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lunedì 7 giugno 2021

In Memoria di un servo fedele e giusto, mons Jacob Behnan Hindo, vescovo emerito di Hassake


Con affetto e gratitudine OraProSiria accompagna nella preghiera l'ultimo viaggio del Vescovo della Chiesa siro-cattolica Mons. Behnan Hindo, chiedendo alla Sua anima buona e fedele di intercedere per ottenere all'amata Siria il miracolo della tanto agognata pace. 

Sono numerose le sue coraggiose testimonianze circa la situazione dei Cristiani nella Regione del Jazira ora occupata dalle forze Curde. Ne potete trovare alcune raccolte qui  sul nostro sito.

Riportiamo a sintesi la frase che mons Hindo pronunciò in uno degli ultimi incontri pubblici in Italia:

"Il nostro futuro? Proprio come il nostro passato: un cammino verso il martirio. È stato così per quattordici secoli, sarà così anche il prossimo. Non c'è niente di nuovo per noi. Noi lo sappiamo. Noi portiamo la croce. Con questa Croce, vinceremo". 

Ci è caro ricordare le ultime parole che gli scrisse uno dei suoi figli spirituali, Padre François di Gesù Bambino Murad , di cui ricorderemo il martirio, avvenuto per mano dei cosiddetti 'ribelli liberi' il giorno 23 giugno 2013 a Ghassanie:

«Monsignore," Barekh Mor " (espressione siriaca in uso che significa" Benedici, o Signore "). Gli avvenimenti precipitano e penso che siamo entrati in una fase decisiva della nostra lotta. Dopo aver bruciato la chiesa greca (bizantina) e distrutto il santuario mariano dei Latini, hanno saccheggiato tutto e distrutto il mio convento e quello dei protestanti. Hanno fracassato e bruciato tutti i simboli religiosi del villaggio e imbrattato con bestemmie contro la nostra religione. Cercano di sopprimerci, ma qualsiasi cosa facciano, non potranno nulla contro la nostra fede fondata sulla Roccia di Cristo . Voglia Dio che Egli ci conceda la grazia di provare l'autenticità del nostro amore per Lui e per gli altri. Siate certi che io offro la mia vita con tutto il cuore per il bene della Chiesa e la pace nel mondo e soprattutto nella nostra amata Siria. Preghi per me. ".

venerdì 11 ottobre 2019

Mons Hindo da Hassakè: «Temo un nuovo esodo dei cristiani»


Intervista di Aiuto alla Chiesa che Soffre

«Come sempre ognuno ha i propri interessi, ma saremo noi cristiani a pagarne le conseguenze». Con profonda amarezza monsignor Jacques Behnan Hindo, arcivescovo siro-cattolico emerito di Hassaké-Nisibi nella zona curda di Siria, commenta ad Aiuto alla Chiesa che Soffre le notizie che giungono dal confine tra Siria e Turchia.
 Due cristiani sarebbero stati uccisi ed altri feriti nell’ambito di un attacco avvenuto nelle scorse ore alla Chiesa di San Giorgio a Qamishli.
Monsignor Hindo si era incontrato lo scorso marzo con i leader del Partito Democratico Curdo (PYD). «Li ho invitati a desistere dai loro piani – afferma – loro credono di aver diritto ad una regione autonoma così come vi è un Kurdistan iracheno ed uno turco. Ma la popolazione curda in quelle aree della Siria è appena del 10%. Inoltre si tratta di persone giunte come richiedenti asilo dopo il 1925, che hanno nazionalità turca o irachena. Non hanno alcun diritto». Il presule è convinto che i curdi perderanno lo scontro con la Turchia, soprattutto per il mancato supporto da parte degli Stati Uniti e delle altre forze occidentali. «È stata una mossa stupida quella curda, era chiaro che nessuno li avrebbe aiutati. Ora perderanno tutto, come è accaduto ad Afrin».
In queste ore il pensiero di monsignor Hindo va alle 5000 famiglie della diocesi di Hassaké-Nisibi. «Nei giorni scorsi in molti si erano già spostati dalle città di frontiera ad Hassaké. Ora il conflitto è divenuto ancor più grave e temo che saranno in tanti ad emigrare. Dall’inizio della guerra in Siria il 25% dei cattolici di Qamishli ed il 50% dei fedeli di Hassaké hanno lasciato il Paese assieme al 50% degli ortodossi. Temo un simile esodo se non maggiore».
Vi è forte preoccupazione anche per l’alta presenza nell’area di affiliati all’Isis. «Questa mattina ho appreso che sarebbe stata colpita la prigione di Chirkin, dove sono detenuti jihadisti dello Stato Islamico. A che pro? In questo modo la gran parte di loro sarà libera. Questo è un piano per distruggere la Siria e non solo. Ora i terroristi arriveranno anche in Europa, attraverso la Turchia e con il sostegno dell’Arabia Saudita».
Monsignor Hindo richiama altresì la comunità internazionale alle proprie responsabilità. «Stati Uniti, Italia, Francia, regno Unito, Germania, dovrebbero tutti fare mea culpa. Hanno agito in Siria per i loro interessi, nascondendosi dietro gli ideali della libertà e della democrazia. E invece non hanno fatto che indebolire il nostro Paese a spese della popolazione. Per quale motivo non combattono per la libertà e la democrazia in Arabia Saudita?».

mercoledì 2 ottobre 2019

Per quali motivi con le sanzioni si vuole strangolare la Siria?


