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mercoledì 25 dicembre 2019

Aleppo, un altro Natale con la guerra alle porte

Con che animo celebreranno il Natale quest'anno i cattolici rimasti ad Aleppo e in Siria nonostante tutto? Ce lo spiega il vescovo cattolico di rito latino, monsignor Georges Abou Khazen, (francescano della Custodia di Terra Santa nato in Libano 72 anni fa) che svolge da Aleppo il suo ministero di vicario apostolico per i cattolici di rito latino che vivono in Siria.
    Intervista di Terrasanta.net

Monsignor Abou Khazen che Natale sarà quello che Aleppo si appresta a vivere?  Che Natale sarà… Noi speriamo sempre bene. Il Natale ci ispira moltissimo. È la festa della speranza, innanzitutto, e della pace. Della pace interiore, ma anche della pace in tutta la Siria. Speriamo che la situazione migliori, perché nel corso dell’ultimo mese è andata peggiorando. Ad Aleppo, nelle settimane scorse, sono ripresi i bombardamenti alla cieca su alcuni quartieri, a spese della popolazione civile. Gli ordigni partono dalla zona di Idlib e dalla periferia occidentale di Aleppo. In quell’area i militari turchi hanno messo un punto di osservazione e l’esercito siriano esita a contrattaccare, per non innescare uno scontro diretto con le forze turche. D’altronde molti gruppi jihadisti hanno agganci con la Turchia. Questa nuova fase ha provocato varie vittime in città: settimane fa abbiamo contato 7 morti in un solo giorno. Un altro giorno sono morti una madre e i suoi due bimbi; l’indomani i bambini uccisi sono stati 5…

Aleppo ha risentito dell’avanzata delle truppe turche nel nord est della Siria?  Certamente. Molte fabbriche stavano riprendendo le attività, ma ora è tutto si è fermato di nuovo e ciò influisce sulla disoccupazione e su tanti altri aspetti. Noi con i turchi ottomani abbiamo una lunga storia, che non è stata sempre felice. Nell’area di Afrin (a nord ovest di Aleppo – ndr), che hanno occupato (nel gennaio 2018 – ndr), hanno allontanato i curdi rimpiazzandoli con gruppi più omogenei alle loro prospettive. Nel nord-est della Siria, nella Mesopotamia, non ci sono solo curdi, ma anche, nella grande maggioranza, cristiani assiri, caldei, armeni e così via. Quei cristiani sono figli e nipoti di gente massacrata dagli ottomani tra la fine del Diciannovesimo secolo e l’inizio del secolo scorso. Potete immaginare la paura di queste persone quando vedono i turchi avvicinarsi. Sono migliaia e migliaia le persone in fuga, molte volte senza portare nulla con sé, solo per sfuggire alla morte. Nelle case questa gente conservava ancora le fotografie dei genitori, nonni e bisnonni che furono ammazzati dai turchi. Purtroppo, sta succedendo una sorta di pulizia etnica: allontanato i curdi, stanno sostituendoli con altri gruppi, tra i quali turcomanni o i musulmani uiguri della Cina.
Gli sfollati che avevano parenti ad Aleppo sono arrivati in città, altri sono finite in campi profughi. A noi dispiace, perché gli americani hanno montato la testa a questi poveri curdi e poi li hanno venduti. Gli americani hanno occupato tutti i campi di petrolio e di gas. Prima il governo otteneva qualcosa tramite i curdi (petrolio e gas); ora qualsiasi autocisterna si avvicini viene bombardata dagli americani.

Quali notizie avete dall’area di Idlib?  Anche lì la situazione è molto confusa. L’area è ancora assediata. Vi si accede solo dalla Turchia. C’è sì un transito ancora accessibile ai civili, ma da lì servono 28 ore per arrivare ad Aleppo e non sempre il passaggio è aperto. I bombardamenti aerei continuano. Nella sacca restano molti profughi, sospinti lì da altre zone.

Ad Aleppo, negli ultimi anni, lei ha dato impulso al progetto Un nome, un futuro per sostenere i minori rimasti orfani e in difficoltà a causa della guerra. Come procede l’esperienza?  Il progetto sta andando avanti. Devo ringraziare Dio e anche i nostri benefattori. Sono grato anche al muftì Mahmoud Akkam che, con la sua collaborazione, ci dà una copertura morale. I ragazzi vivono in quartieri poverissimi, tutti distrutti. Non c’è nessun cristiano tra di loro. L’avallo del mufti è importante per noi, e ci mette al riparo dalle accuse di proselitismo. L’abbiamo portato a vedere il nostro lavoro e si è molto commosso.
Di che fascia d’età sono i ragazzi che accompagnate?  Parliamo di bambini piccoli, dai 3-4 anni, su su fino ai 17enni. I più grandi, quando è cominciata la guerra, avevano già 6-7 anni e i loro genitori sono morti. Abbiamo avviato anche un programma di alfabetizzazione, soprattutto per le mamme. Stiamo anche aiutando le mamme di alcuni di questi bambini ad imparare un mestiere perché possano guadagnare qualcosa. L’équipe è mista, ne fanno parte cristiani e musulmani. Lavorare fianco a fianco è un’esperienza positiva per la convivenza civile, è un mattone per costruire la Siria del futuro. Ringraziamo Dio.
Dove vivono questi minori?  Alcuni di loro continuano a vivere negli appartamenti distrutti; altri abitano con lontani parenti. L’islam non ammette l’adozione, ed io ho chiesto con insistenza al muftì di trovare una via d’uscita. Lui ha studiato la sharia e ha visto che è praticabile una forma di semi-adozione: i parenti dichiarano che il figlio non è loro; non potrà ereditare, anche se potrà usare il cognome di famiglia che dovrà lasciare al compimento dei 18 anni. Già così è una bellissima cosa. Molte famiglie si rendono disponibili.

Lei è vescovo di tutti i cattolici di rito latino in Siria. Oltre ai francescani, quali altre espressioni di solidarietà sono messe in campo da parte della Chiesa in Siria?  I Maristi Blu stanno facendo un ottimo lavoro, nel loro centro e nei campi profughi. C’è poi l’azione del Jesuit Refugee Service e della Caritas. La Chiesa è molto presente. Mostriamo quello che c’è di più bello nel cristianesimo: l’amore, la carità verso tutti i bisognosi. Cerchiamo di essere un riflesso del volto di Dio amore; di Dio che ama tutti i suoi figli, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa. I nostri concittadini musulmani stanno scoprendo questo e ci dicono: «Ci state insegnando la carità». Per i musulmani è, in qualche misura, una scoperta nuova, benché anch’essi conoscano l’elemosina verso chi è povero, soprattutto nel mese di Ramadan. All’inizio ci guardavano con un po’ di sospetto, ma da quando hanno compreso che agiamo così perché gli vogliamo bene, le cose stanno cambiando. Tanto è vero che ci dicono: «Non ci lasciate», perché hanno scoperto il nostro modo di vivere e la possibilità di vivere in pace fra tutti quanti. La volontà di non escludere nessuno crea un ambiente molto confortevole.
Non voglio dimenticare la presenza di molte congregazioni religiose che fanno riferimento al vicariato apostolico, in quanto congregazioni di rito latino. Stanno facendo un bel lavoro di assistenza e, soprattutto, di sostegno psicologico. Aiutano anche le parrocchie di altre Chiese e non solo le nostre. Alcuni di questi istituti ricevono e trasmettono la solidarietà concreta dei cristiani del resto del mondo. Altri restano tra la gente e fanno quello che possono con la loro presenza. Credo che sia molto. Ringraziamo Dio perché in Siria la Chiesa è stata sempre presente. Nessuno ha lasciato, nonostante il pericolo: né vescovi, né parroci, né religiosi o religiose. Sei dei nostri sacerdoti sono stati uccisi, altri sei (inclusi due vescovi ortodossi di Aleppo) sono stati rapiti e non ne abbiamo più notizie. Nonostante tutto siamo rimasti, e per la gente questo è stato un grande segno di incoraggiamento e di speranza.

