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sabato 24 agosto 2019

La riconquista dell'Esercito Siriano di Khan Sheikhoun segna l’inizio della liberazione di Idlib

 Dalla fine della nostra novena di preghiera  per la pace in Siria, l'esercito siriano ha ottenuto una grande vittoria a Idlib attraverso la conquista di Khan Shaykhun. Un grazie a tutti coloro che si sono uniti alla nostra preghiera! 
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Finalmente le città cristiane martoriate per anni dai colpi dei jihadisti, celebrano la liberazione.



Damasco (AsiaNews)
Con la presa di Khan Sheikhoun due giorni fa, è passata in mano all’esercito siriano il controllo della strada che collega Idlib a Hama. Nella provincia di Hama, ormai totalmente in mano a Damasco, non resta alcuna presenza dei combattenti di Al Nusra. Secondo molte fonti locali, la riconquista di Khan Sheikhoun segna l’inizio di un attacco che porterà alla liberazione di Idlib, divenuta insieme all’Afghanistan uno dei luoghi con maggior concentrazione di terroristi al mondo. Ciò porterà anche alla liberazione di tutte le terre occupate al nord e al sud del Paese. La zona di Khan Sheikhoun è quella dove negli ultimi anni gli “elmetti bianchi” avevano diffuso le notizie sui famigerati attacchi al gas sarin contro i civili, e che secondo altre  fonti erano notizie fabbricate.

La ripresa di Khan Sheikhun segna una svolta storica nei rapporti fra Damasco, Mosca, Ankara e Teheran. Fonti parlamentari siriane spiegano che fino ad ora, Mosca aveva invitato alla calma la Siria, e ciò ha permesso ad Ankara di tergiversare per un anno, evitando di attuare quanto concordato ad Astana. Ora sembra che la pazienza di Damasco sia esaurita. L’esercito siriano ha superato le linee rosse poste da Mosca per non turbare equilibri regionali ed internazionali. Queste linee non hanno più valore per il governo siriano. Sulle colonne del quotidiano Teshreen si legge: “Mosca è un alleato e deve sostenerci e non più obiettare su ciò che va contro agli interessi siriani”.

Per spingere l’esercito siriano a retrocedere e non compiere alcun attacco, 15 giorni fa la Turchia ha inviato truppe di rinforzo. L’esercito siriano non si è fermato e ieri è riuscito perfino ad accerchiare la base avanzata turca di osservazione militare a Mork, a sud di Idlib. Tutto appare più come una guerra fra Siria e Turchia, e non fra Damasco e i mercenari di Idlib, sostenuti da Ankara e Doha.
Ieri, la Radio siriana ha commentato: “La questione non è se Mork sarà evacuata, ma in quale modo avverrà”. La stessa fonte afferma che sono in corso fitte discussioni segrete fra russi e turchi per garantire una ritirata meno umiliante per Ankara. Altre fonti parlano di fuga di gran parte degli occupanti stranieri e turchi da Mork. In realtà, secondo video apparsi ieri sui social, a Mork vi sono ancora persone e combattenti.
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Come accadde con i furti alla liberazione di Aleppo: i miliziani fuggono
verso la Turchia smantellando gli impianti per la fornitura elettrica del governo siriano
Secondo diversi analisti, la scelta di accerchiare Mork appare come una diretta risposta della Siria alla decisione turco-americana di creare una zona di sicurezza nel nord della Siria. La risposta di Damasco sembra essere: “E’ terra siriana e verrà liberata anch’essa”, invitando Washington e i curdi a non confidare troppo sulla resistenza turca in Siria.

Intanto l’aviazione russa bombarda ogni giorno postazioni e depositi di armi sofisticate giunte di recente ad Idlib. La Siria ha aperto un corridoio umanitario per permettere agli abitanti civili di fuggire dalle zone di combattimento garantendo loro protezione, aiuti logistici e sanitari ed immunità per i non responsabili di crimini d guerra.
Molti civili sono già passati in Siria. Ma una gran parte di essi - soprattutto coloro che sono responsabili di azioni bellicose contro il governo ed i loro familiari - hanno optato di ritirarsi al centro di Idlib, la cui difesa appare ormai sempre più fragile.

domenica 10 marzo 2019

Presidente Aoun: Il Libano e tutta la terra del Levante conducono una medesima lotta per il pluralismo e contro i settarismi


AsiaNews - “Stanno cercando di disegnare un nuovo Machrek [insieme delle nazioni arabe a est del Cairo e nord della Penisola arabico], lontano dalla propria identità federativa e dalla diversità religiosa”. 
Il capo di Stato Michel Aoun ha approfittato della “Conferenza della sede regionale della Caritas in Medio oriente e Nord Africa” che si tiene in Libano, per affrontare il problema dei rifugiati siriani dall’ambito geopolitico. 
 Imitato in questo senso dal patriarca della Chiesa maronita, il card Beshara Raï, il presidente ha dichiarato che il Libano e l’intero Machrek conducono una medesima lotta per il pluralismo e contro la formazione di Stati segregati e razzisti. È necessario, ha affermato il porporato, combattere tutto ciò che spinge a una redistribuzione demografica delle popolazioni della regione, con una finalità di epurazione religiosa ed etnica che “trasforma le nostre società levantine in società razziste, unilaterali, divergenti e conflittuali”. 
 In particolare, Aoun ha messo in guardia i presenti contro un “contagio intellettuale, che si propaga e si trasmette rapidamente, soprattutto attraverso i social network” e che ha preparato il terreno all’intolleranza, all’estremismo e al terrorismo. Dal canto suo, nel contesto di un intervento incentrato sul “bene comune nelle società pluraliste”, il capo della Chiesa maronita, tornando sulla questione delle migrazioni forzate dei popoli negli ultimi decenni ha insistito ancora sul ritorno dei siriani sfollati dalla guerra. Questo, ha aggiunto, deve avvenire in maniera indipendente rispetto a una soluzione politica del conflitto militare che devasta il Paese dal marzo 2011. 
 Alcuni estratti fra i più significativi dell’intervento del capo di Stato:
“L’artefice del Patto Nazionale, Michel Chiha, ha detto: ‘Chiunque cerchi di controllare una comunità confessionale in Libano, cerca di distruggere il Libano nella sua interezza’. Da qui è giocoforza constatare che questo vale allo stesso modo per il Levante - il Mashrek. Il nostro Mashrek è un miscuglio di culture, un crocevia di civiltà, una culla di religioni monoteiste. Si tratta di un modello unico nel suo genere, dotato di una ricchezza spirituale, culturale e cognitiva; qualsiasi attacco a una di queste componenti non è altro che un attentato a questo modello e alla sua unicità”. 
 “Tutti gli eventi degli ultimi anni sono, senza ombra di dubbio, volti a trasformare le nostre società levantine in società razziste, unilaterali, divergenti e conflittuali. Infatti, l’emorragia umana, la migrazione forzata senza contare i tentativi instancabili volti a un cambiamento demografico; le diverse ondate di sfollati nel corso degli ultimi decenni; la partizione della Palestina e lo sfollamento della sua popolazione, sommata alla pressione esercitata della parte restante della sua gente, negando il diritto al ritorno per i palestinesi e il loro stanziamento nelle nazioni della diaspora; tutti questi sono avvenimenti che tracciano i contorni di un nuovo Levante (Machrek), lontano dalla sua identità federativa e lontano dalla sua diversità religiosa, comunitaria e culturale”. 
Minacce di terrorismo ed estremismo
 “Nostro compito è respingere e resistere a questi tentativi con determinazione e perseveranza: la terra del Levante (Machrek) non deve svuotarsi dei propri abitanti; la culla di Cristo, la strada per il Golgota e il Santo Sepolcro non possono esistere senza i cristiani, così come Gerusalemme e la moschea di al-Aqsa senza i musulmani, come l’acqua non può continuare a scorrere se la sua fonte di prosciuga”. 
 Le minacce più grandi che gravano oggi sul nostro mondo e sulla nostra regione in particolare sono l’estremismo e il terrorismo, che si nutrono l’uno dell’altro. Il pericolo sta nel fatto che si tratta di un contagio intellettuale che si propaga e si trasmette rapidamente, soprattutto attraverso i social network. Esso si basa sull’ignoranza, sulla povertà e l’emarginazione per seminare idee e credenze distruttive e per creare un ambiente favorevole al terrorismo”. 
 Inoltre, il capo dello Stato ha ricordato di aver lanciato una iniziativa alle Nazioni Unite per fare del Libano un centro permanente per il dialogo fra le diverse civiltà, culture e razze, da perseguire attraverso la creazione di una “Accademia dell’incontro e del dialogo fra gli uomini”. Una entità il cui obiettivo è quello di diffondere una cultura dell’incontro nella fedeltà, secondo quella che è “l’essenza del Libano” che, come lo ha definito papa Giovanni Paolo II, è “più di una nazione, è un messaggio”. 
  Il capo dello Stato non ha mancato di ricordare l’importanza di Caritas-Libano, strumento della pastorale sociale della Chiesa che “nella sua azione interconfessionale, inter-etnica e inter-statale” arriva a fornire “aiuto e servizio in caso di bisogno”. Una azione che si sviluppa “a prescindere dalla religione, dall’identità e dall’appartenenza etnica”.  