di Mostafa El Ayoubi

Dopo il fallimento del progetto di conseguire un cambio di regime in Siria, della crisi che continua ad attanagliare gravemente questo paese se ne parla poco. E, quando ciò avviene è generalmente per analizzare i problemi politici che esistono tra attori esterni che hanno partecipato a questo progetto: Turchia e Usa in particolare, a causa della questione curda. E anche tra Turchia e Ue per quanto riguarda la crisi dei profughi siriani. Ma riguardo invece alla grave crisi umanitaria nella quale vive il popolo siriano a causa delle sanzioni economiche imposte unilateralmente dagli Usa e dai suoi alleati, i media mainstream mantengono un profilo molto basso.
Oggi una gran parte del territorio è tornata sotto il controllo dell’esercito regolare siriano. Ne rimangono tuttavia fuori alcune zone non di poco conto: il nord-est e il nord-ovest.
Nel nord-est una parte del territorio è sotto il controllo delle milizie separatiste curde dell’Unità di protezione popolare (YPG), che fa parte dell’alleanza delle cosiddette Forze Democratiche Siriane. Milizie assistite militarmente sul campo dagli americani (e dai loro alleati inglesi e francesi). Di fatto, oggi i curdi siriani hanno proclamato unilateralmente il Rojava (nord-est) regione autonoma curda. Occorre notare che in questa regione non vi è una omogeneità etnica. Oltre ai curdi ci sono gli arabi sunniti, i cristiani assiri, i turkmeni e altri gruppi etnici e religiosi.
I curdi sono una maggioranza relativa. Se a Kobane i curdi costituiscono il 55% degli abitanti, nel vasto territorio del Rojava (cosi la chiamano i curdi), la cui popolazione ammonta a circa 6 milioni, essi non superano il 40 %. La pretesa separatista dei curdi si scontra con la realtà - complessa dal punto di vista etno-demografico - del nord-est siriano. Ma tra i curdi c’è chi pensa di poter modificare questa realtà. A tal proposito, in un articolo di Repubblica del 16 febbraio scorso si afferma: ”In Siria centinaia di migliaia di arabi sono stati cacciati dalle zone cadute sotto il controllo delle milizie curde sostenute da Washington. Questo spostamento forzato di popolazioni sunnite è stato documentato da organizzazioni non governative e da alcuni organismi internazionali, le accuse contro i curdi vanno dai crimini di guerra alla pulizia etnica”. Nello stesso articolo, l’autore, Paolo Celi, riporta le parole preoccupanti dell’arcivescovo Benham Hindo, vescovo siro cattolico di Hasaka (nord-est) il quale “denuncia un progetto che punta ad eliminare la presenza cristiana e delle altre minoranze da quella parte della Siria”.
Ma nel nord-est siriano ci sono anche i turchi che nel gennaio 2018 hanno invaso Efrin e cacciato via i curdi. Il sostegno di Washington ai curdi siriani è un grosso problema per Ankara. Questa alleanza costituisce il principale motivo delle forti frizioni diplomatiche tra le due capitali negli ultimi 3 anni. La Turchia non vuole in nessun modo che nasca lungo i suoi confini una entità autonoma curda. Per gli Usa una simile entità – sotto la loro tutela - è strategica, perché permetterebbe loro di controllare molto da vicino la Siria ma anche la stessa Turchia.
Memore del fallito di colpo di stato nel luglio 2016 ai suoi danni, il presidente turco Rajab Taib Erdogan non si fida più dell’establishment americano perché lo considera l’ideatore di quell’attentato. Da quella data la Turchia si è avvicinata progressivamente alla Russia (altra protagonista di peso sulla scena siriana, schierata con Damasco). L’acquisto, di recente, di batterie del sistema di difesa antiaerei russo S 400 da parte dei turchi ha provocato l’ira del governo americano. Come ritorsione, il 17 luglio scorso gli americani hanno sospeso la partecipazione della Turchia al programma di produzione del caccia bombardiere F 35. Ma i turchi hanno già individuato nei Sukhoi Su-57 russi una più che valida alternativa per il loro sistema di difesa aerea e ne stanno valutando l’acquisto.
Oggi l’alleanza tra Usa e Turchia non è più strategica di lungo respiro come lo era prima, ma ha assunto una modalità di tipo tattico congiunturale. L’esito finale della guerra contro la Siria stabilirà la natura dei rapporti futuri tra le due nazioni. Gli americani sono consapevoli che sarebbe una sciagura per la Nato perdere i turchi (che costituiscono il secondo esercito, dopo quello americano, di questo organismo militare); sanno che i russi e i cinesi sono pronti ad accoglierli. Motivo per cui prima o poi Washington abbandonerà i suoi alleati curdi per non perdere Ankara!
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Di recente la Casa Bianca ha accettato il diktat di Erdogan per la creazione di una “zona di sicurezza” lungo il confine della Turchia con la Siria, ma esclusivamente nel territorio di quest’ultima. Lo scopo di questa zona cuscinetto – non ben definita - per la Turchia è quella di isolare i curdi e allontanarli dai suoi confini. Il progetto - è partito recentemente con un parziale ritiro, su ordine di Washington, delle milizie combattenti curde dal confine nord est. Questa mossa sta preoccupando, e non poco, i dirigenti curdi siriani che paventano il rischio di essere abbandonati dagli americani.
Un’altra zona importante è la provincia di Idlib nel nord-ovest, ancora in mano alle milizie islamiste - sotto varie sigle ma in gran parte riconducibili a Jabhat al Nusra (e quindi ad al Qaeda) – con la tutela militare della Turchia e il consenso diplomatico degli Usa. Washington e Ankara giustificano la presenza militare illegale in Siria per combattere i jihadisti. Quando in realtà si sa che li hanno utilizzati per destabilizzare e distruggere questo paese.
Riguardo al sostegno ai terroristi, in una inchiesta giornalistica a firma di Dilyana Gaytandzhieva pubblicata il primo settembre scorso sul sito web di Arms Watch si legge che “Silk Way Airlines [di proprietà dell’Azerbaigian] ha effettuato 350 voli diplomatici con armi per terroristi in Siria, Afghanistan, Yemen e Africa. I voli sono stati noleggiati dal Pentagono, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Le armi furono portate di nascosto a Baku (Azerbaigian), alla base aerea di Incirlik”. Questa base si trova in Turchia e appartiene all’esercito americano.  L’inchiesta parla di 3 milioni di unità di armi (proiettili di mortai e missili) provenienti della Serbia (e anche dalla Bulgaria) e destinati ai jihadisti nello Yemen e in Siria. Eppure all’opinione pubblica internazionale, i grandi media raccontano una narrazione diversa: le grandi potenze occidentali e i loro alleati arabi e curdi combattono il terrorismo (vedi Islamic State weapons in Yemen traced back to US Government: Serbia files (part 1), Dilyana Gaytandzhieva, 01/09/ 2019).
Oggi, sia Washington che Ankara temono che la riconquista di Idlib da parte dell’esercito siriano potrebbe sancire la fine della guerra in Siria e quindi la loro sconfitta geopolitica definitiva in Medio Oriente. Ciò comporterebbe per loro il fatto di non avere nessuna influenza sul futuro politico in questo paese, il quale si avvicinerebbe ancor più alla Russia e all’Iran.
Ma come è accaduto ad Aleppo nel 2016, la liberazione di Idlib è solo una questione di tempo perché i russi – a fianco dei siriani - sembrano determinati ad estirpare i terroristi dalla Siria. A tal riguardo, a fine agosto scorso i jihadisti sono stati cacciati da Khan Sheikhoun, città strategica nella provincia di Idlib. Anche la riconquista del nord-est è considerata dalla Siria e dai suoi alleati una questione di calendario.
Ma se di fatto il governo americano ha fallito nel suo progetto di addomesticare militarmente la Siria, esso continuerà a cercare di annientarla economicamente attraverso l’arma micidiale delle sanzioni economiche, le quali a lungo termine sono più letali delle bombe. E su questo aspetto della crisi i grandi media tergiversano sistematicamente.
Le sanzioni contro la Siria partono da lontano. Nel 1979 gli Usa le ha applicate contro Damasco perché la consideravano uno “sponsor del terrorismo”. Nel 2003 altre sanzioni contro di essa sono state messe in atto sotto la legge Patriot act voluta da George W. Bush, il quale dichiarò la Siria parte dell’asse del male, insieme all’Iraq, all’Iran, alla Libia, alla Corea del Nord e a Cuba.
Le misure economiche restrittive e punitive nei confronti della Siria sono state esponenzialmente ampliate a partire dall’inizio della guerra nel 2011. Occorre sottolineare che le sanzioni contro la Siria non sono state decretate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e quindi sono in flagrante violazione del diritto internazionale. Sono state decise dagli Americani e poi dall’Unione europea. E generalmente il governo americano costringe governi, multinazionali e banche ad aderire e a rispettare l’ordine di sanzionare qualsiasi paese considerato come una “minaccia contro la sicurezza degli Stati Uniti d’America”.
“Il governo svizzero è paralizzato dal timore di discostarsi dalla politica delle sanzioni degli Stati Uniti”, si legge in un articolo di Arret sur info dal titolo: Les sanctions contre la Syrie ont des «répercussions dévastatrices» sur la population civile,  pubblicato il 28 giugno 2018. Sulla scia degli Usa, l’Ue applica dal 2011 sanzioni contro la Siria, specie nel settore petrolifero e in quello bancario. Queste misure sono state prorogate nel maggio scorso.
Al riguardo, a margine della novantaduesima Assemblea plenaria dell'incontro delle associazioni cattoliche per l’aiuto ai cristiani d’Oriente  avvenuto lo scorso giugno a Roma, il vescovo Pascal Gollnisch ha definito le sanzioni economiche dell'Unione europea contro la Siria "inaccettabili" , "controproducenti”  e “danneggiano notevolmente una popolazione già ammaccata da otto anni di guerra". [N.d.R.: Di notevole importanza l'esortazione del Card. Parolin all'ONU il 24 settembre 2019 per l'abrogazione delle sanzioni, che segue gli appelli da Aleppo del Card Bagnasco, Monteduro di ACS e Mons. Delpini]
A causa delle sanzioni oggi la Siria è in ginocchio. Il commercio estero è ridotto al minimo. Il Paese è isolato dal sistema bancario internazionale basato sul dollaro. Su pressione del Tesoro americano, compagnie finanziarie come Visa, Master Card hanno sospeso nel 2011 loro servizi in Siria. Le rimesse degli espatriati siriani - voce importante per l’economia di un paese in via di sviluppo – sono ostacolate dall’embargo finanziario. Inoltre i fondi sovrani che sono soldi dello Stato siriano - importanti per pagare le fatture dei prodotti d’importazione - sono oggi congelati nelle banche occidentali.  
Il petrolio greggio costituiva il 53% delle esportazioni siriane prima dell’inizio del conflitto, nel 2015 è precipitato a 6%. Gli introiti derivati servivano per importare combustibili necessari per il fabbisogno interno. Oggi i siriani passano giorni interi in coda per pochi litri di benzina/gasolio e una bombola di gas. Molte fabbriche sono ferme per mancanza di materie prime e pezzi di ricambi soggetti all’embargo.
I forni pubblici per la produzione di pane non riescono ad andare avanti a causa dell’embargo. Prima della crisi, il pane veniva venduto alla metà del prezzo di produzione. E come conferma un rapporto del Consiglio dei diritti umani dell’Onu del gennaio 2011, il paese aveva una discreta autosufficienza alimentare (vedi Report of the Special Rapporteur on the right to food, Olivier De Schutter, Mission to the Syrian Arab Republic, Human Rights Council,  27 January 2011).
Oggi l’economia di questo Paese è crollata vertiginosamente. Secondo un rapporto dell’Onu, pubblicato nel maggio del 2018, il PIL è diminuito di due terzi; nel 2010 un dollaro valeva 45 lire siriane, diventate poi 501 nel 2017; la disoccupazione è passata dall’8,5% del 2010 al 48% nel 2015. Le cause di questa situazione, secondo il relatore del rapporto, sono in gran parte derivanti dalle sanzioni economiche imposte alla Siria.
In un incontro avvenuto a Beirut il 7 agosto dell’anno scorso, un membro della Commissione economica e sociale per l’Asia occidentale dell’Onu ha affermato che per ricostruire la Siria, distrutta dalla guerra e dalle sanzioni, occorrono 388 miliardi di dollari. Gli Usa oggi minacciano e ricattano chiunque abbia l’intenzione di partecipare alla ricostruzione di questo paese.  
Anche i medicinali scarseggiano a causa delle sanzioni; gli ospedali, quelli scampati ai bombardamenti, faticano molto a servire i cittadini bisognosi di cura.  Secondo lo stesso rapporto dell’Onu poc’anzi citato, prima della guerra, il sistema sanitario siriano era uno dei più avanzati nel Medio Oriente. Lo Stato garantiva assistenza sanitaria gratuita per tutti i suoi cittadini. Prima del 2011 il Paese era auto sufficiente per quanto riguarda diversi medicinali vitali perché venivano prodotti in loco.
Oggi le misure restrittive, in particolare quelle relative al sistema bancario, hanno danneggiato la capacità della Siria di acquistare e pagare medicinali, attrezzature, pezzi di ricambio e software. Le aziende private straniere non sono disposte ad effettuare transazioni con la Siria  per il timore di essere accusate di violare le misure restrittive contro di essa (vedi  “End of mission statement of the Special Rapporteur on the negative impact of unilateral coercive measures on the enjoyment of human rights to the Syrian Arab Republic, 13 to 17 May 2018”).  
Parafrasando l’intellettuale francese Frantz Faron, il potere imperialista di fronte ad un popolo sovrano non si arrende. Forte della sua potenza economica cerca di affamare tale popolo per mezzo delle sanzioni e degli embarghi. Ed è ciò che gli Usa stanno facendo oggi al popolo siriano.