La Chiesa ha sempre sostenuto quanto sia importante che i cristiani restino in Medio Oriente e in Siria. Chi era fuggito dalla guerra sta tornando o è ancora presto?  Alcuni degli sfollati interni stanno tornando alle loro case e alle loro terre, ma chi è espatriato ancora non rientra. A riguardo ho qualche punto interrogativo: ad esempio, chi è stato assistito dalle Nazioni Unite non può rientrare prima di cinque anni. L’ho fatto osservare a qualche funzionario dell’Onu: bisogna aiutare i profughi a rientrare nel loro Paese, non a restarne lontano. È chiaro che, dopo cinque anni, se uno ha trovato lavoro, non è invogliato a lasciarlo [per tornare nell’incertezza]. In cinque anni, i figli crescono e vanno a scuola… Anche questo rende meno agevole il ritorno.

Come vanno le cose nella capitale Damasco?   Lì la situazione è molto più tranquilla, ma purtroppo bisogna fare i conti con l’inflazione. Il cambio con il dollaro prima della guerra era 48 lire siriane, più o meno. Ora supera le 900. L’euro che era a 50 lire ora è a 1.000. Gli stipendi sono rimasti invariati e quindi non bastano a fronteggiare il caro-vita. La ricostruzione è stata avviata – qua e là – ma purtroppo, come dicevo, abbiamo le sanzioni che colpiscono la povera gente. Molti beni sono razionati. Faccio qualche esempio: ogni famiglia può avere una bombola di gas da cucina ogni 23 giorni; di benzina se ne possono ottenere 100 litri al mese. Procurarsi il gasolio è ancora più difficile. Chiediamo che le sanzioni internazionali contro la Siria siano rimosse. Dal nostro punto di vista sono un crimine.

mercoledì 3 aprile 2019

Pellegrinaggio di OraproSiria in Libano

Nei prossimi giorni, ci recheremo per un breve pellegrinaggio in Libano per implorare a Nostra Signora di Harissa, di cui è in corso l'Anno Giubilare, e a San Charbel, il santo monaco maronita guaritore, le grazie di guarigione, di consolazione e di sostegno che in tanti ci hanno raccomandato, oltre alla grande grazia che non ci stanchiamo di domandare della pace in Siria.
Per prepararci, riportiamo una bella riflessione di fra Ielpo che illumina il significato del Pellegrinaggio, certi che sarà un aiuto a noi e a tutti coloro che si recano a pregare presso un Luogo Santo.
A tutti i nostri amici assicuriamo la nostra preghiera sotto il manto di Maria e di san Charbel.

«Fu visto e vide»

di fra Francesco Ielpo ofm |  marzo-aprile 2019

La conversione non nasce dalla paura di un castigo o da uno sforzo morale. Avviene quando ci scopriamo amati gratuitamente dallo sguardo misericordioso di Gesù su di noi.


L'incontro di Zaccheo con Gesù a Gerico in un'icona moderna.
Il pellegrinaggio in genere – e quello in Terra Santa in particolare – ha sempre avuto una forte connotazione penitenziale.
Ci si metteva in cammino per espiare le proprie colpe e in alcuni casi poteva essere persino sostitutivo della pena carceraria per chi aveva commesso dei reati. L’idea di penitenza, intesa come sofferenza, privazioni e disagi, era implicita nelle motivazioni di molti pellegrini medievali. Le difficoltà del viaggio, le tribolazioni sopportate, nonché i pericoli, costituivano un mezzo per espiare i propri peccati.

Ricordo che quando fui nominato Commissario di Terra Santa mi recai a Roma per un corso di formazione specifico. Un giorno, prendendo l’ascensore del grande collegio internazionale francescano dell’Antonianum, mi trovai in cabina con un frate a me sconosciuto che guardandomi dall’alto della sua statura mi domandò: «E tu chi sei?». Dopo aver risposto con il mio nome, il motivo per cui mi trovavo a Roma e l’incarico che mi era appena stato affidato, il frate con aria molto seria aggiunse: «Questa è l’ultima occasione che Dio ti dà per convertirti». Sinceramente spero che non sia l’ultima occasione, ma rimane pur vero che la Terra Santa costituisce una grande opportunità di conversione.

Oggi, forse, questo aspetto del pellegrinaggio rischia di passare in secondo piano. Si parte per la Terra Santa con il desiderio di vedere i luoghi e di ripercorrere la geografia sacra senza affrontare, in tutta onestà, grandi sacrifici o penitenze. Ma è possibile, tra le tante comodità che le moderne forme di viaggio consentono, recuperare la dimensione fondamentale del pellegrinaggio come «cammino di conversione»? A partire dalla mia personale esperienza intravedo una positiva risposta nella figura di Zaccheo.

Nel venire a sapere che Gesù passava da Gerico, quest’uomo basso di statura e peccatore pubblico, desiderando vedere Gesù si ingegna per superare le difficoltà oggettive e sale su una pianta di sicomoro.

Voleva vedere Gesù, ma, come ricorda sant’Agostino, «fu visto e vide; ma se non fosse stato veduto, non avrebbe visto».

Nell’esperienza giudaica tre volte all’anno tutti gli ebrei maschi dovevano compiere la «salita a Gerusalemme» (’aliyah) «non solo per vedere Dio, ma anche per essere visti dal Signore» (F. Manns, Terra Santa sacramento della fede, Edizioni Terra Santa 2015). In Terra Santa, ancora oggi, si può fare l’esperienza «graziosa» di uno sguardo amorevole che si posa sulla nostra vita.

Qualche anno fa, a causa dell’annullamento di un precedente viaggio in un Paese esotico, un uomo si era iscritto all’ultimo momento a un pellegrinaggio organizzato dal Commissariato, perché desideroso di visitare luoghi mediorientali. Erano quarant’anni che non metteva piede in una chiesa, dal giorno delle nozze, e aveva vissuto, pur comportandosi bene e in maniera onesta, come se Dio non esistesse.

Dopo qualche giorno di cammino si avvicinò chiedendomi un colloquio personale. Non sapeva perché, ma luogo dopo luogo, santuario dopo santuario, cresceva in lui un desiderio grande di comunicarsi e mi confidava che non poteva farlo perché convinto di non potersi confessare né ricevere l’assoluzione.

Nello scoprire che poteva ricevere il perdono di Dio non riuscì a trattenere la commozione e le lacrime. Lo stesso avvenne il giorno seguente durante la santa Messa al memoriale di san Pietro a Cafarnao, dove ricevette la comunione. Nel luogo dove Gesù aveva promesso il pane vero, quello disceso dal Cielo che dà la vita eterna, quell’uomo si è sentito dire, al pari di Zaccheo, «oggi devo fermarmi a casa tua» (Luca 19, 5) e lo ha accolto pieno di gioia nell’Eucaristia. La conversione non nasce dalla paura di un castigo né da uno sforzo morale. Il cambiamento del nostro cuore avviene sempre quando ci scopriamo amati gratuitamente, quando lo sguardo misericordioso di Gesù si posa sulla nostra vita... Allora, e solo allora, la conversione, cioè il cambiamento di vita («Ecco Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto»), ne scaturisce come conseguenza.

