni di guerra, l'Unione Europea ha rinnovato ed esteso fino al 1 giugno 2022 le sanzioni 'contro il regime' di Damasco . Il Comunicato UE afferma che sono esclusi 'cibo, medicinali, attrezzature mediche': ma, come spiega l'appello di Aiuto alla Chiesa che Soffre che riportiamo in calce, continuare a colpire le transazioni bancarie blocca di fatto ogni operazione di soccorso umanitario.

Inutilmente i Prelati mostrano che ad essere colpita da queste misure è la popolazione, e non il regime: l'UE ribadisce che lo scopo è giungere a “una soluzione politica duratura e credibile” (…. ossia in altri termini a un 'regime change' …)

Ora pro Siria  


da 'Aiuto alla Chiesa che soffre'

Secondo mons. Samir Nassar, arcivescovo maronita di Damasco, la crisi economica siriana ha condotto al caos totale. «Giorno e notte le famiglie devono mettersi in coda in una serie di file interminabili» per procurarsi il cibo. «Questa scena caotica è diventata la norma», racconta il prelato alla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS). Per mons. Nassar le sanzioni internazionali sono uno dei principali fattori che hanno determinato l'attuale crisi. «Le leggi estere che penalizzano gli Stati e le persone che osano inviare aiuti in Siria si aggiungono alle ingiuste sanzioni e moltiplicano la carenza di beni». 

Una combinazione di fattori, tra cui sanzioni internazionali e il crollo finanziario del Libano, principale partner commerciale, ha portato a un'impennata dei prezzi alimentari. Prima dell'inizio del conflitto nel 2011, una pagnotta da 2 kg costava circa 15 lire siriane; oggi una pagnotta da 1 kg costa tra le 100 e le 500 lire siriane. Nel febbraio 2020 il governo siriano ha introdotto le "smart card" che consentono alle famiglie l'accesso, a prezzi agevolati, a quantità razionate di beni di prima necessità, tra i quali pane, riso e tè. Per ottenere questi beni devono tuttavia aspettare in lunghe file, spesso per diverse ore.

Per tutti questi motivi, prosegue il prelato, la comunità internazionale deve assumersi la sua parte di responsabilità per la situazione attuale. Mons. Samir ha spiegato anche che l'attuale situazione non consente ai siriani di iniziare a superare la guerra civile, conflitto che l'Inviato delle Nazioni Unite e della Lega Araba ha stimato abbia ucciso 400.000 persone.

I commenti dell'arcivescovo maronita fanno eco a quelli condivisi recentemente con ACS dall'arcivescovo cattolico greco-melchita di Aleppo mons. Jean-Clément Jeanbart: «Le sanzioni non hanno altro risultato che far soffrire le persone e renderle povere e miserabili. Non avranno alcun effetto sul governo e sulle sue politiche, perché il governo è lontano dagli effetti delle sanzioni». 

Dall'inizio del conflitto in Siria ACS ha assicurato aiuti di emergenza offrendo pacchi viveri, latte e medicine, e ha sostenuto costi di prima necessità, inclusi riscaldamento e illuminazione, dando la priorità ai più poveri, ai malati e agli anziani.

https://acs-italia.org/acs-notizie-dal-mondo/acs-il-nuovo-calvario-della-siria-si-chiama-sanzioni

ACS FA APPELLO A USA E UE AFFINCHÉ SIANO AGEVOLATI GLI AIUTI UMANITARI

La fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) fa appello agli Stati Uniti e all’Unione Europea affinché siano agevolati gli aiuti umanitari a favore della nazione oggetto di sanzioni. «É nostro dovere fornire aiuto alla popolazione civile sofferente della Siria, e soprattutto alla minoranza cristiana in rapida diminuzione», dichiara Thomas Heine-Geldern, presidente esecutivo di ACS Internazionale.

Per questo la Fondazione chiede di «applicare il quadro normativo internazionale esistente, il quale consente deroghe all’embargo per ragioni umanitarie».

Gli ostacoli al trasferimento di denaro e all’importazione di beni rende impossibile qualsivoglia forma di assistenza. «Nonostante le sanzioni prevedano delle eccezioni per l’invio di fondi per aiuti umanitari, queste ultime non funzionano». Heine-Geldern spiega che il codice bancario europeo IBAN e l’americano SWIFT bloccano i trasferimenti contenenti riferimenti alla Siria e a qualsivoglia città della nazione, per cui «per le organizzazioni caritative diventa quasi impossibile trasferire fondi con finalità umanitarie».

L’invio di denaro è di importanza vitale perché le istituzioni ecclesiastiche e le ONG non sono in grado di consegnare i beni necessari per la sopravvivenza degli sfollati interni e degli altri milioni di siriani presenti nel Paese. «Per questo ordinariamente inviamo denaro affinché i nostri referenti possano acquistare sul posto cibo, cure mediche e abbigliamento», prosegue Heine-Geldern. Per tali motivi la comunità internazionale deve dare disposizioni al sistema bancario affinché sia autorizzato il trasferimento di denaro per scopi umanitari come già previsto dalle eccezioni alle sanzioni. 

Quanto alle difficoltà di importare beni in Siria, Heine-Geldern sottolinea che «per richiedere le autorizzazioni i nostri partners devono spesso superare insormontabili procedure  multilingue adottate dalle autorità sanzionatorie». Le autorizzazioni sono necessarie anche per piccole quantità di beni e implicano elevate commissioni.

É particolarmente difficile importare beni suscettibili di impieghi diversi da quelli umanitari, i cosiddetti prodotti a duplice uso. Poiché l’interpretazione di queste disposizioni è molto ampia, prosegue il presidente di ACS Internazionale, anche il latte in polvere per neonati e bambini denutriti viene ricompreso in questa categoria. Heine-Geldern chiede che siano presto adottate procedure che definiscano chiaramente ciò che è permesso e ciò che è vietato, rendendo così possibile l’attuazione di tutte le misure consentite. «Una soluzione provvisoria potrebbe fornire una licenza generale alle ONG designate». 

«A fine settembre 2019 una delegazione di Aiuto alla Chiesa che Soffre insieme all’Arcivescovo di Milano, Mons. Mario Delpini, si è recata in Siria per incontrare le comunità cristiane sofferenti», ricorda Alessandro Monteduro, direttore di ACS Italia. «Durante il viaggio ci siamo recati ad Aleppo dove abbiamo incontrato i vescovi dei nove riti cristiani, i quali ci hanno rivolto un accorato appello affinché anche ACS si battesse per la cancellazione delle sanzioni. Oggi, in occasione del decennale dell’inizio della crisi siriana, è doveroso rilanciare con determinazione quell’appello, anche perché la situazione si è progressivamente deteriorata ed è sempre più difficile per le organizzazioni caritative far giungere gli aiuti umanitari», prosegue Monteduro. 

«Grazie alla generosità dei benefattori, i quali hanno donato complessivamente oltre 40 milioni di euro, ACS ha fornito sostegno alla popolazione civile della Siria, in particolare alla minoranza cristiana, che dall’inizio del conflitto è vissuta in condizioni catastrofiche e in molti casi è stata costretta a migrare, tanto da correre il rischio di una totale estinzione», conclude Monteduro.

https://acs-italia.org/acs-notizie-dal-mondo/dieci-anni-di-conflitto-in-siria-acs-fa-appello-a-usa-e-ue-affinche-siano-agevolati-gli-aiuti-umanitari

venerdì 28 maggio 2021

Le elezioni presidenziali e le priorità del popolo siriano

Leggiamo sui social e sui media a larga diffusione che le odierne elezioni siriane "sono state una farsa orchestrata da Assad per consolidare il proprio potere".
E' certamente vero che Bashar Al-Assad desiderasse una conferma del proprio comando e che i suoi oppositori non avevano alcuna possibilità di insidiarlo.
Tuttavia, sia l'altissima affluenza alle urne che la vittoria plebiscitaria di Assad contrastano nettamente con questo giudizi. 
Quello che ci pare più nettamente evidente è il messaggio che rimbalza agli USA, alla UE e agli altri 'sanzionatori' internazionali: se le sanzioni che di fatto affamano e mietono vittime tra la popolazione civile avrebbero dovuto far insorgere la gente contro il Presidente , o per lo meno invertire il consenso popolare, questo non è accaduto.
La gente della Siria vuole stabilità e non il caos, e chiede al proprio governo di lavorare per questo, e ricostruire rapidamente! USA, UE e associati se ne facciano una ragione ed incomincino a operare in termini collaborativi con la Repubblica Araba Siriana e con il popolo di cui si dicono tanto strenuamente difensori. 
Ora pro Siria  