http://www.nigrizia.it/notizia/le-sanzioni-strangolano-la-siria

venerdì 7 settembre 2018

Monsignor HINDO: «È in atto un piano per cacciar via i Cristiani dalla regione»

La Scuola Elementare 'Amal' in Hassakè (foto AINA).
Hassakeh contava 420 000 abitanti di cui 50 000 cristiani prima che Daesh circondasse la zona, ora la città conta solo 150 000 abitanti di cui 5000 cristiani. Ricordiamo che le chiese assire siriane fanno parte del patrimonio mondiale e sono tra le più antiche della cristianità.

di Gianandrea Gaiani
Dopo aver subito uccisioni, espropri, stupri e violenze di ogni tipo da parte dei miliziani jihadisti, prima qaedisti e salafiti e poi dello Stato Islamico, che hanno ridotto al lumicino la loro presenza, i cristiani delle regioni nord orientali siriane subiscono da tempo la “pulizia etnica” attuata dalle forze curde.
"Sono anni che lo ripeto, è in atto un tentativo da parte dei curdi di eliminare la presenza cristiana da quest' area della Siria" ha detto sabato monsignor Jacques Behnam Hindo, arcivescovo siro-cattolico di Hassaké-Nisibi, nel nord-est della Siria. Il presule conferma all’organizzazione Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS - autrice ogni anno di un rapporto che evidenzia le persecuzioni dei cristiani perpetrate in tutto il mondo e in particolare nel mondo islamico) la chiusura di alcune scuole cristiane da parte delle Forze Democratiche Siriane (FDS), la milizia curdo-araba istituita dagli Stati Uniti per strappare le aree tra Raqqa e la provincia di Deir Ezzor all’Isis e impedire alle truppe regolari di Damasco di riconquistare la regione orientale del Paese. Grazie agli aiuti Usa, che in quell’area mantengono basi e oltre 2mila militari, la regione nord orientale siriana è di fatto un territorio autonomo amministrato dalle Forze di difesa popolare curde (Ypg - braccio militare del partito curdo dell'Unione Democratica – PDY), protagoniste della difesa di Kobane e celebrate in Occidente come le più acerrime avversarie del Califfato.
"Già dall' inizio dell'anno, l'amministrazione locale ha preso possesso di un centinaio di scuole statali, nelle quali ha imposto un proprio programma scolastico e i propri libri di testo” – ha sottolineato monsignor Hindo. “I funzionari curdi ci avevano assicurato che non si sarebbero neanche avvicinati alle scuole private, molte delle quali sono cristiane. Invece non soltanto ci si sono avvicinati, ma ne hanno anche serrato le porte". La motivazione ufficiale della chiusura di varie scuole cristiane nelle città Qamishli, Darbasiyah e Malikiyah, è che tali istituti hanno rifiutato di conformarsi al programma imposto dalle autorità della regione. "Loro non vogliono che si insegni nella lingua della Chiesa, il siriaco antico, e non vogliono che insegniamo la storia, perché preferiscono inculcare agli alunni la propria storia". Nulla di diverso, in fondo, da quanto attuato negli stessi territori negli anni scorsi quando erano controllati dallo Stato Islamico.
Hindo non nasconde la preoccupazione, sia per la probabile chiusura di altre scuole cristiane - ve ne sono altre sei soltanto ad Hassaké - sia per i gravi danni che il programma scolastico "curdo", differente da quello ufficiale siriano, potrà causare agli studenti. "Ho detto ad un funzionario curdo che così una intera generazione verrà penalizzata, perché non potrà accedere a gradi di istruzione superiori. Lui mi ha risposto che sono disposti a sacrificare anche sei o sette generazioni pur di imporre la loro ideologia". La vicenda rappresenta una conferma del tentativo di "curdizzazione" di quella regione, un piano che secondo Hindo prevede anche l'allontanamento della locale comunità cristiana.
"È almeno dal 2015 che continuiamo a denunciare tale pericolo. Vogliono cacciar via noi cristiani per aumentare la loro presenza”. Ad oggi i curdi rappresentano soltanto il 20 percento della popolazione siriana ma controllano quasi per intero l’oriente siriano, a est del fiume Eufrate, soltanto grazie al sostegno dell’Occidente, Stati Uniti e Francia in testa, che grazie alle milizie curde cercano di impedire che l’intera Siria torni nelle mani di Assad e dei suoi alleati russi e iraniani. Le FDS controllano infatti un’area molto più ampia di quella abitata dalla popolazione curda siriana e la “pulizia etnica” ha l’obiettivo di allontanare i cristiani e “omogeneizzare” la popolazione ricollocando in queste aree le popolazioni curde cacciate dai militari turchi dalle aree di Afrin e Manbji. Attraverso ACS, il presule ha lanciato un appello alla comunità internazionale ed in particolare alle nazioni europee. "La chiusura delle nostre scuole ci addolora. È dal 1932 che la Chiesa gestisce questi istituti e mai ci saremmo immaginati che potessero venire chiusi. L'Occidente non può rimanere in silenzio. Se siete davvero cristiani dovete gettare luce su quanto sta accadendo ed impedire nuove violazioni dei nostri diritti e ulteriori minacce alla nostra presenza nella regione" ha concluso Hindo.
Non è la prima volta che i curdi, in Siria come in Iraq, puntano ad allargare le aree sotto il loro controllo a spese di minoranze di peso etnico inferiore. Lo hanno fatto nella città petrolifera irachena di Kirkuk cacciando soprattutto i turcomanni e, più a est nel Sinjar, gli Yazidi. Dopo la caduta di Mosul e la sconfitta dell’Isis in Iraq, l’invio di truppe di Baghdad e di milizie scite filo-iraniane in quelle regioni ha fatto tramontare il sogno indipendentistico del Kurdistan iracheno relegandolo a un’autonomia molto limitata. In Siria invece l’espansionismo curdo continua a manifestarsi grazie al supporto militare di Washington che finora ha impedito che prendesse piede la proposta di Damasco che offre autonomia ai curdi, ma limitata alla regione del Rojava, in cambio della restituzione allo Stato siriano dei territori oggi occupati dalle FDS che includono giacimenti e pozzi di gas e petrolio.
Il regime siriano di Bashar Assad ha sempre tutelato minoranze e confessioni diverse ed è stato in questi anni di guerra l’unico a sostenere le comunità cristiane. Donald Trump ha più volte manifestato l’intenzione di ritirare i militari statunitensi dalla Siria, iniziativa che renderebbe problematico per le FDS far fronte alle truppe di Damasco e ai loro alleati, inclusi gli iracheni che, come i turchi, non vedono certo di buon occhio la nascita “de facto” di uno Stato curdo nella Siria Orientale.