Ancora oggi possiamo recuperare nel pellegrinaggio il «cammino di conversione» di cui tutti abbiamo bisogno, senza necessariamente indossare l’abito del penitente e affrontare particolari disagi. Partiamo, dunque, con il desiderio di vedere, ma anche di essere visti dal Signore. Docili allo Spirito scopriremo che Gesù ci guarda, ci parla e ci ama attraverso i Luoghi Santi, nella Parola, nella preghiera, negli incontri con le «pietre vive» e attraverso il volto di coloro che camminano con noi.

http://www.terrasanta.net/tsx/lang/it/p11479/Fu-visto-e-vide

lunedì 22 ottobre 2018

Mons. Boutros Marayati: Ricostruire le pietre e riconciliare i cuori

«Ricostruire le pietre è facile, ma riconciliare i cuori e ricucire gli uomini è più difficile».  Con queste parole Boutros Marayati (70 anni), arcivescovo di Aleppo degli armeni cattolici, sintetizza la sfida che attende i siriani nei prossimi anni.

Estratto da  Terrasanta.net

«La situazione è più calma, da quando l’esercito governativo ha conquistato la città e i ribelli si sono spostati verso Idlib...Adesso  pare reggere il cessate il fuoco, non si è più svegliati nella notte da bombe e missili. L’aeroporto non ha ancora riaperto, poiché è sotto tiro, ma acqua ed elettricità sono tornate in quasi tutti i quartieri dopo oltre cinque anni». Il fronte non è comunque lontano, si spara a dieci chilometri dalla città e in altre zone della Siria, e Marayati non esclude che ci siano «gruppi dormienti in città».
«Ora che le armi paiono tacere c’è da ricostruire la fiducia tra gli abitanti. L’odio, che a volte strumentalizza la religione, porta a vedere con diffidenza e sospetto i concittadini. Insieme ai religiosi musulmani stiamo lavorando per seminare riconciliazione e perdono.....  Nel nostro governatorato  non c’è famiglia che non abbia una piaga per il conflitto; dei 4 milioni di abitanti ne sono rimasti solo un milione; 70 mila i cristiani, rispetto ai 200 mila che erano prima del conflitto. C’è una generazione di bambini che ha visto solo la guerra, non ha mai studiato con la luce delle lampade, non si è mai lavata le mani con l’acqua corrente; è senza latte e senza medicine. L’Aiuto alla Chiesa che soffre, la Croce Rossa, Sant’Egidio, le Caritas, ATS e altre associazioni  hanno dato un aiuto decisivo alla sopravvivenza». Monsignor Marayati evoca due immagini: quella dei bambini senza più genitori e un istituto di anziani armeni delle diverse confessioni (cattolici, ortodossi, riformati) distrutto di recente dalle bombe.
 «Alcuni abitanti iniziano a tornare sia tra chi era sfollato sul litorale e non riesce più a pagare l’affitto, sia tra i rifugiati in Libano, dove la situazione è sempre più dura». Le cifre di siriani giunti nel Paese dei cedri variano da un minimo di un milione a un massimo di due, in uno Stato di 10 mila chilometri quadrati con 4,5 milioni di abitanti. L’ostilità nei confronti dei profughi cresce, i permessi di soggiorno scadono e diventa difficile uscire dai campi profughi.
Ad Aleppo i cristiani abitano soprattutto ad ovest, mentre è la parte orientale la più colpita. «Stiamo iniziando a ricostruire – dice Marayati – noi armeni cattolici, su cinque chiese, siamo riusciti a riaprirne tre; due sono distrutte. La nostra scuola, che prima della guerra aveva mille studenti, ha appena riaperto con 450 alunni in una nuova sede (la vecchia è stata bombardata)». Dai più giovani arriva una forte sfida: «Per i quartieri di Aleppo ci sono alcune centinaia di ragazzi di strada, giovanissimi che hanno perso i genitori per la guerra. Hanno bisogno di essere aiutati: da questo dipenderà se diventeranno criminali o buoni cittadini. Insieme ad alcuni religiosi musulmani, stiamo lavorando con loro». Altri giovani armeni cattolici vanno a giocare, educando alla pace, nelle tende degli sfollati con i bambini a cui è stata rubata l’infanzia.
L'immagine può contenere: spazio all'aperto
 Purtroppo ancora questo giovedì 18 ottobre i terroristi hanno lanciato missili sui quartiere di al-Sabil e al-Mokambo  ad Aleppo, causando feriti, morti e danni materiali a un certo numero di case.
« Anche nella calma apparente di Aleppo pare di stare sopra un vulcano, per la paura che la guerra riesploda di nuovo». 

venerdì 14 settembre 2018

«L’Isis è pronto a rinascere. Con i bambini». Un documentario inquietante.

 Tutte le guerre "civili" una volta finite, lasciano scie di odio, di risentimento e di vendetta a prescindere dagli interessi in gioco e dagli attori belligeranti. Il quadro che questo documentario ci mostra però è qualcosa di più terribile e pericoloso. Lo è proprio per i semi ideologici/religiosi del fanatismo jihadista che entro pochissimi anni potrebbero germogliare e deflagrare in altre più terribili guerre.
  E questo bel risultato a chi lo dobbiamo? La risposta è tanto semplice quanto negata: gli USA e i loro proxi in Medio Oriente con un pretesto sempre diverso hanno sfruttato, quando non direttamente creato, addestrato e finanziato, sia l'ISIS che le altre milizie Jihadiste in Iraq e in Siria (e altrove) in funzione destabilizzatrice, per arrivare a cambi di regime e alla predazione delle risorse di questi Paesi. Quel 'caos creativo' tanto caro ai neoconservatori di cui era punta di diamante il senatore Mc Cain, “eroe del Vietnam” recentemente scomparso.

 C'è però un altro genere di seme che è stato abbondantemente sparso in queste terre: si tratta del sangue dei Martiri Cristiani che da sempre rigenera la vita e il futuro delle comunità e delle nazioni. Secondo molte testimonianze ci sono anche tante conversioni dall'Islam al Cristianesimo che per ovvie ragioni non vengono palesate e pubblicizzate; un differente Fuoco di tipo spirituale cova e c'è solo da sperare che divampi con nuovi frutti di tolleranza e di pacifica convivenza e collaborazione.
E' avvenuto nei secoli e può riaccadere oggi e nei giorni a venire.
    Questa è la nostra speranza e la nostra preghiera.
    Gb.P. , OraproSiria

A Venezia il futuro dello Stato islamico
Presentato fuori concorso il 30 agosto alla 75.ma Mostra del Cinema di Venezia, un documentario su Mosul (Iraq) dopo il passaggio dell'Isis. I semi dell'odio germoglieranno ancora.

Isis, Tomorrow. The Lost Souls of Mosul
   di Luca Balduzzi

«L’Isis è pronto a rinascere. Con i bambini». Non hanno il minimo dubbio Francesca Mannocchi e Alessandro Romenzi, rispettivamente giornalista e fotografo collaboratori del settimanale L’Espresso, nonché autori e registi del documentario Isis, Tomorrow - The Lost Souls of Mosul, presentato fuori concorso alla settantacinquesima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. «Oggi lo Stato islamico cova sotto la cenere. Indottrinando i mujahiddin del futuro».

Che 
cosa è rimasto del Califfato dopo la liberazione di Mosul, il bastione dell’Isis in Iraq? Ma, soprattutto, quale futuro avranno gli orfani e le vedove dei miliziani che si sono immolati per la causa? Padri e sposi che alcuni figli e mogli hanno ammirato e non smetteranno mai di ricordare come degli eroi.
«Amavo mio marito. Molto», racconta una vedova, mostrando le foto del coniuge con un fucile in mano, una sorta di cartoline «dalla terra del Jihad». «Lo vedevo così convinto che poi mi sono convinta anch’io. Lui combatteva in nome dell’Islam. Come è scritto nel Corano: “Combattete i miscredenti dovunque li troviate”. Noi siamo cresciuti credendo in questo».
«Vedove reiette, stigmatizzate, dolenti ma non pentite, che stanno diventato reclutatrici involontarie dei loro stessi figli, nati per diventare martiri, nati per essere il futuro del Califfato», aggiungono i due autori e registi del documentario. «I semi dell’Isis sono già a Mosul. Sono i bambini, l’arma più potente del Califfo. Il mattone più solido del progetto».