Leader e media occidentali bollano come “farsa” il trionfo di Assad alle Presidenziali. L'Arcivescovo Tobji: le sanzioni producono fame, non democrazia


Agenzia Fides , 28 maggio 2021

Mentre l’Unione Europea prolunga di un anno le sanzioni economiche contro la Repubblica araba di Siria, leader politici e media occidentali bollano come “farsa” il trionfo scontato di Bashar al Assad alle elezioni presidenziali siriane, svoltesi mercoledì 26 maggio. Mentre per Joseph Tobji, Arcivescovo maronita di Aleppo, “il popolo siriano adesso ha come primo problema quello di sopravvivere alla fame, causata anche dalle sanzioni”, e appare del tutto sconsiderata la strategia internazionale che impone sanzioni economiche per indebolire il potere siriano. “Chi impone le sanzioni” rimarca l’Arcivescovo maronita in una conversazione con l’Agenzia Fides “sta fuori dalla Siria. E la logica delle sanzioni è quella di affamare il popolo pensando di far diminuire il consenso politico alle autorità e far cadere il governo. Io, come Pastore, vedo che il popolo soffre per la povertà, e non mi sembra che abbia come priorità quella dei discorsi sulla democrazia”.
Come previsto, alle elezioni di mercoledì 26, Bashar al Assad ha visto confermato in maniera plebiscitaria il prolungamento del suo mandato presidenziale, raccogliendo il 95,1% dei voti espressi. I due sfidanti hanno ottenuto 1,5% e 3,3%. Secondo il comunicato ufficiale della presidenza del Parlamento, hanno partecipato al voto oltre 14 milioni di elettori su 18 milioni di cittadini siriani segnati nelle liste elettorali. Cifre che nessun organo indipendente ha potuto verificare. Nelle precedenti elezioni del 2014, avvenute nel pieno del conflitto che lacera la Siria da 10 anni, Assad aveva ottenuto l'88% dei voti.
La risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU prevedeva, già nel 2015, che le successive elezioni siriane si sarebbero dovute svolgere sotto il controllo della comunità internazionale, dopo un negoziato tra il governo e i gruppi d’opposizione, per garantire la partecipazione al voto anche dei milioni di siriani espatriati durante il conflitto. Il governo guidato da Assad ha scelto la strada di convocare ugualmente le elezioni, sostenendo che i negoziati coi gruppi d’opposizione voluti dagli organismi internazionali sono in stallo, e non si poteva attendere la loro conclusione per fissare l’appuntamento elettorale. Adesso il risultato elettorale viene presentato dagli organi ufficiali del governo di Damasco come una ennesima legittimazione popolare di Assad nel suo ruolo di unico attore politico in grado di gestire la ricostruzione del Paese devastato dalla guerra, mentre leader politici e istituzioni dei Paesi occidentali continuano a bollare come non credibile e illegittima la tornata elettorale.
Joseph Tobji, da Aleppo, riferisce di non aver avuto l’impressione di un astensionismo generalizzato da parte della popolazione siriana: “Si vedeva tanta gente davanti ai seggi, con momenti di aggregazione e di festa nelle strade e nelle piazze, a cui non partecipavano solo i militanti vicini al governo. Sicuramente una parte dei potenziali elettori non è andata a votare, ma la crescita dell’astensionismo alle elezioni mi sembra un fenomeno globale, che sta crescendo in tanti Paesi con modelli politici diversi”.
Nella conversazione con Fides, l’Arcivescovo maronita propone altre considerazioni non scontate sul momento vissuto dalla popolazione siriana. Tra le altre cose, riconosce che non tutti i siriani soffrono allo stesso modo, e che la devastante crisi economica è accompagnata da un impressionante aumento dei livelli di corruzione, che sottrae risorse preziose alla comunità: “E un problema radicato nella nostra storia - ammette Tobji – ed è aumentato a causa della guerra. Anche le sanzioni contribuiscono a modo loro a questo fenomeno. Chi ha soldi e posizioni influenti se ne approfitta. E’ come un circolo vizioso: la corruzione alimenta la povertà, e la povertà alimenta la corruzione, che sottrae le poche risorse che rimangono. Si stanno facendo leggi per arginare la corruzione, ma non è un problema che si risolve in poco tempo”.
L’Arcivescovo maronita spera che comunque, dopo le avvenute elezioni, si apra una stagione utile per affrontare le emergenze nazionali, confidando di ritenere “miracolosa” la scarsa diffusione dei contagi da Covid-19 tra la popolazione siriana, vista anche la ridotta diffusione di presidi medici elementari, a cominciare dalle mascherine. Nell’ultimo anno e mezzo, la chiusura delle frontiere dovuta alla pandemia ha bloccato anche l’esodo dei cristiani siriani verso altri Paesi. Un fenomeno – riferisce con tono dolente l'Arcivescovo Tobji – che negli anni segnati dalle fasi più virulente del conflitto ha avuto un impatto pesante su alcune comunità cristiane autoctone, riducendone addirittura di due terzi la consistenza numerica. 

ASIA_SIRIA_Leader_e_media_occidentali_bollano_come_farsa_il_trionfo_di_Assad_alle_Presidenziali_L_Arcivescovo_Tobji_le_sanzioni_producono_fame_non_democrazia

sabato 22 maggio 2021

Il comunicato conclusivo della riunione del Consiglio dei capi delle Chiese Cattoliche in Siria, nella grave ora presente


 Pubblichiamo di seguito il testo integrale della dichiarazione finale emessa dalla riunione del Consiglio dei capi delle Chiese cattoliche in Siria, che si è tenuta presso la sede del Vicariato Apostolico Latino nella città di Aleppo, dal 18 al 20 maggio 2021


Alle cinque del pomeriggio di martedì 18 maggio 2021, il Consiglio dei Patriarchi e dei Vescovi Cattolici in Siria ha inaugurato la sua regolare sessione annuale per l'anno 2021, presso la Procura Apostolica Latina di Aleppo.

Per tre giorni i Padri hanno approfondito diversi temi di interesse per la Chiesa e per la Patria, soprattutto la questione umana e sociale, che è diventata molto urgente in questi giorni, man mano che aumentano le difficoltà materiali per tutti, e che la Chiesa considera una delle sue priorità.

In questo contesto umanitario e sociale, i Padri hanno passato in rassegna le attività e le opere svolte da Caritas Siria nell'anno 2020, in particolare quelle attività e azioni che hanno riguardato tutte le regioni siriane e tutti i gruppi sociali, senza discriminazioni, e che rendono la Chiesa presente ed efficace, e la sua testimonianza evidente tra le persone bisognose e sofferenti il cui numero aumenta di giorno in giorno.

I partecipanti hanno riflettuto sulle ingiuste sanzioni imposte alla Siria, l'ultima delle quali è stata il Caesar Act, e hanno chiesto che fossero revocate e hanno discusso di come raggiungere questo obiettivo e di come avrebbero lavorato allo stesso tempo per ridurre l'impatto delle sanzioni sulle vite dei siriani.

Si sono occupati anche della questione della migrazione del popolo siriano, soprattutto dei giovani, e hanno chiesto che venga approvato tutto ciò che possa limitare questa migrazione, affinché i nostri figli rimangano nella loro terra, perché crediamo che la nostra presenza e la nostra testimonianza in questo paese è necessaria e importante. Hanno sottolineato la necessità di cooperazione reciproca e il beneficio di questa cooperazione per il bene della Chiesa nel nostro Paese.

I partecipanti hanno denunciato e condannato con forza le pratiche repressive e la brutale aggressione a cui sono sottoposti i palestinesi in Terra Santa, soprattutto a Gaza, e hanno chiesto l'intervento del Consiglio di Sicurezza e delle Nazioni Unite per un cessate il fuoco immediato.

Hanno riflettuto sulla visita di Sua Santità Papa Francesco in Iraq, sugli effetti positivi che ha lasciato sul popolo iracheno di ogni appartenenza, sulla speranza che ha piantato nel cuore dei cristiani in particolare, e sul conforto che ha lasciato nelle relazioni islamo-cristiane.

Per l'occasione hanno inviato una lettera a Sua Santità Papa Francesco, ringraziandolo per il suo interesse per il nostro Paese, per la sua difesa dei diseredati, degli oppressi e degli emarginati, e per il suo costante appello alla fratellanza universale, particolarmente evidente nel suo ultimo messaggio "Siamo tutti fratelli".