venerdì 14 luglio 2017

Kurdilandia, ovvero il paese artificiale

Scrive su MintPress Sarah Abed analizzando il ruolo che alcune fazioni kurde hanno giocato durante la storia: i Kurdi hanno aiutato le maggiori potenze a creare il caos in Medio Oriente - dalla rivolta kurda in Iraq negli anni '60 al conflitto in corso in Siria oggi.
Ancora oggi, essi si rivelano l'arma di USA e Israele per la destabilizzazione del Medio Oriente, in cui gli interessi petroliferi giocano un ruolo primario:


In questo quadro si comprendono le preoccupazioni espresse a Fides dal Vescovo di Hassakè mons Hindo :

Offensiva “autonomista” dei curdi a Hassaké. L'Arcivescovo Hindo: si sentono protetti dagli americani

I militanti e i miliziani che fanno capo al Partito Democratico Curdo (PYD), braccio siriano del Partiya Karkeren Kurdistan (PKK), hanno iniziato a realizzare nei fatti il loro intento – coltivato da anni - di creare una regione autonoma curda nella regione siriana di Jazira, che nei media curdi già viene indicata col nome curdo di Rojava.
Nella provincia siriana nord-orientale di Hassaké, l'auto-proclamata amministrazione autonoma di Rojava ha iniziato a implementare un sistema di tassazione locale per sovvenzionare i pubblici servizi della regione. Secondo quanto affermano i responsabili del progetto, le tasse saranno utilizzate per sostenere i servizi sanitari e educativi locali, per migliorare il sistema di sicurezza e anche per affermare con più forza nelle istituzioni e nella vita sociale i diritti delle donne. Il programma di tassazione prevede imposte per tutti i cittadini che hanno entrate mensili pari o superiori a 100mila lire siriane (circa 200 dollari), e quindi dovrebbe coinvolgere circa il 75 per cento della popolazione locale.
Oltre a cercare di imporre questo nuovo sistema di tasse” riferisce all'Agenzia Fides l'Arcivescovo siro cattolico Jacques Behnan Hindo "quelli del PYD hanno anche requisito e chiuso le scuole. Metà le hanno trasformate in caserme, e nelle altre hanno detto di voler introdurre nuovi programmi scolastici, che verranno realizzati in lingua curda. Tempo fa hanno provato anche a espropriare un terreno appartenente alla nostra Chiesa, ma lo hanno subito restituito, dopo che io avevo inviato lettere di denuncia sia alla Nunziatura che ad alcuni dei loro responsabili”.
Secondo l'Arcivescovo Hindo, che guida l'Arcieparchia siro cattolica di Hassaké-Nisibi, anche la regione di Jazira è coinvolta nella delicata e complicata partita geopolitica che si sta giocando in tutta la regione, e che ruota anche intorno alla 'questione curda': 
I militanti curdi del PYD” riferisce a Fides l'Arcivescovo Hindo “si sentono forti perché credono di avere l'appoggio degli USA. Io li ho messi in guardia: guardate, gli americani prima o poi se ne andranno, e voi vi troverete peggio di prima. Questi militanti sono collegati al PKK, che opera in Turchia, e dicono di aspirare soltanto a una maggiore autonomia locale, senza perseguire mire indipendentiste. Inoltre, sono nemici dei curdi di Masud Barzani, che in Iraq stanno invece marciando verso il referendum per proclamare la piena indipendenza del Kurdistan iracheno. Qui da noi, il progetto di una amministrazione autonoma sostenuto del PYD sembra andare avanti perché loro hanno le armi, ma in realtà non riscuote consensi neanche da parte degli altri curdi. Tanto meno da parte delle tribù musulmane e di noi cristiani. E non credo che sarà mai accettato dal governo di Damasco”.

lunedì 28 novembre 2016

L'arcivescovo Jacques Behnan Hindo spiega le dinamiche della guerra siriana


Intervista di Rodolfo Casadei

Tempi, 28 novembre 2016

Parla della sua regione e la sua arcidiocesi (o arcieparchia), che si estende da nord a sud dalla città di Qamishli, al confine con la Turchia, fino alla derelitta Der Ezzor non lontano dal confine con l’Iraq occupato dall’Isis, e verso ovest fino a Raqqa compresa, la capitale del califfato di al-Baghdadi.

Stiamo parlando dell’angolo nord-est della Siria, quello incuneato fra Turchia e Iraq. In Europa questa regione è chiamata la Mesopotamia siriana, nel mondo arabofono è nota come la Jazira, parola che significa “isola”: si tratta dei territori compresi fra l’alto corso dei due fiumi che poi entrano in Iraq, il Tigri e l’Eufrate. Gran parte dell’area è fertilissima e rappresentava in tempo di pace il granaio della Siria. Nella parte di questa regione coincidente col governatorato di Hassaké, prima della guerra i cristiani erano numerosi, circa 200 mila pari al 15 per cento di tutti gli abitanti. Appartenenti principalmente a sei chiese diverse: siro cattolici, siro ortodossi, armeni apostolici, armeni cattolici, caldei e assiri orientali. Sia nell’agricoltura sia nell’industria, rappresentavano l’élite sociale: secondo i dati di monsignor Hindo detenevano il 60 per cento del Pil prodotto nel governatorato di Hassaké. Ora la loro presenza è dimezzata, molti sono fuggiti per non restare coinvolti nei sanguinosi combattimenti iniziati nel 2011 e che oggi vedono scontrarsi soprattutto le Forze democratiche siriane (Fds), composte dai miliziani curdi dell’Ypg e da milizie locali beduine, e l’Isis, che ha da queste parti la sua roccaforte siriana. Le principali città sono in parte sotto controllo dei governativi di Damasco, in parte sotto quello dei curdi dell’Ypg o dell’Isis.