Ancora: come si sta comportando l’Iraq nei confronti di questi orfani e di queste vedove? E come tratta i bambini e le vedove civili che hanno perso i propri genitori e i loro mariti, decapitati, fucilati o lapidati nelle piazze?
«Ovunque vada mi gridano “Sei dell’Isis, sei dell’Isis”», racconta un ragazzo. «Mi dicono che sono un figlio dell’Isis. Mi insultano. Se fossimo morti sarebbe andata meglio. Perlomeno non ci direbbero che siamo dell’Isis». «Gli occhi di tutti sono puntati su di noi», racconta un’altra donna. «Ci trattano come dei prigionieri di guerra. Un uomo mi ha minacciata: “Daremo fuoco alle vostre tende”. Gli ho risposto: “Invece di bruciare le tende, perché non ci metti tutti in fila, donne e bambini, ci uccidi e ti vendichi?”».

Sul versante opposto, un bambino iracheno racconta: «Mio zio e mio cugino sono stati uccisi dall’Isis. C’erano dei bambini con loro. Moltissimi bambini. Hanno imparato a combattere e a chiamare le persone “apostata” o “infedele”. Ho visto bambini della mia età, più grandi e più piccoli impugnare le armi». «Una volta, mia madre non era vestita nella maniera corretta, hanno cominciato a frustarla sulla schiena, davanti a tutti. Ero lì assieme a lei. Se avessi potuto, li avrei uccisi. Se fossi stato armato, avrei sparato. Spero che Dio faccia giustizia. Spero che vengano uccisi loro e le foro famiglie».
«La vendetta regola le azioni e le valutazioni. E in questo, ahimè, niente di nuovo quando si parla di guerra e dopoguerra», soggiungono la Mannocchi e Romenzi. «Perché li considerano perduti, perché rischiano di diventare peggiori dei padri, perché il degrado del dopoguerra non può che abbruttirli, perché i sopravvissuti saranno marchiati per sempre e quel marchio che all’inizio sarà un’onta negli anni diventerà un segno di riconoscimento, un fattore unificante, una ideale medaglia alla continuità del progetto del Califfato».
Per raccontare quello che sta succedendo a Mosul «abbiamo cercato la fiducia dei colpevoli», spiegano i due autori e registi, già alle prese con un’inchiesta su questo argomento pubblicata sull’Espresso a metà agosto, «e ci siamo posti, senza pregiudizi, in loro ascolto».
Il documentario «nasce dall’esigenza di riportare un grado di complessità alla natura di fenomeni ampi che condizionano la vita quotidiana di milioni di persone», proseguono. «Nasce poi dall’urgenza di raccontare qualcosa che è già sotto i nostri occhi, ma resta scientemente ignorato».

venerdì 9 febbraio 2018

Le bombe Usa sui soldati siriani, ecco perché


di Fulvio Scaglione

Nella notte tra il 7 e l’8 febbraio la prima vera battaglia diretta tra le forze della coalizione internazionale capitanata dagli Usa e l’esercito regolare siriano ha complicato le cose, perché ha portato a fronteggiarsi due grandi forze militari su un terreno in cui, a dispetto di tutte le precauzioni (i quartieri generali americano e russo sono rimasti in contatto durante tutto lo scontro), le operazioni possono anche sfuggire al controllo dei comandi. Da un altro punto di vista, però, le ha chiarite e semplificate, perché le ha riportate alla loro origine.
Fin dall’inizio, ormai sette anni fa, le intromissioni nella guerra civile siriana da parte dei gruppi terroristici finanziati dai Paesi del Golfo Persico (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar in prima fila) con la tacita approvazione degli Usa e di gran parte dei Paesi dell’Occidente, avevano come scopo lo smembramento territoriale della Siria e la sottrazione al controllo di Damasco delle maggiori risorse naturali del Paese. Grazie (o a causa) all’intervento militare russo del 2015, al sostegno dell’Iran e all’accordo politico che Russia e Turchia hanno in seguito raggiunto, il primo obiettivo è stato mancato.
Così per gli oppositori internazionali di Bashar al-Assad, Vladimir Putin e Alì Khamenei, è diventato così fondamentale perseguire almeno il secondo obiettivo, soprattutto ora che siriani, russi e iraniani fanno lo sforzo decisivo per riconquistare tutta la Siria. Altrimenti la sconfitta sarebbe totale e politicamente devastante.
Per questo gli americani sono intervenuti con inattesa durezza, uccidendo con i bombardamenti aerei almeno un centinaio di soldati, quando le colonne siriane hanno cominciato a spingersi verso Est, contro le milizie dei curdi e delle Forze democratiche siriane, nell’area dove più importanti sono i giacimenti petroliferi.
Non è complicato dimostrare che questo sia il piano. Basta osservare quanto sia diverso il comportamento degli americani rispetto agli stessi alleati (i curdi, soprattutto) in un’altra area della Siria, quel cantone di Afrin dove l’esercito turco, per ordine di Recep Tayyip Erdoğan, ha preso a martellare le milizie che pure avevano bravamente combattuto l’Isis. Lì, gli alleati americani lasciano fare e si sono accontentati di invitare i turchi a «usare moderazione». Ma Afrin non è di alcun interesse strategico per gli americani, che in Turchia sono già saldamente insediati nella base aerea Nato di Incirlik e da lì possono controllare sia il Sud della Turchia sia il Nord della Siria. Ben diversa l’importanza strategica del cuore del cosiddetto Siraq, fino a pochi mesi fa occupato dall’Isis e posto perfettamente a cavallo tra la Siria di Assad e l’Iraq dei governi di fedele osservanza filo-iraniana.

Gen. Bertolini*: "Gli Stati Uniti per i loro interessi difendono ancora una volta i terroristi"


Generale, che giudizio dà di questo attacco americano inaspettato contro Assad?  Lo ritengo sbagliato. In Siria oggi non ci sono solo due parti che si combattono. Ci sono i terroristi, i siriani governativi che combattono i terroristi, poi c'è una terza parte che sostiene la Free Syrian Army dove però da tempo sono confluiti personaggi che hanno operato nell'area di al Qaeda e che sono contro Assad. Questa parte, sostenuta dagli Usa, controlla una zona particolare vicino al confine con la Giordania, dove c'è anche una base americana che consente di collegare Baghdad a Damasco.
In sostanza, gli americani sostengono i terroristi, è così?  Gli americani quando devono scegliere tra Assad e i terroristi non scelgono Assad, e questo lo fanno gli americani e anche gli israeliani.
Che proprio pochi giorni fa hanno bombardato depositi di armi che si dicono chimiche vicino a Damasco.   Gli israeliani è dall'inizio della guerra che intervengono contro i siriani colpendoli a Damasco. Il loro progetto è ampliare l'area a ridosso delle alture del Golan per avere una zona in territorio siriano sgombra da Hezbollah e siriani. E' una guerra sporca.
Sembrava che Trump avesse una politica verso la Siria diversa da quella di Obama che ha sempre sostenuto i terroristi, invece non è così.   Io speravo non finisse così ma in un certo senso me lo aspettavo.
Perché?  La politica estera americana non cambia con chi è al governo, ricordiamo che la guerra in Kosovo è stata iniziata da un democratico, Bill Clinton, che ha fatto bombardare il legittimo governo serbo per sottrargli il Kosovo. L'America ha una sua politica imperiale che non guarda in faccia nessuno, guarda solo agli interessi dei suoi alleati. Trump sicuramente si presentava con un programma diverso, aveva detto che non era Assad il suo problema, sembrava che potesse rimanere al governo. In realtà l'establishment americano ha la capacità di imporre anche alla politica la continuità imperialista e Trump non ha bisogno di altri nemici da aggiungere a quanti ne ha già.
L'attacco americano può essere stato dettato anche dalla presenza russa in Siria?  La presenza russa in Siria è tale perché richiesta dal governo a differenza degli americani che non li ha chiamati nessuno. Gli Usa non vogliono la presenza di Putin nel Mediterraneo, quando hanno potuto fare qualcosa per impedirlo lo hanno fatto.
Ad esempio?  Quando Erdogan abbatté l'aereo russo lo fece perché obbediva agli americani. Sono sempre stati estremamente attenti a fare di tutto per impedire ai russi di riguadagnare la posizione nel Mediterraneo che avevano in passato. Lo fanno in Siria dove per i russi è fondamentale avere il controllo di alcuni porti e lo fanno in Ucraina dove c'è la sede della flotta in Crimea. Teatri lontani ma in realtà l'aspetto del contrasto russo-americano li rende connessi.
*generale Marco Bertolini, ex comandante del Coi, con all'attivo missioni dal Libano ai Balcani all'Afghanistan