D'altra parte, i Padri hanno salutato i capi delle altre Chiese cristiane, hanno apprezzato i buoni rapporti esistenti che ci uniscono e hanno espresso la loro volontà di continuare a sostenere il movimento ecumenico e la sua buona riuscita, al fine di raggiungere l'unità desiderata.

Per quanto riguarda le imminenti elezioni presidenziali in Siria, il Consiglio ha invitato i cittadini a parteciparvi, giudicando secondo coscienza e l'interesse nazionale, perché è un grande dovere patriottico e una priorità fondamentale nella crisi che la Siria e la regione stanno attraversando.

I Padri hanno affrontato alcune questioni amministrative relative al loro consiglio, tra cui l'elezione del Vescovo Youhanna Abdo Arbash a Presidente del Comitato congiunto di beneficenza per una seconda sessione, circa le necessità economiche, finanziarie, mediche e umanitarie.

Al termine, l'assemblea ha inviato una parola di congratulazione a tutti i siriani per il felice Eid al-Fitr, pregando Dio di accettare il loro digiuno e pregando Dio Onnipotente per l'eliminazione definitiva della pandemia Corona e della nuvola nera che è sospesa sulla Siria da ormai dieci anni.

Hanno reso omaggio all'eroico esercito siriano, chiedendo soccorso per i suoi martiri e i martiri della patria, e hanno chiesto a Dio di sostenere e benedire tutti coloro che lavorano per la salvaguardia della Siria. Hanno invitato i loro figli e tutti i cittadini ad essere pazienti e a permanere nella speranza, e lavorare insieme mano nella mano per ricostruire la Siria moderna e per tracciare un futuro nuovo e migliore per tutti i suoi figli, facendo affidamento sul linguaggio del dialogo costruttivo e del rispetto per tutti, cercando la vera riconciliazione e la rinuncia alla violenza.

Il Consiglio dei Capi delle Chiese cattoliche presenti in Siria

mercoledì 19 maggio 2021

Il mese mariano. La rocca di Nostra Signora di Saydnaya

 Saidnaya ha avuto un'immensa popolarità durante tutto il Medioevo, svolgendo un ruolo di primaria importanza nella pietà popolare, sia in Oriente che in Occidente, alla stregua di Lourdes e di Fatima nei tempi moderni

di GEORGE GHARIB

La Siria, Paese di antica cristianità, ha sviluppato un esteso culto mariano che ha lasciato tracce in molti campi dell’arte, dell’architettura, della teologia e della liturgia. Il Paese è costellato di Chiese, di Monasteri e di Santuari mariani piccoli e grandi, molti dei quali hanno subìto non pochi danni per le numerose invasioni che hanno afflitto la Siria durante la sua lunga storia, riducendo ora la presenza cristiana al 10% circa della popolazione del Paese.

Tra i Santuari mariani sopravvissuti a traversie e distruzioni, il maggiore è quello di Saidnaya, nome di un villaggio sito ad una ventina di chilometri dalla capitale Damasco, il cui Monastero custodisce una preziosa icona mariana attribuita al pennello di San Luca, che richiama ancora fiumane di Pellegrini provenienti da tutti gli angoli della Siria e da altri Paesi vicini e lontani.

Il Monastero – che somiglia ad una piazzaforte costruita su un grande sperone cinto da alte mura – appartiene al Patriarcato ortodosso di Antiochia, che ha sede a Damasco; lo officia e ne prende cura una numerosa Comunità di Monache di rito bizantino e di lingua araba, sotto la guida di un’igumena, o badessa, che vigila sul Monastero e accoglie i numerosi Pellegrini ortodossi, cattolici e musulmani, guidando tutti a pregare davanti all’icona della Madonna.

Origini del Monastero-Santuario

Le origini del Santuario si perdono nella notte dei tempi. Alcuni fanno risalire la fondazione all'imperatrice Eudossia (+ 460), donna di grande cultura, che avrebbe trovato a Gerusalemme il ritratto della Madonna dipinto da San Luca; ma più probabilmente il Santuario è da far risalire al VI secolo, ad opera dell’imperatore Giustiniano I (+ 565). Secondo una graziosa leggenda, questi, impegnato in una campagna contro la Persia, durante una battuta di caccia in Siria, smarrì la strada nelle vicinanze di Damasco, rischiando di morire di sete. Intravide allora una gazzella che, dopo averlo guidato ad una sorgente d'acqua, sparì com'era apparsa. Giustiniano riconobbe in lei la Vergine, e ordinò di costruire sul luogo un Santuario in suo onore. Lo affidò a Monache che fecero giungere da Gerusalemme un’immagine della Madonna attribuita, appunto, al pennello di San Luca.

Il nome Saidnaya significa in lingua siriaca "Signora della caccia", in ricordo della suddetta partita di caccia dell’Imperatore. L’immagine, oltre alla sua origine lucana, era anche molto nota per i miracoli che le venivano attribuiti.

Il pellegrino che oggi entra nel sacrario per visitare la Madonna [chiamata comunemente Chagoura: parola siriaca che significa celebre, illustre, famosa], è invitato a togliersi le scarpe prima di accedere all’edicola contenente, dietro una grata di ferro, la sacra immagine, come si legge in una iscrizione scolpita all’ingresso, tratta dal Libro dell’ Esodo 3, 5: "Togli le scarpe dai piedi, poiché il luogo in cui tu ti trovi è terra santa".

Il luogo è letteralmente tappezzato di icone, di doni preziosi, di lampade, di lampadari ed ex-voto. L’illuminazione è assicurata dalla sola luce delle candele e delle lampade ad olio che qui ardono giorno e notte.

L’immagine stessa è di piccolo formato e nascosta sotto una profusione di argenti, ori e gemme varie; vi è raffigurata, secondo tradizioni antiche, la Madonna con Bambino, del tipo della Galaktotrofousa, o Allattante. Tra i prodigi più insigni dell’immagine vi è l’essudazione di un liquido oleoso e profumato che si raccoglie sotto l’immagine e che le Monache distribuiscono ai Pellegrini per la santificazione loro e la guarigione dei malati.

Popolarità del Santuario, anche presso i Musulmani

La Madonna di Saidnaya ha avuto un’immensa popolarità durante tutto il Medioevo e ha svolto un ruolo di primaria importanza nella pietà popolare, sia in Oriente che in Occidente, alla stregua di Lourdes e di Fatima nei tempi moderni.

Attirava masse enormi di fedeli, calcolate talvolta a 50mila persone, nonostante l’insicurezza e le difficoltà del viaggio. Durante il Medioevo, il Santuario era una meta obbligata nell’itinerario seguito dai Pellegrini che si recavano in Terra Santa.

Interessante è notare che la venerazione della Madonna di Saidnaya non si limitava ai soli Cristiani. Anche i Musulmani e gli Ebrei accorrevano numerosi ai piedi della Vergine, implorando grazie ed aiuto; e Maria prodigava i suoi favori a tutti.

La cronaca di Thietmar riferisce, tra l’altro, il seguente episodio che accadde nel 1203 circa: "Un sultano di Damasco, sul punto di perdere la vista, andò a visitare "Nostra Signora di Sardan" e, benché pagano, non esitò a recarsi al Santuario. Lì cadde a terra e pregò; alzandosi poi, egli poté vedere la lampada che ardeva davanti alla santa immagine. Vedendosi guarito, rese gloria a Dio insieme a tutti i presenti; e fissando di nuovo la luce della lampada, egli promise una rendita di 50 misure di olio perché la stessa continuasse ad ardere in perpetuo. La quantità d’olio promessa fu regolarmente consegnata fino al tempo di Nour-ed-Din". [La tradizionale offerta durò fino alla deposizione del sultano turco Abdel Hamid, nel 1909].

Un altro principe musulmano, Malek al-Adel Seif-ed-Din, fratello di Saladino e pretendente alla mano della sorella di Riccardo ‘Cuor di Leone’, era afflitto da una strana malattia olfattiva: perdeva i sensi non appena odorava una rosa e questo proprio nel Paese delle rose, nel regno dell’immortale essenza delle rose. Dopo aver provato invano tutte le medicine, decise di andare in pellegrinaggio presso la Madonna di Saidnaya. Fu miracolosamente guarito e, tornato a Damasco, fece fare una rosa d’oro, tempestata di gemme, che emanava aromi così soavi – aggiungono le cronache – da profumare tutto il deserto della Siria; e ne fece omaggio alla Madonna. Alcuni hanno voluto individuare in questo racconto l’origine del nome attribuito a Maria di ‘Rosa mistica ’ nelle Litanie mariane.