Monsignor Hindo spiega qual è stato il ruolo delle Chiese nel momento in cui l’episodio siriano della cosiddetta Primavera araba stava tracimando dalle proteste di piazza alla guerra civile. «Nella nostra regione i cristiani sono sempre stati considerati i mediatori dei conflitti. Quando sono cominciate le tensioni, siamo stati chiamati ad appianare le divergenze politiche sorte all’interno delle tribù beduine e della componente curda. Nei primi tempi ci siamo riusciti, come succedeva spesso in passato, ma in seguito abbiamo perso completamente il controllo della situazione».

Tu paghi, io combatto
Del ruolo delle tribù beduine nella guerra civile siriana parlano solo gli specialisti, letti e consultati da pochi, ma si tratta di uno dei fattori decisivi del conflitto. I beduini, fra nomadi e sedentarizzati, rappresentano il 12-15 per cento della popolazione siriana. Alcune tribù sono fedelissime del governo centrale, altre sono legate all’Arabia Saudita, ma in generale i beduini non nutrono sentimenti di appartenenza a un paese oppure a un altro: si legano ad altri solo per il vantaggio della propria tribù.
«I beduini non hanno patria, sono devoti solo alle loro gerarchie tribali, e anche se sono tutti musulmani sunniti non sono molto religiosi: in Europa li definireste dei credenti non praticanti. In Siria il governo, che negli anni Sessanta ha tolto le terre ai loro capi per darle alle famiglie povere, nei decenni successivi ha cercato di ingraziarseli con politiche assistenziali. Gli anni precedenti il 2011 sono stati caratterizzati da grandi siccità nelle regioni semidesertiche della Siria che loro abitano, e ciò li ha resi disponibili ad aderire alla ribellione. In quegli anni molti di loro si sono trasferiti in città a Damasco, ad Aleppo e a Daraa, e lì sono stati il nerbo delle proteste. All’inizio hanno aderito in massa al Free Syrian Army (Fsa) filo-occidentale, che però pagava solo 10 mila lire siriane al mese (che nel 2012 equivalevano a 185 dollari), ma quando è apparsa Jabhat al-Nusra (l’equivalente siriano di Al Qaeda), sono passati in massa con lei soprattutto perché pagava il doppio! Quindi è arrivata l’Isis, che noi chiamiamo Daesh, e di nuovo molti beduini, parliamo di migliaia di combattenti, hanno cambiato bandiera, perché loro pagavano mille dollari a persona! Una famiglia con sei figli maschi poteva incassare 6 mila dollari al mese, una somma enorme per loro. In quel periodo i beduini hanno cominciato a vestirsi e a comportarsi come pretendeva lo Stato islamico. Poi gli americani, i russi e i curdi hanno cominciato a bombardare e attaccare il Daesh, i suoi pozzi petroliferi e le autobotti con cui il petrolio veniva trasportato al confine. Le loro risorse sono svanite, e adesso i combattenti locali sono pagati solo 200 dollari. Un po’ per questo, e un po’ perché hanno visto che l’Isis era attaccata da tutti e perdeva terreno, i beduini che combattevano per loro sono passati in massa dalla parte dei curdi».
Le divisioni tra i curdi
E così cominciamo a proiettare un po’ di luce sul mistero delle Forze Democratiche Siriane (Fds), coalizione di combattenti curdi dell’Ypg e di milizie arabe. Le milizie arabe altro non sono che le varie tribù beduine che hanno cambiato bandiera e sono passate coi curdi. Anche su questi ultimi Hindo fornisce informazioni molto interessanti: «Non tutti i curdi stanno dalla parte dell’Ypg e del suo braccio politico, il Pyd, che ha come obiettivo l’indipendenza di un vasto territorio sotto il nome di Rojava. I curdi rappresentano forse il 30 per cento degli abitanti della regione, e di questi solo la metà o poco più appoggia la linea politica del Pyd, che ha la stessa ideologia laicista del Pkk di Abdullah Ocalan in Turchia. Molti giovani curdi sono fuggiti nel Kurdistan iracheno per non essere costretti a combattere prima con l’Ypg e poi con le Fds. Fino a un anno fa, quando appunto sono nate le Fds, c’era un accordo di non belligeranza fra i curdi dell’Ypg e le forze governative. Damasco ha pure fornito segretamente armi e risorse ai curdi, ai quali è stato permesso di controllare gran parte dei territori del nord-est. La cosa è cambiata quando gli americani hanno sponsorizzato la nascita delle Fds e hanno cominciato ad armarle e finanziarle con larghezza. Allora i rapporti con le forze governative si sono logorati, e in alcune località, come nella città di Hassaké, ci sono stati aspri scontri, in particolare nel quartiere cristiano delle sei chiese, che adesso è zeppo di check-point. Sono stati otto giorni molto sanguinosi».

Milizie cristiane
Facciamo presente al nostro interlocutore che nel nord-est della Siria i cristiani appaiono divisi politicamente e militarmente: la milizia Sootoro appoggia le forze governative (esercito e Ndf, le milizie popolari di quartiere), la quasi omonima milizia Sutoro sta dalla parte delle Fds. «È vero, c’è questa divisione, ma i cristiani filo-curdi in realtà sono poco numerosi: credo 300 famiglie in tutto, dai cui ranghi provengono gli armati di Sutoro. Si tratta di elementi ideologicamente di estrema sinistra o di nazionalisti etnici assiri e siriaci. Sono pochi anche i cristiani coinvolti in Sootoro. La grande maggioranza di noi o sostiene il governo, o critica il governo ma resta leale al presidente Assad. I Sutoro cercano di farsi valere all’interno delle Fds: recentemente la componente curda ha deciso di requisire tutte le case dei cristiani che sono emigrati a causa della guerra, ma Sutoro ha protestato e ha ottenuto che le case siano affidate alla loro competenza. Stanno cacciando i nuovi residenti, spesso arabi a cui i cristiani avevano venduto o affittato la casa prima di andarsene, e mettono dentro persone che scelgono loro».
Monsignor Hindo classifica se stesso fra coloro che criticano il governo ma riconoscono l’autorità del presidente Assad: «Il 28 giugno scorso ho incontrato il presidente e gliel’ho detto di persona, poi ho scritto una lettera in quattro punti perché restasse agli atti: il governo deve cambiare il suo modo di agire, il partito dominante, il Baath, continua a comportarsi come se vivessimo in tempi normali, e non in tempo di guerra. Nomina le persone sbagliate nei posti sbagliati, seguendo logiche partitocratiche, settarie, di clan, di fazione. Per il 95 per cento, le persone competenti, oneste e intelligenti che ci sono nel partito vengono tenute ai margini e non vengono promosse alle responsabilità che meriterebbero. Il risultato è l’incancrenimento della corruzione amministrativa. L’ho detto anche al governatore militare di Hassaké: “Lei ha tutti i poteri, lei può sradicare la corruzione”. Mi ha chiesto cos’è che vogliamo noi cristiani. Gli ho risposto: “Per noi stessi non vogliamo nulla, vogliamo la giustizia, la pace, la sicurezza personale e comunitaria per tutto il popolo, e vogliamo che siano colpiti coloro che rubano il denaro pubblico”».
Come si vive a Raqqa
Monsignor Hindo ne ha anche per le Nazioni Unite: «Da tempo il governo pratica la politica dell’amnistia e della riconciliazione per chi depone le armi e firma l’impegno a non praticare più la lotta armata. In alcuni casi si è provveduto a trasportare nelle zone controllate dalla ribellione chi voleva continuare a combattere, per poi dichiarare la cessazione delle ostilità in quartieri, villaggi e città dove restano molti ex combattenti che riprendono la loro vita normale. È la strada giusta, è l’unico modo per ricomporre il tessuto della società siriana strappato dalla guerra. Abbiamo una serie di esperienze positive a Homs, Mouadamiya, Daraya, Qudssaya. Quando invece si mettono di mezzo le Nazioni Unite, quando l’Onu entra nelle trattative, le cose si complicano e spesso i negoziati falliscono. Perché? Perché quando vedono rappresentanti degli enti internazionali, i ribelli si sentono molto importanti e alzano il prezzo della resa. Si sentono spalleggiati da autorità di livello mondiale, e allora si irrigidiscono. Dove le trattative si svolgono esclusivamente fra siriani, spesso si arriva a una soluzione negoziata, dove si mette in mezzo l’Onu, le trattative stentano. In parte questo sta succedendo anche ad Aleppo».
L’arcidiocesi di monsignor Hindo si estende fino a Raqqa, ed è una vera sorpresa venire a sapere da lui che nella capitale del califfato vive più di qualche cristiano: «Le sole famiglie siro cattoliche sono 15. Escono di casa solo per andare al lavoro, hanno molta paura a farsi vedere in giro. Ma non si lamentano dell’amministrazione: l’Isis fa rispettare tutte le leggi, non solo quelle di ispirazione religiosa, e dopo che hanno pagato la tassa di sottomissione coranica, la jizya, i cristiani sono trattati come gli altri cittadini. Lo Stato islamico ha fissato il prezzo di tutti i servizi, e fa rispettare rigorosamente le norme: se qualcuno non paga a un cristiano la riparazione effettuata presso la sua officina meccanica, il cristiano va a protestare dallo sceicco e quello rapidamente costringe il cliente a saldare il conto alla cifra fissata. Per i sacramenti, battesimi e matrimoni soprattutto, vengono da noi ad Hassaké: celebriamo il rito e festeggiamo insieme, poi loro tornano a Raqqa. Chi è in regola col pagamento della jizya non ha problemi e può viaggiare».
L’ombelico di Dio
Il vescovo non è mai stato a Raqqa da quando è scoppiata la guerra, e forse è meglio così, sentendo quel che dice quando parla della sua fede cristiana: «Io non credo in un Dio unico, credo in un Dio trino. Perché un Dio unico che ama se stesso sarebbe un Dio narcisista. Non credo in un Dio potente, perché sono creatura debole come debole è tutta la creazione. E non credo in un Dio eterno che eternamente ruota attorno al suo ombelico, perché sarebbe un’eternità vuota. Credo che Dio lo abbiamo conosciuto in Cristo quando è salito sulla croce e ci ha rivelato l’amore di Dio. Dio ha amato tanto il mondo da mandare Suo figlio, e Suo figlio si è fatto sacrificio per noi per aprire al mondo la strada della resurrezione e ci ha inviato il Suo Spirito vivificante. Credo in un Dio che ha una storia, che ha un presente e un futuro, in quanto verrà. Un Dio che non soffre non è un Dio che ama, Dio si è fatto uomo per soffrire e per amarci. Non possiamo conoscere Dio che a partire dal sacrificio di Suo figlio. La Chiesa ci aiuta a diventare uno in Cristo, e quando saremo uno in Lui e con Lui, saremo anche uno con il Padre».