martedì 30 gennaio 2018

Testimoni di un mondo divino: il perdono di Christine

Christine è una vittima dell'attentato del 22 gennaio sui quartieri Bab Touma e  al-Shagour di Damasco, quando numerosi colpi di mortaio sono stati lanciati dai ribelli stanziati nel Ghouta all'ora dell'uscita dalle scuole cristiane. Per la granata ricevuta le hanno dovuto amputare la gamba sinistra, mentre per la sua amica Rita, il piccolo Elias di 3 anni e altri 21 persone, si sono spalancate le porte del Paradiso. 
In questo video si può ascoltare la straordinaria testimonianza di questa forte ragazza cristiana e della sua magnifica famiglia.



Christine:  "Spero di essere l'ultima vittima del terrorismo"
                  "Vorrei continuare la mia vita come era prima, con tutti i progetti e sogni, e continuare a   studiare "
                   "Non provo alcun odio contro quell'uomo che ha buttato la bomba"

I genitori: "Siamo meravigliati dalla determinazione e volontà di Christine"
                   "Abbiamo un dolore così grande che non auguro a nessuno, neanche a quelli che ci         hanno colpito"
                   "Perdoniamo tutti, non riusciranno a fermare la Siria con questi atti terroristici".
                   "Resteremo in Siria, perchè amiamo la terra siriana"


Dal convento francescano del Memoriale di San Paolo, situato proprio nel quartiere Bab Touma, fra Bahjat Karakach testimonia
«Tantissime persone affollavano la piccola anticamera della terapia intensiva, una attesa bruciante scandita dalla preghiera di un coro di persone che in attesa di sapere se i loro cari ce la faranno, se riusciranno a sopravvivere, pur nella tragedia di aver perso una gamba o un occhio... E dall’interno si sentivano solo grida di dolore... I medici si prodigavano ma senza poter soddisfare i bisogni di decine di feriti, sopraggiunti tutti insieme dalla vicina piazza di Bab Touma. La scena era apocalittica all’ospedale Saint Louis. Me lo ha raccontato Georgette, che era lì per sostenere i genitori di una ragazza sedicenne, sua parente, che all’uscita dalla scuola è stata raggiunta, con molte altre persone, da un colpo di mortaio lanciato dalla zona di Jobar alla periferia di Damasco, occupata dai terroristi».  Continua il frate: «Cristina, la sedicenne, ha subito l’amputazione della gamba. Ma è stata “fortunata”; Rita, la sua compagna, non ce l’ha fatta. Così come Elias, che aveva appena tre anni, e altri ancora che saranno per sempre nel ricordo triste dei damasceni. Ancora una volta si riapre la ferita, mai completamente rimarginata, di una violenza assurda e gratuita, di una guerra fomentata da interessi regionali e internazionali che usano il popolo siriano quale carburante inestinguibile. La violenza che alberga nel cuore di persone indottrinate all’odio verso il diverso continua a colpire tutti indistintamente, soprattutto le chiese: ieri la cattedrale maronita e la settimana scorsa la chiesa francescana e quella dei greci cattolici. Ma le comunità cristiane restano a Damasco, come piccolo segno di riconciliazione e di speranza per tutto il popolo siriano».

mercoledì 6 dicembre 2017

La lettera a Donald Trump dei Patriarchi e capi delle Chiese di Terra Santa

Gerusalemme, 6 dicembre 2017

Caro Signor Presidente,

siamo pienamente consapevoli e apprezziamo come Lei sta dedicando un'attenzione particolare allo stato di Gerusalemme in questi giorni. Stiamo seguendo con attenzione e vediamo che è nostro dovere indirizzare questa lettera a Sua Eccellenza. Il 17 luglio 2000, abbiamo inviato una lettera simile ai leader che si sono incontrati a Camp David per decidere lo status di Gerusalemme. Hanno gentilmente preso la nostra lettera in considerazione. Oggi, signor Presidente, siamo fiduciosi che anche voi accoglierete il nostro punto di vista considerazione sullo status molto importante di Gerusalemme.
La nostra terra è chiamata ad essere una terra di pace. Gerusalemme, la città di Dio, è una città di pace per noi e per il mondo. Purtroppo, però, la nostra terra santa, con Gerusalemme la città Santa, è oggi una terra di conflitto.
Coloro che amano Gerusalemme hanno ogni volontà di lavorare e farne una terra e una città di pace, vita e dignità per tutti i suoi abitanti. Le preghiere di tutti i credenti in essa - le tre religioni e due popoli che appartengono a questa città- si innalzano a Dio e chiedono la pace, come dice il salmista: "Ritorna da noi, Dio Onnipotente! Guarda giù dal cielo e guarda! "(80,14), ispira i nostri leader e riempi le loro menti e cuori con giustizia e pace.

Signor Presidente, abbiamo seguito con preoccupazione le notizie sulla possibilità di cambiare il modo in cui gli Stati Uniti comprendono e si occupano dello status di Gerusalemme. Siamo certi che tali passi produrranno un aumento di odio, conflitto, violenza e sofferenza a Gerusalemme e in Terra Santa, spostandoci più lontano dall'obiettivo dell'unità e più addentro verso la divisione distruttiva. Le chiediamo Signor Presidente, di aiutarci tutti a camminare verso un maggior amore e una pace definitiva, il che non può essere raggiunto senza che Gerusalemme sia per tutti.

Il nostro solenne consiglio e appello è che gli Stati Uniti continuino a riconoscere il presente
stato internazionale di Gerusalemme. Qualsiasi cambiamento improvviso potrebbe causare danni irreparabili. Noi siamo fiduciosi che, con il forte sostegno dei nostri amici, Israeliani e Palestinesi possano lavorare per negoziare una pace sostenibile e giusta, a beneficio di tutti coloro che desiderano che la Città Santa di Gerusalemme compia il suo destino. La Città Santa può essere condivisa e pienamente goduta quando un processo politico aiuti a liberare i cuori di tutte le persone, che vivono al suo interno, dalle condizioni di conflitto e distruttività che stanno vivendo.

Il Natale è oramai alle porte. È una festa di pace. Gli angeli hanno cantato nel nostro cielo: Gloria a Dio nell' alto, e la pace sulla terra per le persone di buona volontà. In questo prossimo Natale, ci auguriamo che Gerusalemme non sia privata della pace, le chiediamo Signor Presidente di aiutarci ad ascoltare la canzone di gli angeli. Come leader cristiani di Gerusalemme, la invitiamo a camminare con noi nella speranza mentre costruiamo una pace giusta e inclusiva per tutti i popoli di questa città unica e santa.