Tali racconti, accolti con calda e sincera devozione durante tutto il Medioevo, hanno contribuito a dare lustro a questo Santuario mariano e a sviluppare l’amore verso Maria non solo in Siria ma anche nei Paesi confinanti. La festa si celebra a tutt’oggi l’8 Settembre, giorno della Natività di Maria. Per l’occasione i fedeli, accorsi già il giorno precedente, assistono alla Messa e vanno in processione verso l’icona; le Monache li ungono con l’olio profumato che emana dall’icona; molti poi trascorrono uno o più giorni nella foresteria del Monastero, contenti di stare sotto l’occhio vigile e benevolo della Madre di Dio, prima di ritornare nelle loro case.

http://www.letture.it/madre06/0502md/0502md17.htm

venerdì 14 maggio 2021

Veglia di Pentecoste in preghiera per la pace in Terra Santa

 

Di fronte agli scontri tra Gaza e lo stato ebraico, e alla violenza tra ebrei e arabi in Israele, il Patriarcato latino di Gerusalemme invita a una preghiera di "intercessione urgente per la giustizia e la pace" il 22 maggio.

di Christophe Lafontaine

Dal 10 maggio, 122 palestinesi sono stati uccisi, tra cui almeno 31 bambini, e sette israeliani sono stati uccisi, tra cui un bambino. Cioè, dall'inizio dei raid di ritorsione israeliani sui razzi che Hamas ha lanciato in risposta alle violenze a Gerusalemme nelle ultime settimane. 

In questo contesto, dimostrazioni e rivolte si sono diffuse e intensificate negli ultimi giorni in tutto Israele, in particolare nelle città con forte popolazione palestinese. La minoranza dei palestinesi cittadini di Israele, che costituiscono il 20% della popolazione israeliana, sono principalmente i discendenti dei palestinesi rimasti in Israele dopo la creazione dello stato ebraico nel 1948. La maggior parte di loro si sente vicina ai palestinesi della Cisgiordania e di Gaza. Negli ultimi tre giorni, manifestanti palestinesi in Israele sono stati attaccati da ebrei nazionalisti e persone ebree sono state aggredite da rivoltosi palestinesi che sono cittadini israeliani, e le loro proprietà vandalizzate. 

Nei territori palestinesi, negli ultimi giorni ci sono stati scontri tra le forze di sicurezza israeliane e i palestinesi all'ingresso della città cisgiordana di Ramallah, vicino all'insediamento ebraico di Beit El, e al checkpoint di Qalandia vicino alla stessa città. Scontri sono scoppiati anche tra l'esercito israeliano e i palestinesi nella città di Hebron. 

"In questo momento di disordini a Gerusalemme e in tutta la Terra Santa", il Patriarcato latino di Gerusalemme, in collaborazione con il Comitato episcopale dei religiosi e l'Unione delle religiose, ha deciso di invitare "tutti i fedeli, vescovi, sacerdoti, religiosi e laici a pregare insieme alla vigilia della festa di Pentecoste", il 22 maggio, nella Basilica di Santo Stefano dei Padri Domenicani a Gerusalemme. Sarà "una preghiera per i doni dello Spirito Santo, un'intercessione urgente per la giustizia e la pace", ha precisato la massima autorità cattolica in Terra Santa.

Città miste in Israele fratturate

Lod, 45 km a nord-ovest di Gerusalemme e sede dell'aeroporto internazionale Ben Gurion, (tutti i voli sono attualmente dirottati) è stata una delle città più colpite dalle violenze comunitarie in Israele. Più di un terzo dei suoi 80.000 residenti sono palestinesi che sono cittadini di Israele. La violenza è scoppiata martedì sera. Secondo il Times of Israel, tre sinagoghe, numerose imprese e decine di automobili sono state bruciate.  Il sindaco della città ha detto che anche il municipio e un museo locale sono stati attaccati. "Siamo sull'orlo della guerra civile", ha lamentato sul Times of Israel sulla scia dei disordini notturni, lamentando che "decenni di coesistenza tra ebrei e palestinesi cittadini di Israele in questa città mista sono crollati". Anche un cimitero musulmano è stato dato alle fiamme durante la notte. La situazione ha cominciato a deteriorarsi tra giovani palestinesi cittadini d'Israele e gruppi di ebrei estremisti nella città dopo che un cittadino palestinese d'Israele è stato colpito e ucciso da un residente ebreo lunedì a margine di una violenta protesta. Il presidente israeliano Reuven Rivlin ha condannato i disordini di Lod, definendoli un pogrom. L'11 maggio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato lo stato di emergenza a Lod.

Ieri, la televisione israeliana ha pubblicato un filmato di un gruppo israeliano di estrema destra che linciava un uomo arabo - presumibilmente solo perché era arabo - dopo aver fermato la sua auto e averlo lasciato incosciente e sanguinante in una strada di Bat Yam, vicino a Tel Aviv. Poco prima dell'incidente, dei video circolati su internet mostravano decine di persone che gridavano "Morte agli arabi".

Altre violenze tra ebrei e palestinesi cittadini d'Israele sono scoppiate nei giorni scorsi anche in diverse altre città del paese, come Haifa, Jaffa, Ramle, Kafr Kassem o Jisr al Zarqa, Wadi Ara, Hadera, città vicino a Cesarea. Anche a San Giovanni d'Acri, dove cittadini palestinesi di Israele hanno passato due ore a distruggere il negozio di un ebreo e infine a bruciarlo.

Oggi, il portavoce della polizia Micky Rosenfeld ha detto all'AFP che la violenza era a un livello che non si vedeva da decenni.

Il capo rabbino sefardita d'Israele in allarme

Il rabbino capo sefardita d'Israele Yitzhak Yossef ha chiesto la fine delle aggressioni commesse da alcuni ebrei: "Cittadini innocenti vengono attaccati da organizzazioni terroristiche, il cuore è pesante e le immagini difficili, ma non possiamo permetterci di essere trascinati in provocazioni e aggressioni", ha detto.   "I rivoltosi di Lod e Acre non rappresentano i cittadini palestinesi di Israele, i rivoltosi di Bat Yam (...) non rappresentano gli ebrei israeliani, la violenza non detterà le nostre vite", ha detto il leader dell'opposizione Yair Lapid, che sta cercando di formare una coalizione di unità nazionale.

Da parte sua, il PM Netanyahu ha notato in una dichiarazione che "ciò che sta accadendo nelle città di Israele negli ultimi giorni è insopportabile... niente giustifica il linciaggio degli arabi da parte degli ebrei e niente giustifica il linciaggio degli ebrei da parte degli arabi".  Il ministro della difesa Benny Gantz ha ordinato che 10 compagnie di riserva della polizia di frontiera siano schierate per sostenere gli sforzi della polizia per porre fine agli scontri nelle città ebraico-arabe in tutto il paese.

A Lod, San Giovanni d'Acri, Haifa, Tel Aviv-Jaffa, i politici locali arabi ed ebrei hanno lanciato un appello comune alla calma.

https://www.terresainte.net/2021/05/pentecote-priere-d-intercession-urgente-pour-la-paix/

Da Gaza

la testimonianza del parroco padre Gabriel Romanelli

domenica 9 maggio 2021

Appello per la pace a Gerusalemme tra gli scontri in corso

AGGIORNAMENTO 10 MAGGIO : 

Dichiarazione dei patriarchi e dei capi delle Chiese di Gerusalemme sulle recenti violenze a Gerusalemme 