sabato 18 giugno 2016

Assad riceve il Patriarca e sei Vescovi siro cattolici: “una nuova Costituzione del tutto laica”


Agenzia Fides 17/6/2016


 Il Presidente siriano Bashar Assad ha in programma una riforma della Costituzione per la nazione da lui guidata, e immagina un testo costituzionale dove dovrebbero venir meno i riferimenti alla Sharia come fonte principale della legislazione, così da eliminare ogni pretesto legale alle discriminazioni, anche striscianti, verso le minoranze religiose. Sono questi alcuni dei progetti per il futuro confidati dallo stesso Assad a una delegazione della Chiesa siro cattolica, composta dal Patriarca Ignace Youssif III accompagnato da sei Vescovi, ricevuti dal Presidente siriano a Damasco lunedì 13 giugno. 

Durante l'incontro, durato un'ora e mezza, Assad ha manifestato l'intenzione di togliere dalla nuova Costituzione, pienamente laica, anche la disposizione che vincola il Capo dello Stato siriano a professare la religione musulmana. 
Il leader siriano – riporta all'Agenzia Fides chi era presente all'incontro – si è anche mostrato convinto che in pochi giorni la situazione di conflitto riesplosa ad Aleppo – e adesso congelata con una tregua di due giorni – sarà completamente risolta, con la creazione di un blocco militare intorno alla città che impedisca il rifornimento di armi ai sobborghi periferici in mano alle forze antagoniste, in gran parte di matrice islamista, ma senza attacchi contro i quartieri, per evitare nuove sofferenze ai civili.
“Il Presidente Assad ha definito anche loro come 'nostri figli”, e ha molto insistito sulla matrice internazionale e non nazionale del conflitto siriano, sottolineando che adesso a parole tutti vogliono combattere i jihadisti dello Stato Islamico (Daesh), ma ancora distinguono nettamente tra costoro e i gruppi qaidisti come Jabhat al Nusra” riferisce all'Agenzia Fides l'Arcivescovo Jacques Behnan Hindo, alla guida della diocesi siro cattolica di di Hassakè-Nisibi, presente all'incontro.

Nella conversazione tra il Presidente e i membri della delegazione ecclesiale, ci sono stati anche accenni alla voci di una possibile spartizione della Siria su base etnico-settaria, con la creazione di uno Stato curdo indipendente e di uno islamista, scenari che Assad ha sempre respinto come irricevibili. Nell'incontro con il Patriarca e con i Vescovi siro cattolici, il Presidente siriano non ha fatto alcun cenno diretto al Papa o alla Santa Sede, e ha invece invitato i suoi interlocutori a intensificare contatti e condividere giudizi e iniziative rispetto alla tragica situazione mediorientale con la Chiesa ortodossa russa. 
http://www.fides.org/it/news/60256-ASIA_SIRIA_Assad_riceve_il_Patriarca_e_sei_Vescovi_siro_cattolici_il_Presidente_progetta_una_nuova_Costituzione_del_tutto_laica#.V2QYGruLSM8


"Nell'incontro con il Presidente Bachar al-Assad, Sua Eminenza il Patriarca Younan e la delegazione dei religiosi hanno espresso grande dolore per quello che ha subito l'amata Siria ed il suo popolo in questa guerra, fatta in nome della democrazia ma con le mani dei nemici dell'umanità che non rispettano i diritti dell'uomo usando proprio la religione, e con quelle di quegli Stati che cercano di dominare popoli poveri usando ragioni machiavelliche che provocano morte e conflitti. 
Il Presidente ha confermato che i Siriani devono ritornare fratelli sinceri, grazie alla riconciliazione... Ha chiesto di lavorare insieme affinchè i siriani si fermino nella loro terra e invitando quelli profughi a tornare per partecipare alla ricostruzione della Siria e della sua civiltà lontana dal settarismo, basata su un sistema laico e non confessionale. Dove tutti i cittadini rispettino l'appartenenza alla Nazione Siriana ed abbiano pari diritti e doveri. Il Presidente ha sottolineato che il venir meno della presenza cristiana nel Medio-Oriente farebbe perdere il valore e l'importanza al Medio-Oriente stesso." 
da:  Patriarcato Siro-Cattolico di Antiochia

venerdì 10 giugno 2016

Il patto con il diavolo. Come abbiamo consegnato il Medio Oriente al fondamentalismo e all’Isis

Terrorismo wahabita, guerre, flussi finanziari, colossali compravendite di armi: in un libro di Fulvio Scaglione storia, dati e numeri su ciò che per ragioni di business le democrazie occidentali fingono di non vedere




VaticanInsider , 10 giugno 2016
di Andrea Tornielli

«La conclusione, inevitabile, è una sola: sappiamo, ma facciamo finta di non sapere. Continuiamo a parlare di lotta al terrorismo islamico, ai jihadisti, ma non interveniamo abbastanza sul denaro, cioè sul motore che tiene in vita e promuove quello stesso terrorismo. Ci teniamo stretti come amici proprio coloro che sostengono chi anima quella che molti di noi considerano addirittura una minaccia alla sopravvivenza della nostra civiltà. E li armiamo, li rendiamo sempre più potenti e, all’occorrenza, devastanti». È l’amara ma realistica conclusione a cui arriva il giornalista Fulvio Scaglione, inviato di guerra e conoscitore del Medio Oriente, nel suo ultimo libro: «Il patto con il diavolo» (BUR, pp. 208, 15 euro), un saggio a metà tra storia e cronaca che spiega «come abbiamo consegnato il Medio Oriente al fondamentalismo e all’Isis». Leggendo il saggio di Scaglione si comprende ancora meglio perché Papa Francesco, quando parla o viene interpellato sul terrorismo e sulla guerra, non ometta di citare spesso i trafficanti di armi, i flussi finanziari e una certa ipocrisia da parte di alcuni leader.  