Con i nostri migliori saluti e i migliori auguri per un Santo Natale.
     (trad. OpS)

Dear Mr. President, 
We are fully aware and appreciative of how you are dedicating special attention to the status of Jerusalem in these days. We are following with attentiveness and we see that it is our duty to address this letter to Your Excellency. On July 17, 2000, we addressed a similar letter to the leaders who met in Camp David to decide the status of Jerusalem. They kindly took our letter into consideration. Today, Mr. President, we are confident that you too will take our viewpoint into consideration on the very important status of Jerusalem. 
Our land is called to be a land of peace. Jerusalem, the city of God, is a city of peace for us and for the world. Unfortunately, though, our holy land with Jerusalem the Holy city, is today a land of conflict. 
Those who love Jerusalem have every will to work and make it a land and a city of peace, life and dignity for all its inhabitants. The prayers of all believers in it—the three religions and two peoples who belong to this city—rise to God and ask for peace, as the Psalmist says: "Return to us, God Almighty! Look down from heaven and see!" (80.14). Inspire our leaders, and fill their minds and hearts with justice and peace. 
Mr. President, we have been following, with concern, the reports about the possibility of changing how the United States understands and deals with the status of Jerusalem. We are certain that such steps will yield increased hatred, conflict, violence and suffering in Jerusalem and the Holy Land, moving us farther from the goal of unity and deeper toward destructive division. We ask from you Mr. President to help us all walk towards more love and a definitive peace, which cannot be reached without Jerusalem being for all. 
Our solemn advice and plea is for the United States to continue recognizing the present international status of Jerusalem. Any sudden changes would cause irreparable harm. We are confident that, with strong support from our friends, Israelis and Palestinians can work towards negotiating a sustainable and just peace, benefiting all who long for the Holy City of Jerusalem to fulfil its destiny. The Holy City can be shared and fully enjoyed once a political process helps liberate the hearts of all people, that live within it, from the conditions of conflict and destructiveness that they are experiencing. Christmas is upon us soon. It is a feast of peace. The Angels have sung in our sky: Glory to God in the highest, and peace on earth to the people of good will. In this coming Christmas, we plea for Jerusalem not to be deprived from peace, we ask you Mr. President to help us listen to the song of the angels. As the Christian leaders of Jerusalem, we invite you to walk with us in hope as we build a just, inclusive peace for all the peoples of this unique and Holy City. 
With our best regards, and best wishes for a Merry Christmas.

 +Patriarch Theophilos III, Greek Orthodox Patriarchate 
+Patriarch Nourhan Manougian, Armenian Apostolic Orthodox Patriarchate 
+Archbishop Pierbattista Pizzaballa, Apostolic Administrator, Latin Patriarchate 
+Fr. Francesco Patton, ofm, Custos of the Holy Land 
+Archbishop Anba Antonious, Coptic Orthodox Patriarchate, Jerusalem 
+Archbishop Swerios Malki Murad, Syrian Orthodox Patriarchate 
+Archbishop Aba Embakob, Ethiopian Orthodox Patriarchate 
+Archbishop Joseph-Jules Zerey, Greek-Melkite-Catholic Patriarchate 
+Archbishop Mosa El-Hage, Maronite Patriarchal Exarchate 
+Archbishop Suheil Dawani, Episcopal Church of Jerusalem and the Middle East 
+Bishop Munib Younan, Evangelical Lutheran Church in Jordan and the Holy Land 
+Bishop Pierre Malki, Syrian Catholic Patriarchal Exarchate 
+Msgr. Georges Dankaye’, Armenian Catholic Patriarchal Exarchate
    

venerdì 21 luglio 2017

Libano: offensiva contro i terroristi, dramma dei profughi siriani

 AsiaNews – 20 luglio 2017
 Un territorio di 350 chilometri quadrati, dei quali 250 in Libano e 100 in Siria è il nuovo teatro dello lotta per lo sradicamento del terrorismo islamico di Al Nusra in Medio-Oriente. Per l’esercito libanese è “finalmente giunta l’ora di chiudere il fascicolo dei disordini a Jerud Arsal” nell’estrema Bekaa, nel nord-est del Libano al confine con la Siria.
L’avanzata dei terroristi islamici che intendevano creare una continuità  territoriale di Daesh e Al Nusra da Aleppo, Idleb lungo il nord del Libano fino ad arrivare a Tripoli sul Mediterraneo è fallita, grazie alla resistenza della popolazione, dell’esercito libanese e di Hezbollah. Alcune forze finanziate da Paesi esteri hanno sempre voluto presentare l’invasione di Daesh e Al Nusra con Hezbollah come una guerra interconfessionale. Ma i crimini commessi dai terroristi islamici, fra l’altro lo sgozzamento e il rapimento di soldati di varie confessioni religiose ha subito svelato il loro vero volto.
Ieri l’esercito libanese ha fatto ingresso nei campi profughi siriani con l’intenzione di salvare i civili dagli scontri attesi per i prossimi giorni. La vicenda ha dato luogo a una campagna diffamatoria contro i siriani in generale con forti connotazioni razziali e la chiara intensione di far scoppiare scontri fra libanesi e siriani presenti nel Paese dei cedri (ormai quasi 2 milioni di profughi siriani in Libano su una popolazione di 3 milioni e mezzo di libanesi).
Per disinnescare la mina il presidente della Repubblica Michel Aoun è intervenuto ieri pubblicamente per definire “inaccettabile” la demonizzazione dei siriani come tali, fermando il crescendo delle dichiarazioni anti-siriane e ripuntando la bussola sul vero problema, ossia sulla presenza dei fondamentalisti islamici che da anni trafficano attraverso il confine con la Siria, tentando allo stesso tempo di invadere il nord del Libano e creare un principato di Daesh nella seconda citta libanese, Tripoli e accerchiando cosi la regione alauita con capoluogo Latakia.
http://www.asianews.it/notizie-it/Ore-contate-per-Al-Nusra-di-Arsal-e-Kalamun:-%E2%80%9CArrendersi-o-morire%E2%80%9D-41339.html