Alle radici del dibattito, in questi giorni riacceso dalle dichiarazioni del Regno Unito: conoscere la guerra nel paese dei cedri.
Conferenza di Mario Villani, febbraio 2019

venerdì 30 novembre 2018

Idlib: “Tutti i beni dei cristiani sono considerati bottino di guerra e di conseguenza verranno sequestrati”, il comunicato di Al Nusra

notifica inviata da Hayaat Tahrir El Sham, in cui si esige di consegnare una casa di cristiani entro la fine del mese di novembre

AsiaNews  30 novembre 2018

Al Qaeda in Siria - che dopo essersi evoluta in Al Nusra, si fa ora chiamare Hayaat Tahrir Al Sham [1] - continua da giorni a sequestrare case, terreni e beni dei cristiani all’interno della provincia di Idlib sotto il suo controllo. In un comunicato emanato da Tahrir Al Sham e pubblicato quattro giorni fa si legge: “Tutti i beni dei cristiani sono considerati bottino di guerra e di conseguenza verranno sequestrati”. Tre giorni fa, dal Patriarcato degli armeni cattolici, AsiaNews ha ricevuto conferma che da parte dei gruppi terroristici islamici di Idlib è in corso una confisca dei beni dei cristiani fuggiti durante la guerra dopo l’occupazione da parte di Daesh.
Un abitante di Jisr el Sheghur - che ha voluto mantenere l’anonimato - è fra coloro che hanno occupato una casa abbandonata. Egli stesso dichiara che Hayaat “ha informato tutti gli abitanti che hanno occupato case appartenenti ai cristiani fuggiti, di svuotare i luoghi o accettare di versare un affitto mensile” all’organizzazione terroristica islamica.
Vi è anche l’esproprio delle case dei cristiani lasciate in procura a loro amici o vicini di casa, Al Hayaat non riconosce tali procure legali. Le case più belle vengono assegnate ai capi islamici; altre case o negozi vengono venduti o affittati. Il sequestro non riguarda i cristiani ancora in città, che sono pochissimi e composti soprattutto da anziani.
I cristiani nella provincia di Idlib, composti sopratutto da armeni e greco-ortodossi, hanno dovuto fuggire da quei luoghi nel 2012. Noti per essere benestanti e proprietari di terreni e case, i cristiani hanno abbandonato tutto, fuggendo in zone controllate dal governo. Molti altri hanno optato di emigrare all’estero: alcuni solo temporaneamente in Turchia, Libano o Armenia; altri hanno scelto di non ritornare mai più e sono andati in Europa, America, Australia.

I cristiani della provincia erano concentrati soprattutto all’interno della città di Idlib, ma anche nei villaggi circostanti dell’hinterland agricolo ed industriale, come pure nei nuovi centri urbanizzati di Jisr el Sheghur, Halluz, Yaacobibya ed Al Ghassaniya. Agli inizi del 2012, tanti cristiani hanno subito feroci persecuzioni ad opera di Daesh. Molti di loro sono stati decapitati, con la scusa di essere sostenitori “del regime di Damasco”.
Da quando i gruppi armati islamici della Rivoluzione siriana hanno preso il controllo, persecuzione diretta e terrorismo verso i cristiani si sono accresciuti. I fedeli sono spinti ad abiurare o a subire la condanna a morte in caso di rifiuto. Un’altra via di uscita è la fuga. Soprattutto Daesh ed Al Nusra hanno rapito molti sacerdoti e religiose ed hanno demolito chiese e monasteri trasformandoli in cimiteri di fosse comuni. Fra le tante testimonianze, vi è quella della chiesa greco-ortodossa di Al Ghassaniya (dicembre 2013).
Nel 2015, nella città di Idlib, la chiesa dedicata alla Madonna è stata saccheggiata e ha subito sacrilegi da parte di Jund al Aqsa, “I soldati di Al Aqsa”.
Insieme alle fazioni integraliste alleate, Hayaat Tahrir Al Sham controlla quasi il 70 % dei territori della provincia di Idlib. Essa è composta da migliaia di combattenti siriani, ma anche da jihadisti arabi e non arabi. Il rimanente 30% del territorio è controllato da gruppi meno integralisti, ma sempre opposti ai cristiani. Questa parte è infatti controllata da gruppi fuoriusciti da Al Qaeda e da Isis, quali il “Partito Islamico Turcomanno”, nostalgici dell’Impero ottomano turco; “Sekur Al Ghab” (Falchi delle Foreste); Ansar Al Tawhid (Apostoli dell’Unità); Hurras Al Din (I Guardiani della religione); Ajdad Al Caucaz (I Nonni del Caucaso), composto da ceceni e azerbaijani turchi; Jeysh Al Izza (L’Esercito della Gloria) e tanti altri. Solo uno sparuto gruppo appartiene all’Esercito siriano libero.  

  [1] “Organo per la liberazione di Sham”, dove non si comprende se con il nome Sham si intenda Damasco, oppure la definizione storica della provincia storica di Sham, la grande Siria che comprende anche il Libano la Palestina e la Giordania.

martedì 11 settembre 2018

Mons Abou Khazen circa battaglia di Idlib: "Non si può lasciare una parte consistente nel Paese in mano ai terroristi e jihadisti”

Nella cittadina totalmente cristiana ortodossa di Muhardeh si sono svolti i funerali di Elias, 14 anni, Amira, 23 anni, Lena, di 8 anni con sua sorella di 4 anni, 
Maria di 8 anni con suo fratello Fadi di 6 anni e la sorellina lamya 4 anni,
 Dima la loro madre di 30 anni:
vittime dei missili che i jihadisti da Hama e Idlib lanciano da 7 anni sulla città in odio ai cristiani.

AsiaNews 
Le tensioni internazionali attorno a Idlib “fanno paura” e la sensazione diffusa è che fra le cancellerie occidentali, in testa gli Stati Uniti e i suoi alleati nella regione, “si cerchi un pretesto” per colpire la Siria. È quanto sottolinea ad AsiaNews il vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, secondo cui “in tutte le battaglie vi è un pericolo reale per i civili”, ma non è possibile lasciare un intero settore del Paese nelle mani di gruppi jihadisti e terroristi. Il prelato ricorda infatti che, proprio da quell’area, nei giorni scorsi è partito un lancio di razzi e granate che ha colpito una cittadina cristiana, uccidendo una decina di persone in maggioranza donne e bambini. 