Soldi e armi al fondamentalismo wahabita  
L’autore fa notare ciò che è - o dovrebbe - essere sotto gli occhi di tutti: l’attuale terrorismo, quello dell’Isis e di Al Qaeda, ha origini nel fondamentalismo wahabita che ha ricevuto e riceve sovvenzioni e armi da finanziatori che abitano nei paesi considerati i migliori alleati dell’Occidente. Nel libro molto spazio è dedicato al ruolo dell’Arabia Saudita che storicamente ha sempre tenuto sotto controllo e stroncato certi movimenti fondamentalisti in casa propria, ma li ha foraggiati per destabilizzare altri Paesi islamici, com’è stato fatto ad esempio con la Siria di Assad. «Per decenni l’Arabia Saudita ha giocato su questo schema - scrive Scaglione - e per decenni i suoi alleati occidentali hanno accettato di sottoscrivere un patto con il diavolo di cui ignoravano le implicazioni, o convinti di trarne comunque un guadagno. Senza notare, o facendo finta di non vedere, quanto i due piani fossero intrecciati, perché proprio la spinta alla diffusione mondiale del radicalismo aggressivo insito nella variante wahabita dell’islam garantisce alla monarchia saudita la legittimità e il consenso necessari a conservare il trono e le ricchezze». 

Davvero «moderati»?  
I danni che questo atteggiamento ha procurato ai Paesi occidentali sono enormi. È curioso, sottolinea l’autore del libro, che i più restii ad ammetterlo siano proprio coloro che più agitano la bandiera dello scontro di civiltà e dipingono a tinte sempre più fosche l’ipotetico futuro di un’Europa assediata da orde di potenziali terroristi. Non pare incredibile che questi stessi personaggi ci abbiano tanto a lungo raccontato la favola dei sauditi e delle altre monarchie del Golfo come “arabi moderati”?». Scaglione fa notare come non sia un caso che proprio Bruxelles sia stato il luogo di «allevamento» dei terroristi che hanno recentemente colpito la Francia e il Belgio, ricordando che proprio lì dal 1969 si è insediato il primo importante centro di propaganda wahabita d’Europa. Pur essendo patria di non più del 2 per cento dei musulmani del mondo, l’Arabia Saudita esercita «un’influenza importante o decisiva su quasi il 90 per cento delle istituzioni islamiche mondiali, soprattutto nelle scuole». 
Ricorda pure che i terroristi qaedisti degli attacchi dell’11 settembre 2001 erano in maggioranza di nazionalità saudita e ricevevano denaro in gran quantità da persone residenti a Dubai. La «guerra al terrore» dichiarata da George W. Bush dopo gli attacchi agli Stati Uniti non ha cambiato nulla nei meccanismi di finanziamento del jihadismo, ed è per questo, sostiene Scaglione, che il terrorismo oggi riesce a colpire con maggiore frequenza e crudeltà. 

Il business delle democrazie europee  
Anche se l’Arabia Saudita non è stato e non è l’unico Paese che alimenta l’estremismo e il jihadismo, nessuno «ha potuto mettere in campo una potenza finanziaria, diventata poi potenza di fuoco, paragonabile a quella dei sauditi». Secondo una proiezione inglese «magari aleatoria ma comunque indicativa», nei 74 anni della sua storia l’Unione Sovietica avrebbe speso quasi cinque miliardi di sterline per fare propaganda al comunismo fuori dai propri confini; l’Arabia Saudita, diventata prospera grazie allo sfruttamento del petrolio a partire dalla fine degli anni Trenta, per diffondere il wahabismo ne avrebbe già investiti quasi novanta». Forse il motivo per cui molti in Occidente fingono di non vedere è il business. L’Arabia Saudita è, ad esempio, il primo partner commerciale del Medio Oriente per la Gran Bretagna, con 200 joint ventures che producono un giro d’affari di circa 18 miliardi di sterline l’anno. Le forze armate saudite sono il miglior cliente dell’industria britannica degli armamenti, con ordini per 4 miliardi di sterline tra il 2010 e il 2015. Per la Francia sta accadendo qualcosa di simile, dopo la firma di contratti per 10 miliardi di euro siglati da duecento industriali francesi guidati a Ryad nell’ottobre scorso dal primo ministro Manuel Valls. L’Italia ha raggiunto nel 2014 un interscambio commerciale di 9 miliardi di euro, e punta a incrementarlo. 

Il caso Stati Uniti  
L’Arabia Saudita, ricorda Scaglione, ha un volto moderno, da Paese sviluppato, perché nella seconda metà del Ventesimo secolo gli americani gliel’hanno costruito pezzo per pezzo. Fino all’anno 2000 anche i ministeri e le principali agenzie governative saudite si servivano di personale americano i cui contratti erano firmati dal Dipartimento del Tesoro Usa. Nel 2010 Barack Obama ha autorizzato la più imponente vendita di armi nella storia degli Stati Uniti, proprio a favore dell’Arabia Saudita: 60 miliardi di dollari in aerei, elicotteri, missili terra-aria e terra-terra, mitragliatrici, radar. Con quella sola firma il Nobel per la Pace che si prepara a concludere il suo secondo mandato alla Casa Bianca aveva quasi eguagliato 56 anni di commercio di armamenti tra i due Paesi, dato che nel periodo 1950-2006 gli Usa hanno fornito ai sauditi armamenti per 62,7 miliardi di dollari. Lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) che monitora il commercio di armi nel mondo, informa che nel periodo 2011-2015 i quattro maggiori importatori di armi sono stati nell’ordine: India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti. «L’India e la Cina - commenta Scaglione - contano insieme 2 miliardi e 620 milioni di abitanti. L’Arabia Saudita e gli Emirati ne contano insieme 36 milioni. Eppure competono, quanto ad acquisto di armi, con questi colossi asiatici». Possiamo davvero stupirci, si domanda l’autore del libro, se poi il Medio Oriente è in fiamme? «E davvero crediamo - continua - che tutte quelle armi siano acquistate a mero scopo di difesa? Siamo davvero convinti che mitragliatrici, cannoni e pallottole stiano chiusi nei magazzini sauditi e degli Emirati a prendere polvere... oppure avremo l’audacia di immaginare che un po’ di quella roba se ne vada in giro ad alimentare la violenza in questo o quel gruppo jihadista?». 

Le verità della candidata Hillary  
Fulvio Scaglione domanda poi quali cambiamenti possiamo attenderci nel prossimo futuro da Hillary Clinton, la prima candidata donna alla Casa Bianca - al momento favorita - dato che una delle principali fonti di finanziamento della fondazione che fa capo a lei e al marito Bill «risulta essere il denaro in arrivo non solo da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti ma da tutti i Paesi e i soggetti in qualche modo beneficiari del commercio internazionale di armi?». Eppure, grazie alla diffusione delle comunicazioni riservate dello scandalo WikiLeaks, sappiamo che proprio Hillary il 30 dicembre 2009, quando era Segretario di Stato (durante il suo mandato approverà vendite di armi per 165 miliardi di dollari, quasi il doppio di quanto approvato da Bush jr nel suo secondo mandato), in un documento catalogato con il numero 131801 scriveva: «L’Arabia Saudita resta una base decisiva di supporto finanziario per Al-Qaeda, i talebani, Lashkar-e-Taiba e altri gruppi terroristici, compreso Hamas». In quello stesso documento la futura candidata democratica alla Casa Bianca, osservava: «I donatori privati dell’Arabia Saudita costituiscono la più significativa fonte di finanziamento per i gruppi di terrorismo sunnita nel mondo» e che era «una sfida senza fine quella di convincere le autorità saudite ad affrontare il finanziamento dei terroristi che nasce nel loro Paese come una priorità». 