Libano, il dramma dei profughi siriani


Terrasanta. net  20 luglio 2017
di Fulvio Scaglione
Con 6 milioni e 200 mila abitanti e un milione e mezzo di rifugiati dalla Siria, il Paese dei cedri non ce la fa più. Il peso dei profughi crea una miscela esplosiva. Lo dicono le cronache degli ultimi giorni.
Era evidente che la situazione del Libano fosse potenzialmente esplosiva. Un Paese con 6 milioni e 200 mila abitanti e un milione e mezzo di rifugiati dalla Siria poteva tirare avanti solo grazie a uno di quei prodigi che ne costellano la storia, dai tempi dei fenici ai giorni nostri. Da anni si tirava avanti a prezzo di due sacrifici complementari: quello della popolazione locale, che aveva comunque accolto i nuovi arrivati; e quello dei rifugiati stessi che, nella speranza di un rapido ritorno a casa, si erano adattati a vivere nei campi sapendosi ben poco amati.   
Adesso il prodigio pare proprio esaurito. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è la morte di quattro siriani, tutti uomini, arrestati dall’esercito libanese durante un raid nei campi profughi dell’area di Arsal, una cittadina nei pressi del confine con la Siria che nel 2014 era stata occupata per pochi giorni dai miliziani dell’Isis. I militari andavano a caccia di terroristi, sono stati accolti da un lancio di granate e da alcuni kamikaze che, secondo le fonti non ufficiali hanno lasciato sul terreno dodici morti. A quel punto quattro giovani sono stati arrestati e sono rispuntati solo qualche giorno dopo: morti. Secondo i portavoce dell’esercito, per causa naturali. Secondo le organizzazioni umanitarie, corroborate da impressionanti fotografie diffuse da alcune testate, perché picchiati e torturati.   L’episodio, già atroce in sé, ha fatto saltare il coperchio a una situazione più che precaria. Su Facebook alcuni attivisti dei campi hanno creato una pagina per promuovere una manifestazione di protesta a Beirut. Subito dopo, una manifestazione uguale e contraria è stata convocata, a sostegno dell’esercito, da cittadini libanesi. La prospettiva di uno scontro di piazza era diventata concreta, così il governo ha proibito ogni manifestazione.   
 È ovvio, però, che si tratta di un cerotto. Dal punto di vista dei libanesi, la presenza dei profughi siriani è un dramma. Dall’inizio della guerra civile siriana il loro Paese ha subito decine di irruzioni e attentati da parte dello Stato islamico e di formazioni analoghe che, con ogni evidenza, hanno nei campi profughi informatori e complici. La Banca Mondiale, inoltre, ha calcolato che oltre 200 mila libanesi sono stati spinti nella povertà a causa dell’arrivo dei siriani che, per necessità, accettano anche lavori sottopagati. Sui libanesi, inoltre, agisce anche il ricordo dell’arrivo dei palestinesi. Accoglierli doveva essere una misura temporanea, invece oltre 500 mila di loro sono ancora in Libano. E proprio la presenza dei palestinesi, e le divisioni intorno alla loro causa, fu una delle scintille che accesero la lunga (1975-1990) e terribile guerra civile che quasi distrusse il Paese.    Anche per i siriani, ovviamente, dover vivere sotto le tende in Libano, mal sopportati e duramente controllati, è drammatico. E lo dimostra il fatto che dopo il raid dell’esercito libanese ad Arsal, quasi 500 di loro hanno riattraversato il confine e sono tornati in Siria, preferendo la patria in guerra a un’accoglienza che sa di prigionia. Sempre più si capisce, comunque, che anche i profughi possono essere usati come un’arma. E la destabilizzazione del Libano, da sempre, è un obiettivo che fa gola a molti.

mercoledì 8 giugno 2016

Benvenuto al nuovo Custode di Terra Santa

L'abbraccio tra fra Pierbattista Pizzaballa e fra Francesco Patton
Fra Francesco Patton ha fatto il suo ingresso ufficiale a Gerusalemme lunedì 6 giugno, diventando il 168esimo Custode di Terra Santa. Secondo una tradizione secolare, l'accoglienza è avvenuta alla porta di Jaffa.

Della situazione della Terra Santa oggi, segnata da profondi conflitti, fra Francesco Patton parla come di una «scommessa di Dio».
«Credo che abbia un significato il fatto che quando Dio ha scelto d’incarnarsi, lo abbia fatto proprio in Terra Santa. La storia di questa terra è segnata da conflitti e scontri. Il fatto che Dio abbia scelto d’incarnarsi qui, sembra proprio una scommessa. Quasi a dire: se si realizzeranno qui, allora è possibile che pace e giustizia possano regnare su tutta la terra. Tutti noi siamo chiamati ad andare e a restare in Terra Santa, sapendo che siamo parte di questo “sogno di Dio”. La possibilità cioè che “il lupo pascoli con l’agnello”, come ci dice la visione di Isaia. E che venga un tempo, come ci testimoniano i profeti, “di cieli nuovi e terra nuova”. Noi dobbiamo credere che tutto ciò accadrà. Perché quello che impedisce la realizzazione dei progetti di Dio è anche la nostra mancanza di fede».
I primi tempi del suo mandato – fra Francesco ne è certo – saranno una sorta di «noviziato». «Non ho la presunzione di riuscire ad entrare subito in una realtà complessa come quella della Custodia di Terra Santa e del contesto ecclesiale e sociale nel quale come frati minori siamo chiamati a lavorare. Mi metterò in ascolto. Credo che le esperienze di internazionalità a servizio dell’Ordine mi possano aiutare a prestare attenzione alle varie sensibilità e culture».
Di una cosa è però certo fra Patton: «Il mio cuore è in Terra Santa. Da quando mi hanno comunicato la nomina, ho iniziato a ricordare quotidianamente nella preghiera i confratelli che vivono in Siria, tutti coloro che servono con tanta dedizione nei santuari e sono impegnati nelle parrocchie e nelle tante realtà sociali della Custodia; coloro che si impegnano nei vari centri di per non dimenticare i padri Commissari impegnati a diffondere l’opera della Custodia in tutto il mondo. Sento per loro grande affetto e riconoscenza. Mi sono preziosi e li sento tutti uniti nella preghiera».

venerdì 25 marzo 2016

Siria: «È come un Calvario in attesa di Pasqua»

Monsignor Vasil'di ritorno dalla Siria : "Una sofferenza che però porta in sé speranza della risurrezione"

Vescovi Cattolici di Siria

Terrasanta.net

di Carlo Giorgi | 23 marzo 2016

«Pochi sanno che tre delle quattro suore di Madre Teresa trucidate in Yemen, avevano svolto un lungo 
servizio in Siria. A Damasco ho incontrato le loro consorelle e ricordo bene le loro parole. Mi hanno ricordato il loro impegno per i siriani nonostante le difficoltà e, anzi, contro ogni speranza…». 
L’arcivescovo Cyril Vasil’, segretario della Congregazione per le Chiese orientali, è appena tornato dalla Siria dove si è recato per incontrare, prima della Pasqua, i cattolici locali. 
Il 17 marzo ha partecipato all’Assemblea dei vescovi cattolici di Siria, nella città costiera di Tartus. Nei giorni precedenti però si è recato, grazie a una scorta militare, a Damasco, nelle città di Saydnaya e Yabrud; riuscendo a visitare anche il monastero di Mar Musa, del cui fondatore, padre Paolo Dall’Oglio, rapito dai fondamentalisti nel 2013, non si hanno purtroppo ancora notizie.
«Il Papa parla sempre de “la mia amata Siria” e anche il prefetto della Congregazione delle Chiese orientali, il cardinal Leonardo Sandri, è sempre in contatto con clero e vescovi del posto – spiega mons. Vasil’ –. Così il mio viaggio è stato solo la conferma di questa attenzione della Santa Sede per i cristiani siriani.
Oltre ai vescovi, ho potuto incontrare sacerdoti, religiosi e laici. Ho trovato molto interessante poter parlare coi sacerdoti dei problemi pastorali in questa situazione di guerra: ad esempio, i pastori della diocesi di Bosra e Horan, a sud di Damasco, guidano piccole parrocchie di una zona abbastanza povera. Molti loro fedeli per via della guerra sono andati all’estero o si sono rifugiati nelle grandi città. Questo li pone in una situazione del tutto nuova».
Qual è l’atteggiamento dei cristiani oggi in Siria? Nella comunità cristiana convivono due desideri contrastanti. Da una parte c’è il desiderio di rimanere e continuare a vivere in patria nel modo più normale possibile. Dall’altra non si può negare che c’è una tendenza allo scoraggiamento. Si fatica a trovare una prospettiva per il futuro, non solo a causa delle persecuzioni dirette, ma anche per una situazione di tensione nei confronti dei cristiani che perdura da molto tempo. Così i cristiani sono portati a emigrare. Si tratta di due tendenze presenti in tutte le comunità parrocchiali, diocesane e nelle famiglie stesse… Spesso gli anziani preferiscono rimanere, ma al tempo stesso desiderano un futuro per i loro figli. Questo provoca grande sofferenza.
I cristiani siriani vedono la convivenza con i musulmani ancora possibile? Ci sperano ancora perché nel recente passato non hanno mai avuto difficoltà di convivenza con i musulmani; anzi, la società siriana è stata contrassegnata da una fraterna e pacifica convivenza. Adesso una radicalizzazione del fondamentalismo islamico, spesso di radice straniera, ferisce questo tessuto. L’equilibrio di un tempo è danneggiato e purtroppo è difficile dire cosa avverrà in futuro.
Che impressione generale del Paese ha riportato? Gli effetti della tregua in atto si vedono? Ero stato in Siria anche un anno fa e ricordo che sopra Damasco sentivo continue esplosioni, mentre in cielo sfrecciavano aerei militari. Questa volta sono stato in zone sotto il controllo del governo centrale e tutto mi è sembrato sicuro e pacifico. Anche per la tregua, che sembra reggere, non ho visto alcun tipo di ostilità. La vita nelle grandi città sembra normale, se non fosse per i continui check-point della polizia e dell’esercito. Certamente la situazione non è così nelle zone in cui il conflitto è vivo. Non ho potuto verificare di persona, ma la testimonianza delle persone che vengono da zone periferiche conferma che la situazione è molto precaria sia per aspetti umanitari come cibo, acqua e corrente elettrica, sia per il pericolo immediato di essere feriti o rapiti anche dalla criminalità comune.
Mar Musa, il monastero di padre Paolo Dall’Oglio, è ancora abitato? 
Sì. Questa volta ho potuto visitare anche fisicamente il monastero di Mar Musa, dove mi ero recato diverse volte anche prima della guerra. I monaci e le monache sono ancora presenti e svolgono la loro attività nella vicina cittadina di Nebeq. Ho potuto incontrarli assieme agli altri religiosi siriani.
Via Crucis a Homs
I cattolici siriani quest’anno riusciranno a celebrare la Pasqua? 
Nelle grandi città, dove c’è libertà di culto e tranquillità, spero che il triduo si riesca a celebrare normalmente. Ricorderò sempre una frase che mi disse lo scorso anno il parroco della cattedrale siro-cattolica di Homs. Erano appena finiti i combattimenti e si cercava un luogo in città dove fare la via crucis. “Dove farla? Un luogo vale l’altro - diceva il parroco - tutto qui è un calvario”. All’epoca era tutto segnato da quella sofferenza che ricorderemo in questi giorni.
Una sofferenza che però porta in sé speranza della risurrezione. Una risurrezione che vogliamo per la Siria, per l’intera nazione e per i cristiani in modo particolare.