Per il vicario di Aleppo è doveroso mantenere alta l’attenzione sulla sorte della popolazione civile ma, al tempo stesso, “governi occidentali e media mainstream esasperano la situazione”. Il prelato ricorda inoltre le vittime cristiane che spesso vengono relegate ai margini. “Quattro giorni fa - racconta - gruppi terroristi [vicini alla Turchia] presenti a Latamneh hanno lanciato razzi sulla cittadina cristiana di al-Mahardeh, uccidendo una decina di persone”. Fra queste, aggiunge, “sei erano bambini e tre le donne. Di una famiglia si è salvato solo il padre”.
La zona da cui sono partiti i razzi è sotto il controllo di al Qaeda ed è fra gli obiettivi dell’annunciata offensiva dell’esercito siriano, che vuole riconquistare il controllo di tutta la zona. “Nessuno ha parlato di questo attacco - accusa mons. Georges Abou Khazen - ed è inaccettabile”. La speranza, prosegue, è che “si giunga ad un accordo che porti una vera riconciliazione” evitando violenze e combattimenti “ma siamo scettici. Bisogna capire quale sarà la posizione della Turchia e valutarne le azioni: una cosa sono le parole, altro i comportamenti sul campo” e dall’incontro della scorsa settimana a Teheran fra Russia, Turchia e Iran non sono emersi sviluppi positivi. 

L’esodo di milioni di disperati, che hanno cercato riparo all’estero in Medio oriente, Europa, Nord America e Australia, è una delle conseguenze più gravi del conflitto che, da sette anni, insanguina la Siria. L’offensiva su Idlib rappresenta una ulteriore fonte di preoccupazione per una nuova emergenza umanitaria e per le ripercussioni a livello internazionale, con possibili interventi del blocco occidentale, Stati Uniti in testa. Washington, infatti, ha già minacciato di attaccare la Siria in caso di utilizzo di arsenale chimico nella provincia. Tuttavia, per i critici ciò rappresenta un pretesto per intervenire contro Assad e colpirne gli alleati: Russia e Iran. 

Ad alimentare l’allarme anche le principali agenzie delle Nazioni Unite presenti sul territorio, secondo cui fra il primo e il 9 settembre oltre 30mila persone hanno abbandonato le loro case nella provincia di Idlib e sono fuggire in cerca di salvezza. Il timore, avvertono. è che si sviluppi “la peggiore catastrofe umanitaria” del secolo. “Una eccessiva drammatizzazione” chiosa il vicario apostolico dei Latini di Aleppo. 
“Fra le persone a rischio nella provincia di Idlib - conclude il prelato - vi sono almeno 200 famiglie cristiane che non hanno mai abbandonato la zona, nonostante la presenza dei terroristi di al Nusra. In questi sei anni hanno dovuto subire espropri di case, terreni e denaro, le donne hanno dovuto indossare il velo e una statua della Madonna è stata utilizzata come bersaglio per l’addestramento all’uso delle armi. la speranza è che anche per queste persone giunga la “liberazione” dal gioco fondamentalista perché “nessuno, cristiano o musulmano, deve vivere nelle mani dei terroristi”.

martedì 12 giugno 2018

Padre Samir. Il rapporto tra cristiani e musulmani: cittadinanza, lealtà, verità, come fratelli di un’unica famiglia umana

Una strada più bella di convivenza, come fratelli di un’unica famiglia umana; un rifiuto della violenza e dell’incancrenirsi al passato; un impegno a rispettare la cittadinanza di tutti, senza dividere i diritti fra cristiani e musulmani. È il messaggio e l’invito che p. Samir Khalil Samir, gesuita, esperto islamologo a livello mondiale, rivolge agli “amici musulmani”, insieme all’appello a distinguere la politica dalla religione. Nei giorni scorsi, in occasione del suo 80mo compleanno, p. Samir ha partecipato a un convegno in suo onore tenutosi presso il Pontificio istituto orientale. P. Samir propone anche una pista per la fondamentale testimonianza dei cristiani nel mondo arabo. 