Con tutti i Capi delle Chiese, siamo “profondamente scoraggiati e preoccupati per i recenti episodi di violenza a Gerusalemme Est, sia alla Moschea di Al Aqsa che a Sheikh Jarrah, che violano la santità del popolo di Gerusalemme e quella di Gerusalemme come Città della Pace," e richiedono un intervento urgente.
La violenza usata contro i fedeli mina la loro sicurezza e il loro diritto di avere accesso ai Luoghi Santi e di pregare liberamente. Lo sgombero forzato dei palestinesi dalle loro case a Sheikh Jarrah è un'altra inaccettabile violazione dei diritti umani fondamentali, quello del diritto a una casa. È una questione di giustizia per gli abitanti della città vivere, pregare e lavorare, ciascuno secondo la propria dignità; una dignità conferita all'umanità da Dio stesso.
Per quanto riguarda la situazione di Sheikh Jarrah, facciamo eco alle parole dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani che ha affermato che lo stato di diritto viene "applicato in modo intrinsecamente discriminatorio". Questo è diventato uno dei punti più critici delle crescenti tensioni a Gerusalemme in generale. L’episodio in questione non riguarda una controversia immobiliare tra privati. È piuttosto un tentativo ispirato da un'ideologia estremista che nega il diritto di esistere a chi abita nella propria casa.
Di particolare significato è anche il diritto di accesso ai Luoghi Santi. Ai fedeli palestinesi è stato negato l'accesso alla moschea di Al Aqsa durante questo mese di Ramadan. Queste manifestazioni di forza feriscono lo spirito e l'anima della Città Santa, la cui vocazione è quella di essere aperta e accogliente; di essere una casa per tutti i credenti, con pari diritti, dignità e doveri.
La posizione storica delle Chiese di Gerusalemme è chiara circa la denuncia di ogni tentativo inteso a rendere Gerusalemme una città esclusiva per chiunque. Questa è una città sacra alle tre religioni monoteiste e, sulla base del diritto internazionale e delle pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, anche una città in cui il popolo palestinese, composto da cristiani e musulmani, ha lo stesso diritto di costruirsi un futuro basato sulla libertà, l'uguaglianza e la pace. Chiediamo pertanto un assoluto rispetto dello status quo di tutti i Luoghi Santi, compreso il complesso della moschea di Al-Aqsa.
L'autorità che controlla la città dovrebbe proteggere il carattere speciale di Gerusalemme, chiamata ad essere il cuore delle fedi abramitiche, un luogo di preghiera e di incontro, aperto a tutti e dove tutti i credenti e i cittadini, di ogni fede e appartenenza, possono sentirsi a “casa”, protetti e sicuri.
La nostra Chiesa è stata chiara sul fatto che la pace richiede giustizia. Nella misura in cui i diritti di tutti, israeliani e palestinesi, non saranno sostenuti e rispettati, non ci sarà giustizia e quindi nessuna pace nella città. È nostro dovere non ignorare l'ingiustizia né alcuna aggressione contro la dignità umana, indipendentemente da chi le commette.
Chiediamo alla Comunità Internazionale, alle Chiese e a tutte le persone di buona volontà di intervenire per porre fine a queste azioni provocatorie e di continuare a pregare per la pace di Gerusalemme. Ci uniamo in preghiera con l'intenzione del Santo Padre Papa Francesco che "l'identità multireligiosa e multiculturale della Città Santa possa essere rispettata e che la fraternità possa prevalere".


Papa Francesco all'Angelus di oggi ha espresso parole di particolare preoccupazione per l'escalation di tensione nella Città Santa:

"Cari fratelli e sorelle!

Seguo con particolare preoccupazione gli eventi che stanno accadendo a Gerusalemme. Prego affinché essa sia luogo di incontro e non di scontri violenti, luogo di preghiera e di pace. Invito tutti a cercare soluzioni condivise affinché l’identità multireligiosa e multiculturale della Città Santa sia rispettata e possa prevalere la fratellanza. La violenza genera solo violenza. Basta con gli scontri."


Il Consiglio Mondiale delle Chiese sollecita il rispetto dello status quo dei luoghi santi a Gerusalemme


Il Consiglio Mondiale delle Chiese (WCC) condanna le violenze nel complesso della Moschea di Al-Aqsa durante la notte di venerdì 7 maggio, in cui più di 200 persone sarebbero state ferite. Reagendo alla notizia, il segretario generale del WCC, Rev. Prof. Ioan Sauca, ha invitato Israele a rispettare lo status quo dei siti sacri nella Città Vecchia di Gerusalemme, nell'interesse della pace e della stabilità. Chiediamo anche a tutti di astenersi da ulteriori violenze e da azioni provocatorie e destabilizzanti". 

Questi eventi segnano l'ultima escalation nel crescente disordine per l'aumento della violenza e delle restrizioni delle forze di sicurezza intorno alla Città Vecchia. Inoltre, i recenti e futuri sfratti minacciati di famiglie palestinesi dalle loro proprietà rivendicate da gruppi di coloni ebrei nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est hanno anche contribuito a questa escalation.
 
Attraverso il suo Programma di Accompagnamento Ecumenico in Israele e Palestina (EAPPI), il WCC ha accompagnato e fornito presenza protettiva alla comunità palestinese di Sheikh Jarrah dal 2008, partecipando anche alle udienze in tribunale a sostegno delle famiglie minacciate di sfratto.

"Come ha osservato l'Ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, le leggi su cui si basano le rivendicazioni dei gruppi di coloni sono applicate in modo intrinsecamente discriminatorio, a scapito dei palestinesi che in molti casi hanno vissuto nelle loro case per generazioni", ha detto il direttore del WCC per gli affari internazionali Peter Prove.

"A nome della comunione ecumenica globale delle chiese, esprimo il nostro profondo dolore per la situazione delle famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah", ha detto Sauca, "e per i disordini e le violenze che ne sono seguiti". 
La risposta adeguata, ha detto, "non deve essere più violenza, ma compassione e giustizia per il popolo palestinese colpito da questa situazione iniqua e ingiusta".

mercoledì 5 maggio 2021

Il mese mariano. La devozione a Nostra Signora di Ilige.

 
Simbolo della fede maronita

Per secoli è rimasta quasi nascosta nel villaggio di Mayfouq, tra le montagne alle spalle dell’antica Byblos, nel nord libanese. Ma negli ultimi decenni, la sua storia e anche le sue riproduzioni hanno iniziato a spargersi per tutto il Libano e oltre, in giro per il mondo. Nostra Signora di Ilige, l’icona del x secolo riapparsa all’inizio degli anni ottanta sotto gli strati di pittura che l’avevano coperta agli occhi del mondo, ora conforta e rinsalda la spiritualità mariana di tanti cristiani maroniti in tutti i continenti. Lo fa in maniera singolare, visto che la tavola di quell’icona si è in qualche modo impregnata anche della pioggia di travagli e sollievi che hanno segnato il cammino della cristianità maronita, anche nei suoi momenti più bui. Proprio davanti a quell’immagine hanno pregato, sperato e pianto i patriarchi e i monaci maroniti rifugiatisi per secoli nelle valli libanesi più appartate, in tempi di tribolazione. 

La “riscoperta” di Nostra Signora di Ilige, con tutti i suoi sorprendenti sviluppi, avviene nel 1980, quando l’ordine monastico che gestisce l’antica sede patriarcale di Mayfouq decide di restaurare un’icona posta da tempo immemore in una cappella, immagine venerata con particolare fervore dagli abitanti dei villaggi circostanti. Il restauro, iniziato dalle suore carmelitane del convento di Harissa e proseguito in Francia, dura sette anni e riporta alla luce l’affresco originale nascosto dietro ben sette strati pittorici che si erano sovrapposti lungo il tempo alla prima immagine, alterandone la fisionomia anche con l’introduzione di tratti iconografici di ascendenza occidentale. 

L’icona che riemerge dal lungo restauro esprime invece in maniera singolare la sua matrice siriaca autoctona, non influenzata da canoni artistici d’importazione. In essa, Maria appare con Gesù Bambino poggiato sul suo grembo. «Ha lo sguardo che assomiglia a quello di tante giovani donne mediorientali», ripetono tanti devoti dell’immagine, resa cara ai cristiani libanesi anche dal singolare intreccio che la unisce alla vicenda storica della Chiesa maronita. Nelle sue peripezie storiche, il patriarcato maronita fu spinto a porre la sua sede nell’isolato villaggio montano di Mayfouq dagli inizi del XII secolo fino alla metà del secolo XV , erigendo la chiesa di Ilige sui resti di un tempio pagano. Durante quei secoli, i patriarchi maroniti e i monaci che erano con loro hanno affidato chissà quante volte a Nostra Signora di Ilige le loro suppliche e le loro richieste di intercessione. I patriarchi usarono tante volte come rifugio proprio una stanza nascosta sopra la cappella che custodiva l’icona. Così, il luogo e l’immagine divennero il sacrario dove fu custodita la fedeltà di tutta la Chiesa maronita alla fede definita dal concilio di Calcedonia, che aveva proclamato la duplice natura — umana e divina — di Cristo, insieme alla maternità divina di Maria. Verità di fede che trovano espressione singolare nei dettagli iconografici che connotano l’icona. In particolare, la professione di fede sulle due nature di Cristo viene espressa dalla forma simbolica di benedizione impartita con la mano destra sia da Gesù che da Maria con tre dita unite a indicare le tre Persone di Dio, e indice e medio serrati, a indicare che Cristo è vero Dio e vero uomo. I capelli della Vergine Maria sono completamente nascosti e coperti da una fascia, secondo gli usi delle popolazioni semitiche. 