http://www.terrasanta.net/tsx/articolo.jsp?wi_number=8229&wi_codseq=%20%20%20%20%20%20&language=it



Fra Ibrahim da Aleppo: La Pasqua è pace e misericordia per una comunità ferita dalla guerra

AsiaNews, 25 marzo 2016

La comunità cristiana di Aleppo si avvicina alla Pasqua “preparando le liturgie”, abbellendo le chiese “con fiori e addobbi preparati dai giovani; stiamo cercando di coinvolgere tutti i fedeli, soprattutto quanti hanno sofferto, persone che hanno avuto dei morti, famiglie spezzate che abbiamo cercato di curare dal punto di vista materiale, psicologico e spirituale”. È una festa all’insegna della pace, della misericordia e della riconciliazione quella che si apprestano a vivere i cristiani di Aleppo, città martoriata da cinque anni di sanguinoso conflitto.
Come racconta ad AsiaNews p. Ibrahim Alsabagh, 44enne francescano, guardiano e parroco della parrocchia latina di Aleppo, la “fragile tregua” nel conflitto siriano, che “funziona in parte”, ha permesso alla gente “di respirare, infondendo una nuova speranza”. Dopo mesi è tornata l’elettricità e anche sul fronte dell’acqua la situazione è migliorata, e questo ha portato sollievo fra gli abitanti.
Nel periodo di Quaresima e nella Settimana Santa la parrocchia ha coinvolto “bambini e giovani” nell’organizzazione delle celebrazioni: “Ieri hanno preparato l'adorazione - racconta p. Ibrahim - e i più piccoli hanno seguito con attenzione il gesto della lavanda dei piedi fatta dal vescovo. Un rito che insegna loro il senso dell’autorità e il valore della responsabilità”. Sempre ieri si è svolta una processione, con i bambini “contentissimi” nel “portare le candele”. Un gesto che hanno compiuto anche “in occasione della festa delle Palme. Oggi celebreremo la Via Crucis - aggiunge - mentre domani ci saranno i battesimi, per far sentire anche i bambini partecipi delle iniziative della comunità”. 
Per rendere ancora più gioiosa la festa di giovani e piccoli, fra quanti hanno sofferto di più per la guerra, la parrocchia ha deciso di distribuire dolci e alimenti legati alla festa: “Due settimane fa - sottolinea il sacerdote - abbiamo realizzato che nelle case non ci sono cioccolatini, uova, carne. Per questo abbiamo organizzato una piccola festa nella sala parrocchiale, in cui verrà riservato un angolo ai bambini per dipingere le uova e preparare gli addobbi, sotto la guida attenta degli scout”. 
Nell’anno della Misericordia, anche la comunità di Aleppo ha voluto insistere sull’importanza del sacramento della riconciliazione: “I fedeli - spiega p. Ibrahim - si sentono chiamati a tornare ad attingere alla fonte della misericordia, accostarsi alla lavanda dei piedi, l’adorazione e le confessioni. A ogni funzione le chiese sono gremite di fedeli”. 
Certo, prosegue, i fedeli “aspettano tempi migliori” ma “sono pieni di gratitudine” per quanto è stato fatto. “La gente da sola non riesce a sostenersi - prosegue - perché manca il lavoro, i prezzi sono alti, non sempre vi è l’elettricità. Il sostegno che ha dato la Chiesa in questi mesi è immenso e loro ce ne sono grati, lo vedono come segno e gesto di misericordia. Fra le molte iniziative vi sono la riparazione di case danneggiate dalla guerra, il pagamento di debiti bancari, la distribuzione di cibo, cisterne di acqua, etc… tutte cose rese possibili grazie all’impegno della Chiesa e il contributo di molti benefattori”. 
In queste settimane il vicariato latino di Aleppo ha insistito sul fatto che è necessario coinvolgere i fedeli nella preparazione delle feste, per far comprendere il valore del sacrificio, della partecipazione. Per questo durante la Quaresima i parrocchiani “hanno visitato anziani e malati, messo da parte piccoli quantitativi di denaro e altri beni, per offrirli ai più poveri”, all’insegna dello slogan: “C’è sempre un piatto, un oggetto o un bene in più da donare. Tutti, anche i poveri, devono essere partecipi e donare a chi è ancora più povero”. 
Lo scorso 21 marzo si è celebrata la festa della mamma. Per l’occasione i giovani hanno distribuito più di 200 pacchi di dolci alle madri del quartiere. Mamme che vivono da sole perché i figli sono scappati e il marito non c’è, e poi le vedove, alcune delle quali giovani e con figli. Una distribuzione che ha coinvolto tutte le mamme, senza distinzioni fra cristiane e musulmane perché “la mamma è di tutti” afferma il sacerdote. 
Domenica, infine, è prevista la solenne celebrazione presieduta dal vicario apostolico dei Latini, mons. Georges Abou Khazen, alla quale parteciperà l’intera comunità, cui seguirà il tradizionale scambio di auguri. Il giorno successivo, dopo alcuni anni in cui l’iniziativa era “sospesa per via della guerra”, le classi del catechismo e le loro famiglie (600 persone) andranno al Collegio di Terra Santa, dove vi è “un grande spiazzo all’aperto in cui si celebrerà la messa; poi un pranzo al sacco in comune”. La guerra, la crisi, hanno “distrutto molte famiglie e persone”, conclude p. Ibrahim, ma al contempo “hanno fatto tornare tante famiglie al Padre, alla Chiesa, al valore della misericordia. Ha risvegliato in loro qualcosa di dimenticato e abbandonato, per questo godiamo di questa gioia e siamo contenti di vivere la comunione e la testimonianza”