Asianews 4 giugno 2018
1. L’Islam non è solo una religione: è una totalità
“L’Islam, a differenza del cristianesimo, non è solo una religione: è una totalità. È questo la sua forza e il pericolo. Può diventare un impero, una dittatura, perché niente sfugge all’islam: l’economia, la politica, l’aspetto militare, il rapporto uomo-donna, i gesti precisi nella preghiera, il modo di vestirsi, tutto! Tutto è islamico!
“È una forza, una potenza, ma è anche la lacuna, la difficoltà dell’islam. Mescolando religione, politica, economia e potere, la religione perde la sua essenza. È ciò che cerco di spiegare agli amici musulmani: fino a che ci sarà questo miscuglio – e rischia di essere per l’eternità – sarà difficile per i musulmani trovare una linea umanistica completa.
2. Il problema: mescolare politica e religione
Mescolare politica e religione è successo a tutte le religioni, in alcuni periodi. Spesso i musulmani mi criticano dicendo: “E allora, le crociate?”, aggiungendo cose inesatte e non vere. Io rispondo: “Tu stai parlando di una fase della storia, ma andiamo alla radice. Prendi il Vangelo, e trovami un solo passo in cui Gesù dice ‘combattetele, uccideteli, non fateli fuggire’, come sta scritto nel Corano” (2: 190-191; 4: 89; 9: 5; 9: 123; ecc.). Questa è la grande differenza! Gli uomini sono tutti simili, ma il testo fondatore è essenziale.
Gesù non dice “occhio per occhio, dente per dente” (Levitico 24:20; Esodo 21:24), come Mosè. Al contrario, Egli dice: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due.  Da' a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle” (Matteo 5, 38-42).
A chi mi viene a dire: “Ma allora, tu ti sottometti a lui, al musulmano!”. Rispondo: “No, io supero la provocazione, per aiutarlo a capire: è la visione evangelica di Cristo, il suo progetto originale.
Invece, il progetto originale di Maometto è un progetto politico, che usa sì la religione e la fede – ma è politico. L’islam non è capace di distinguere le due dimensioni. Ci sono tendenze che vogliono dissociare politica e religione, ma vengono criticate. Viene detto loro che quanto da loro portato avanti “non è l’Islam”.
Questo capita anche in altre religioni. Pensiamo all’induismo – che io credevo essere il pacifismo perfetto – e a quello che accade in India oggi: ogni giorno c’è un attacco contro protestanti, cattolici, musulmani. C’è difficoltà a distinguere la religione dalla cultura politica e economica.
3. “La religione appartiene a Dio, ma la patria a tutti!”
In Egitto, nel 1919, ci fu la rivoluzione contro i britannici. Il capo dell’opposizione, il famoso Saad Zaghloul, per raccogliere tutti gli egiziani – musulmani, cristiani, ebrei, miscredenti – contro di loro, lanciò lo slogan: “La religione appartiene a Dio, ma la patria a tutti!” (Ad-dīn li-llāh, wa-l-waṭan li-l-ǧamī‘).
Copti e musulmani stavano mano nella mano contro gli inglesi che invadevano l’Egitto. Era una questione nazionale, non religiosa. Non era un conflitto tra musulmani (cioè egiziani) e cristiani (cioè britannici), ma un conflitto puramente politico.  
Questa è stata la vera rivoluzione delle mentalità. Abbiamo combattuto allora mano nella mano. E abbiamo vissuto poi anche mano nella mano, musulmani, cristiani ed ebrei. In proporzione a loro numero, c’erano più ministri cristiani che musulmani; lo stesso a tutti i livelli della vita sociale, economica, culturale e politica. Gli ebrei si sentivano a casa, e i i negozi più grandi erano i loro. 
La religione è affare personale, tra me e Dio. Nessuno ha diritto d’interferire. È questa distinzione dei settori che è fondamentale, è quello che nel dialogo islamo-cristiano cerco, personalmente, di suggerire. Se parliamo di islam, cristianesimo e ebraismo, non parliamo di ebrei, musulmani e cristiani: parliamo del progetto. È un progetto puro, valido per tutti gli esseri umani, o è un progetto per “tribù”? Finché non ci capirà questo, temo che non ci sarà pace.
4. I periodi di liberalismo nella storia islamica
Nel corso della storia, abbiamo avuto periodi in cui vi è stato rispetto per tutti, soprattutto nel periodo abbasside, tra il 750 e l’anno mille. Eravamo tutti insieme, gli uni erano discepoli degli altri. Man mano, tutto si è poi politicizzato.
Più tardi, nel 1800, abbiamo riscoperto questa possibilità di convivenza, con un’apertura fino alla metà del 20mo secolo; ma poi è tornata la tendenza islamista. Il ritorno a un’era più liberale è possibile, ma non è prevedibile a breve tempo.
Ora siamo addirittura passati dall’intransigenza al terrorismo. Ed è un terrorismo squisitamente islamico. Chi uccide lo fa nel nome dell’islam, non nel nome dell’arabismo o del nazionalismo, ma contro chi non è un “perfetto islamico”: sciiti, yazidi, cristiani… E questa corrente sta arrivando anche in Occidente. Io temo che l’Europa non si accorga dell’immensità del pericolo.
Queste settimane in Gran Bretagna hanno proposto che ai musulmani si applichi la sharia, e non la legge inglese! Se la Gran Bretagna accettasse una cosa del genere – se ognuno avesse la sua legge: cristiani, ebrei, indù, ecc. –  allora non ci sarebbe più patria, non ci sarebbe più Paese.
Il principio fondamentale da attuare è questo: la distinzione dei settori. La politica vale per tutti, la decidiamo tutti insieme e sbagliamo – e ci correggiamo – tutti insieme. La fede è un fatto personale. Se tu vuoi essere ateo, hai il diritto di esserlo. Penso che ti manchino degli elementi, ma quello è affare tuo. Tu hai il diritto di essere ateo, come io ho il diritto di essere credente, e l’altro di essere musulmano o buddista, ecc. Questo manca nella visione islamica.
5. Aiutare i musulmani a ritrovare il loro liberalismo di una volta
I cristiani devono aiutare i musulmani (ed altri gruppi religiosi o ideologici) a ricordare questi principi: non è un principio solo cristiano, è un principio umanistico. Siamo tutti “italiani”, “umani”, uomo e donna. Io non ho autorità sulla donna, né una donna ha autorità su di me. Tutti siamo sotto una sola autorità, quella della legge e – se si crede – sotto quella di Dio.
Se la Costituzione divide cristiani e musulmani, o donna e uomo – come, purtroppo dal 1971 avviene in quella egiziana – non c’è più uguaglianza e non c’è più cittadinanza! Questo concetto di cittadinanza era “la” richiesta maggiore del Sinodo per il Medio Oriente nell’ottobre-dicembre 2010, ma non è stato possibile trasmetterla alla popolazione musulmana.
La disuguaglianza tra musulmani e non musulmani, uomo e donna, ricco e povero, i vari stati sociali, ecc., sono le cause del ritardo a tutti i livelli in molti Paesi. La costituzione e le leggi valgono ugualmente per tutti, e non dovrebbe esserci nessuna distinzione tra i membri del Paese e della nazione!
6. Il salafismo è la piaga dell’islam
La piaga attuale dell’islam è la tendenza salafita, che consiste a pensare che la soluzione ai mali presenti dell’islam è il ritorno all’islam delle origini, del settimo secolo. Questa tendenza prende varie forme e nomi: il wahhabismo, da un certo Muḥammd Ibn ‘Abd al-Wahhāb (1703-1792), che viveva a Najd nel centro dell’Arabia ; i salafiti, nati in Egitto alla fine del XIX° secolo, con il desiderio di riformare l’Islam tornando al modello dei primi compagni e successori di Maometto ; i Fratelli musulmani, movimento creato in Egitto nel marzo 1928 da Hassan al-Banna.
In questi gruppi, c’è una visione per cui non si distingue fra il settimo secolo e il ventunesimo. Ciò che era valido allora lo è oggi. Eppure sono passati 14 secoli, e ora la mentalità è cambiata, e cambia giorno per giorno. Come si può dire “torniamo a praticare quello che si faceva al tempo del Profeta”, come affermano i salafiti? Non si può. Bisogna avere buon senso e logica, e per questo la critica deve essere fatta, con rispetto, certo! – perché so che chi applica quest’idea lo fa perché è convinto che quella sia la parola di Dio – , ma fatta con forza e violenza !
Allora, lo aiuto, dicendo: “Rifletti con me, riflettiamo insieme”. La nostra missione è di aiutare a riflettere, e loro devono decidere. Non posso decidere per loro, ma non posso ignorare che loro stiano pensando con criteri non contemporanei. Si tratta di un impegno di informazione e di apertura, non di imporre qualcosa.
È il messaggio che trasmetto personalmente agli amici musulmani. Senza aggressività, dico: “Fratello mio, io ti voglio tanto bene. Vedi come puoi fare una famiglia, amata e amante, strutturata; come fare un’industria che sia per il bene dei poveri”. Serve equilibrare tutto, pensare globalmente. E, in fin dei conti, siamo tutti esseri umani, membri di una famiglia che può essere la patria, degli egiziani, degli italiani… ma non una famiglia che divide.
7. Cristiani del mondo arabo: la nostra missione
Quando si dice “musulmano”, si contrappone a “cristiano”. Io penso all’evangelizzazione, è vero, ma non per convertire, ma per annunciare il Vangelo, un progetto di liberazione! Se tu pensi che questo messaggio ti aiuti ad essere migliore, prendi quel che vuoi. Ma non cerco di farti cristiano. Cerchiamo una strada più bella. Se ne vedi una, seguila – ma alla condizione che non vi sia mai qualcuno che ne soffre, che ne paga il prezzo.
Vorrei concludere con ciò che abbiamo scritto nell’Assemblea speciale per il Medio Oriente, in Vaticano, l’8 dicembre 2009:
“Il rapporto tra cristiani e musulmani va compreso a partire da due principi: da una parte, come cittadini di uno stesso Paese e di una stessa patria che condividono lingua e cultura, come gioie e dolori dei nostri Paesi; dall’altra, noi siamo cristiani nelle e per le nostre società, testimoni di Cristo e del Vangelo. Le relazioni sono, più o meno spesso, difficili, soprattutto per il fatto che i musulmani generalmente non fanno distinzione tra religione e politica, il che mette i cristiani nella situazione delicata di non-cittadini” (§ 68).
“Tocca a noi, perciò, lavorare, con spirito d’amore e lealtà, per creare un’uguaglianza totale tra i cittadini a tutti i livelli: politico, economico, sociale, culturale e religioso, e questo conformemente alla maggioranza delle Costituzioni dei nostri Paesi. Con questa lealtà alla patria, e in questo spirito cristiano, noi facciamo fronte alla realtà vissuta, che potrebbe essere irta di difficoltà quotidiane, cioè di dichiarazioni e minacce da parte di certi movimenti. Constatiamo, in molti Paesi, la crescita del fondamentalismo, ma anche la disponibilità di un gran numero di musulmani a lottare contro questo estremismo religioso crescente” (§ 70).