La spiritualità mariana vissuta nella Chiesa maronita, espressa nel ciclo liturgico di tutte le feste dedicate a Maria — da quella della Visitazione fino a quella dell’Assunzione — proclama sempre il mistero dell’incarnazione come sorgente di tutte le glorie della Santa Vergine. La Madre di Dio accompagna suo Figlio lungo tutto il percorso della sua opera di salvezza. Tutti i canti più cari dell’innografia maronita riecheggiano dello stupore davanti al mistero dell’incarnazione, il prodigio della salvezza e della felicità che può raggiungere ogni cuore umano attraverso l’umanità di Cristo. A Betlemme, quando nasce il Bambino annunciato dall’angelo, Maria è la prima a abbracciarlo. Lei per prima ha abbracciato Dio, abbracciando il suo bimbo appena nato, e ha «adorato colui che aveva generato». In quello sguardo, e in quell’abbraccio, c’è tutto il mistero della salvezza rivelato dall’avvenimento cristiano. Perché non basta sapere che c’è Dio, per godere di Dio. Non è la credenza in Dio a dare di per sé speranza agli uomini e alle donne reali. Non basta credere in Dio per essere felici. Bisogna abbracciarlo, come per prima fece Maria, e essere abbracciati da Lui. 

Guardando l’icona di Nostra Signora di Ilige, in questo mese di maggio, tanti cristiani maroniti potranno tornare a rivolgere a Maria i loro occhi e le loro preghiere, in questo tempo così difficile per tutte le genti che abitano il Paese dei cedri. Contemplando Colei che ha partorito Dio senza soffrire, potranno pregustare ancora una volta che la salvezza non nasce dalla fatica dell’uomo, ma viene come un dono gratuito. Il parto di Maria è il segno carnale che la salvezza non viene da noi, dal nostro sforzo. La felicità viene dalla grazia di essere amati gratuitamente, e non arriva come un effetto del travaglio, della fatica e del dolore. E se la felicità dell’uomo si è fatta incontro agli esseri umani in maniera così gratuita, non lo ha fatto non per complicarci la vita, ma per rendere semplice ai poveri e ai piccoli poter abbracciare e farsi abbracciare dal mistero di Dio, abbracciando l’umanità di Cristo. Così come fece, per prima, sua madre. 

di Gianni Valente

da L'Osservatore Romano , 5 maggio 2021

venerdì 30 aprile 2021

La Tunisia in preda al demone del terrorismo.

 

ANALISI - Il Paese, democrazia in costruzione dopo la ′′rivoluzione del gelsomino′′ del gennaio 2011, è oggi il primo Paese esportatore di giovani partiti per la jihad: Libia, Siria e Sahel... Una realtà dura da accettare dalla società locale.

     Articolo di Yves Thréard, LE FIGARO, 26 aprile 2021 

′′Come ogni volta, in Tunisia, si è presi da spavento all'annuncio di un attentato terroristico in Europa: si prega Dio che il presunto terrorista non sia tunisino e ci si nasconde la faccia fino ai risultati delle indagini della polizia. E, quasi sistematicamente, si ha diritto allo stesso verdetto: il colpevole è un terrorista tunisino... "   Inizia  così, sabato, l'articolo di Moncef Dhambri sul sito di informazioni online Kapitalis. Dopo 72 ore dall'assassinio della funzionaria della polizia del commissariato di Rambouillet, i commenti sono tantissimi sui media tunisini. Tra rabbia e disperazione, una domanda viene ripetuta, lancinante, dolorosa, terrificante: perché noi? 

Jamel Gorchene, l'assassino di 36 anni, era effettivamente originario di Msaken, comune della regione di Sousse. Come Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l'islamista di 31 anni che ha ucciso 86 persone, il 14 luglio 2016, al volante del suo camion sulla Passeggiata degli inglesi a Nizza. Anche lui era, si diceva, era depresso. L'inchiesta rivela tuttavia che il suo attentato, rivendicato da Daech (ISIS), era stato preparato con attenzione.

Pochi mesi dopo, il 19 dicembre 2016, è Anis Amri, nato a Tataouine, nel sud della Tunisia, che si dirige con un veicolo rubato sul mercato di Natale a Berlino: 12 passanti vengono uccisi.

Il 1° ottobre 2017 Ahmed Hanachi, delinquente tunisino appena rimesso in libertà il giorno prima dei suoi crimini, assassina, alla stazione di Saint Charles di Marsiglia, due giovani donne. Tre anni dopo, il 20 ottobre 2020 Brahim Aouissaoui, appena arrivato in Francia da Sfax, via Lampedusa, sgozza il sacrestano e una fedele della Basilica di Nizza e poi, non lontano dall'edificio, una donna di 44 anni.

La Tunisia, dodici milioni di abitanti, democrazia in costruzione dopo la ′rivoluzione del gelsomino′′ del gennaio 2011, è un focolaio del terrorismo islamico. Oggi è il primo paese esportatore di giovani partiti per la jihad: in Libia, in Siria e nel Sahel... Una realtà dura da accettare dalla società sul posto. Secondo uno studio del Washington Institute for Near East Policy, pubblicato nel dicembre 2018, negli ultimi anni 3000 cittadini tunisini sono partiti per zone di combattimento. E altri 9000, secondo alcune fonti, sarebbero stati impediti di andarvi. Perché così tanti? 

Già alla svolta degli anni 2000, la guerra in nome di Allah perseguitava gli spiriti e attirava i candidati. Nel 2000 due tunisini sono presenti nel gruppo che sta progettando di attaccare la Cattedrale di Strasburgo. Il 9 settembre 2001, due giorni prima del crollo delle Twin Towers a New York, due uomini, originari di Gabès e Sousse, arruolati da Al-Qaeda, assassinano il comandante Massoud. Osama Bin Laden e la filiera afghana reclutarono molti tunisini. Proprio come i gruppi che combatterono nella seconda guerra in Iraq, a partire dal 2003. 

Il territorio tunisino stesso non è risparmiato. Nel 2002 un kamikaze prende di mira a famosa sinagoga della Ghriba, a Djerba: 19 vittime. Dal 2011 circa 120 poliziotti o membri delle forze di sicurezza sono stati colpiti da terroristi. Spettacolari attentati sono stati commessi: il 18 marzo 2015, 24 persone trovano la morte nel museo del Bardo a Tunisi; il 26 giugno dello stesso anno, 27 turisti vengono uccisi nell'hotel Imperial Marhaba a Sousse... La lista è lunga; la minaccia, permanente; la tensione, estrema. 

Se la povertà, reale nelle regioni lontane dal litorale, viene spesso invocata per giustificare questa radicalizzazione, non basta a spiegare il fenomeno. Il quale, come si vede, è molto precedente alla primavera araba. Quando Habib Bourguiba, il padre della nazione, e il suo successore, Zine el-Abidine Ben Ali, guidavano il paese con una mano di ferro, il verme islamista era già presente in tutto il paese. Meno lampante forse, ma già virulento. Nel suo testamento, scoperto dagli americani in un nascondiglio di al-Qaeda in Pakistan, l'autore franco-tunisino dell'attacco della Ghriba, Nizar Naour, afferma la sua "adorazione per Khomeini, Bin Laden e Ghannouchi". 

Rached Ghannouchi. Il nome dell'attuale presidente dell'Assemblea nazionale tunisina ritorma spesso nei dibattiti sulla radicalizzazione dei giovani. 80 anni di età, questo vicino di fuoco dell'ayatollah Khomeini, dei Fratelli Musulmani e della Turchia di Erdogan, è il capo di Ennahdha, partito che è al cuore del panorama politico tunisino, anche se ha perso voti. Esiliato a Londra prima di tornare nel suo paese nel 2011, è accusato di svolgere un ruolo ambiguo, nonostante la sua da poco proclamata fedeltà alla democrazia. E' stato uno dei suoi attivisti, Tarek Maaroufi, a reclutare a Bruxelles i due assassini di Massoud. 