Le parole di Joe Biden  
Le comunicazioni riservate di Hillary non erano affatto considerazioni isolate nell’amministrazione Obama. Nell’ottobre 2012 il vicepresidente Biden, incontrando gli studenti di Harvard, per spiegare la crisi in Siria e la genesi dell’Isis ha detto: «Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti... che cos’hanno fatto? Hanno riversato centinaia di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi su chiunque dicesse di voler combattere Assad. Peccato che tutti quei rifornimenti andassero a finire ad Al-Nusra, ad Al-Qaeda e ai jihadisti accorsi a combattere in Siria da ogni parte del mondo». Qualche anno prima, nel 2007, il vice-segretario del Tesoro Stuart Levey, che aveva la delega all’intelligence sui reati finanziari e sul terrorismo, aveva più volte dichiarato anche in Tv: «Se potessi schioccare le dita e tagliare ai terroristi i finanziamenti di uno specifico Paese, sceglierei senz’altro l’Arabia Saudita». 

Quei dubbi del vescovo Hindo  
Nella parte finale del libro, Scaglione dà voce a quegli inascoltati leader delle Chiese cristiane orientali che vivono in Medio Oriente. E ricorda come ha reagito lo scorso marzo monsignor Jacques Behnan Hindo, vescovo siro-cattolico di Hassaké-Nisibi, a cavallo tra Siria e Turchia, il quale nel marzo scorso, di fronte all’accusa di genocidio rivolta dal Segretario di Stato americano John Kerry, in un’intervista invitava a non puntare ogni riflettore sull’Isis, e così «censurare tutte le complicità e i processi storico politici che hanno portato alla creazione del mostro jihadista, a partire dalla guerra fatta in Afghanistan contro i sovietici attraverso il sostegno ai gruppi armati islamisti. Si vogliono cancellare con un colpo di spugna tutti gli strani fattori che hanno portato all’emersione rapida e repentina di Daesh». 

venerdì 27 maggio 2016

"Dice di volere il bene del popolo siriano e invece ..."

Giunge oggi la notizia della decisione dell'Unione Europea di rinnovare le sanzioni contro la Siria per un altro anno. Riportiamo l'intervista rilasciata qualche giorno fa dal Vescovo di Hassakè Behnan Hindo , come primo commento a tale scelta, che per altro comporta conseguenze inumane per il popolo siriano


Piccole Note, 24 maggio

Sono cinque anni che una guerra feroce tormenta la Siria. Una tragedia senza fine si è abbattuta sulla popolazione siriana, che le sanzioni imposte dalla comunità internazionale strangolano ancora di più. «E le organizzazioni non governative e l’Onu invece di aiutarci, ci affamano», afferma monsignor Jacques Behnan Hindo, arcivescovo dell’eparchia siro-cattolica di Hassaké Nisibi, che la guerra in Siria la vede da vicino.

Lo incontriamo in una visita romana, ed è proprio su questo tema che inizia il suo dire: «L’Onu dovrebbe avere un ruolo istituzionale. Dice di volere il bene del popolo siriano e invece… basta pensare agli aiuti destinati ai siriani: le Nazioni Unite comprano merce fuori dal Paese per poi distribuirla sotto forma di aiuti umanitari. Un terzo dei finanziamenti destinati a questo scopo finiscono al personale Onu, altro si spende nel trasporto, molto costoso date le difficoltà della guerra. Se invece si comprasse merce siriana, che tra l’altro costa anche molto meno, si eviterebbero tante di queste spese, ma soprattutto si aiuterebbe il commercio locale, alleviando le sofferenza di un popolo su cui grava un’estrema povertà. Eppure si sceglie la strada più tortuosa, più costosa e meno efficace. Ci domandiamo perché…».

In fondo, anche questa discrasia è in linea con l’evanescenza dell’Onu riguardo la tragedia siriana, aggiunge monsignore, che ricorda con ironia le esternazioni «angosciate» di Ban ki-Moon a seguito delle stragi più efferate: «Parole, solo parole… è il nostro popolo a essere davvero “angosciato”, ma nessuno fa niente. Perché all’Occidente non interessa far finire questa guerra, dal momento che persegue i propri interessi, che poi sono in linea con quelli dell’Arabia Saudita, del Qatar e della Turchia».

Guerra per procura, quella contro Assad, che ha scatenato in Siria miliziani stranieri provenienti da ogni parte del mondo. Legioni che sono arrivate nel Paese sotto gli occhi complici dei servizi segreti di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia, aggiunge monsignore. Ci sono anche dei siriani tra le fila dei miliziani, certo. Reclutati con un sistema di arruolamento antico ma sempre efficace: il libero esercito siriano paga 10.000 lire siriane al mese: al Nusra, la più terribile milizia jihadista (le cui stragi non hanno eco in Occidente) paga 25.000 lire, mentre Daesh, ovvero l’Isis, 50.000 lire.

Cifre astronomiche per i normali stipendi siriani, che hanno sedotto i cuori di tanta povera gente che così ha trovato l’America. Non solo i soldi: quando iniziò la cosiddetta primavera araba siriana, in un mese il Paese si riempì di armi, come racconta il presule, che accenna anche alle decine di migliaia di pik-up Honda bianchi, con tanto di mitragliatrice posizionata nel retro, arrivate nel Paese: veicoli nuovi fiammanti che qualcuno ha comprato e girato ai miliziani e che oggi fanno bella mostra di sé in tutto il Paese.

Quanto ai cosiddetti “ribelli moderati”, come sono chiamati in Occidente alcuni battaglioni di miliziani, monsignor Hindo è netto: semplicemente non esistono. I miliziani passano da un gruppo all’altro con estrema facilità, come anche le armi che l’Occidente fornisce ai loro protetti.

Guerra sporca, quella siriana, dove tutto è ribaltato e dove tutto è usato per uno scopo diverso da quello dichiarato. Anche il recente cessate il fuoco, spiega monsignore, è stato usato a scopo bellico: per rifornire di armi i jihadisti e per farne entrare di nuovi dai confini turchi: circa diecimila.

La sua regione, tra l’altro, vede anche l’attivismo curdo, che certo è diretto contro le bande terroriste, ma che ha le sue ambiguità. Monsignor Hindo spiega che i curdi sono arrivati negli ultimi decenni, da Iraq e Turchia, a seguito delle repressioni subite in quei Paesi. Oggi tale minoranza combatte una battaglia che non coincide con quella dei siriani, tanto che esiste una conflittualità latente tra curdi ed esercito siriano e una diffidenza di fondo tra questi e le popolazioni locali. Storie di un Paese frammentato, a tutto vantaggio dei costruttori di caos.

E dei costruttori di caos è la formula magica «scontro di civiltà», una formula usata da tempo per spiegare la nuova conflittualità globale, che vede il mondo dilaniato dal conflitto tra islamici e cristiani. Una narrativa che vede l’Occidente ergersi a difensore dei cristiani. «Non abbiamo bisogno di protettori – spiega monsignore -. Abbiamo solo bisogno di essere lasciati in pace… Piuttosto la smettano di alimentare questa guerra. Dalle crociate in poi, quando l’Occidente ha usato la difesa dei cristiani come copertura per i propri interessi, i cristiani del mondo arabo hanno sempre pagato un prezzo altissimo. È ora di finirla».

Gli chiediamo del dramma dei profughi, e della nuova propensione all’accoglienza (pur oggetto di controversia) dell’Europa. Anche su questo tema monsignor Hindo ha idee molto chiare: non gli piacciono le distinzioni con le quali si accompagnano tali proclami, ovvero un’accoglienza mirata ai soli cristiani. «Non si tratta di salvare i soli cristiani, ma tutti i siriani. Dio ha donato la sua creazione all’uomo, e si è abbassato a servirlo. Anche a noi è stato dato il compito di servire l’uomo, tutti gli uomini, non solo i cristiani».