Concludo con la dichiarazione al mondo del Concilio Vaticano II, il 28 ottobre 1965: “La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini” (Nostra aetate, 3).
Questa è la visione cristiana, che, nella mia conoscenza limitata, mi sembra essere la più aperta di tutte le altre.

sabato 31 marzo 2018

Mons. Abou Khazen: "Pregate perché il Cristo risorto possa infondere la pace ad Aleppo e in tutta la Siria”.

Kristos Anesti, Alithos Anesti
Cristo è risorto, è veramente risorto
Christ est ressuscité, il est vraiment ressuscité

da Asianews

La comunità cristiana vive le celebrazioni della Settimana Santa che preparano alla Pasqua “in un clima misto” di “speranza”, perché si possa arrivare presto “alla pace”, e di “scetticismo”, perché non è dato sapere ancora “come andrà davvero a finire”. È quanto racconta ad AsiaNews il vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, che non nasconde la propria preoccupazione “per il nuovo intervento straniero [leggi la Turchia, ad Afrin] nel nord del Paese”. “Speriamo bene - aggiunge - ma la sensazione è che stanno spogliando questo povero Paese e si stanno dividendo le sue vesti”. 
Le intenzioni di preghiera dei fedeli, racconta il prelato, sono “sempre rivolte alla pace. Quando cesseranno le armi, allora sarà possibile ripartire con il lavoro e tornare a una vita più tranquilla, serena, com’era prima del conflitto”. “È commovente - prosegue il prelato - vedere tutte queste persone che si riuniscono per partecipare alle preghiere, alle celebrazioni, ai riti con un unico desiderio che li unisce: celebrare la pace”. Questa, aggiunge, “sarà l’ottava Pasqua di guerra. Tuttavia, resta viva la speranza è che la testimonianza di Cristo Salvatore possa infondere un rinnovato ottimismo e che, dopo la Via Crucis, giunga anche la resurrezione”. 
Da poco entrato nel suo ottavo anno, il conflitto siriano continua a mietere vittime fra la popolazione civile. Aleppo, un tempo capitale economica e commerciale della Siria, oggi porta i segni di questa lunga striscia di sangue: molte industrie e officine, cuore della produzione locale, sono ridotte in macerie. Migliaia di famiglie sono fuggite e la stessa comunità cristiana si è ridotta di oltre i due terzi. Il futuro resta un’incognita, soprattutto per i giovani.
In un contesto di violenze e devastazioni, la Chiesa ha avviato in questi anni diversi progetti di sostegno e aiuto alla popolazione. Fra i tanti ricordiamo la pulizia della città, gli aiuti alle giovani coppie di sposi, dai pacchi alimentari ai fondi per le forniture elettriche, i centri estivi per centinaia di bambini, i contributi per coprire le spese sanitarie e le medicine, le visite, gli esami, le cure. Sono tutte iniziative a favore dei bisognosi, che in molti casi la gente di Aleppo - per anni epicentro del conflitto siriano sino alla liberazione nel dicembre del 2016 - non si può permettere.
Da una città martoriata giungono però anche segni di speranza: il 18 marzo scorso 35 giovani della parrocchia latina hanno ricevuto il sacramento della Cresima dalle mani del vicario apostolico, assieme al locale parrocco p. Ibrahim Alsabagh. Il segno di una comunità viva, che vuole crescere e testimoniare la presenza di Cristo, fonte di pace e salvezza. “Il numero dei fedeli - sottolinea mons. Georges - in questi anni è diminuito ma la nostra resta una Chiesa viva. Vedere l’assiduità con cui le persone presenziano alle funzioni è fonte di speranza. Se il Signore ci salverà e ci darà un futuro, sarà anche grazie a questa comunità viva”. 
“Abbiamo sperimentato morte e distruzione - afferma il prelato - ma allo stesso tempo abbiamo vissuto grandi testimonianze di amore e solidarietà. La guerra continua e miete ogni giorno nuove vittime, un numero esagerato di morti. Le persone continuano a scappare dal proprio Paese. Di fronte a tutta questa sofferenza non possiamo restare sordi e impassibili, anche dopo otto anni non possiamo rassegnarci alla logica della violenza e della guerra”. 
La fede è più forte della morte, sottolinea il prelato, per questo le cerimonie sono sempre gremite di fedeli. Fra i momenti più significativi dei prossimi giorni “la visita a tutte le chiese della città che i cristiani di Aleppo faranno al termine dei riti del Venerdì Santo. Una sorta di processione che si snoda per le vie della città e che si concluderà a notte inoltrata”. “In occasione della Pasqua - conclude - rinnovo l’invito a pregare per questa nostra comunità, che è viva. Perché il Cristo risorto possa infondere la pace ad Aleppo e in tutta la Siria”.

mercoledì 20 dicembre 2017

Pace, casa e lavoro: il dono di Natale per il futuro dei cristiani siriani

AsiaNews, 19 dicembre 2017
La pace in tutta la Siria, la lotta alla disoccupazione che frena la (lenta) ripresa e la riunificazione delle molte famiglie spezzate dalla guerra, che in oltre sei anni di violenze ha trasformato milioni di persone in migranti in cerca di riparo all’estero o sfollati interni. Sono questi i due grandi desideri che animano la popolazione cristiana di Aleppo in queste settimane di Avvento che preparano al Natale, come racconta ad AsiaNews il vicario apostolico dei Latini, mons. Georges Abou Khazen. Ad un anno dalla fine della battaglia per la città “si vive un clima di maggiore speranza”, aggiunge, e “vi è anche molta più sicurezza. Tutto questo induce ad un moderato ottimismo, perché si raggiunga una soluzione che coinvolga tutto il Paese”. 
La migrazione “resta un problema”, sottolinea il vicario apostolico di Aleppo, anche perché “sono partiti soprattutto i giovani” e il loro ritorno è una “priorità” per far ripartire la città. Intanto la Chiesa locale, prosegue il prelato, ha avviato o sostiene con fondi specifici “progetti di micro-impresa a livello locale: adesso la nostra sfida è passare dal sussidio all’autosufficienza”. 
Da qui lo stanziamento di somme di denaro per l’apertura di pasticcerie, negozi di barbieri, falegnamerie, imprese artigiani, fabbri ferrai perché “è dalle piccole attività di ogni giorno che bisogna ripartire”. “Il ritorno dell’elettricità per 13, 14 ore al giorno, insieme alla fornitura costante di acqua - sottolinea mons. Georges - sono i segni più importanti della rinascita”. 
Adesso è possibile tornare a vedere in alcuni punti “una città pulita” e “strade illuminate con pannelli solari”. Dall’oscurità alla luce, aggiunge il vescovo, “è una sensazione nuova, compresa l’illuminazione delle strade di notte”. 
Prima della guerra Aleppo era la seconda città per importanza della Siria, oltre che il suo principale motore economico e commerciale. Dal 2012 è stata divisa in due settori: occidentale, dove hanno vissuto 1,2 milioni di persone, sotto il controllo del governo; la zona orientale, circa 250mila persone, nelle mani delle milizie ribelli e di gruppi jihadisti. La resa dei ribelli, che hanno trattato l’uscita dalla città, e la successiva riunificazione risalgono al dicembre dello scorso anno; la popolazione ha potuto festeggiare con canti e balli la fine dei combattimenti e il Natale alle porte. 
A distanza di un anno è partita l’opera di rimozione delle macerie, le strade sono più pulite, il traffico è aumentato, hanno riaperto alcune officine. “Qualcosa si muove”, racconta mons. Georges, anche se “molta gente resta senza lavoro, sono tantissimi i bambini orfani di guerra o abbandonati che abbiamo scoperto nei mesi successivi all’unificazione della città”. Uno dei grandi ostacoli alla ripresa di Aleppo “è la disoccupazione: vanno riparati i macchinari rubati o trafugati dalle aziende negli anni di guerra, vanno sistemate le abitazioni per consentire il ritorno dei profughi”. 
La Chiesa locale partecipa all’opera di ricostruzione degli edifici, sostiene la piccola impresa, prosegue la distribuzione dei pacchi alimentari. “Quasi tutte le famiglie - racconta il prelato - confidano ancora nei nostri aiuti: si tratta di circa 10.500 nuclei cristiani di tutte le confessioni. E poi vi è l’assistenza sanitaria e la distribuzione di medicine, anche questa una priorità nel contesto di una svalutazione della moneta locale, la lira, il cui valore di acquisto è assai inferiore e lo stipendio medio di un lavoratore, sebbene sia rimasto invariato, non è più sufficiente”. 
Intanto la comunità si avvicina al Natale con “molta più speranza, più sicurezza, con l’augurio che la guerra possa finire presto in tutto il Paese. Le strade vengono addobbate a festa, un municipio guidato da una maggioranza musulmana ha voluto mettere stendardi e simboli della festa cristiana. E ancora, le chiese addobbate con i presepi, le animazioni promosse dai giovani. Si respira - conferma il vescovo - un clima diverso all’anno passato”.
In questi giorni che avvicinano alla festa, il vicario apostolico di Aleppo vuole rivolgere un pensiero finale ai bambini, che rappresentano “il futuro e la speranza” della comunità cristiana e di tutto il Paese. “Come Chiesa abbiamo preparato dei doni da distribuire, insieme a un vestito per la festa che possa servire per tutto l’inverno. A questo si aggiungono dei pranzi di gruppo il giorno di Natale e quello successivo; un'occasione per stare insieme, fare festa, con canti e balli. Ma oltre la festa - conclude il prelato - vi è l’impegno perché possano frequentare la scuola: a oggi paghiamo per intero la retta di 3200 studenti, versando nelle casse degli istituti, in maggioranza privati, fino a 150 dollari all’anno, distribuendo anche libri e quaderni ai più poveri, ma meritevoli”.