Condannato in Belgio, Maaroufi quando uscirà di prigione sarà accolto come eroe a Tunisi. Lui, Ghannouchi ed altri eserciteranno un ruolo importante, dopo la ′′rivoluzione del gelsomino′′ del 2011, per spingere i giovani verso la jihad. Il loro proselitismo è rilevato da servizi e osservatori stranieri. Jacob Wallas, ambasciatore statunitense in Tunisia dal 2012 al 2015, non esiterà ad affermare, in una conferenza organizzata nel 2018:

′′ Vorrei sottolineare la tolleranza iniziale delle attività jihadiste da parte del governo dell'epoca. Il partito Ennahdha ha difeso il dialogo con i jihadisti." Infatti l'ondata di liberazione post-rivoluzionaria ha fatto emergere molti individui fanatici. Parecchi si uniscono alle fila di Ansar al-Sharia, gruppo salafista di cui la regione di Sousse è il feudo. Altri si nascondono nel sud tunisino, verso Kasserine e il djebel Châambi, dove ritrovano compari provenienti dall'Algeria e dalla Libia. 

′′Se è vero che il coinvolgimento dei tunisini nel terrorismo internazionale non risale alla caduta del regime, nel gennaio 2011, è evidente comunque che il loro numero è esploso a partire da quella data”, dichiara Mezri Haddad, filosofo ed ex diplomatico tunisino. “Ciò si spiega con la destabilizzazione dei servizi segreti e di sicurezza nel gennaio 2011, con la liberazione di decine di terroristi detenuti in prigione durante l'epoca di Ben Ali, con l'ondata migratoria di centinaia di clandestini a partire dal gennaio 2011 che hanno invaso l'Italia e la Francia, con il trasferimento di migliaia di candidati al jihadismo in Siria, con la complicità delle autorità politiche." Due deputati tunisini hanno sospettato che una compagnia aerea, Syphax Airlines, svolgesse questa missione. Il suo proprietario, simpatizzante di Ennahdha, siede oggi in Aula. 

Nel 2017 è stata istituita una commissione parlamentare tunisina per trovare rimedi alla radicalizzazione di una parte della popolazione. Senza seguito. Dopo l'assassinio di Samuel Paty, lo scorso ottobre nelle Yvelines, il deputato islamo-populista Rached Khiari ha scritto sulla sua pagina Facebook: "Ogni attacco al profeta Maometto è il più grande crimine. Tutti coloro che lo commettono devono assumersi le sue ricadute e ripercussioni.". Parole che hanno provocato una vivace polemica e che gli hanno procurato guai con la giustizia del suo Paese.

Su Facebook, l'assassino di Rambouillet seguiva assiduamente le notizie di Rached Khiari, di cui era tifoso, ma anche le dichiarazioni indignate di Jean-Luc Mélenchon sull'Islam in Francia. La giovane democrazia tunisina, così singolare in un mondo arabo-musulmano capovolto, potrà ancora resistere a lungo alla piovra islamica che la mina dall'interno e si diffonde ovunque in Francia e in Europa?

https://www.lefigaro.fr/vox/monde/la-tunisie-en-proie-au-demon-du-terrorisme-20210426

lunedì 26 aprile 2021

Vivere oggi ad Aleppo

 

Dieci anni di guerra civile in Siria - o c'è dell'altro? 

Vivere e sopravvivere 

Bernard Keutgens 

Tutto è iniziato con una rivolta. All'inizio, si scontravano solo diverse  fazioni e gruppi, ma ben presto cinque grandi potenze militari hanno cominciato  ad interferire facendo esplodere gli scontri in una implacabile guerra. 

Ecco perché reagisco male quando leggo che questa è una guerra civile.  Si tratta davvero di una devastazione per mano di cittadini litigiosi? Forse  bisognerebbe riaprire i libri di storia per trovare la definizione esatta di guerra  civile... Anch'io, naturalmente, denuncio tutta la violenza, la criminalità e la  corruzione che non mancano qui a livello locale come altrove nel mondo. Ma ai  miei occhi, non voler vedere le connessioni geopolitiche è ingiustificabile.  

Le armi erano ferme da sei mesi quando ho visitato per la prima volta degli  amici ad Aleppo nell'agosto 2017. Un segno di speranza era visibile sui volti  della gente, anche se un terzo della città - a quel tempo una metropoli con più di  3 milioni di abitanti - era completamente in rovina. Ovunque si vedevano edifici  scheletrici, devastazioni, rovine... Più tardi, ho potuto vedere con i miei occhi  tutta la portata della distruzione in molte altre parti del paese: nei villaggi e nelle  città lungo le strade principali, nei sobborghi di Damasco, a Homs e nelle città  circostanti, per non parlare delle zone che mi è stato detto di evitare....  

La mia presenza ad Aleppo 

Quando mi sono trasferito qui ad Aleppo nel febbraio 2018, tutti erano  convinti che ci sarebbero stati tempi più tranquilli. Tutt'altro! Qualche giorno fa,  abbiamo dovuto assistere al triste decimo anniversario di un conflitto senza fine:  senza dubbio una delle più grandi crisi umanitarie dopo la seconda guerra  mondiale. 

Ora la situazione per tutta la popolazione civile, così come per me, è  sempre più confusa e dura: manca quasi del tutto il gasolio per il riscaldamento  durante i mesi invernali (non ho mai avuto così freddo in vita mia), code  chilometriche di auto davanti alle stazioni di servizio, centinaia di persone  davanti ai punti di distribuzione del pane (il pane è sovvenzionato dal governo  ed è razionato, così come il gas e la benzina), da mesi abbiamo solo 3 ore di  elettricità al giorno, difficile l’accesso a internet.... Tutto questo in un paese in  cui le riserve di petrolio sarebbero sufficienti a rifornire l'intera popolazione. Ma  tali riserve nel Nord-Est del paese sono nelle mani di grandi potenze. Anche gli enormi campi di grano fertile al confine con l'Iraq sono stati  deliberatamente incendiati da diversi anni. Uno scenario catastrofico che  difficilmente si può immaginare. 

Tutte le attività economiche sono state paralizzate dalla guerra, così che  la povertà ha ormai colpito l'intera popolazione. Si può parlare di una grande  carestia, poiché la maggior parte delle persone, a causa del basso reddito (il 90%  vive sotto la soglia di povertà), non può più procurarsi nemmeno gli alimenti di  base. Una povertà causata anche dall'orrenda inflazione con prezzi galoppanti.  Un disastro assoluto. 

Personalmente da molti anni faccio parte del Movimento dei Focolari, che  lavora per l'unità, il dialogo e la convivenza pacifica, in sintonia con una comunità attiva in Siria da 50 anni. Ad Aleppo la comunità è piccola, ma in tutto  il paese, circa 700 amici condividono gli stessi valori e lo stesso stile di vita. Io  opero come terapeuta familiare principalmente nei quartieri cristiani nel centro  di Aleppo: accompagnamento delle famiglie, formazione di vario tipo, progetti  per i giovani, interventi psicosociali, sostegno ad altri operatori umanitari. 

Aleppo è un centro multietnico-religioso nel Nord del paese. Le  organizzazioni umanitarie cooperano in un'ampia rete per tutta la popolazione.  Io stesso sono responsabile del sostegno ai genitori in una scuola di 100 bambini  con problemi di udito, di cui circa il 90% appartiene alla comunità musulmana.  È stato impressionante per me vedere come si è messa in moto una solidarietà  dinamica tra i genitori durante le sessione di formazione, permettendo di  imparare reciprocamente gli uni dagli altri. Le madri che indossano il velo hanno  posto spontaneamente le loro domande e condiviso le esperienze di integrazione  dei figli con problemi di udito. 

Nell’ultimo anno, la crisi ha assunto proporzioni ancora maggiori. In  guerra ci si può proteggere dalle bombe e dalle schegge, ma non dalla povertà.  Ora sono costantemente fermato da persone che chiedono aiuto. Probabilmente  si può dire da lontano che sono "lo straniero con la borsa gialla". Sanno molto di  me, forse tutto. Sicuramente sono uno dei pochissimi stranieri che hanno deciso  di vivere qui solo per aiutare la gente. Con il mio arabo stentato e con il  linguaggio dei segni riesco a comunicare. Grazie alle organizzazioni ecclesiali  ho ricevuto un permesso di soggiorno valido per lavorare qui per 3 anni. 

Mi sono chiesto spesso perché metà della popolazione (11 milioni su un  totale di 22 milioni) ha dovuto lasciare le proprie case, fuggire all'estero o  stabilirsi in una zona più sicura a casa. Sì, la realtà sul terreno è più complessa  rispetto a come viene rappresentata nei media occidentali e nella politica. La  versione ufficiale secondo la quale una sola persona è responsabile della  catastrofe è molto debole. I resoconti sono strumentalizzati in funzione dei  diversi interessi. 