lunedì 21 agosto 2017

I Patriarchi cattolici d’Oriente e la fine delle comunità cristiane orientali

Sperando contro ogni speranza” e rimettendosi nelle mani della “giustizia di Dio”: con questa coscienza il Consiglio dei patriarchi cattolici d’oriente ha pubblicato il comunicato finale della sua sessione annuale (10-11 agosto 2017), tenutosi a Dimane (nord del Libano), sede estiva del patriarcato maronita.

Non senza tristezza, i patriarchi rimproverano la comunità internazionale di assistere allo spegnersi - a causa dell’insicurezza e dell’emigrazione - l’una dopo l’altra le Chiese orientali in Iraq, Siria, ma anche in Palestina, Libano e perfino in Egitto, senza che la loro reazione sia all’altezza della tragedia. Essi avvertono che se questo stato di cose continuerà, si tratterà di un vero “progetto di genocidio” e di un “affronto contro l’umanità”.

Il loro messaggio coincide con la pubblicazione di cifre eloquenti sulla diminuzione dei cristiani nei vari Paesi del Medio oriente, in particolare in Iraq, Siria e Terra santa. In quest’ultimo spazio condiviso dal punto geografico fra Israele e i Territori occupati, i cristiani rappresentano solo l’1,2% della popolazione; in Siria, per il fatto della guerra scoppiata nel 2011, il loro numero è in caduta da 250mila a 100mila, secondo statistiche recenti. E intanto anche il patriarca dei caldei fa fatica a convincere i cristiani della Piana di Ninive a riguadagnare il suolo natale, riconquistato a Daesh.
In un “appello generale” un po’ confuso, forse per essere stato scritto a più mani, dove la speranza di mescola alle grida e ai lamenti, i patriarchi affermano: “È tempo di lanciare un appello profetico a testimonianza della verità… siamo invitati a restare attaccati alla nostra identità orientale e a restare fedeli alla nostra missione. Assumendo la cura del piccolo gregge, noi patriarchi orientali siamo afflitti nell’assistere all’emorragia umana dei cristiani che abbandonano le loro terre natali in Medio oriente”.
Gli oppressori che agiscono in piena cognizione di causa, gli insensati che abusano del nostro pacifismo, sappiano che la giustizia di Dio avrà l’ultima parola. Ai nostri fedeli, diciamo che ormai noi somigliamo al lievito nella pasta, alla luce che brilla in un mondo assetato dello Spirito vivificante. Restiamo radicati nella terra dei padri e degli antenati, sperando contro ogni speranza in un avvenire in cui, come componenti di un patrimonio autentico e specifico, saremo compresi come delle fonti di arricchimento per le nostre società e per la Chiesa universale in Oriente e in Occidente”.
Dobbiamo rimanere attaccati alla proclamazione della verità nella carità, e a proclamare con coraggio la legittimità della separazione fra Stato e religione nella costituzione delle nostre patrie, e dell’uguaglianza di tutti per diritti e doveri, senza badare all’appartenenza religiosa o comunitaria. Si tratta di una condizione sine qua non perché vengano rassicurati i cristiani e gli altri piccoli componenti nazionali”.

Appello alla comunità internazionale
Alle Nazioni Unite e ai Paesi interessati in modo diretto dalla guerra in Sira, Iraq e Palestina, noi domandiamo di fermare le guerre, i cui obbiettivi sono ormai chiari: distruggere, uccidere, spingere all’esodo, rilanciare le organizzazioni terroriste, diffondere lo spirito d’intolleranza e di conflitto fra le religioni e le culture. Il prosieguo di questa situazione e l’incapacità a stabilire una pace giusta, globale e duratura nella regione, assicurando il ritorno dei rifugiati e degli sfollati al loro focolare nella dignità e nella giustizia, rimarrà come uno stigma di vergogna per tutto il XXI secolo”.

Appello a papa Francesco
Al successore di Pietro, diciamo che siamo pronti a rispondere all’appello per la santità, seguendo il Salvatore sul cammino della Passione. Ma ricordiamo pure che noi rappresentiamo delle Chiese fiorite in terra d’Oriente fin dall’epoca apostolica... e la cui esistenza è in reale pericolo”.
Abbiamo tutti partecipato a conferenze, seminari, fatto incontri; abbiamo cercato di trasmettere al mondo la bruttura della sorte inflitta al popolo cristiano. Ma non siamo una “nazione” con larghe frontiere, o che attiri l’attenzione dei giganti della finanza; noi siamo ormai un ‘piccolo gregge’ pacifico! Un piccolo gregge che non conta su nessun altro che voi per invitare i grandi che presidiano ai destini del mondo, che continuano a spingere all’esodo i cristiani del Medio oriente e, senza dubbio, a un progetto di genocidio, una catastrofe umana, come pure uno scacco alla civiltà e un affronto a tutta l’umanità”.

In Libano scuole a rischio chiusura
In altra parte, il comunicato registra la sequenza ecumenica tradizionale, tenutasi al primo giorno, con la presenza dei patriarchi orientali ortodossi e la visita al capo di Stato. Come è ovvio, i patriarchi ortodossi orientali condividono le stesse preoccupazioni e sono di fronte alle stesse sfide.
Il comunicato esprime anche l’inquietudine del Segretariato delle scuole cattoliche del Libano (che accolgono il 70% della popolazione scolastica), di fronte all’approvazione della nuova griglia salariale di cui beneficiano gli insegnanti e che andrà a gonfiare almeno del 20% i costi del funzionamento. Il segretariato prevede che numerose scuole gratuite, sovvenzionate dallo Stato, specie in provincia e nel mondo rurale, saranno incapaci di far fronte agli aumenti e dovranno chiudere. Essi hanno dunque espresso la loro preoccupazione nel vedere “centinaia” di insegnanti lasciati disoccupati e domandano allo Stato libanese di supplire agli aumenti generati.
Il comunicato non ha mancato di presentare il Libano come un modello democratico, che tutti i Paesi arabi dovrebbero imitare, a causa del principio della separazione fra lo Stato e la religione; ed ha infine domandato il ritorno degli sfollati [siriani e palestinesi - ndr] accolti dal Libano e divenuti “un pesante fardello e una minaccia per la sicurezza politica, economica e sociale” del Paese.

Fra i partecipanti al raduno vi sono: i patriarchi cattolici Béchara-Raï (maroniti); Ignace Youssef Younan III (siro-cattolici); Joseph Absi (greco-melchiti cattolici); Ibrahim Isaac Sidrak (patriarca emerito copto cattolico, presidente del consiglio dei patriarchi e vescovi cattolici d’Egitto); Louis Raphaël I Sako (caldeo); Gregorio Bédros XX (armeno cattolico);  William Shomali (rappresentante di mons. Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme).
Fra i capi religiosi presenti alla sessione ecumenica: patriarca Youhanna X (greco-ortodosso); patriarca Ignatius Ephrem II (Siro-ortodosso); Catholicos Aram I ( armeno ortodosso);  Salim Sahyouni (presidente della Comunità evangelica in Siria e Libano).


venerdì 21 luglio 2017

Libano: offensiva contro i terroristi, dramma dei profughi siriani

 AsiaNews – 20 luglio 2017
 Un territorio di 350 chilometri quadrati, dei quali 250 in Libano e 100 in Siria è il nuovo teatro dello lotta per lo sradicamento del terrorismo islamico di Al Nusra in Medio-Oriente. Per l’esercito libanese è “finalmente giunta l’ora di chiudere il fascicolo dei disordini a Jerud Arsal” nell’estrema Bekaa, nel nord-est del Libano al confine con la Siria.
L’avanzata dei terroristi islamici che intendevano creare una continuità  territoriale di Daesh e Al Nusra da Aleppo, Idleb lungo il nord del Libano fino ad arrivare a Tripoli sul Mediterraneo è fallita, grazie alla resistenza della popolazione, dell’esercito libanese e di Hezbollah. Alcune forze finanziate da Paesi esteri hanno sempre voluto presentare l’invasione di Daesh e Al Nusra con Hezbollah come una guerra interconfessionale. Ma i crimini commessi dai terroristi islamici, fra l’altro lo sgozzamento e il rapimento di soldati di varie confessioni religiose ha subito svelato il loro vero volto.
Ieri l’esercito libanese ha fatto ingresso nei campi profughi siriani con l’intenzione di salvare i civili dagli scontri attesi per i prossimi giorni. La vicenda ha dato luogo a una campagna diffamatoria contro i siriani in generale con forti connotazioni razziali e la chiara intensione di far scoppiare scontri fra libanesi e siriani presenti nel Paese dei cedri (ormai quasi 2 milioni di profughi siriani in Libano su una popolazione di 3 milioni e mezzo di libanesi).
Per disinnescare la mina il presidente della Repubblica Michel Aoun è intervenuto ieri pubblicamente per definire “inaccettabile” la demonizzazione dei siriani come tali, fermando il crescendo delle dichiarazioni anti-siriane e ripuntando la bussola sul vero problema, ossia sulla presenza dei fondamentalisti islamici che da anni trafficano attraverso il confine con la Siria, tentando allo stesso tempo di invadere il nord del Libano e creare un principato di Daesh nella seconda citta libanese, Tripoli e accerchiando cosi la regione alauita con capoluogo Latakia.
http://www.asianews.it/notizie-it/Ore-contate-per-Al-Nusra-di-Arsal-e-Kalamun:-%E2%80%9CArrendersi-o-morire%E2%80%9D-41339.html

Libano, il dramma dei profughi siriani


Terrasanta. net  20 luglio 2017
di Fulvio Scaglione
Con 6 milioni e 200 mila abitanti e un milione e mezzo di rifugiati dalla Siria, il Paese dei cedri non ce la fa più. Il peso dei profughi crea una miscela esplosiva. Lo dicono le cronache degli ultimi giorni.
Era evidente che la situazione del Libano fosse potenzialmente esplosiva. Un Paese con 6 milioni e 200 mila abitanti e un milione e mezzo di rifugiati dalla Siria poteva tirare avanti solo grazie a uno di quei prodigi che ne costellano la storia, dai tempi dei fenici ai giorni nostri. Da anni si tirava avanti a prezzo di due sacrifici complementari: quello della popolazione locale, che aveva comunque accolto i nuovi arrivati; e quello dei rifugiati stessi che, nella speranza di un rapido ritorno a casa, si erano adattati a vivere nei campi sapendosi ben poco amati.   
Adesso il prodigio pare proprio esaurito. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è la morte di quattro siriani, tutti uomini, arrestati dall’esercito libanese durante un raid nei campi profughi dell’area di Arsal, una cittadina nei pressi del confine con la Siria che nel 2014 era stata occupata per pochi giorni dai miliziani dell’Isis. I militari andavano a caccia di terroristi, sono stati accolti da un lancio di granate e da alcuni kamikaze che, secondo le fonti non ufficiali hanno lasciato sul terreno dodici morti. A quel punto quattro giovani sono stati arrestati e sono rispuntati solo qualche giorno dopo: morti. Secondo i portavoce dell’esercito, per causa naturali. Secondo le organizzazioni umanitarie, corroborate da impressionanti fotografie diffuse da alcune testate, perché picchiati e torturati.   L’episodio, già atroce in sé, ha fatto saltare il coperchio a una situazione più che precaria. Su Facebook alcuni attivisti dei campi hanno creato una pagina per promuovere una manifestazione di protesta a Beirut. Subito dopo, una manifestazione uguale e contraria è stata convocata, a sostegno dell’esercito, da cittadini libanesi. La prospettiva di uno scontro di piazza era diventata concreta, così il governo ha proibito ogni manifestazione.   
 È ovvio, però, che si tratta di un cerotto. Dal punto di vista dei libanesi, la presenza dei profughi siriani è un dramma. Dall’inizio della guerra civile siriana il loro Paese ha subito decine di irruzioni e attentati da parte dello Stato islamico e di formazioni analoghe che, con ogni evidenza, hanno nei campi profughi informatori e complici. La Banca Mondiale, inoltre, ha calcolato che oltre 200 mila libanesi sono stati spinti nella povertà a causa dell’arrivo dei siriani che, per necessità, accettano anche lavori sottopagati. Sui libanesi, inoltre, agisce anche il ricordo dell’arrivo dei palestinesi. Accoglierli doveva essere una misura temporanea, invece oltre 500 mila di loro sono ancora in Libano. E proprio la presenza dei palestinesi, e le divisioni intorno alla loro causa, fu una delle scintille che accesero la lunga (1975-1990) e terribile guerra civile che quasi distrusse il Paese.    Anche per i siriani, ovviamente, dover vivere sotto le tende in Libano, mal sopportati e duramente controllati, è drammatico. E lo dimostra il fatto che dopo il raid dell’esercito libanese ad Arsal, quasi 500 di loro hanno riattraversato il confine e sono tornati in Siria, preferendo la patria in guerra a un’accoglienza che sa di prigionia. Sempre più si capisce, comunque, che anche i profughi possono essere usati come un’arma. E la destabilizzazione del Libano, da sempre, è un obiettivo che fa gola a molti.

giovedì 6 luglio 2017

Astana: Mons. Abou Khazen "ogni occasione di incontro è sempre un elemento positivo”