È difficile, quasi impossibile, avere un quadro chiaro e neutrale della  complessa situazione qui sul terreno e in tutto il Medio Oriente, perché ci sono  troppe poche informazioni sulle mosse segrete, gli interessi strategici e gli  intricati giochi di potere. Tutti qui si sono resi conto da tempo che questo  conflitto non riguarda i valori democratici, come viene spesso dipinto dalla  stampa occidentale, ma i grandi interessi geopolitici e le molte risorse naturali.  Il problema non è solo di diritti umani ma anche e soprattutto di trattati  internazionali che non vengono rispettati. Ognuno accusa l'altro come il  colpevole. Quando cammino per le strade, mi chiedo spesso quale sia la  responsabilità dei paesi occidentali, compresi gli alleati del mio paese (il Belgio),  in questo conflitto. Alla Siria sono state imposte sanzioni massicce, tra l'altro le  più dure e severe mai imposte a un paese nella storia. Con quale diritto? Poiché  ora è impossibile commerciare con la Siria, il paese non ha alcuna possibilità di  ricostruirsi. Tutti sono colpiti dalle sanzioni. Dopo la seconda guerra mondiale,  il Piano Marshall è stato fondamentale per la ricostruzione. Ma qui non ho mai  sentito parlare di un piano di salvataggio, sicchè, l'impoverimento della  popolazione va avanti a passi da gigante. È un vero disastro. 

Mi tormenta la domanda: da dove vengono le armi? C'è l’embargo anche  sulle armi? Quali gruppi sostiene l'Occidente? Quali sono le forze di opposizione  dal punto di vista dell’Occidente? Quali persone e gruppi hanno attraversato il  confine turco in Siria? E quando in Occidente si parla di aiuti umanitari, si dice  chi li riceverà alla fine? Non si donano sostegni forse solo ai gruppi conniventi  con Idleb e a particolari zone? 

Come terapeuta, è d’obbligo farsi domande. La gente mi parla  continuamente di eventi drammatici. Per esempio, un padre si è tolto la scarpa  davanti ai suoi figli e si è colpito in testa con essa, urlando: "Stupido, perché non ho lasciato il paese qualche anno fa?”. Recentemente, la gente ha iniziato  a parlare pubblicamente di suicidi, cosa che prima in questa cultura era inaudita.  I giovani accusano i loro genitori di non aver corso i rischi della fuga all'estero.  Incontro costantemente persone per strada che parlano da sole o gridano con  sguardi confusi: "Come faccio a mangiare? Cosa devo fare?". 

Sempre mi torna alla memoria l'uomo steso sul marciapiede quando stavo  andando in ufficio qualche giorno fa. Questa è più di una metafora. Sicuramente  era stato calpestato - forse anche da chi gli stava vicino - abusato e poi derubato  in tutto. Immagino che nessuno volesse più provvedere alla sua sicurezza e ai  suoi bisogni primari. Le persone spesso non hanno la forza di piangere e gridare.  Nessuno ascolta. Tutti guardano altrove. Solitario e solo, quest'uomo giace a  terra. Anch'io non volevo vedere queste immagini. Mi guardo intorno. Di chi  posso ancora fidarmi qui? Posso ancora guardare l'altra persona negli occhi? In  situazioni drammatiche come questa, si cerca sempre il o i cattivi per giustificare  la propria inerzia. Ma se si trovassero dei colpevoli in tutta questa situazione in  tutti i campi? Tutti i partiti non hanno forse le mani sporche di sangue? Anche  l'Ovest, dove ho le mie radici! Forse è troppo facile accusare un'altra persona per  non voler vedere la trave nel proprio occhio. Ma ora sembra che sia troppo tardi.  Tutti vogliono fuggire da questa situazione. Ma verso dove? Le porte non sono  tutte chiuse per sempre? C'è ancora un bene comune? Ci sono ancora regole e  valori oppure sono solo le regole selvagge della guerra e dell'economia a  dominare? 

A prima vista, si nota l'enorme distruzione degli edifici, l'assistenza  sanitaria inadeguata e l'amministrazione obsoleta, dopo tutto, stiamo ancora  vivendo in tempo di guerra. Tuttavia, sono soprattutto le profonde, interiori ferite  di tutta la popolazione che lasciano conseguenze e cicatrici molto più gravi e  pesano sull'equilibrio psicologico: ferite, traumi, perdite, stress, depressione,  suicidi, malattie di ogni tipo.... 

Poi ci sono i bambini e i giovani che non hanno conosciuto altro che la  guerra, i conflitti, l'oppressione (di tutti i tipi) e la violenza, hanno sopportato  matrimoni forzati e gravidanze precoci. Che fare di fronte all'aggressività  repressa in queste persone?  

Covid-19?  

Come in tutto il mondo, la Siria non è stata risparmiata dal virus Sars-19.  A causa della guerra, che ha causato il collasso dell'intero sistema sanitario,  nonché la mancanza di sostegno da parte di altri paesi, che si preoccupano solo  di rincorrere i propri conti, le statistiche e le proiezioni, il virus ha inondato  l'intero paese in poco tempo. Tutti qui sanno che le cifre ufficiali sull'incidenza  dell'infezione e sul numero di morti non corrispondono alla realtà. I test sono  stati quasi impossibili, poiché il materiale di prova è scarso. Mancano anche i  medici e il personale necessari per affrontare questo tsunami. 

Ai miei occhi, tutta la popolazione (me compreso) è stata infettata da  questo virus. Molte persone, specialmente i portatori di malattie croniche (come  il diabete e i disturbi cardiovascolari) sono morte a causa o con il virus Sars-19.  Tuttavia, il Covid-19 sembra solo un problema secondario al momento, poiché  la povertà e le difficili condizioni di vita pesano molto di più. Preferisco  individuare nella mancanza di speranza l’angoscia più grande.  

Cosa manca per un futuro migliore?  

Al momento, non c'è una prospettiva per il futuro. Molti aspettano con  ansia le prossime elezioni presidenziali di giugno. Qualcuno sarà in grado di assumersi la responsabilità del bene comune e di tutta la popolazione civile?  Mancano i servizi primari: ospedali, scuole, luoghi di formazione, lavoratori  qualificati, che sono stati i primi a lasciare il paese, i turisti che visitano questo  paese con le sue ricchezze archeologiche; soprattutto, mancano gli investitori  che credono nel futuro. Manca la possibilità di confrontarsi con persone di altre  culture, ma una società monoculturale rischia di collassare su se stessa, perché  in un mondo globalizzato è necessario adottare un nuovo modo di vivere  insieme. Soprattutto, mancano segni concreti di mutamento che motivino i  giovani e li convincano a non lasciare il paese e a investire qui il loro talento.

Si può pensare al futuro solo se si conclude un giusto accordo di pace e si  annullano le sanzioni. Il futuro è possibile quando le persone si avvicinano le  une alle altre e lavorano insieme nel rispetto reciproco per dare forma alla  coesistenza e alla ricostruzione. 

Come sfuggire all'attuale dilemma?  

Non ci sono soluzioni facili e la strada sarà ardua. Avremmo bisogno di  una nuova obiettività e razionalità, il che non si può realizzare se non c’è dialogo. Su questo deve puntare la politica. I responsabili dovrebbero confrontarsi e  negoziare con tutte le parti interessate. È necessaria una nuova logica per  avvicinarsi agli altri lentamente, con umiltà e onestà. Anche i partner europei  dovrebbero capirlo. Dobbiamo staccarci dalle categorie di 'bene e male', perché  la realtà non può essere spaccata in due. 

La popolazione locale è stanca dei troppi anni di violenza. Dovrebbe  essere data loro la possibilità di lavorare per la riconciliazione e per il bene  comune, di lottare per una coesistenza fraterna, sostenuta dalla giustizia e dal  rispetto della legge. Sarà necessario ricomporre antiche rivalità per scoprire  nuovamente che siamo tutti figli dell'unica creazione. Forse una nuova fase  potrebbe iniziare qui in Siria, una fase segnata da una solida unità fraterna,  impossibile da realizzare senza il sostegno dall'esterno. Il popolo siriano non può rimanere a lungo in questa situazione. Il resto del mondo non può più distogliere  lo sguardo. Occorrono gesti e sostegni concreti.  

Bernard Keutgens