Asia News, 5 luglio 2017

Ogni occasione di incontro, confronto, dialogo è sempre un fattore positivo e deve indurre all’ottimismo, anche se la situazione sul terreno non è facile e permane una sensazione diffusa di incertezza per l’avvenire. È quanto racconta ad AsiaNews il vicario apostolico di Aleppo dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, commentando il secondo giorno di colloqui di pace bilaterali in programma ad Astana (Kazakhstan) sulla Siria, patrocinati da Russia, Turchia e Iran. “La speranza - aggiunge - resta sempre quella di arrivare a un cessate il fuoco permanente, che favorirebbe il ritorno degli sfollati e una ripresa delle attività economiche e commerciali”, fattori chiave per far ripartire il Paese. 
Ad Astana si è aperto il quinto incontro internazionale sulla Siria, con l’obiettivo di rafforzare la “fragile” tregua nazionale in vigore dal dicembre scorso; una due giorni di trattative, che registra la presenza di delegati del governo siriano e rappresentanti delle opposizioni armate. La mediazione messa in campo da Teheran, Mosca e Ankara (su fronti opposti nel conflitto) si affianca agli sforzi diplomatici promossi dalle Nazioni Unite a Ginevra (Svizzera), i quali però non hanno sortito sinora effetti duraturi. 
In passato gli incontri di Astana, durante i quali per la prima volta si sono seduti allo stesso tavolo leader di Damasco e fronte dei ribelli, si sono rivelati più decisivi rispetto ai colloqui patrocinati dall’Onu. All’ultimo appuntamento, nel maggio scorso, si è giunti alla creazione di  zone di “de-escalation” del conflitto che prevedevano il cessate il fuoco, il divieto di sorvolo dell’area, il rifornimento immediato di aiuti umanitari e il ritorno dei rifugiati.
L’obiettivo della due giorni, cui gli Stati Uniti partecipano nel ruolo di osservatori, che si conclude oggi è definire i confini esatti delle quattro aree cuscinetto e le procedure per verificare il rispetto della tregua. A due mesi di distanza dalla firma, resta dunque prioritario definire le zone di de-escalation che riguardano alcuni territori ribelli nella provincia di Idlib, un settore del governatorato centrale di Homs, una enclave ribelle a Ghouta e il settore meridionale del Paese, al cui interno vivono fino a 2,5 milioni di persone. 
All’interno della delegazione anti-Assad, in cui spicca l’assenza del capo negoziatore Mohammad Allouche, si registra un clima di diffuso scetticismo. L’idea è che la Russia voglia promuovere queste discussioni, per “distogliere” l’attenzione generale sui “bombardamenti, sfollamento di civili e ripetute aggressioni” che sta conducendo nel Paese. Dal canto suo, il governo siriano ha dichiarato che non permetterà ai propri nemici di “beneficiare” della formazione di zone cuscinetto nell’ovest per ottenere progressi sul piano militare. 
Un quadro complesso, in cui la diplomazia regionale e internazionale si muove con estrema lentezza e fatica. 
“Dal punto di vista della sicurezza - racconta mons.  Abou Khazen - la situazione in diverse zone, fra cui Aleppo, è migliorata. Manca ancora l’elettricità, ma è tornata l’acqua e la vita riprende a scorrere. Certo, la mancanza di giovani e uomini perché emigrati o richiamati fra i riservisti dell’esercito si fa sentire, in particolare nell’opera di ricostruzione. Ma noi pastori incoraggiamo le persone a rimanere e cerchiamo di aiutarle contribuendo ai fabbisogni delle famiglie, dei loro bambini”. 
Interpellato sui colloqui di Astana, il vicario apostolico vuole essere “ottimista”, anche se “non possiamo essere sicuri che vi sia una davvero una soluzione all’orizzonte, vediamo ciò che succederà”. “Ogni incontro, ogni occasione di dialogo - prosegue - è importante e la speranza è che possa condurre a un cessate il fuoco permanente. Questi colloqui hanno favorito in molte zone la riconciliazione interna, basti pensare che da 500 si è passati a 1300 cittadine in cui i fronti in lotta hanno deposto le armi e rifiutato la guerra come mezzo per risolvere le controversie. Spero possano essere il viatico per una riconciliazione di livello nazionale”. 
In questi villaggi e cittadine, racconta il prelato, le persone “hanno ricominciato a coltivare la terra, a riaprire le scuole, a riprendere le attività. Si parla poi di oltre mezzo milione di sfollati fuggiti in passato e oggi rientrati nelle loro terre di origine, nell’area di frontiera vicino al Libano e nelle zone centrali di Homs e Hama e lungo alcuni tratti dell’Eufrate. Sono un numero significativo, che incoraggia e potrebbe incentivare altri a tornare”. “Questo - conclude - è il primo risultato tangibile dei colloqui e l’attuazione delle zone cuscinetto mi auguro possa dare una ulteriore accelerazione a questo processo”.  
http://www.asianews.it/notizie-it/Vicario-di-Aleppo:-su-Astana-pi%C3%B9-ottimismo-che-incertezza,-favorire-il-rientro-degli-sfollati-41203.html

venerdì 2 giugno 2017

Siria: mutilati, disabili permanenti e paralitici, la faccia nascosta del conflitto

Mentre giunge la conferma che l'Unione europea ha deciso di estendere fino al primo giugno 2018 le sanzioni contro la Siria, che colpiscono pesantemente anche il settore medico - assistenziale siriano (https://sputniknews.com/middleeast/201705151053638433-sanctions-almost-destroyed-syrian-medical-industry/  e  Syria sanctions indirectly hit children's cancer treatment), invitiamo alla lettura di alcune testimonianze.  Qui rimandiamo alla prima.

AsiaNews, 1 giugno 2017

Secondo l’organizzazione umanitaria Handicap International sono oltre 300mila le persone in Siria ferite a vario titolo nel contesto del conflitto [in atto dal marzo 2011] e bisognose di cure. Molte di queste hanno subito danni permanenti e disabilità di lungo corso che si ripercuoteranno sul resto della loro vita, stravolgendone la qualità. 
Molti siriani - ad oggi non si hanno cifre precise al riguardo - feriti in questi anni di guerra hanno subito infermità permanenti, alle quali non si è in grado di rispondere con cure mediche adeguate e un necessario percorso riabilitativo. Con sei anni di conflitto alle spalle, gli ospedali del Paese scarseggiano in apparecchiature mediche, mancano i farmaci di base e dottori specializzati per le varie patologie. Molte di queste strutture in difficoltà si sono viste costrette a dimettere troppo presto i pazienti, per far fronte alle nuove - e continue - emergenze in arrivo. 
Alcune fonti, non confermate, parlano di diverse migliaia di persone paralizzate o mutilate, anche se il numero esatto di gente con disabilità permanenti resta sconosciuto. Lo scorso anno la Caritas, attraverso i progetti avviati a Damasco, ha aiutato oltre 115 persone affette da disabilità, fornendo loro sedie a rotelle, forniture mediche, operazioni chirurgiche e medicine. Solo lo scorso anno l’ente caritativo cristiano ha sostenuto 213 famiglie nella capitale con portatori di handicap al loro interno, garantendo cibo, generi di prima necessità e anche l’istruzione di base. Sono una delle nostre “priorità”, conferma Caritas Siria. 
Questa è l’altra faccia della guerra, che i media purtroppo tendono a tenere nascosta perché non fa notizia. Una faccia che assume i contorni e la fisionomia di Georgette, che combatte ogni giorno la sua battaglia contro le lacrime, la disperazione, gridando a gran voce: “Cerco di essere forte, ma credo di avere tutto il diritto di essere debole alle volte… ne ho tutto il diritto…”. 
La storia di Georgette, colpita da un cecchino tornando da un battesimo. “Senza Cristo sarei crollata molto tempo fa”:  http://www.asianews.it/notizie-it/Caritas-Siria:-mutilati,-disabili-permanenti-e-paralitici,-la-faccia-nascosta-del-conflitto-40907.htm